1.
In un articolo precedente sulla crisi economica che ha investito l'Occidente a partire dal secondo semestre del 2000, prima dunque dell'11 settembre che l'ha aggravata, ho rilevato che essa ha un carattere strutturale.
Il termine strutturale, però, non ha lo stesso significato per tutti gli economisti. Secondo alcuni, i liberisti, la crisi in atto attesta semplicemente che gli equilibri economici non sono più ricomponibili attraverso i meccanismi che li hanno mantenuti in precedenza, e richiedono un'evoluzione del sistema economico. Le cause della crisi sono ricondotte ad un eccessivo carico fiscale, ad un difetto di concorrenza e alle resistenze opposte per motivi vari alla liberalizzazione del mercato mondiale. Secondo altri, di orientamento riformista, la crisi è dovuta al fatto che il problema dell'efficienza e della produttività, centrale nella logica delle aziende, è stato affrontato dai governi con un'attenzione troppo scarsa al problema distributivo o dell'equità, con l'effetto di generare un rallentamento dei consumi che rischia di mantenere una situazione depressiva o d'indurre una spirale recessiva. Secondo altri, infine, d'orientamento marxista, la crisi attesta una fase di sviluppo del sistema capitalistico caratterizzata da una spinta verso la concentrazione di capitali e l'uso speculativo di una parte di questi a tal punto marcata che sia i bisogni produttivi che quelli sociali vengono ad essere sacrificati. La conseguenza è una sofferenza crescente dei ceto meno abbienti, i quali s'immiseriscono progressivamente, che giunge a lambire e a coinvolgere anche, in misura consistente, la piccola borghesia e, in misura minore, una fascia della media borghesia, creando le premesse di una dissociazione tra il potere borghese e il suo tradizionale piedistallo elettorale.
Si tratta di tre punti di vista nettamente differenziati, che divergono nell'interpretazione della crisi e soprattutto nei rimedi ritenuti adeguati. Secondo i liberisti, la ricetta giusta è quella incentrata sulla formula "più mercato, meno Stato", che attribuisce però al mercato un potere d'autoregolazione che esso non ha mai avuto e che è ancora meno credibile in un'epoca in cui il capitalismo finanziario sembra orientato verso un obiettivo prevalentemente speculativo, che comporta la valorizzazione del denaro senza il tradizionale investimento nella produzione. Secondo i progressisti, non ha senso rovesciare quella formula dopo che è stato riconosciuto il pericolo che, nella pretesa di regolare il mercato, lo Stato possa diventare esso stesso una mega-macchina che spreca ingenti risorse economiche. La ricetta, dunque, è quella di uno Stato snello, che riduce al minimo le sue interferenze sul mercato, ma mantiene su di esso un saldo controllo politico in maniera tale da ridurre il rischio delle manovre puramente speculative, da favorire la produzione e da assicurare una distribuzione del reddito la più equa possibile. Secondo i neomarxisti, sarebbe il momento di prendere atto che la lunga stagione del capitalismo sta giungendo al suo tramonto e che il pericolo di una sua estensione a livello globale accelererebbe solo una catastrofe ecologica e sociale dagli esiti imprevedibili. Il problema sarebbe dunque quello di orientarsi verso un nuovo modello di sviluppo, fondato su una crescita sostenibile o addirittura su una decrescita sostenibile, che vincoli la produzione alla soddisfazione dei bisogni sociali, ridistribuisca il reddito in maniera equa e azzeri, a livello nazionale e internazionale, il fenomeno della povertà.
Chi ha ragione? Occorre riconoscere che nessuno lo sa con certezza. Sia l'analisi dei fenomeni economici attuali, che sono infinitamente complessi, sia le previsioni che da essa discendono sono troppo vincolati a presupposti ideologici di fondo e troppo poco verificabili in rapporto all'opacità dei processi storici sul piano della contemporaneità. Tutto ciò che si può fare è procedere enucleando dall'insieme degli indizi significativi, che depongono a favore dell'una o dell'altra interpretazione. Tra questi indizi, il più importante a me sembra la sofferenza della classe media.
