Al di là della crisi economica


1.

Allo stato attuale, non c'è nessun segnale che il mondo abbia capito il significato della crisi devastante prodotta dal neoliberismo e intenda “rinsavire”, vale a dire accettare una lenta e graduale transizione verso un'organizzazione economica, sociale e culturale incentrata sul rispetto dell'Uomo e della Natura, che non può essere liberista e richiede una restaurazione dello spirito originariamente ugualitaristico della democrazia.

Si continua a fare finta che la crisi intervenuta non sia strutturale e sistemica, bensì dovuta ad una serie di variabili diverse che si sono malauguratamente sommate in difetto di strumenti di controllo e di regolazione del flusso e degli usi dei capitali. Che questa analisi sia sbagliata, è attestata dal fatto che i tentativi di porre rimedio alla crisi e di prevenirne altre a breve e medio termine procedono sul terreno di uno scarto persistente tra il richiamo alla collaborazione internazionale e il si salvi chi può nazionalistico e protezionistico.

Se non circola più il fantasma del Comunismo, circola paradossalmente il fantasma del Capitale che, nella sua sfrenata tendenza a valorizzare se stesso, può divorare i suoi figli.

Dare conto dello tsunami che sta scuotendo l'economia reale, la finanza, le istituzioni economiche internazionali, i vertici politici è estremamente difficile. Mi limiterò ad un resoconto essenziale, che mi auguro riesca illuminante.

L'anno si inaugura all'insegna di terribili previsioni.

Il 2 gennaio 09 su Repubblica ne stende un bilancio Timothy Garton Ash:

“La "scienza" della felicità nell’anno più buio

Buon Anno? State scherzando, vero? Il 2009 inizierà con lamenti che col passare del tempo non potranno che aggravarsi. Milioni di persone in tutto il mondo sono già state licenziate, per colpa di questa prima crisi davvero globalizzata del capitalismo, e decine di milioni di altre resteranno molto presto anch’esse senza lavoro. Quanti tra noi saranno abbastanza fortunati da continuare ad avere un lavoro, si sentiranno più poveri e meno sicuri. Per festeggiare il suo Premio Nobel per l’economia, Paul Krugman ci garantisce "mesi di inferno economico". Grazie, Paul, e buon anno anche a te.

I problemi economici esacerberanno le tensioni politiche ovunque. Malgrado tutto, le voci che circolano sulla morte dell’economia sono però esagerate: io non credo che il 2009 sarà per il capitalismo ciò che il 1989 è stato per il Comunismo. Forse, il 1 gennaio 2010 sarò costretto a rimangiarmi queste parole: fare previsioni è tempo sprecato. (Nell’almanacco di previsioni e considerazioni dell’Economist "The World 2009" è stato pubblicato un coraggioso e divertente articoletto intitolato "Per quanto riguarda il 2008, scusateci"). Ora che inizia un nuovo anno, non vedo però un altro avversario sistemico all’orizzonte, come invece c’era - o per lo meno pareva esserci - nei giorni del Comunismo sovietico antecedenti al 1989. Il modello di socialismo alla Hugo Chavez è dipendente in tutto e per tutto dai capitalisti che acquistano il suo petrolio, mentre se vi appare appetibile il modello nordcoreano fareste bene a farvi visitare da un medico.

Sarebbe nondimeno un errore marchiano se in occasione del loro ventesimo anniversario non si rivedessero e riesaminassero le premesse di quel tipo di capitalismo del libero mercato - talora denominato "neoliberal" - che a partire dal 1989 appare trionfare da due decenni. Prima di tutto e palesemente l’equilibrio tra Stato e mercato, pubblico e privato, mano visibile e mano invisibile. Anche prima del tracollo del settembre scorso, Barack Obama aveva cercato di esortare i suoi compatrioti ad accettare l’idea che il governo non sempre è una parolaccia. Nei mesi successivi si è assistito a un plateale spostamento verso un più importante ruolo dello Stato, di solito con iniziative di improvvisazione governativa a dir poco disperate, in altri casi (come nella Londra di Gordon Brown) ideologicamente legittimate come Keynesianesimo, e in altri ancora (per esempio nella Washington di George Bush), come puro e semplice Disperazionismo.

Quanto di questo spostamento sia temporaneo e quanto sia invece destinato a durare più a lungo non potremo saperlo entro la fine di quest’anno: quantunque la maggior parte di questo spostamento stia attualmente avendo luogo in direzione di un rafforzamento della mano visibile del governo, potrebbe anche non continuare a essere così. Un illustre riformista economico cinese poco tempo fa mi ha detto che la crisi finanziaria asiatica di dieci anni fa ha catalizzato una riforma maggiormente orientata al mercato dell’economia cinese, e che anche questa farà altrettanto. Se ha ragione, si potrebbe arrivare a ipotizzare addirittura una sorta di convergenza globale su qualche variante di economia di mercato sociale in stile europeo, con Stati Uniti e Cina più vicini rispetto alle attuali posizioni in contrasto tra loro. è importante tuttavia tener presente che ho usato le seguenti parole: "qualche variante". Anche in Europa, infatti, ci sono notevoli varianti tra le combinazioni possibili di Stato e mercato e il modo col quale esse funzionano. Ciò che si rivela adeguato a un piccolo Paese del Nord, può non essere efficace per un grande Paese del Sud. Non esiste una formula universale. Ciò che conta davvero è che cosa va bene per voi.

Una seconda considerazione per il 2009 riguarda ciò che serve a una crescita sostenibile, verde, a bassa emissione di anidride carbonica, indispensabile a prevenire l’imminente punto di non ritorno del riscaldamento globale. In discussione, adesso, ci sono due cose: quanta crescita e quale tipo di crescita. Ancora una volta, Obama sta cercando di individuare le chance che questa crisi offre, orientando parte del suo incentivo fiscale keynesiano verso investimenti in energie alternative. Nel suo complesso, però, verosimilmente il 2009 pare prospettarsi come un altro pessimo anno, dal punto di vista della lotta al riscaldamento globale.

Orientarsi verso un’economia sostenibile, a ridotta emissione di anidride carbonica, impone sia alle aziende sia ai governi di accollarsi spese a breve termine per benefici a lungo termine. Quando le aziende e i governi si ritrovano con le spalle al muro, di solito fanno il contrario. Quasi certamente, il meglio che possiamo augurarci è che i nostri leader stiano alla larga dal nazionalismo economico-rubamazzo degli anni Trenta: per consentir loro di andare oltre, si renderà inevitabile uno spostamento più incisivo delle aspettative nei loro confronti da parte degli elettori e degli azionisti. Pertanto fino a quando noi, la popolazione, saremo guidati nelle nostre scelte finanziarie e politiche dalla stella polare dei profitti economici a medio termine, non dovremmo biasimare i nostri leader di adoperarsi per darci ciò che chiediamo.

Una terza, essenziale presa di coscienza ci obbliga dunque a guardare alle nostre personali stelle polari: quanti più soldi e "cose materiali" ci occorrono? Siamo sicuri che chi si accontenta gode? ("No", dicono all’unisono i pubblicitari). Potremmo farcela con meno? Che cosa vi sta davvero a cuore? Che cosa contribuisce in misura maggiore alla vostra felicità personale?

Che lo crediate o meno, esiste ora un intero sottocampo di studi accademici sulla felicità: l’economista Richard Laynard ha scritto un libro molto interessante che si intitola "Happiness, Lessons from a New Science". Sarà questa ciò di cui parlava Nietzsche, alludendo alla "gaia scienza"? Uno studioso olandese, Ruut Veenhoven, ha creato un database mondiale della felicità che annovera classifiche nazionali: ha illustrato i risultati delle sue ricerche su un sito web canadese in un articolo intitolato "Il Canada supera gli Stati Uniti nell’indice di felicità globale", nel quale ovviamente è la vittoria sugli Usa a contribuire in buona parte alla felicità materiale dei canadesi. Una classifica diversa e una "mappa mondiale della felicità" a quanto pare sono state messe a punto dall’università britannica di Leicester. La Danimarca si colloca in entrambe al top della classifica. Infine, esiste anche un "Giornale di studi sulla felicità" (il cui editore molto verosimilmente se la ride per tutto il tragitto che compie fino alla banca). Indipendentemente da ciò che pensate del valore sostanziale di questa roba - scusatemi, di questa scienza - potete trascorrere tranquillamente un’oretta a navigare in Rete per leggerne di più e chiedervi quanto di ciò sia inventato di sana pianta.

Tornando a questioni più serie, invece, alcune scelte effettivamente ricadono sui singoli cittadini della middle-class dei Paesi più ricchi. Deve essere chiaro che il pianeta non può tollerare che 6,7 miliardi di persone vivano come vive oggi la middle-class in America settentrionale e in Europa occidentale, per non parlare delle previsioni entro la metà del secolo di arrivare a nove miliardi di abitanti del pianeta: o una più ampia parte del genere umano dovrà essere escluso dai benefici del benessere, o il nostro stile di vita dovrà necessariamente cambiare.

Il mantra col quale la maggior parte dei nostri leader politici e del mondo degli affari entra nel 2009 è "torniamo alla crescita economica, costi quel che costi". Similmente all’equipaggio di una barca in piena tempesta, si ripropongono di tenerla a galla e in moto sui marosi, senza curarsi di quale sia la rotta da seguire, ma mentre ci dirigiamo verso l’epicentro della tempesta, che ancora non ci ha colpiti, dovremmo dare enorme importanza alla rotta che seguiamo. Ciò rende inevitabile una leadership di alto livello, ma anche cittadini in grado di esigere una tale leadership. Per quanto mi riguarda, sarei felice di apportare al mio stile di vita i cambiamenti che dovessero rendersi necessari? Quasi sicuramente no, ma quanto meno mi piacerebbe sapere quali dovrebbero essere.

Traduzione di Anna Bissanti”

Garton Ash coglie il nodo di fondo della tempesta in atto. I politici hanno l'unico intento, peraltro giusto, di salvare la nave (il sistema), ma, per ora, il loro univoco orientamento è di riprendere la rotta come se nulla fosse accaduto: di riavviare, insomma, la crescita economica, vale a dire la crescita del PIL. Come riavviarla, però, salvaguardando lo sciagurato tenore di vita dei Pesi occidentali e impedendo agli altri di aspirare ad esso? Come riavviarla imponendo alle banche private, che rappresentano il cuore pulsante (e ora fibrillante) del Capitalismo, di pensare al bene comune più che alla valorizzazione del denaro? Come, infine, sterilizzare il pianeta dalla droga della speculazione selvaggia?

E' evidente che problemi del genere richiedono, se non l'assoggettamento, la canalizzazione dell'attività economica da parte del potere politico.

Non è un caso che, su Repubblica del 24 gennaio Mario Pirani rievochi, in una articolo il cui titolo è La profezia di Galbraith, il keynesismo:

“I più pessimisti, come Nouriel Roubini, prevedono in due anni la durata della crisi in cui il mondo è coinvolto. Non riesco però a capire, per mia inadeguatezza, come abbia fatto a calcolare questo arco temporale.

Non essendo in grado di procedere per equazioni, teoremi o modelli matematici mi rivolgo alla storia politico-economica, anche se John Kenneth Galbraith affermava non esservi «campi dell’attività umana in cui la storia conta così poco come nel mondo della finanza». Chissà, quindi, come giudicherebbe il disastro odierno quel gigante del pensiero economico, scomparso nel 2006, all’età di 91 anni? Certo, malgrado l’apparente scetticismo sulle virtù terapeutiche dell’esperienza storica, egli si sforzò fino all’ultimo a riproporla ai suoi lettori, tanto che dopo il crollo dell’ottobre 1987, quando la caduta verticale di tutte le borse mondiali fece temere un altro ’29, scrisse un sulfureo saggio, "Breve storia dell’euforia finanziaria" (ed. Rizzoli), nel quale, ricorrendo alla psicologia degli speculatori, dei banchieri e del popolo degli investitori più che alla scienza economica, tracciava un quadro impietoso delle ricorrenti crisi. I crac - ribadì - si assomigliano tutti, da quelli del XVII secolo scaturiti dalla folle speculazione sui bulbi dei tulipani, che travolse l’Olanda nel 1637, via via fino alla crisi del ’29 e alle più recenti speculazioni della nuova ingegneria finanziaria - i junk bond (titoli-spazzatura), i leveraged buyout (acquisizioni finanziate con indebitamento), i futures (contratti a termine su indici di borsa), i program trading che hanno sostituito l’"intelligenza" del computer a quella umana, emettendo automatici ordini di vendita. La ripresa, dopo il crollo del 1987 e lo sfacelo delle casse di risparmio, consolidò la falsa idea che la nuova finanza e l’esperienza acquisita dalle banche centrali avessero consolidato un margine di sicurezza tale da ridurre le eventuali crisi a semplici «fasi di aggiustamento».