2.
Il capitalismo, nel suo sviluppo storico, è riuscito ad evitare lo scoglio maggiore sul quale esso, secondo Marx, si sarebbe dovuto infrangere: la scissione della società in due sole classi, una minoranza di ricchi e una maggioranza di proletari e di poveri. E' difficile ancora oggi stabilire in quale misura ciò sia avvenuto per una necessità intrinseca al capitalismo stesso - identificabile nell'esigenza di allargare la base del consumo per incrementare la produzione e la vendita dei beni -, o in risposta alla pressione dei partiti socialisti e comunisti. Non si va lontano dal vero ammettendo che entrambi questi fattori abbiano concorso ad evitare il realizzarsi della previsione di Marx.
E' certo invece il modo in cui lo scoglio è stato evitato: attraverso una mobilità sociale, che ha favorito prima l'inurbamento della classe contadina e la sua trasformazione in classe operaia, poi la cooptazione delle fasce meno abbienti nell'apparato burocratico statale, e infine una lenta e graduale crescita dei salari, associata all'erogazione da parte dello Stato di servizi previdenziali e sociali (scuola pubblica, sanità, ecc.). In conseguenza di tutto ciò, il tenore di vita complessivo della società è aumentato, anche se con notevoli squilibri, attestandosi ad un livello di benessere sconosciuto alle generazioni precedenti. Certo, il problema della povertà non è mai stato risolto, e i salari operai e impiegatizi di fascia bassa non hanno mai consentito di vivere nell'agiatezza. Il fantasma della miseria e della fame, in qualche modo scongiurato, ha però permesso al sistema di assicurarsi l'appoggio stabile della piccola borghesia, oltre ovviamente a quello della borghesia medio-alta. Quest'appoggio ha sempre funzionato come un valido deterrente politico in rapporto alle rivendicazioni operaie e alle spinte dal basso legate ai ceti emarginati.
Quest'equilibrio "miracoloso" ha indotto anche una larga tolleranza sociale nei confronti della disuguaglianza che, in termini assoluti, è rimasta sempre elevata. L'accesso ad un tenore di vita incentrato su una disponibilità di beni di consumo di massa sempre maggiori, l'instaurarsi insomma della società del benessere ha praticamente blindato il sistema, mascherando le sue contraddizioni intrinseche o rendendole accettabili da parte della cosiddetta maggioranza silenziosa, identificabile in larga misura con la piccola borghesia (impiegati, piccoli commercianti, artigiani, ecc.).
Negli anni '90, addirittura, si è profilato, in Occidente, la possibilità che il "sogno" americano di una società univocamente ricca, affluente e in perenne crescita, con un basso tasso di disoccupazione e d'inflazione, potesse diffondersi a tutti i paesi industrializzati, a patto che essi accettassero la ricetta statunitense, vale a dire il più ampio svincolamento possibile dell'attività produttiva e finanziaria dal controllo statale.
A posteriori, è facile capire che tale sogno era infondato per tre motivi: primo, perché esso si reggeva su di una ristrutturazione che aumentava la produttività senza aumentare la produzione di posti di lavoro; secondo, perché esso comportava un aumento della forbice tra ricchi e poveri (che negli Stati Uniti sono rimasti attestati sull'ordine dei quaranta milioni di cittadini!); terzo, perché la possibilità d'arricchimento universale faceva leva sull'investimento in Borsa, che si è rivelato, per molti aspetti, una truffa colossale. A maggiore ragione, quel sogno risultava infondato in rapporto all'Europa, laddove, per realizzarlo, sarebbe stato necessario smantellare lo Stato sociale, sorto proprio per arginare tensioni sociali che negli Stati Uniti non ci sono mai state (almeno con la stessa intensità).
Cionondimeno, molti paesi europei si sono messi sulla pista del modello americano, e hanno adottato una politica economica incentrata sul contenimento e la compressione dei salari, la "flessibilizzazione" del lavoro, la riforma delle pensioni e la riduzione della spesa per i servizi sociali e assistenziali. La promessa dei governanti era che questi "sacrifici", ancora una volta fatti pagare ai ceti meno abbienti, avrebbero consentito di spiccare un balzo sulla via dello sviluppo e, da ultimo, di produrre un aumento del tenore di vita di tutti i cittadini. In realtà, è accaduto il contrario. Lo sviluppo è rimasto fermo ad un tasso che oscilla, nei diversi paesi, tra lo 0,5 e il 2%. Il tenore di vita della maggioranza della popolazione, dai ceti proletari ad una fascia della classe media, è diminuito. Solo i ricchi si sono ulteriormente arricchiti.
In Italia, poi, dove il modello americano è stato perseguito con maggiore e ostinata determinazione, la crisi economica e sociale appare più grave che in ogni altro paese europeo. I dati recenti dell'EURISPES offrono un quadro deprimente: la povertà relativa è aumentata, la disoccupazione è sostanzialmente stabile, i nuovi lavori sono precari e non assicurano ai giovani l'autonomia, i servizi sociali sono meno efficienti, il risparmio sta diventando un miraggio per molte famiglie che hanno difficoltà a far quadrare il bilancio mensile, la fiducia nel futuro è molto scarsa. La crisi colpisce i due terzi della popolazione, che economicamente perde terreno, mentre un terzo (a partire dal presidente del Consiglio Berlusconi) vede aumentare il suo patrimonio mobiliare e immobiliare. Il coinvolgimento della classe media è attestato inequivocabilmente dagli scioperi massicci di categorie professionali (professori universitari, medici, magistrati, ecc.) che non hanno alle spalle una tradizione di lotta sindacale e politica.
3.
Non v'è dubbio che il governo di centro-destra, infatuato più degli altri del modello americano, abbia le sue pesanti responsabilità nell'avere squilibrato un sistema sociale caratterizzato da un costante sostegno del ceto medio ai partiti moderati. Sarebbe però un grave errore misconoscere che la crisi italiana è l'indizio di una crisi più ampia del sistema capitalistico. Purtroppo nessun partito politico del centro-sinistra ha il coraggio di spingere l'analisi fino a livello sistemico. Avendo, infatti, il centro-sinistra adottato in toto il modello riformistico e proponendosi dunque come forza capace di far funzionare meglio il sistema capitalistico, riducendo le iniquità che esso produce e ridistribuendo i redditi, esso non può spingere la sua analisi a livello mondiale.
Uno dei paradossi più singolari della nostra epoca è che la globalizzazione in atto dell'economia non sembra sollecitare un pensiero politico globale. In tutti i paesi occidentali, i partiti rimangono vincolati all'ottica locale degli elettori, e tentano unicamente di volgerla a proprio favore. Per questa via, il sistema politico non può che imbarbarirsi. Da parte di chi governa è facile gettare la croce sulla crisi dell'economia mondiale, come se essa venisse dall'alto dei cieli, e giustificasse le difficoltà di amministrare quella nazionale. Per i partiti d'opposizione è altrettanto facile addossare al governo in carica responsabilità che vanno al di là di quelle che esso effettivamente ha.
Il problema, a ben vedere, è che la crisi economica in atto dal primo semestre del 2000 continua ad essere considerata d'ordine congiunturale, vale a dire come un'inevitabile e fisiologica conseguenza d'un sistema economico che, per motivi inerenti la sua struttura, procede normalmente con fasi d'espansione e di recessione.
La teoria dei cicli economici è uno degli ambiti più complessi e controversi dell'economia. C'è chi li attribuisce esclusivamente a shock esogeni (come un aumento del prezzo dei prodotti petroliferi), chi li pone a carico di interventi economici sbagliati da parte dello Stato (troppo in anticipo o in ritardo in rapporto agli eventi), chi, infine, rileva la tendenza delle aziende ad investire capitali come se l'espansione dovesse durare all'infinito, con l'inesorabile conseguenza di produrre beni che nessuno, ad un certo punto, è in grado di acquistare.