Questa non era l’opinione di Galbraith e di altri economisti, Appunto Galbraith, concludendo il su ricordato saggio, scrive: «Quando avverrà il nuovo grande episodio speculativo, e in quale campo si manifesterà: immobili, mercato mobiliare, arte, automobili antiche? A queste domande non vi è risposta; nessuno la sa. E chiunque pretenda di darla non sa di non sapere. Ma una cosa è certa: ci sarà un altro di questi episodi e altri ancora. Gli sciocchi presto o tardi vengono separati dal loro denaro».

Una previsione che non deriva da un pessimismo epocale ma da un giudizio critico sul ripetersi impressionante di caratteristiche fondamentali presenti in tutte le crisi: «Il mondo della finanza continua, instancabile, ad acclamare l’invenzione della ruota, spesso in una versione un po’ più instabile. Ogni innovazione finanziaria implica la creazione di debito... In tutte le crisi vi è del debito che, in un modo o nell’altro, diventa pericolosamente sproporzionato ai mezzi di pagamento esistenti».

Non mi sembra vi siano dubbi che anche questa volta la crisi, originata nel settore dei mutui immobiliari, concessi senza garanzie e poi trasformati in titoli rifilati ai risparmiatori ignari, grazie a promesse di rendimento inconsistenti, presenti, pari pari, caratteristiche analoghe a tutti i casi precedenti. Inoltre, se su di essa si è innestato con generale angoscia quel credit crunch (crollo del credito) che ha destabilizzato le banche, la ragione sta nel fatto che la diffidenza reciproca non era immotivata. Tutti i manager sapevano che, con la scusa di ripartire il rischio, ognuno di loro aveva infilato mondezza travestita nei tanti fondi, obbligazioni, certificati e altra carta più o meno sporca, che avevano allegramente scambiato, venduto, depositato or qui or là, fino al giorno precedente. Tanto da non arrivare più ad averne un quadro preciso. Così (cito dal blog dell’economista Michele Boldrin dell’Università St. Louis del Missouri) «nessuno vuol dar prestiti a nessuno, per paura di fallimenti. Poiché nessuno fa prestiti a nessuno e tutti capiscono che senza prestiti l’economia non va avanti, tutti hanno cominciato, razionalmente, a prevedere una forte recessione. Forte recessione vuol dire disoccupazione, salari che si riducono, gente che non può più pagare i mutui, quindi più perdite per le banche, quindi meno credito, quindi più imprese che falliscono e più disoccupazione, eccetera... Questo spiega la caduta vertiginosa dei valori delle azioni di tutte le imprese, anche di quelle che con le banche, i mutui e l’edilizia non hanno niente a che fare... Un fatto reale relativamente piccolo (-500 miliardi in valori azionari) ed una serie di segnali credibili e pessimistici da parte delle autorità politiche e monetarie, hanno convinto tutti a gettare al vento le aspettative ottimistiche e ad assumere quelle super pessimistiche, portando l’economia su un nuovo sentiero di equilibrio, un sentiero da depressione».

Mi permetto di suggerire qualche altra riflessione di carattere politico più generale sul perché questa volta abbia fatto presa la paura del ’29 anche se i dati sono assai meno catastrofici di quelli della Grande depressione, quando il Dow Jones scese dell’85% e la disoccupazione americana colpì il 25% della popolazione. Oggi la preoccupazione diffusa che la situazione sia andata fuori controllo e che nessuno sia in grado di proporre una ricetta di risanamento, genera il timore di un peggio, prossimo venturo, dove i risparmi accumulati rischiano di andar dispersi e le speranze delle nuove generazioni annullate per chi sa quanto tempo. In quest’epoca sta venendo meno una certezza che da qualche decennio, almeno dal decollo della globalizzazione, ha sostenuto anche psicologicamente i processi di sviluppo. E, cioè, che per assicurarne il decorso, non fosse necessario un processo di accumulazione ma bastassero grandi finanziamenti in larga misura derivanti dagli attivi dei tanti strumenti virtuali inventati dall’ingegneria finanziaria. Il punto di partenza può essere individuato nella decisione di Nixon nel 1971, a conclusione di un periodo di fortissime tensioni sui cambi, di sospendere la convertibilità del dollaro in oro e il sistema dei cambi fissi su cui si basavano gli accordi di Bretton Woods. Il dollaro, da allora, da moneta garantita dal suo aggancio all’oro, si tramutò in fiat money, una moneta basata sulla "fiducia". Una fase che resse fino a quando la governance monetaria coincideva con le frontiere dell’Occidente (più il Giappone) e fino a quando il mondo libero delegò agli Stati Uniti il peso finanziario e la responsabilità strategica della sua difesa. Eventi epocali e non prevedibili mutarono il quadro. Il primo fu la caduta del muro di Berlino che portò con sé anche l’unificazione mondiale dei mercati, accompagnata dalla libera circolazione dei capitali e dalla stabilizzazione monetaria europea derivante dall’euro, mentre veniva meno l’imperativo rigido della difesa atlantica. Il secondo fattore imprevisto fu la rivoluzione informatica con la presa in carico di una informazione in tempo reale ad ogni angolo del globo.

Il terzo fu la comparsa sul mercato mondiale del lavoro di masse sterminate di operai e tecnici a basso costo, un patrimonio reale che, incrociato con i capitali veri o virtuali della finanza mondiale, hanno trasformato la Cina, l’India, parte dell’America latina e dell’Europa Orientale. Questo movimento tellurico si è prodotto in concomitanza col venir meno della capacità egemonica americana, sia sul piano economico-monetario che militare, e all’affievolirsi della cooperazione internazionale. La governance che reggeva in un mondo più piccolo e dominato dal duopolio contrapposto Usa-Urss è saltata. Le contraddizioni irrisolte, sottostanti al grande decollo il cui valore reale non può però essere annullato dalla crisi, sono emerse assieme.

Siamo all’assurdo che il gigante cinese, grazie al controllo autoritario sul consumo dei suoi concittadini, finanzia gli squilibri del gigante americano, i consumi americani, le allocazioni finanziarie folli delle banche d’investimento americane alla ricerca di extra profitti, di nuove fioriture di fiammeggianti bulbi di tulipani. Nello stesso tempo la Cina, che vanta il 12% del pil mondiale, ha solo il 4% delle quote del Fmi. Senza organismi rappresentativi dei nuovi rapporti di forza e senza misure vigorose che drenino la mondezza diffusa e dettino nuove regole di governance finanziaria la crisi non potrà essere smorzata. Solo il recupero di una grande politica, come ai tempi di Bretton Woods, può far tornare la fiducia nei cittadini e nei mercati. L’occasione forse è alle porte. Come scrive uno dei più acuti economisti italiani della nuova generazione, Gustavo Piga, ordinario a Tor Vergata (su «Formiche» nov. 2008): «Studi recenti argomentano come l’arrivo di Roosevelt al potere ebbe un significativo impatto, senza il quale il prodotto interno avrebbe continuato a declinare di un ulteriore 30%... Ci fu un cambio di "regime economico"... un ruolo fondamentale tuttavia fu esclusivamente svolto da Roosevelt nell’influenzare le aspettative degli operatori con i suoi famosi discorsi alla radio, impressionando i cittadini per la fermezza dei suoi piani di espansione via-reflazione. Nei primi 100 giorni di presidenza il mercato azionario crebbe del 66%».

Obama come Roosevelt? è una previsione incerta ma la sola che allo stato delle cose permette di sperare.”

In realtà, la speranza è molto labile

Si è avuta una prova clamorosa di questo nell'incontro di Davos, il trentanovesimo World economic forum, organizzato da un'associazione che ha tra i promotori le principali banche mondiali e diverse multinazionali, il quale corso degli anni è diventato il summit del commercio globale e la sede del confronto tra i grandi dell'economia, pur mantenendo sempre il semplice status di dibattito.

E' stato il primo incontro di alto livello tra i vertici economici tenutosi dopo l'avvio della crisi, così presentato da Timothy Garton Ash su Repubblica del 29 gennaio:

“L'uomo di Davos davanti al bivio

L'Uomo di Davos , "il mammifero più evoluto del pianeta", farebbe bene a chiedere scusa per averci messo nei guai economicamente. è quanto sostiene in un tagliente corsivo pubblicato sul Times di Londra il giornalista e parlamentare conservatore Michael Gove. Passando in rassegna la lista dei partecipanti all'edizione 2009 del World Economic Forum, mi balza agli occhi il nome del leader del partito conservatore britannico David Cameron. Se la memoria non mi inganna Cameron è stato un Uomo di Davos anche l'anno scorso. Quindi Gove chiaramente esorta il capo del suo partito a chiedere "scusa".

C'è qualcosa di prevedibile e di ridicolo allo stesso tempo nello scaricabarile in atto. I politici danno la colpa ai banchieri, i banchieri agli organi di controllo, gli organi di controllo ai politici e così via. Se, come ha risposto Barack Obama a Joe l'idraulico, dobbiamo redistribuire la ricchezza, dobbiamo anche redistribuire la colpa, e in maniera più discriminante.

Chi non è un esperto finanziario ha appena iniziato a capire che cosa è andato storto in un processo che George Soros ha definito un super-boom seguito da un supercrollo (se vi interessa un corso accelerato, vi consiglio uno speciale sulla finanza pubblicato sull'ultimo numero dell'Economist e una conferenza tenuta recentemente dal presidente della Financial Services Authority britannica, Adair Turner, disponibile sul sito della Fsa). Ho fatto una lista di persone cui stando ai riscontri attuali sarebbe lecito chiedere un esame di coscienza sulla loro quota di responsabilità. Fatta eccezione per la prima e l'ultima, ogni categoria dovrebbe essere preceduta dalla specifica "alcuni". La mia lista ha ovviamente solo valore indicativo.

Disonesti. Bernie Madoff era (a quanto pare, lo deciderà il tribunale) un disonesto, un truffatore, abile nel raggiro. Gente come lui ce ne sarà sempre. Ma c'è da chiedersi come sia riuscito a farla franca così a lungo e a livelli del genere.

Banchieri. Alcuni stimatissimi banchieri, ligi alla legge, hanno messo a rischio enormi somme e commesso terribili errori di valutazione a nostre spese. Loro si sono messi in tasca bonus milionari lasciando agli azionisti e ai contribuenti l'onere di pagare le spese. Ma non tutti.

Organi di controllo. Su questa categoria c'è molto da ridire. Davanti ai 50 miliardi di dollari bruciati secondo le stime da Madoff, un funzionario della US Securities and Exchange Commission pensò ad un errore di digitazione. «Saranno 50 milioni, no?»

Politici. Va benissimo che i politici si scaglino contro Wall Street e i banchieri disonesti, ma tutto è successo sotto gli occhi di George Bush e Gordon Brown. «I cheerleader della finanza», scrive Edward Carr nel suo eccellente reportage per l'Economist, «non erano disposti ad ammettere che le case fossero troppo care e il rischio troppo a buon mercato». è vero, ma altrettanto vale per i cheerleader della politica britannica e americana.

Economisti. Ecco una categoria da cui qualche autocritica in più non guasterebbe, soprattutto da parte degli economisti quantitativi che con i loro modelli matematici hanno contribuito a fuorviare gli investitori. Come può l'economia continuare a definirsi una scienza con una capacità di previsione così limitata? Immaginate la fisica di Newton se le mele cadessero verso l'alto.

Giornalisti. è vero, alcuni diedero l'allarme, come qualche economista fuori dell'ordinario, come Nouriel Roubini; ma soltanto ora il lettore medio delle pagine finanziarie è in grado di capire i rischi che correva investendo. Il giornalismo finanziario si è dimostrato inattendibile?

Noi, la gente. O quanto meno alcuni di noi: accumulando ipoteche sulla casa, soprattutto in Gran Bretagna e in America, sulla scorta di un mercato immobiliare gonfiato che dava l'illusione di sicurezza e non informandoci in maniera adeguata su come venivano investiti i capitali dei nostri fondi pensione.

Il sistema. Le accuse generiche contro un qualche "sistema" snaturato e spersonalizzato in genere denotano incoerenza ammantata di indignazione. Ma la sensazione è di un sistema finanziario globale ormai tanto esteso, complesso e non trasparente al punto che neppure i massimi protagonisti dei mercati sanno comprenderlo, figuriamoci controllarlo. Un sistema in cui apparentemente le decisioni razionali a breve termine prese per lo più da partecipanti individuali hanno prodotto un risultato di danno collettivo per tutti.

La prima conclusione che traggo riguarda la conoscenza e la trasparenza. Un elemento che accomuna molte delle categorie menzionate è la scarsa comprensione di ciò che stava realmente accadendo da parte dei soggetti coinvolti, si tratti di banchieri, organi di controllo, politici, giornalisti o semplici titolari di fondi pensione. C'erano troppe scatole nere e matrioske chiuse, come i famosi Cdo. Pare che persino Soros, leggendario maestro-investitore, nutrisse diffidenza nei confronti dei derivati perché, diceva, «non capisco bene come funzionano».

Mi direte: «Beh, se non lo capiva Soros come si può pretendere che lo capissi io?». Ma si possono anche invertire i termini della questione e dire: «Fate come Soros, non investite se non capite bene». Se un numero adeguato di investitori individuali e istituzionali si comportasse così si otterrebbe il risultato di disciplinare il mercato attraverso i suoi meccanismi. O mi garantite più trasparenza o non vi do i miei soldi. Questo cambio di paradigma non si pone come alternativo ad una più efficace regolamentazione da parte dei governi e delle istituzioni internazionali, ma ne sarebbe formidabile complemento.

La seconda delle mie conclusioni ci riporta all'Uomo di Davos, termine coniato ad arte dal defunto Samuel Huntington per indicare i membri della nuova elite globale, libera dalle lealtà nazionali, e sprezzante dei confini nazionali, una sorta di spietato cosmopolita. L'Uomo di Davos è sempre stato quello che i sociologi definiscono un "idealtipo". In pratica Davos è il luogo d'incontro di svariate elite imprenditoriali, politiche e mediatiche. Molte delle imprese multinazionali delle banche e dei colossi mediatici rappresentati in questa sede sono dotati di piani e strategie finanziarie globali, ma spesso restano anch'essi radicati in una cultura imprenditoriale o mediatica nazionale. La Cnn è globale, ma anche molto americana, Bbc World è globale ma anche prettamente britannica, la Nestlé è globale, ma molto svizzera.

Quanto ai leader politici che vengono a Davos, per lo più hanno ancora stabili fondamenta nella politica nazionale. Quassù, sulla montagna magica, presentano le loro visioni e i loro interessi nazionali ad un pubblico internazionale nei termini più cosmopoliti di cui sono capaci - come hanno fatto ieri il premier cinese Wen Jiabao e il premier russo Vladimir Putin. Ma sempre con l'acuta consapevolezza dell'impatto che le loro parole, attraverso i media nazionali, avranno sull'opinione pubblica in patria.

Il maggior rischio che il sistema economico mondiale corre oggi non viene da un eccesso di internazionalismo stile Davos. è il rafforzarsi del nazionalismo economico. Davos stesso è sempre stato solo una piccola componente della più ampia iniziativa mirata non tanto a soppiantare la competizione internazionale quanto a collocarla in un contesto più forte di cooperazione internazionale.

Oggi siamo di fronte a un bivio. Una via riporta indietro al nazionalismo economico, al protezionismo e alla politica di perseguire i propri interessi a spese degli altri. L'altra strada porta avanti in direzione di una maggior cooperazione internazionale, e comporta maggior regolamentazione e maggior trasparenza. In assenza di uno sforzo consapevole le dinamiche delle politiche, democratiche e non, che restano nazionali, ci porteranno a percorrere la prima strada.

All'interno dell'Uomo di Davos c'è sempre il suo predecessore e possibile successore che lotta per venir fuori. Se non vi piace quello che avete visto dell'Uomo di Davos, aspettate di vedere all'opera l'Uomo Nazionalista.

Traduzione di Emilia Benghi”

L'articolo di Ash è ironico e pungente. Gran parte degli economisti, banchieri, finanzieri, manager, uomini politici riuniti a Davos sono usciti letteralmente azzoppati dalla crisi in atto, di cui sono almeno in parte responsabili, nel loro potere, nella loro credibilità e alcuni nel portafoglio. Come pensare che potessero concludere qualcosa di buono? E' evidente che il loro interesse era quello di confermare la salute del sistema (benché considerato riformabile), di anticipare la ripresa e soprattutto di tutelare se stessi, e le aziende in crisi con l'unico sistema noto: il protezionismo.

Federico Rampini, su Repubblica del 30 gennaio, fa un quadro ancora più triste dell'Uomo di Davos:

“Banchieri americani e industriali tedeschi, magnati asiatici e oligarchi russi, tante vicende drammatiche si ricongiungono in una storia unica. è la fine dell'Uomo di Davos. La recessione più grave del dopoguerra distrugge un mito che per decenni ha catalizzato l'attenzione: l'élite sovranazionale che ha deciso i destini dell'economia globale. E' stata chiamata Superclasse, o The Masters of the Universe. Fu Samuel Huntington a usare l'espressione "Uomo di Davos". Perché a ogni fine gennaio l'appuntamento obbligatorio dell'establishment capitalista è il summit sulle montagne svizzere dei Grigioni. L'Uomo di Davos evocava quasi una mutazione antropologica. Una nuova classe dirigente priva dei condizionamenti nazionali, più potente degli stessi governi, legata da densi interessi comuni, fedele al pensiero unico neoliberista. L'importanza di Davos è stata spesso contestata: in fondo non è un vertice istituzionale, non decide nulla, è soprattutto una luccicante kermesse mediatica. Ma è vero che ogni anno in quel luogo si discutevano le sfide più attuali. I dibattiti tra i Vip facevano tendenza, dettavano l'agenda della governance globale.

In un anno l'Uomo di Davos ha perso quasi tutto. Patrimoni ingenti sono dimezzati dai crac di Borsa. Celebrità del Gotha finanziario sono inquisite dalla magistratura o da commissioni parlamentari nei rispettivi paesi. Insieme hanno subìto un tracollo fatale, di credibilità e di legittimità. Proprio perché rappresentavano la nuova tribù dei dirigenti della globalizzazione, le loro traiettorie personali ora pesano come macigni. Thain era stato idolatrato a Wall Street come il leader della "mandria tuonante", così chiamavano i trader di Merrill Lynch per il toro che è il simbolo della banca. Thain era già stato un astro anche ai vertici della Goldman Sachs, e capo del New York Stock Exchange. Il suo siluramento giovedì scorso è avvenuto in circostanze ignobili. Dopo aver portato al naufragio Merrill Lynch, e licenziato migliaia di dipendenti, ha tentato di estorcere una gratifica personale di 30 milioni di dollari. Mentre i suoi clienti erano sul lastrico, ha fatto spendere alla banca 1,2 milioni per ridecorarsi l'ufficio. Quando è venuto a galla l'ultimo buco di bilancio - 15 miliardi - lui stava sciando a Vail, nel Colorado. Se non lo avessero licenziato giovedì, aveva gli sci pronti per Davos. La caduta di Rubin è stata perfino più spettacolare perché ha sfiorato da vicino il nuovo presidente degli Stati Uniti. Clintoniano di ferro, Rubin ottenne un trionfo personale al World Economic Forum nel 1999, al termine del "decennio dorato". Insieme al banchiere centrale Alan Greenspan era considerato a quei tempi come l'artefice di una prosperità senza precedenti. I due vennero battezzati "il comitato di salvezza del pianeta" per l'abilità con cui avevano affrontato le crisi finanziarie del Messico (1995) e del sudest asiatico (1997). Ma porta la firma di Rubin la legge del 1999 che abolì la barriera tra le normali banche di deposito e l'investment banking: un passo fatale che facilitò le bolle speculative e la malafinanza. La sua stella è nella polvere. Mentre lui era ai vertici di Citigroup la capitalizzazione di Borsa è precipitata da 300 a 20 miliardi di dollari. Centomila dipendenti della banca hanno perso il posto. La storia di Merckle è la sconfitta di un'illusione alternativa. L'imprenditore suicida era considerato come l'archetipo della vecchia borghesia industriale tedesca, l'incarnazione dell'etica protestante del capitalismo. è un personaggio il cui profilo sposava perfettamente le origini antiche del fenomeno Davos. Prima ancora di sedurre l'élite di cinque continenti, nella località che aveva ispirato "La montagna incantata" di Thomas Mann le riunioni iniziali del World Economic Forum attiravano soprattutto i leader franco-tedeschi. Era l'epoca in cui il "modello renano" di economia sociale sembrava una risposta valida al liberismo anglosassone. Proprio quando il capitalismo iperfinanziario di New York e Londra è imploso, la Germania ha scoperto di aver venduto la sua anima. L'impero Merckle è saltato su una complessa rete di speculazioni nei titoli derivati, un gioco d'azzardo che ha rovinato anche altri industriali tedeschi. In quanto a Ramalinga Raju, è un alfiere di quel nuovo capitalismo indiano che appena due anni fa lanciò un'Opa su Davos: l'edizione 2007 del World Economic Forum è ricordata per la spettacolare campagna pubblicitaria della "Incredible India!", quando il governo di New Delhi tappezzò di manifesti la cittadina svizzera per attirare gli investitori internazionali.

Tutti quei destini si sono bruciati in soli dodici mesi. Quando si aprì la scorsa edizione del Forum, è vero, il clima era già pessimista. Le prime crisi bancarie erano state avvertite nell'estate 2007, un lucido profeta del disastro come l'economista Nouriel Roubini veniva ascoltato con attenzione. Proprio mentre era in corso il Forum del 2008, arrivò la notizia dell'arresto a Parigi di Jérome Kerviel, il trader responsabile di un buco da 5 miliardi di euro alla Société Générale. I Vip di Davos credevano di potersela cavare con così poco. Molti sembravano convinti che l'affaire della Générale sarebbe rimasta "la grande truffa dell'anno". Oggi quella storia è un aneddoto minore. Nel frattempo sono fallite Bear Stearns e Lehman Brothers. L'America ha dovuto nazionalizzare Aig, Bank of America, Citigroup. Dall'Inghilterra al Belgio grandi istituti di credito sono stati salvati dalla bancarotta dissanguando i bilanci pubblici. Fino a un anno fa anche i più radicali avversari del pensiero unico neoliberista, come i no-global, attribuivano all'Uomo di Davos un disegno strategico, una visione. Oggi quella élite globale è allo sbando. I più fortunati, quelli che non sono stati licenziati nel disonore, o arrestati e inquisiti, oggi sono degli elemosinieri di aiuti di Stato. è un establishment in decomposizione, che si aggrappa ai governi nazionali rischiando di trascinare a fondo anche loro.

Il grande regista del World Economic Forum, lo svizzero-tedesco Klaus Schwab, in passato ha dimostrato una notevole capacità di adattamento. Oltre che un brillante uomo d'affari è un animale politico che sa fiutare il vento. In questa edizione i grandi protagonisti saranno il premier cinese Wen Jiabao, alla sua prima apparizione in assoluto, e il russo Vladimir Putin. Due leader politici, due Stati autoritari, due potenze emergenti: il messaggio è chiaro. Ma anche la leggendaria capacità di Schwab di individuare nuovi trend sembra perdere colpi. Il tema del "ritorno dello Stato" si è già logorato in pochi mesi. Le finanze pubbliche di molte nazioni scricchiolano paurosamente sotto il peso della recessione. Non solo i Pigs del Mediterraneo - Italia Spagna Portogallo e Grecia - ma anche le "tigri celtiche" del Nordeuropa sono a rischio di solvibilità. è invecchiato precocemente anche il prestigio della sigla Bric: Brasile Russia India Cina. Mosca ha perso la rendita petrolifera e il rublo precipita. La Cina ha visto il tasso di crescita dimezzarsi in un anno, la sua disoccupazione aumenta paurosamente.