Di fatto queste diverse opinioni teoriche si sono puntualmente verificate in rapporto alla crisi attuale. Alcuni sostengono che essa è da ricondurre al terrorismo, altri l'attribuiscono all'eccessivo carico fiscale, altri ancora alle illusioni prodotte dalla new-economy, che hanno dato luogo ad investimenti assolutamente insensati. Nessuna di queste teorie sembra, però, in grado di spiegare il fenomeno assolutamente nuovo che si va configurando: lo scollamento, in termini patrimoniali, di reddito e di tenore di vita, tra le classi sociali.
Fino a pochi anni fa, l'iniquità del sistema capitalistico comportava il benessere per due terzi della popolazione e la povertà, assoluta o relativa, con il rischio dell'esclusione, per un terzo. Data questa situazione, i partiti politici favorevoli al sistema capitalistico potevano dormire sonni tranquilli, potendo contare su di un piedistallo elettorale (la "maggioranza silenziosa") assolutamente stabile. In pochi anni, il quadro socio-economico è cambiato radicalmente. Due terzi della popolazione è ormai composta da poveri assoluti, poveri relativi e famiglie che stanno scivolando verso la soglia della povertà relativa. Un terzo della popolazione, che si va tra l'altro progressivamente riducendo, è ricco e in fase continua di arricchimento. Ricondurre questa valutazione ai soliti neo-marxisti che irriducibilmente aspettano la crisi definitiva del sistema è ridicolo. Un liberale di stampo puro come Eugenio Scalfari ha parlato infatti di recente del rischio di una proletarizzazione del ceto medio. Certo, il termine è di Marx, ma nell'immediato sembra il più approrpiato per descrivere ciò che sta accadendo.
In pratica, è come se la società del benessere avesse invertito la sua rotta, orientata storicamente a cooptare a livello di un tenore di vita "borghese" fasce sempre più ampie della popolazione, e si stesse orientando verso un privilegio sempre più marcato assegnato ai ricchi a danno di tutti gli altri cittadini. Questo è il fenomeno da spiegare. Si tratta di un fenomeno transitorio, espressivo di una fase di aggiustamento del sistema che poi proseguirà la sua corsa verso il benessere diffuso (per quanto iniquamente ripartito), o piuttosto di una situazione assolutamente nuova, indiziaria di una crisi sistemica?
4.
Rispondere a questa domanda non è facile. Non si dà nessun elemento che porti a pensare che la crisi in atto sia definitiva, e preluda ad un cambiamento epocale. D'altro canto, sembra oltremodo difficile che essa possa essere sormontata riequilibrando in maniera consistente la distribuzione della ricchezza tra i vari ceti sociali.
La verità, nota a tutti, è che la classe dei ricchi (il 20% della popolazione occidentale e il 2% di quella mondiale) è giunta ormai ad accumulare un patrimonio che, oltre ad influenzare la composizione e la politica economica dei governi, è in grado di opporre una resistenza insormontabile a qualunque progetto di cambiamento che implichi una ridistribuzione. Tale patrimonio comporta infatti enormi ricchezze immobiliari e mobiliari. Esso dunque può essere giocato su quattro diversi tavoli: la speculazione immobiliare, la produzione, l'investimento in borsa e la pura e semplice speculazione finanziaria. Nella misura in cui la crisi economica incide su uno o due di questi tavoli, il denaro può essere spostato sugli altri, non solo compensando eventuali perdite bensì dando luogo ad ulteriori profitti. Non è certo un caso che la crisi della Borsa abbia dato luogo in tutti i paesi, e particolarmente negli Stati Uniti, ad una crescita (che ormai configura una vera e propria bolla) dei prezzi delle case e degli affitti. Non è neppure un caso che il calo della produzione industriale sia coinciso con enormi profitti realizzati dalle Banche, che trasformano in prestiti i capitali ad essi affidati dai ricchi. Né, infine, è un caso che, anche dopo avere prodotto la crisi delle Borse, la speculazione finanziaria, con il suo corteo di corruzioni, aggiottaggi, riciclaggi di denaro sporco, ecc., sia divenuta più aggressiva.