Negli ultimi decenni a ogni segnale di crisi l'Uomo di Davos reagiva cooptando i suoi rivali. Più veloce del G-8 o del Fondo monetario internazionale, il World Economic Forum è stato il primo summit ad aprirsi ai no-global. Ha integrato il Social Forum. Ha fatto ponti d'oro a tutti i leader delle potenze emergente, dall'Asia all'America latina. Ha offerto un palcoscenico mondiale ad Al Gore e agli scienziati del cambiamento climatico. Quel modello sembra avere esaurito le ultime energie. Per cooptare gli outsider deve esserci un establishment che ha un capitale di prestigio da elargire. Oggi è l'idea di establishment ad aver perso ogni consistenza. Il dibattito sul "Codice etico dei banchieri", che figura in bella evidenza nel programma di questo summit 2009, si presta solo al sarcasmo.”

L'incontro di Davos, di fatto, è stato caratterizzato solo da un evento significativo: la dura stigmatizzazione delle colpe degli Usa nella genesi della crisi attuale da parte del leader cinese Wen Jiabao, così riassunta il 1 febbraio da Federico Rampini su Repubblica:

“In un silenzio contrito i Vip del capitalismo mondiale hanno ascoltato la dura requisitoria dei leader cinese e russo contro le colpe del capitalismo occidentale e i disastri che la nostra malafinanza infligge al mondo intero. Assenti gli esponenti dell'Amministrazione Obama - trattenuti a Washington per i piani d'emergenza antirecessione - il summit dell'establishment globale è stato aperto d'imperio da Wen Jiabao e Vladimir Putin. Nessuno dei due ha fatto degli sconti all'Occidente. Il premier cinese ha avuto parole severe contro "l'eccessiva espansione delle istituzioni finanziarie, il fallimento di chi doveva regolare i mercati, il prevalere della finanza sull'economia reale". Una frecciata particolare Wen l'ha scagliata contro l'America, le sue "politiche macroeconomiche sbagliate" che hanno provocato "insufficienza di risparmio e gravi squilibri mondiali". Putin ha rincarato la dose, sfoderando il suo sarcasmo feroce: "Un anno fa qui a Davos i leader americani continuavano a rassicurarci sulla stabilità del loro sistema. Oggi la maggior parte delle banche di Wall Street di fatto non esistono più, le loro perdite in dodici mesi hanno cancellato gli utili di 25 anni. Non troveremo la terapia giusta per uscirne, se non abbiamo chiare le cause di questa tempesta perfetta".

Il leader cinese era il più atteso al World Economic Forum, per l'importanza della Repubblica Popolare nell'economia globale e per il ruolo che potrebbe svolgere nel rilanciare la crescita mondiale. Wen non ha deluso. Ha promesso che la Cina farà la sua parte, "da grande attore responsabile", per aumentare i suoi consumi e quindi aiutare anche l'Europa e gli Stati Uniti. Ma ha lanciato un avvertimento a Obama: guai se sceglierà la strada del protezionismo. "A trent'anni dal riallacciamento dei rapporti con l'America - ha detto il premier - la storia dimostra che la cooperazione è benefica per ambedue i paesi, la contrapposizione è distruttiva per tutti. Nell'interesse del mondo intero, è imperativo che affrontiamo questa crisi insieme".

A una settimana dall'uscita del neosegretario al Tesoro Usa, Tim Geithner, che ha accusato Pechino di manipolare la sua valuta per agevolare l'export made in China, Wen Jiabao ha usato il World Economic Forum per lanciare un altolà. Nel suo discorso c'era un'allusione alla Grande Depressione degli anni Trenta, che fu aggravata dalla spirale dei protezionismi commerciali.

Il premier cinese ha ammesso che la crisi sta colpendo il suo paese con durezza. "Le esportazioni si riducono, molti settori industriali soffrono eccessi di capacità produttiva, la disoccupazione è in crescita". Ha riconosciuto che all'estero affiorano dubbi sulla capacità della Cina di continuare a crescere. Tuttavia ha confermato un obiettivo ambizioso: una crescita dell'8% nel 2009. Un traguardo difficile, visto che l'ultimo trimestre del 2008 si è chiuso con aumento del Pil del 6,8% e gli indicatori puntano verso un ulteriore rallentamento.

"Siamo fiduciosi - ha detto Wen - perché i fondamentali della nostra economia sono sani. Le finanze pubbliche sono in ordine, il risparmio privato raggiunge i 5.000 miliardi di euro, i nostri vantaggi strutturali rimangono: una vasta manodopera qualificata e poco costosa, un buon sistema scolastico, infrastrutture moderne, e una capacità collettiva di affrontare le avversità".

Wen ha esposto il massiccio piano di spesa pubblica (600 miliardi di dollari) varato per stimolare la crescita: nuovi investimenti in infrastrutture e la costruzione di uno Stato sociale che provveda ai cittadini una rete di sicurezza, indispensabile perché i consumatori cinesi spendano di più. La messa in atto di questo piano sarà un test cruciale per la Cina e per il mondo. Se Pechino riuscirà a spendere presto e bene quelle risorse - come in passato ha dimostrato di saper fare nel settore delle infrastrutture - ne uscirà consolidato il suo modello di capitalismo autoritario. Altrimenti si aprono scenari di instabilità sociale che possono indebolire il regime, ma anche provocare contraccolpi per l'economia globale. Su quest'ultima Wen ha spiegato le ricette cinesi: "Rilanciare il commercio multilaterale, la liberalizzazione degli scambi e degli investimenti. Riformare le istituzioni della governance come il Fondo monetario, che devono rappresentare meglio i paesi emergenti".

La Repubblica Popolare è pronta quindi ad assumersi più responsabilità e un profilo da superpotenza nella cabina di regìa che dovrà guidare il mondo fuori da questa crisi. "Noi - ha promesso Wen alla ossequiente platea dei Vip - possiamo contribuire a ricostruire la fiducia mondiale. Possiamo aumentare le nostre importazioni, e investire di più nei vostri paesi". Il tocco finale all'apertura del summit lo ha dato Putin che è salito in cattedra per somministrare alla platea dei capitalisti occidentali le sue considerazioni su "etica del management e trasparenza dei bilanci societari": una beffa grottesca, ma ben meritata.”

Gli esiti dell'incontro di Davos sono stati in effetti grotteschi e paradossali. Il bilancio stilato il 2 febbraio su repubblica da Federico Rampini li illustra impetosamente:

“Il liberismo tradito

I potenti della terra hanno lasciato il World Economic Forum con un appello corale: no al protezionismo. Appena tornati a casa ciascuno fa l'esatto contrario. Di fronte alla crisi economica un protezionismo strisciante dilaga nel mondo intero.

L'Amministrazione Obama, il più autorevole governo progressista del momento, dà l'esempio eclatante di un neoprotezionismo "di sinistra". La manovra di spesa pubblica anti-recessione che è stata approvata dai democratici al Congresso la settimana scorsa (e arriva al Senato questa settimana) contiene una clausola specifica Buy American, "comprare americano". Quel pacchetto di misure da 825 miliardi di dollari richiede che nei nuovi investimenti pubblici siano acquistati solo prodotti made in Usa. Questo obbligo è stato inserito per aiutare soprattutto l'industria dell'acciaio. Gli imponenti lavori pubblici che Washington vuole finanziare per modernizzare le infrastrutture saranno una manna per l'industria dell'acciaio: tondini per il cemento armato nelle autostrade e negli edifici scolastici, rotaie per le nuove metropolitane o il treno ad alta velocità. Ma attualmente l'America importa il 30% del suo acciaio dalla Cina, quindi senza la clausola protezionista un terzo dell'effetto di rilancio in questo settore andrebbe a vantaggio degli altiforni di Shanghai e Canton.

La misura Buy American può essere impugnata davanti al Wto. Prima ancora della Cina, diversi alleati degli Stati Uniti come l'Unione europea, il Canada e l'Australia hanno già espresso forte preoccupazione per questa barriera protezionista (peraltro già imitata da altri paesi tra cui la Spagna). "Se resta in vigore – dice l'economista Andrew Rose dell'università di Berkeley – noi americani finiremo per pagare più cari prodotti più scadenti. Questo accade quando si soffoca la concorrenza internazionale". Ma la clausola Buy American è molto popolare. Un recente sondaggio ha indicato che l'approvano l'86% degli americani. Il presidente dell'associazione confindustriale dei siderurgici Usa, Thomas Gibson, commenta così il sondaggio: "I contribuenti vogliono essere sicuri che il loro denaro servirà a creare posti di lavoro americani in America, non posti di lavoro cinesi in Cina". Se questa frase suona familiare, c'è una buona ragione. Uno slogan identico è scandito in questi giorni dagli operai inglesi nella protesta contro i lavoratori italiani: "British jobs for British workers". Il loro premier Gordon Brown a Davos ha preso le distanze dallo sciopero anti-italiano, che ha definito "indifendibile". Ma quello slogan sui posti di lavoro inglesi per gli inglesi lo aveva lanciato proprio lui, due anni fa a un congresso del partito laburista. è un altro esempio di protezionismo "di sinistra" che fa presa nel mondo operaio.

La questione del protezionismo affiora anche nella scelta fondamentale che devono fare tutti i governi in questa crisi: è più giusto sostenere la domanda o l'offerta? è meglio aiutare i consumatori, oppure venire in soccorso all'industria? In una fase di profonda e generalizzata sfiducia, il sostegno ai redditi delle famiglie dovrebbe avere la priorità. è inutile finanziare l'industria dell'auto se non tira la domanda di vetture: le case produttrici avranno bilanci un po' meno scassati ma i loro piazzali resteranno pieni di modelli invenduti. Ma sui governi premono le lobby industriali. In quei casi in cui gli Stati scelgono di sostenere l'offerta, cioè i produttori, rispunta il protezionismo. Washington ha deciso che l'industria dell'auto americana si chiama General Motors, Ford e Chrysler: in realtà da decenni le uniche case che creano posti di lavoro sul territorio americano si chiamano Toyota, Honda, Bmw e Volkswagen, con i loro stabilimenti in Alabama e South Carolina.

Gordon Brown a Davos ha ricordato che esiste un'altra minaccia protezionista sui mercati finanziari. Gli Stati che si dissanguano per salvare le loro banche, in cambio vogliono che gli istituti di credito tornino a privilegiare l'attività domestica. Inoltre c'è un "mercantilismo finanziario" implicito nella escalation dei deficit pubblici. L'America quest'anno rovescerà sui mercati 2.000 miliardi di nuovi buoni del Tesoro per coprire le sue spese. La corsa a collocare titoli pubblici mette in difficoltà i paesi meno solvibili come l'Italia, la Grecia, e ora anche l'Inghilterra. Nel protezionismo finanziario tutti possono lasciarci le penne. Obama ha parzialmente smentito l'attacco che il suo ministro del Tesoro aveva lanciato contro la Cina accusandola di mantenere la sua moneta troppo debole. Il neopresidente deve essersi accorto del rischio che corre. Se davvero i cinesi volessero rivalutare lo yuan, il modo più semplice è smettere di comprare i titoli del debito pubblico americano, visto che gli investimenti di capitali asiatici nei Treasury Bonds Usa sono una stampella che evita una frana del dollaro.

Infine c'è una forma di protezionismo in cui eccelle l'Italia. è l'atteggiamento che in America si definisce del "free rider" e che potremmo tradurre con i "portoghesi": quelli che non pagano il biglietto sui mezzi pubblici. In una fase in cui altri paesi stanziano risorse pubbliche importanti per rilanciare la crescita – 820 miliardi di dollari gli Usa, 600 miliardi la Cina, 50 miliardi di euro la Germania – chi spende poco o nulla fa un calcolo apparentemente astuto. L'Italia aspetta che siano gli altri a ripartire: quando tornerà la crescita americana e tedesca ci tirerà fuori dai guai rilanciando le nostre esportazioni. Ma i "portoghesi" sono mal visti da chi paga il biglietto. In questo caso America, Cina o Germania possono essere rafforzati nella convinzione che bisogna trattenere dentro le proprie frontiere il massimo delle risorse pubbliche dispiegate nelle manovre anticrisi. Un pretesto in più per alimentare la spirale dei protezionismi.”

Grande è la confusione tra coloro che dovrebbero guidare le sorti del mondo. Si conferma l’impossibilità di fuoriuscire dal sistema capitalistico, che ormai ha raggiunto una dimensione globalizzata irreversibile, e, nel contempo, si adottano misure protezionistiche delle economia nazionali. Si sovvenzionano le banche con i soldi dei cittadini e si impone ad esse di farli circolare sotto forma di prestiti, non tenendo conto che il sistema bancario, come insegna la recente esperienza, è più interessato a trattenere la liquidità, sperando di poterla investire speculativamente, che non a rispondere ai bisogni delle aziende e dei cittadini. Ci si straccia le vesti per il calo critico della domanda e dei consumi, ma, di fatto, si ritiene più importante finanziare le aziende per arginare la disoccupazione (che esse di fatto minacciano per essere finanziate).

2.

La riunione del G-7, tenutasi a Roma alla metà di febbraio, non ha fatto altro che confermare la confusione vigente.

I Sette Grandi ammettono che la recessione è «grave» e durerà «per tutto il 2009». Per sostenere la crescita e l'occupazione e per placare i mercati si dicono «pronti a tutto», «ad ogni ulteriore iniziativa necessaria». S'impegnano a «lavorare insieme» per riformare con urgenza il sistema finanziario. Ribadiscono il «no» a qualsiasi tentazione protezionistica. E su iniziativa italiana pongono le basi per scrivere i principi di un nuovo ordine globale. «Servono regole comuni, etiche ed economiche», spiega il ministro Giulio Tremonti. «Per ripristinare la fiducia ed evitare che si creino le premesse per una nuova crisi».

Si tratta di petizioni di principio che non tengono conto di una realtà di fatto: a livello globale, le perdite delle banche investite dal ciclone dei subprime oscillano tra 1.400 e 2.200 miliardi di dollari. Il dato è riferito da Mario Draghi, e forse è sottodimensionato.

Nicola Cacace, su l'Unità del 15 febbraio, fotografa così la situazione:

La crisi è peggio del ’29 perché allora non c’erano i derivati (titoli il cui valore deriva da altro, tassi, valute, etc.) definiti da W Buffet e G. Soros “prodotti finanziari di distruzione di massa”, che hanno invaso il mondo ed il cui valore nominale è stimato dalla BRI nella astronomica cifra di 760 trilioni di $, 14 volte il Pil mondiale di 55trilioni.

Questi prodotti sono nella pancia di tutte le banche - un po’ meno delle nostre che, come dice Tremonti, non parlano inglese, un po’ più in Comuni come quello di Milano dove la Moratti l’inglese lo sa - ma non iscritti nei loro bilanci. Se la D. Bank li scrivesse, la sua leva (attivi/capitale netto) raddoppierebbe a 70 mandandola in default (Sole 24 ore 7/2).

La crisi è peggio del ’29 – tranne negli interventi pubblici che allora non furono tempestivi - per il buco di domanda da concentrazione di ricchezza; oggi come ieri negli Stati Uniti e in Italia il 50% della ricchezza è posseduta dal 10% delle famiglie.”

Tutti i partecipanti del G-7 si sono affannati nel sollecitare le Banche a tirare fuori finalmente i titoli “tossici”. Il problema è che se li tirassero fuori, un buon numero di esse semplicemente precipiterebbero. Esse aspettano l'intervento dello Stato, ma il gioco sembra bloccato. Il credito, che viene erogato dalle Banche, sembra ridotto ai minimi termini. Senza la leva del credito, l'economia capitalistica muore. Se lo Stato dà soldi alle banche, esse lo utilizzano per colmare i “buchi” che hanno prodotto in questi anni sciagurati.

Ci sarebbe un solo rimedio valido: la nazionalizzazione delle banche. Ma ciò significherebbe, né più né meno, fare un passo decisivo nei confronti di un Socialismo di Stato, la bestia nera del liberismo.

Su queste basi, che gli esiti del G-7 siano stati deludenti non sorprende.

Maurizio Ricci, su Repubblica del 15 gennaio, ne fornisce il seguente bilancio:

“La caduta del consenso

Poco ci si aspettava dalla riunione romana dei G7 e poco ne è uscito. Tutti hanno avuto modo di incontrare personalmente Tim Geithner, l'uomo dell'economia nel nuovo team Obama. Per il resto, sostanzialmente sono stati ribaditi gli impegni già annunciati a novembre, in attesa della riunione di Londra di aprile, che sarà allargata anche alle grandi potenze industriali dei paesi emergenti, come Cina e India. C'è da chiedersi se simili vertici, che finiscono per creare aspettative, siano utili, quando le aspettative vengono sistematicamente deluse.

Perché la crisi va più in fretta dei vertici politici: ieri qualche ministro ha avuto parole d'ottimismo, lasciando intendere che potremmo essere già vicini al fondo della recessione. Ma i più (il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, per esempio) pensano, invece, che il peggio debba ancora venire e che la seconda metà del 2009 sarà peggiore della prima. E non c'è solo una crisi drammatica per la velocità con cui si è estesa a tutto il mondo e per il declino verticale verso cui sta spingendo tutti gli indicatori, facendo balenare l'immagine di un'economia globale non solo in recessione, ma sull'orlo di una depressione stile anni '30. C'è anche una crisi politica o, se volete, politico-filosofica, che sta rapidamente incrinando il consenso generale su cui si è retta l'economia internazionale degli ultimi 30 anni e che è il collante della globalizzazione.

Il documento finale della riunione dei G7 ha parole molto decise contro il risorgere di tendenze protezionistiche. Ma quell'impegno fa a pugni con quanto abbiamo visto e sentito nelle ultime settimane. Il "Buy American", compra americano, contenuto nel testo della legge americana per stimolare l'economia, dove si chiede di cercare il "made in Usa", nella realizzazione dei progetti di nuove infrastrutture. Il "British jobs for British workers", posti di lavoro britannici per lavoratori britannici, del premier inglese Gordon Brown. I soldi dati dal presidente francese, Nicolas Sarkozy, alle aziende automobilistiche di casa, perché i posti di lavoro non li taglino in Francia, ma, ad esempio, nella Repubblica Ceca (un altro paese dell'Unione europea). Ognuna di queste indicazioni è stata e sarà, probabilmente, ammorbidita, rilavorata, ritagliata, per frenarne l'impatto. L'impegno anti-protezionista di Roma è stato certamente preso in buona fede: bisognerà vedere, però, come verrà reinterpretato, una volta tornati a casa propria. In ogni caso, un messaggio è stato lanciato, dalle capitali più importanti dell'Occidente. Per chi crede alle virtù del libero commercio e ritiene il protezionismo una trappola, che, fra ritorsioni e guerre commerciali, può accelerare la spirale della depressione, si tratta di un messaggio pericoloso. Sia perché ha destato echi, nelle opinioni pubbliche interne, che potrebbe non essere facile contenere. Sia perché può essere facilmente colto dai grandi paesi emergenti, che sono oggi un ingranaggio cruciale dell'economia globale.

La crisi attuale, comunque, nasce nella finanza e il documento finale spende un impegno risoluto a rilanciare il credito e a stabilizzare il sistema finanziario internazionale. Si tratta, tuttavia, di capire di cosa stiamo parlando. La paralisi del credito degli ultimi mesi va vista in relazione con il boom del credito degli ultimi anni, che ha reso, in larga misura, possibile il contemporaneo boom dell'economia internazionale, adesso spentosi nella recessione. Quel boom era alimentato dai fiumi di liquidità, messi a disposizione dal "sistema del credito ombra", ovvero gli attori "non banche", e non regolati come banche. Tim Geithner, nella sua precedente incarnazione come presidente della Federal Reserve di New York, ha provato a misurarlo. Fra hedge funds, cartolarizzazioni, obbligazioni immobiliari, attivi delle grandi banche di investimento (come Lehman Brothers, ma anche Morgan Stanley), Geithner calcola un volume di crediti di 10 mila miliardi di dollari. Uguale a quello dell'intero sistema bancario vero e proprio americano. L'attuale paralisi del credito è figlia, anche, dell'implosione di quel sistema-ombra. I G7 insistono, giustamente, sulla necessità di regolarlo, per evitare gli eccessi che ci hanno portato alla crisi attuale. Ma, fino a che queste regole non ci saranno (e c'è qualche dubbio che arrivino per il vertice di aprile a Londra), quel sistema non potrà ripartire. In ogni caso, bisogna sapere che, con regole, doverosamente, più stringenti, non potrà generare la liquidità degli anni scorsi.

La paralisi del credito risale, comunque, anche alla paralisi delle banche. Il documento dei G7 sottolinea che il sistema del credito ordinario non si rimetterà in moto, fino a che non ci sarà "trasparenza" nei bilanci delle banche, in particolare la quantità di titoli avvelenati, legati al sistema-ombra, che tengono in cassaforte. E' un appello che sentiamo, ormai, da settembre, ma, finora, si è visto poco. Il problema è, forse, ancor più europeo che americano. Uno studio del Fmi sottolinea che le banche europee detengono titoli tossici per un ammontare pari al 75 per cento del volume nelle mani delle banche americane. Tuttavia, finora, le banche Usa hanno effettuato svalutazioni degli attivi per 738 miliardi di dollari, quelle europee solo per 294 miliardi. C'è un buco, in Europa, che ancora deve emergere. Il punto è cruciale se si considera la situazione delle banche americane. Secondo Nouriel Roubini, le banche Usa hanno in corpo perdite su crediti per 1.800 miliardi di dollari, ma capitale solo per 1.400 miliardi. Di fatto, sono sotto per 400 miliardi di dollari o, comunque, considerando le previste iniezioni di capitale fresco pubblico, a capitale zero. Qual è la situazione delle banche europee? Che salvataggi sono in vista? Il documento dei G7 lascia la gestione del problema ai singoli paesi. Una conclusione, politicamente, probabilmente inevitabile, ma che non aiuta a diradare la nebbia.

Gli Stati Uniti nazionalizzeranno il grosso del sistema bancario? Nel piano Geithner, questo, oggi, non c'è. Ma, secondo Roubini - ad oggi, il miglior interprete della crisi - questo è un espediente politico. Un intervento del genere sarebbe politicamente possibile solo se l'insolvenza delle banche diventasse generalizzata, mentre, oggi, sempre secondo Roubini, riguarda solo alcuni istituti. Ma se la situazione peggiorasse e le insolvenze si allargassero, conclude, Geithner avrebbe la strada spianata per una nazionalizzazione temporanea. Andrà così? Nessuno lo sa e, probabilmente, non lo saprà in tempo per il vertice di aprile. L'incertezza è destinata a continuare.”

Spuntano, dunque, all'orizzonte le due “bestie nere” del liberismo: il protezionismo e, addirittura, la nazionalizzazione delle Banche (che trasformerebbe il sistema in un Socialismo di Stato).

Il protezionismo, nonostante sia sempre stato ritenuto dagli ideologi liberali, incompatibile con lo spirito del capitalismo concorrenziale, in realtà non è mai venuto meno. Ce lo ricorda Giorgio Ruffolo su repubblica del 4 febbraio:

“A venti anni dall'unificazione, attorno al 1890, l'economia italiana arrancava. La politica di libero scambio – si chiamava della "porta aperta" – instaurata dalla destra nel nuovo Regno, aveva favorito l'agricoltura e depresso l'industria. Ma dell'agricoltura aveva avvantaggiato le colture specializzate del Nord, mentre erano rimasti esposti alla concorrenza americana i grandi proprietari di grano. E nell'industria, generalmente penalizzata, erano state praticamente decimate le deboli strutture del Mezzogiorno. Inoltre il fisco, generoso con i proprietari terrieri, aveva colpito ferocemente i consumi popolari, con la famigerata imposta sul macinato (la cosiddetta imposta sulla fame).

Giunta con Depretis al Governo nel 1876 la Sinistra varò più di dieci anni dopo, nel 1887, quello che Antonio Gramsci definì il "patto mostruoso" tra la classe liberale del Nord e i latifondisti reazionari del Sud, e cioè la nuova tariffa protezionistica che avvantaggiava con bassi dazi sulle materie prime e dazi elevati sui prodotti, l'industria in generale e quella tessile e siderurgica in particolare; e concedeva agli agrari un dazio sui cereali che li avrebbe difesi dal grano americano. La tassa sul macinato era stata abolita nel 1880.

L'Italia seguiva così con qualche ritardo la Germania sulla strada del protezionismo: una strategia economica teorizzata da un filosofo (Fichte) e da un economista (List) per compensare con politiche doganali e fiscali interventiste il ritardo rispetto all'economia britannica, allora dominante nel commercio internazionale. La Gran Bretagna poteva permettersi il suo "liberismo", perché il vantaggio storico della sua industrializzazione le consentiva di giocare con poste più alte.

Gli altri paesi europei, se volevano acquistare il rango di grandi potenze, dovevano inseguire. Anche alcuni grandi economisti liberali, come John Stuart Mill, sostennero l'opportunità, da parte di questi paesi, di praticare un protezionismo limitato nel tempo per fare crescere a un livello di competitività la loro "infant industry".