In quest'ottica, anche la guerra intrapresa dagli Stati Uniti assume un significato specifico. Essa infatti comporta per un verso un sacrificio imponente di denaro pubblico a favore dell'industria delle armi (nonché delle forniture all'esercito), che finisce nelle tasche dei ricchi. Essa implica anche, oltre al controllo delle risorse petrolifere, imponenti piani di ristrutturazione che richiederanno essi stessi imponenti sacrifici pubblici a favore di aziende private.
A questo occorre aggiungere l'influenza che la ricchezza esercita su di un potere politico che, in parte, è rappresentato da membri provenienti dai ceti ricchi, e in parte è sponsorizzata e asservita ad essa. Tale influenza, più manifesta negli Stati Uniti, si realizza sotto forma di provvedimenti legislativi, fiscali e monetari tutti univocamente orientati a tutelare la concentrazione della ricchezza verso l'alto. La giustificazione di tale politica economica è che solo capitali fortemente concentrati possono dare luogo a investimenti produttivi atti a tenere il passo della globalizzazione, consentendo acquisizioni di società, economie di scala e progetti di espansione a livello internazionale. Tale politica privilegia l'offerta e, nell'attesa che questa manifesti i suoi effetti positivi sull'occupazione, punta sul fatto che la domanda, vale a dire il consumo, continui ad essere sostenuta sulla base dell'indebitamento pubblico e privato. Essa è irrazionale per due aspetti: primo, perché dà per scontato che il denaro sia investito a livello produttivo, ignorando che una parte consistente di esso è ormai incline a speculare sul piano finanziario, vale a dire a valorizzare se stesso senza passare per la produzione; secondo, perché trascura il fatto che i debiti contratti dai consumatori dovranno, un giorno o l'altro, essere pagati al sistema bancario con gli interessi. Nella misura in cui i consumatori s'indebitano per il bene comune, per evitare insomma la depressione del sistema economico, essi concorrono a trasferire risorse economiche dal basso all'alto della scala sociale.
Tutti questi elementi spiegano l'aumento della forbice tra i ricchi e i poveri all'interno delle società occidentali (senza considerare quello drammatica tra paesi ricchi e paesi poveri).
Com'è che questo aspetto non sembra preoccupare più di tanto i governanti? La risposta è semplice. Essi fidano sul fatto che i ceti piccoli e medi borghesi, non avendo alle spalle tradizioni di lotta politica organizzata, non possano fare altro che subire e coltivare la speranza di riacquisire qualche modesto privilegio allorché la crisi sarà superata. Fidano anche, ovviamente, sulla scarsa attrattiva che le forze politiche di sinistra esercitano su questi ceti, i quali, nelle rare circostanze in cui si sono trovati in difficoltà, hanno manifestato piuttosto un orientamento verso la destra che non la sinistra.
Ciò che i governanti non valutano è che la crisi attuale, nuova nella misura in cui penalizza la maggioranza della popolazione e avvantaggia una minoranza, possa essere superata confermando, per i motivi discussi, il drenaggio della ricchezza verso l'alto. Se la ripresa, che è alle porte, dovesse confermare questo trend, si aprirebbe uno scenario politico nuovo. Nulla, sulla carta, permette di escludere, per riflesso condizionato, una deriva della piccola e media borghesia verso destra. Ma quale destra se gli attuali governi, a partire da quello degli Stati Uniti, già sono attestati su posizioni ultraconservatrici? La possibilità di un viraggio a sinistra è remoto. Esso però potrebbe avvenire solo se le forze di sinistra, anziché proporsi di essere capaci di fare funzionare il sistema capitalistico meglio di coloro che ne sono i legittimi rappresentanti, s'impegnassero a parlare chiaro e forte proponendo due obbiettivi: il primo, tattico, vincolato alla necessità di riavviare una distribuzione del reddito minimamente equa; il secondo, strategico e di lunga durata, orientato alla fuoriuscita dal sistema capitalistico. Se dopo due secoli dal suo avvio, esso è giunto sulla soglia della proletarizzazione dei ceti medi, cosa impedisce di prendere atto che esso è intrinsecamente squilibrato?