Il protezionismo di fine Ottocento aveva, del resto, precedenti illustri. Fino alla fine del Seicento i nuovi grandi Stati nazionali avevano identificato la ricchezza delle nazioni con il possesso dei grandi lingotti d'oro e d'argento (bullions). Il "bullionismo" contraddistinse la prima fase ingenua del mercantilismo, che si concentrò poi sull'obiettivo strategico di realizzare un'eccedenza della bilancia commerciale, nella quale si identificava la ricchezza della nazione. Ciò spostava l'accento dal possesso di moneta al lavoro, alla produzione, all'attività economica concreta. E fu tra i primi un economista calabrese del Seicento, Antonio Serra, vissuto a Napoli, per grande parte della vita in galera per cause ignote, a spiegare che non era la moneta la causa della ricchezza, ma il lavoro degli uomini e l'intelligenza di chi li governa: la «provision di quel che governa». Qualcuno afferma, forse calunniosamente, che fosse un falsario!

Alla fine del Settecento la scienza economica compì una nuova svolta radicale. La fonte della ricchezza, dissero gli economisti liberali non stava nella ricchezza materiale ma nella libera intraprendenza individuale. A Turgot, che gli chiedeva di che cosa avessero bisogno. certi artigiani e commercianti risposero: «laissez faire, laissez passer!». Diventò il motto del liberalismo economico, o liberismo. Gli economisti spiegarono che il mercato libero aveva in sé stesso il suo ordine e il suo equilibrio: e che la cosa migliore che i governi potessero fare era di non far niente (di strettamente economico, s'intende: altro era l'ordinato governo della città). Lo spiegarono anche con modelli matematici complicati, che chiamarono "teoria dell'equilibrio generale". Ovviamente esagerarono. E il grande economista Schumpeter, che pure era un liberale (anche se un po' fascista!) avvertì che quella sì, era la teoria, ma che l'economia di mercato non è una piazza d'armi dove si svolgono eleganti evoluzioni, ma un campo di distruzioni creatrici, dove si affrontano governi e grandi imprese, con strepito e furore.

Fatto sta che tra la seconda parte dell'Ottocento e la prima del Novecento le politiche protezionistiche di potenza ebbero la meglio su quelle liberistiche di concorrenza, fino a precipitare nel gorgo di due guerre mondiali.

Dopo i disastri della seconda guerra mondiale il mondo era pronto per tentare di costruire un nuovo sistema fondato sul libero scambio nell'ambito della egemonia americana, così come il primo liberalismo si era svolto sotto l'egemonia britannica. Ma anche questo ciclo storico ha subito la sua degenerazione. E il mondo dell'economia ha ricominciato a somigliare sempre meno a una piazza d'armi e sempre più a un campo di battaglia. Non è un caso, che, nella fatale alternanza della storia, scorgiamo oggi all'orizzonte l'ombra del protezionismo.”

E' un po' più di un'ombra, a dire il vero. Il protezionismo che avanza è il titolo di un articolo di Federico Rampini su Repubblica del 16 febbraio:

E' diventato un luogo comune definire inutili i vertici del G-7. Quello di sabato a Roma ha varcato una nuova soglia: è stato una beffa, una pericolosa impostura.

Con un coro unanime i leader riuniti hanno messo al bando il protezionismo. Cioè hanno mentito sapendo di mentire. Nessuno ha l'intenzione di tener fede a quell'impegno solenne. Se avessero avuto un briciolo di onestà, avremmo sentito dichiarazioni di questo tenore. Tim Geithner, segretario al Tesoro americano: «Prometto di cancellare la clausola Buy American (comprate americano) in tutti gli atti di spesa che autorizzerò in base alla manovra da 787 miliardi appena varata dal Congresso. In nessun caso l'Amministrazione Obama farà preferenze per i produttori nazionali».

Christine Lagarde, ministro dell'Economia francese: «Il governo di Parigi ritira il vincolo che ha imposto a Peugeot e Renault con la concessione degli aiuti di Stato, cioè l'obbligo di acquistare componenti solo da produttori francesi. E' stato un errore annunciarlo, facciamo ammenda coi nostri partner europei». Il ministro Giulio Tremonti, che continua a descriversi come un pioniere e un protagonista della governance globale: «Mi impegno in quanto presidente di turno del G-7 a vigilare contro l'introduzione di quelle clausole protezioniste. Se Geithner e Lagarde non saranno di parola promuoverò azioni legali, rispettivamente al Wto e alla Commissione europea».

Nessuna di quelle tre dichiarazioni è stata pronunciata sabato a Roma. Al contrario, il germe del protezionismo avanza implacabile, contamina tutte le azioni dei governi per contrastare la recessione. Combattere un crollo della domanda con l'introduzione di barriere agli scambi internazionali, è come lanciare a chi sta annegando un macigno di granito con su scritto «salvagente». E' quello che sta avvenendo. Barack Obama aveva sì promesso di ritirare la clausola Buy American, ma quel filtro protezionista è rimasto nel testo finale della maximanovra di spesa approvato al Congresso. Anzi, approfittando della confusione nella stesura finale (la maggioranza dei senatori e deputati a Washington ammette di non aver potuto leggere le mille pagine del provvedimento) qualcuno ci ha infilato di peggio. E' la clausola «Hire American», assumere americani. Questa impone alle aziende che ricevono aiuti o commesse pubbliche di sospendere le assunzioni di personale straniero, sia pure con regolarissimi visti di lavoro.

Nicholas Sarkozy non si sogna di ritrattare il suo «Achetez Français», imposto a Peugeot e Renault in contropartita dei sussidi pubblici. Anche lui vi ha aggiunto un diktat sull'occupazione: ha vietato licenziamenti di operai francesi, chiedendo esplicitamente che la Peugeot cominci col cacciare gli operai del suo stabilimento nella Repubblica cèca. E' un affronto brutale, proprio verso Praga che ha la presidenza di turno dell'Unione europea. Dopo un semestre in cui il suo bonapartismo era sembrato al servizio dell'Europa, Sarkozy ha gettato la maschera ed è pronto ad ogni avventura. A rispondergli picche è intervenuto l'amministratore delegato della Peugeot, che non vuole sacrificare la competitività al nazionalismo. Ma questo non basta affatto.

Attorno ai gesti di Sarkozy, di Obama, o alla tiepida risposta di Gordon Brown verso i sindacati inglesi che manifestavano contro i lavoratori italiani, si avverte un clima di indifferenza o peggio: di indulgenza, di comprensione. In una fase in cui gli Stati devono mobilitare risorse eccezionali per tentare di rianimare l'economia, un po' di «preferenza nazionale» sembra inevitabile.

Inoltre questa crisi mondiale ha contribuito a rendere impopolare la globalizzazione, se non altro perché molti paesi la subiscono come un cataclisma provocato da altri. Quindi ridurre un po' la nostra apertura verso il resto del mondo non ci farà male: questo è il senso comune che si va diffondendo. Qua e là sui giornali compaiono rituali appelli a non ripetere gli errori degli anni Trenta: quando, è bene ricordarlo, la Grande Depressione fu scatenata non dal crac di Wall Street ma dalle successive guerre protezioniste che fecero crollare gli scambi mondiali. Ma le lezioni della storia non fanno molta presa.

Settant'anni sono lunghi, pochi dei contemporanei hanno una vaga idea di cosa fu davvero la Grande Depressione. I leader politici fiutano il vento che tira, preferiscono assecondare le pulsioni più retrive dell'elettorato. Anche a costo di micidiali errori di prospettiva: l'America di Obama rischia di risvegliare i demoni del protezionismo anche in Cina e in India, proprio quei paesi dai quali attende un rilancio dei consumi perché possa ripartire la crescita mondiale.

In quanto al protezionismo francese sull'automobile, o quello inglese sul mercato del lavoro, prendono di mira non la globalizzazione degli ultimi decenni, ma i principi fondamentali del mercato comune europeo sanciti nel Trattato di Roma del 1957.

Non si tratta quindi di una bonaria correzione di rotta rispetto agli «eccessi» del neoliberismo, bensì di un'offensiva insidiosa contro la libera circolazione delle persone e dei beni in Europa.

Gli italiani dovrebbero essere i primi a indignarsi, a spaventarsi, a reagire. Per lo sviluppo economico e i livelli medi di benessere, il nostro paese sarebbe un'appendice dei Balcani o del Nordafrica, se non avessimo avuto dal 1957 l'ancoraggio ai mercati europei, nostro principale mercato di sbocco e traino della nostra crescita. Lasciamo senza risposta gli sbandamenti protezionisti, e ci troveremo in prima fila tra le vittime. L'Italia non ha mai potuto fondare la ripresa sulla domanda interna, siamo sempre stati beneficiati dal traino dell'export. Se crolla il commercio internazionale, i primi travolti saremo proprio noi.”

Il paradosso dei paradossi è che gli alfieri del protezionismo appaiono, al momento attuale, gli Stati Uniti, vale a dire la nazione che, negli ultimi venti anni, ha più spinto sull'acceleratore del neoliberismo “selvaggio” (eufemisticamente definito de-regulation).

Il paradosso è illustrato da Vittorio Zucconi su Repubblica del 10 febbraio:

“Quando la paura fa alzare le barriere

Come una Fenice della storia economica, il "protezionismo", l'animale che una generazione credeva scomparso per sempre, risorge puntuale per tornare a volare sopra le tentazioni della generazione successiva. Invano esorcizzato da sigle, trattati e acronimi solenni inventati dall'umanità dopo le catastrofi provocate dal suo volo, Unctad, Ceca, Mec, Cee, Ue, Nafta, Gatt, Mercosur, Wto, Asean, il "protezionismo", che è spesso soltanto un sinonimo di «nazionalismo», torna prepotente a tentare i delusi dal proprio antagonista, il "liberismo" ora esploso nella globalizzazione e a promettere garanzie e sicurezza a governi impopolari e popoli terrorizzati. Arriva fino alla nuova amministrazione di Barack Obama costretto, dopo tante promesse elettorali agli Stati del Nord deindustrializzati, a limitare l'emorragia con una possibile legge "Buy American", scritta nel gigantesco pentolone dei soldi pubblici rovesciati sull'economia americana boccheggiante, per proteggere quello che rimane dell'industria siderurgica nazionale. Non ne resta immune neppure quella Unione Europea che riscopre quella bardatura di sovvenzioni statali ad agricoltori o industrie come l'auto che in realtà non aveva mai del tutto abbandonato, predicando agli altri comandamenti che neppure essa applicava.

Proprio come gli animali mitici, né il "protezionismo", né il suo contrario, la "globalizzazione", evoluzione estrema del "liberismo" (o "neo liberismo" come vuole il vezzo corrente di appiccicare un "neo" sulle guance di pratiche e dottrine antichissime), sono mai realmente esistiti nella forma pura sognata dai propri apostoli come Jean Baptiste Colbert nella Francia del '600 o Adam Smith, nella Scozia di un secolo dopo. I due poli opposti del commercio, e dunque dell'economia, si accontentano entrambi di ritagliarsi spazi occasionali a proprio favore, respirando con il respiro delle congiunture economiche favorevoli o sfavorevoli. L'altalena di favore pubblico fra protezionisti e liberisti è sempre stata soltanto l'indice di gradimento delle condizioni generali di un'economia. Quando un'economia prospera, le spinte a liberalizzare e aprire i mercati di beni e di capitali per aumentare la propria ricchezza privata o nazionale crescono, con il miraggio di favolosi mercati per le proprie esportazioni, come il celebre sogno del "miliardo di spazzolini da denti" da vendere ai Cinesi. Quando un'economia langue, o si scopre che i Cinesi sanno farsi benissimo da soli gli spazzolini e te li vendono anche, la Fenice del protezionismo risorge.

Il favore del quale gode in questo momento il sogno del protezionismo è la dimostrazione del classico assioma che vuole tutti in favore delle porte aperte quando loro sono chiusi fuori, ma poi suggerisce di richiuderle, o almeno accostarle, quando dalla stessa porta irrompe chi stava dall'altra parte. Poiché le economie ricche oggi sono tutte "in unità coronarica", come ha detto Klaus Schwab, presidente del Forum Economico Mondiale e padre dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, il Wto, oggi assai malconcio, la preoccupazione immediata è quella di "salvare il paziente" rinviando al dopo infarto la discussione sulle cause e i rimedi. Naturalmente, l'immagine di Schwab non risponde alla domanda principale: quale, dei troppi pazienti che affollano l'unità coronarica vada salvato e chi invece sia condannato a soccombere. Già gli interventi e le terapie intensive in corso, come il "Buy American" del piano Obama o le flebo di danaro nelle vene degli agricoltori (quasi sempre francesi) stanno aggravando le condizioni di altri più deboli. Il ministro del Commercio egiziano, Rashid Rashid, ha raccontato che gli allevatori stanno macellando in massa il loro bestiame, che non potrà più competere con i prezzi artificiali del bestiame europeo.

La storia economica insegna che il commercio "equo e solidale", sognato dagli utopisti, è un ossimoro, una contraddizione in termini. Per definizione, il commercio è un gioco al quale tutti hanno sempre barato o giocato soltanto a condizione di vincere. Hanno barato a lungo e sfacciatamente i Giapponesi, come ora i Cinesi, che difesero la competitività della propria industria dall'aumento dei costi lavoro, manipolando artificialmente il corso della propria moneta. Se il valore di una moneta è basso, il costo internazionale dei prodotti venduti in quella moneta sarà basso, come sapeva bene l'industria italiana per decenni nascosta dietro una delle più classiche operazioni di protezionismo non doganale, la svalutazione periodica della Lira pagata dai consumatori con l'inflazione. La grande crisi del Giappone, cominciata nei secondi anni '80, coincise infatti con la resa del governo di Tokyo alle pressioni americane per lasciare libero lo yen di salire alle stelle. E ha barato spudoratamente anche la grande protettrice ufficiale del liberismo (dopo decenni di accanito e ufficiale protezionismo nell'800) erigendo centinaia di "barriere non tariffarie", non doganali, ma pratiche (spesso giustificandole con pretesti igienici).

E rischiando di finire nel ridicolo, come è accaduto alla fine della presidenza Bush, quando la Casa Bianca impose dazi punitivi contro il Roquefort francese o l'acqua minerale frizzate italiana, per castigare la Ue colpevole di rifiutare le carni bovine agli ormoni provenienti dalle stalle americane.

Né i sacerdoti del nazionalismo commerciale, alias protezionismo, che ora spuntano per invocare guerre alle ciabatte cinesi o alle automobili coreane, né quelli del liberismo, come il Nobel Paul Krugman, che faticano a spiegare il collasso e il discredito generale del loro credo, vogliono ammettere che nessuna economia può crescere senza elementi dell'uno o dell'altra pratica, nella loro dialettica continua. Non esistono dalla rivoluzione industriale in poi nazioni in grado di autonutrirsi e di autorifornirsi di materie prime essenziali (basti pensare al petrolio) o di cibo per popolazioni ormai cresciute oltre ogni capacità di autosostentamento. Il magnifico sogno di "sovranità alimentare" che oggi torna a sedurre, è, in nazioni come l'Italia incurabilmente a corto di superfici arabili o coltivabili, appunto un sogno.

Dalla difesa delle industrie neonate, come voleva il santo protettore del mercantilismo americano, Hamilton, all'accanimento terapeutico per industrie invecchiate, come vorrebbe adesso Obama con gli altiforni Usa o i governi europei con i sussidi alle auto o al gorgonzola, il ritorno della chimera protezionista è forte, spinta dal vento dell'angoscia collettiva. Forte e illusorio, come fu il mito della globalizzazione che avrebbe prodotto una marea nuova capace, come avrebbe detto Ronald Reagan, di "sollevare tutte le barche". La realtà è che il mondo uscirà dalla unità coronarica con il solito mix di promesse e di carte false, di proclami e di mezzucci, fra protezionismo e liberismo, perché il "campo da gioco perfettamente piatto" invocato da tutti non è mai esistito. La domanda chiave è sapere quante dosi di protezionismo saranno somministrate alle economie infartate, ricordando il monito di uno dei profeti del liberismo, l'austriaco Ludwig von Mises che visse personalmente le due guerre europee del '900, imbullonate sui miti della sovranità industriale e dello spazio vitale nazionale: «La cultura del protezionismo è sempre la cultura della guerra».”

Marcello De Cecco, su Repubblica del 12 febbraio, illustra il potenziale distruttivo del protezionismo:

“Nel 1930 gli Usa, minacciati da una seria recessione, adottarono la punitiva Tariffa Doganale Smoot Hawley. Nel settembre 1931 la Gran Bretagna abbandonò il sistema aureo e pochi anni dopo anche il libero scambio che aveva lei stessa inventato ed esportato al resto del mondo.

Gli altri paesi li imitarono, il commercio mondiale crollò.

Anche oggi a riproporre il protezionismo sono Stati Uniti e Gran Bretagna. Gordon Brown due anni fa ha inventato lo slogan "posti di lavoro inglesi ai lavoratori inglesi" ora ripetuto dai lavoratori delle raffinerie. Barack Obama, per acquisire il favore dei sindacati, che preferivano Hillary Clinton, e degli industriali minacciati dalle importazioni, in un discorso ai lavoratori dell'automobile di un anno fa, ha inviato un messaggio protezionista, raccolto dal Congresso degli Stati Uniti di recente nel Piano di Stimolo dell'Economia. Sperando di facilitare l'approvazione dello stesso piano da parte del Congresso, il neo ministro del Tesoro americano, Geithner, ha poi esordito nel ruolo accusando la Cina di manipolare la propria moneta.

Se anche questa volta sono i paesi leader ad abbandonare per primi il libero scambio, il loro esempio sarà di nuovo seguito da tutti gli altri. Questo perché, di fronte ad alti tassi di disoccupazione, tassi di crescita del Pil negativi e deflazione dei prezzi, il protezionismo può apparire (come spesso ammonisce Paul Krugman) una soluzione efficace nel breve periodo, a politici il cui orizzonte al massimo si estende da una elezione all'altra, a sindacalisti angustiati dalla disoccupazione, a industriali minacciati da profitti in picchiata e ad azionisti e fondi pensione rovinati dai crolli di borsa. Infatti, mettere in opera politiche di rilancio che non sacrifichino il libero scambio ha come conseguenza l'esportazione di parte dello stimolo di politica economica a beneficio di altri paesi, poiché la politica di rilancio fa salire le importazioni, ma i suoi costi, ad esempio in termini di debito pubblico accresciuto, pesano sul paese che la introduce.

Se invece si erigono barriere protezioniste, una politica di stimolo, seguita da ciascun paese per suo conto, porta al rilancio del Pil e della occupazione in ciascun paese e quindi in tutto il mondo. Nel medio e lungo periodo, avverte però la teoria ortodossa, il mondo intero viene a soffrire una grave perdita di efficienza, e quindi ne soffre anche il tasso di crescita e il benessere mondiale.

Il riproporsi del copione degli anni trenta in Inghilterra e negli Stati Uniti fornirà a tutti un'ottima scusa per rifugiarsi nel "sacro egoismo della ragion di stato", spingendo a ricercare "soluzioni nazionali". Il guaio è che questo lo stanno già facendo col massimo entusiasmo, come finalmente liberati da un giogo, anche i governanti della Unione Europea e dei paesi dell'Euro, malgrado l'economia europea abbia raggiunto un tasso di integrazione elevatissimo e che la moneta per i più importanti tra loro sia una sola dal 2002. In questa direzione spingono anche le soluzioni d'emergenza adottate in ciascun paese per far fronte alla crisi bancaria, che contengono pressanti direttive alle banche perché privilegino i prestiti a clienti nazionali.

Il potenziale distruttivo di un ritorno al protezionismo è quindi per noi europei assai maggiore di quanto possa essere per paesi che hanno già dimensione continentale come Stati Uniti, Cina e India. La tariffa doganale esterna è una politica europea. Ma i governi sono ancora nazionali e così lo sono le politiche fiscali, di bilancio e la vigilanza bancaria. è lo stesso mercato unico interno, dunque a essere messo in pericolo da un diluvio di aiuti di stato di ogni genere e appelli agli acquisti di merci nazionali e a far circolare il denaro entro i confini di stato. Senza mercato unico esiste una seria minaccia alla sopravvivenza dell'Euro e anche della stessa unione doganale.

Quanto all'Italia, una raffica di protezionismo che partisse dall'estero colpirebbe nella maniera più pesante le regioni del centro nord, che sono quelle che esportano. Sarebbe interessante allora vedere come riuscirebbe la Lega a far accettare il federalismo fiscale alle regioni del Sud, che dovrebbero comprare i prodotti del Nord, rifiutati dai mercati stranieri.

Bisognerebbe dar loro i soldi per farlo. Le regioni esportatrici non potrebbero sperare di entrare a far parte della Mitteleuropa a cuore tedesco, senza sacrificare tutte le produzioni che competono con quelle tedesche e abbassare i salari a livello di quelli dei paesi ex socialisti come Ungheria e Polonia.

Ne potrebbe derivare la spinta ad un nuovo patto unitario nazionale, ma questo è assai improbabile a causa della pluridecennale propaganda, non sempre infondata, che ha convinto gli abitanti del Centro Nord dello strutturale parassitismo meridionale. Più probabile sarebbe una ulteriore accentuazione delle forze centrifughe che operano ormai in tutto il paese. Federalismo e protezionismo potrebbero così allearsi per spingere l'Italia a diventare uno dei tanti "stati falliti", simile a quelli che già esistono sull'altra sponda dell'Adriatico.”

Ma quale alternativa si dà ad una prospettiva così inquietante?

3.

Il nodo è evidente: sta nel rapporto tra Stato e Capitale, vale a dire sistema bancario.

Su Repubblica del 24 gennaio il problema è sintetizzato nei seguenti termini:

“Le favole dei governi e la crisi bancaria

I Governi stanno rincorrendo affannosamente la crisi delle banche, senza sapere bene dove li stia portando. Hanno cominciato col trasferire i rischi di credito più disparati alle Banche Centrali. Poi, Gran Bretagna e Usa hanno provato con il mercato, stendendo tappeti ai Fondi Sovrani, ritiratisi dopo aver perso la camicia, e promuovendo fusioni con risultati tragicomici: per salvare Merrill Lynch, si è affondata Bank of America. Infine, sono scesi in campo direttamente: tre "piani" Paulson negli Usa (più quello in arrivo di Geithner); due in Francia e Gran Bretagna; e poi Germania, Olanda, Belgio, Austria, Svezia, Irlanda, Grecia, Finlandia. E ora, dopo tre decreti e relativi regolamenti in emanazione, anche l’Italia.

In tutti i "piani", lo Stato sottoscrive prestiti convertibili, subordinati, o azioni con diritto di voto limitato delle banche. Le risorse che i governi forniscono dovrebbero fungere da garanzia contro il rischio di insolvenza, al fine di ristabilire la fiducia del mercato nelle banche, e tra le banche. Così, si suppone, queste aumentano il credito erogato; l’economia riparte; le banche fanno utili; i titoli bancari risalgono; e si possono lanciare gli aumenti di capitale con cui rimborsare lo Stato. Il cittadino si accolla il rischio delle banche. Ma solo temporaneamente. E poi, la fiducia è un bene pubblico. La disastrosa strada delle nazionalizzazioni è esclusa: lo Stato lascia la gestione ai vecchi azionisti e manager; che ringraziano (specie se non c’è taglio nei compensi). E tutti vissero felici e contenti.

Così, nelle favole. Nella realtà, le cose sembrano andare diversamente: che abbiano ricevuto o meno aiuti di Stato, le banche continuano a perdere in Borsa, e non riescono a raccogliere risorse sufficienti. La fiducia latita ancora. Insistere con questi piani? Meglio di no. Basta vedere cosa succede in Gran Bretagna: più lo Stato sborsa, più le banche crollano.

La crisi delle banche non è solo una crisi di liquidità, dovuta a una caduta della fiducia, innescata dal contagio dei subprime americani. La verità è che: 1) fino al 2007 c’è stata una bolla dei titoli bancari, alimentata dalla loro folle leva finanziaria (la più cauta operava con 20 unità di debito per 1 di capitale), che doveva sgonfiarsi; 2) la caduta del prezzo di immobili e azioni, che le banche avevano allegramente finanziato, ha ridotto il valore delle loro attività rispetto a quello dichiarato a bilancio, creando legittimi dubbi sul vero valore del patrimonio rimasto; 3) i dubbi sono stati rafforzati dalle previsioni di recessione: quante banche, dopo aver assorbito l’inevitabile aumento delle sofferenze, avranno ancora un patrimonio positivo? Per il mercato, è una crisi di insolvenza in fieri. Basta guardare al rapporto tra valore di borsa e valore contabile del patrimonio: 0,13 Commerzbank, 0,17 Barclays, 0,18 Bank Of America, 0,25 Banco Popolare, eccetera. La mancanza di liquidità e di fiducia sono sintomo, non causa della crisi. E i subprime stanno alla crisi come l’assassinio di Sarajevo sta alla prima guerra mondiale.

Si comincia a parlare di "bad bank". Era ora: per affrontare le insolvenze è opportuno ricorrere a strumenti da procedura fallimentare. Non deve però servire solo a comperare "titoli tossici" dalle banche (anche le sofferenze vecchio stile le fanno affondare). E poi, a quali prezzi? Ma a ristrutturare. Le autorità dovrebbero costringere le banche a valutare tutte le poste di bilancio ipotizzando condizioni estreme: se il risultato è un capitale negativo, il capitale viene azzerato, il management rimosso, l’attivo rischioso trasferito alla "bad bank", garantita dallo Stato. La banca, pulita e ridimensionata, ricollocata subito sul mercato: a questo punto, non sarebbe difficile trovare gli investitori. E si farebbe un uso migliore dei soldi dei cittadini. Delle favole che raccontano, ai governi piace soprattutto il lieto fine. Spesso dimenticano il percorso arduo necessario per arrivarci.”

La soluzione di ripulire le banche è precaria. Nessuno, infatti, ancora sa quanti siano i titoli tossici che esse detengono. L'incertezza degli Stati nel procedere alla ripulitura è dovuta al fatto che per rimettere in sesto il sistema bancario occorrerebbe correre il rischio di svuotare le casse dello Stato, vale a dire di far pagare ai cittadini la ripulitura.

Una soluzione più funzionale c'è: la nazionalizzazione delle banche.

Su Affari&Finanza del 2 febbraio se ne fa cenno nell'intervista di Marco Panara a Stephen Roach:

"Nazionalizzare non sarà bello ma è necessario"

«La nazionalizzazione delle banche non piace a nessuno», dice Stephen Roach, presidente dal 2007 di Morgan Stanley Asia, con base ad Hong Kong, dopo essere stato per moltissimi anni il capo economista del gruppo a New York, e prima ancora consulente della Federal Reserve oltre che di un paio di presidenti democratici. Le nazionalizzazioni, dunque, l’estremo rimedio che molti paesi, Stati Uniti in testa, stanno adottando nel disperato tentativo di arrestare la crisi finanziaria e sbloccare il "credit crunch", la stretta creditizia: «Non piacciono innanzitutto alle opinioni pubbliche, che non vedono di buon occhio che le loro tasse finiscano nelle casse di quelle che fino a ieri erano le istituzioni più potenti della terra, distribuivano stipendi milionari ai loro dirigenti e dividendi miliardari ai loro azionisti, e poi ci hanno precipitato in questa drammatica recessione», spiega Roach. E aggiunge: «I governi sentono l’ostilità dei loro elettori e sono i primi a resistere alle nazionalizzazioni ma la stabilità del sistema finanziario va preservata, anche se sappiamo tutti che i soldi pubblici nelle banche non sono il modo di ricostruire il sistema. Servono però a impedire che muoia».

Il Fondo Monetario Internazionale proprio la settimana scorsa ha aggiornato la sua valutazione sulla dimensione del problema e dice che salvare il sistema finanziario globale dal collasso costerà alla fine 2mila e 200 miliardi di dollari. Devono venire tutti dalle casse pubbliche?

«I privati che hanno investito nelle istituzioni finanziarie sono statti scottati parecchio, negli ultimi mesi hanno perso larghissima parte del loro investimento. Per un bel po’ sarà difficile convincerli a riprovarci».

Posto che i soldi non c’è altra via che arrivino dalle casse pubbliche, il modo migliore qual è: intervenire nel capitale o separare gli asset buoni da quelli cattivi mettendo questi ultimi in una ‘bad bank’?

«L’esperienza degli interventi nel capitale, che sono già avvenuti per svariate centinaia di miliardi, ci mostra che è stato impedito il fallimento delle banche ma non basta a rimettere in moto il sistema. Per far ripartire crediti e investimenti è necessario che le banche siano pulite e che ci si possa fidare di loro».

Quindi separare la parte buona da quella cattiva.

«Si deve trovare il modo di tirare fuori dai bilanci delle banche gli asset cattivi, dare loro un prezzo realistico e distribuirli ad altre istituzioni private o pubbliche che siano. A quel punto le banche saranno pulite, la fiducia tornerà e l’economia riavrà l’ossigeno che ora le manca e potrà ripartire».

L’impegno finanziario richiesto per il salvataggio delle banche è enorme, a volte pari al bilancio pubblico di interi paesi. Non è che le banche sono state lasciate crescere troppo, tanto da diventare da una parte tanto grandi e potenti da condizionare i governi e, dall’altra, da non riuscire a controllare più i propri rischi?

«Adesso le banche globali sono sotto accusa, e in effetti hanno commesso gravi errori, come gravi errori hanno fatto le banche centrali, i regolatori, i supervisori. Il problema, voglio dire, non è la dimensione ma la capacità di gestire le proprie attività e tenere sotto controllo i propri rischi. D’altra parte con un mercato finanziario globale ci vogliono uffici in giro per il mondo, talenti in giro per il mondo, non avrebbe molto senso operare sul piano globale con istituzioni frammentate».

Se la dimensione non è il problema, può esserlo l’aver messo insieme le attività di banca commerciale e quelle di banca di investimento, che in passato, con qualche saggezza, erano state separate e poi si è voluto rimettere insieme nella cosiddetta ‘banca universale’?

«Io lavoro per una grande banca e non commento su questo».

Il tema, anche qui a Davos, è il ritorno delle regole, e si dibatte tra il più corretto equilibrio tra una regolazione adeguata che non soffochi però la capacità di innovazione. Lei che ne pensa?

«E’ il pendolo. Quando c’è una crisi il pendolo oscilla dalla deregulation verso la riregulation. E’ sempre così e la ragione è che politici, analisti e spesso anche operatori ritengono che la crisi sia dovuta al fatto che il sistema non era ben controllato e che non c’erano regole adeguate. I politici allora cominciano a studiare nuove regole per evitare che la crisi si ripeta in futuro».

Ma di quali regole c’è bisogno? C’è per esempio chi propone di non farne di nuove ma di allargare l’applicazione delle regole esistenti a tutti gli operatori finanziari ed a tutti i mercati. In questo modo anche i mercati ‘over the counter’ come quello dei ‘credit fefault swaps’ che tanto preoccupano in questa fase, sarebbero mercati regolamentati con maggiori garanzie per gli investitori.

«Ci sono molte microregole che vanno riviste, da quelle sui mercati a quelle sulle agenzie di rating, ma non credo che sia lì il cuore del problema».

E l’ipotesi di imporre requisiti di capitale come quelli previsti per le banche commerciali a tutti gli operatori e intermediari, quindi anche alle banche d’investimento e agli hedge fund in modo da evitare un ricorso abnorme al credito potrebbe bastare?

«E’ una ipotesi, ma è una di quelle prescrizioni che mi sembra difficile controllare e far rispettare. Il punto chiave è il fallimento delle banche centrali, anzi segnatamente della Fed, che ha ignorato la bolla enorme che si stava creando sui valori immobiliari e mobiliari e ha lasciato che fosse l’ideologia, e in particolare l’ideologia libertaria dei mercati di Alan Grenspan, a dettare le decisioni di politica monetaria. Tocca al Congresso evitare che una cosa del genere si ripeta, deve rendere la Federal Reserve più responsabile delle sue politiche e delle sue decisioni».

Lei da sempre è un feroce critico della politica americana di indebitamento, che adesso raggiunge il suo acme visto che bisognerà invadere il mondo con i titoli necessari a finanziare la ricostruzione dell’economia Usa. Quali incognite prevede?

«I ‘bonds’ che l’America dovrà emettere per finanziare gli ingenti investimenti pubblici che saranno necessari alla maxioperazione di salvataggio voluta da Obama, dovranno recare un tasso interessante, cioè ragionevolmente alto, per poter essere sottoscritti. Non è detto che ci si riesca, e in ogni caso garantire buoni così redditizi comporterà un esborso ulteriore per il Tesoro americano oltre ogni limite immaginabile: il deficit salirà a 1.300 miliardi quest’anno per scendere (forse) a 1000 l’anno prossimo. Il rating americano è fuori discussione, perché l’America è un paese dalle spalle solide, ma se gli algoritmi che sovrintendono ad un corretto rapporto fra mezzi propri ed esposizione dovessero saltare, l’imbarazzo per le agenzie specializzate potrebbe essere forte».

Il debito, ecco l'altro grande incubo dei governi. Per riattivare il sistema, lo Stato deve correre il rischio, né più né meno, della bancarotta. Basta quantificare il debito, come fa Marco Panara il 9 febbraio su Affari&Finanza, per rendersene conto:

“Mercati, lo tsunami del debito

Il mondo è sommerso dai debiti. Negli Stati Uniti tra settore pubblico, imprese e famiglie si arriva a 33 mila miliardi di dollari, in Eurolandia a 15 mila, nel solo Regno Unito sono quasi 3 mila e 200 miliardi di sterline. Ricalcolando tutto in euro siamo a 60 mila miliardi, ai quali vanno aggiunti i debiti del Giappone, dei paesi emergenti e di quelli in via di sviluppo per un totale tra 90 e 100 mila miliardi. Nel 2009 una parte di questa montagna di debiti verrà in scadenza e dovrà essere rifinanziata, e in più ci saranno i nuovi debiti che gli stati sono costretti a fare per raccogliere le somme necessarie ai salvataggi delle banche e ai pacchetti di stimolo all’economia.

Le cifre sono imponenti, si prevede che il Tesoro Americano emetterà nuovi Treasury Bills per 2 mila miliardi di dollari, gli altri paesi industrializzati per altri mille e altrettanti i paesi emergenti. A questi sono da aggiungere la quota di debito pubblico globale, le obbligazioni bancarie e quelle emesse dalle imprese che scadono durante l’anno e dovranno essere rifinanziate.

Cifre complessive è difficile farne, ma solo nell’area dell’Euro vengono in scadenza 455 miliardi di titoli di stato a medio e lungo termine più almeno altrettanti a breve, nonché 408 miliardi di obbligazioni emesse da banche. Secondo Standard & Poor’s globalmente scadono circa 500 miliardi di dollari di obbligazioni emesse dalle imprese e mille miliardi di prestiti bancari alle aziende. Ing Wholsale Banking calcola che i paesi emergenti, oltre alle nuove risorse di cui avranno bisogno, dovranno rifinanziare quasi 2 mila miliardi di dollari di prestiti bancari e di titoli in valuta che scadono nel 2009.

Il problema è chi comprerà questa massa immensa di titoli che arriveranno sul mercato. Gli analisti fanno una prima valutazione: poiché meno soldi andranno negli hedge fund, nei private equity, nelle borse e anche nelle obbligazioni emesse dalle imprese, ci sarà probabilmente una massa di denaro in cerca di impieghi sicuri che finirà per essere investita nell’acquisto di titoli di stato.

E’ certamente vero ma non basta a rassicurare gli emittenti per almeno tre ragioni. La prima è che nel 2008 la ricchezza finanziaria è stata falcidiata dai crolli delle borse, dei valori dei derivati, dei titoli strutturati, degli hedge funds e di molti altri strumenti finanziari in circolazione. I proprietari di tutto ciò se un anno fa avevano un portafoglio che valeva cento, ora si ritrovano con molto meno da investire. Un riduzione di disponibilità che viene un po’ mitigata dalla maggiore propensione al risparmio che si determina ogni volta che la ricchezza finanziaria diminuisce (e infatti negli Stati Uniti il tasso di risparmio ha ricominciato a salire) ma che è comunque molto rilevante.

La seconda ragione di preoccupazione è che gli investimenti non si spargeranno equamente per il pianeta ma andranno verso i lidi più rassicuranti, i mercati più liquidi, e quindi verso il dollaro e i titoli del tesoro americano, verso l’euro e prevalentemente verso i Bund tedeschi, eventualmente verso lo yen. Nonostante questa corsa verso le valute forti i paesi ricchi non devono sentirsi tanto al sicuro, se la Banca d’Inghilterra è pronta ad acquistare titoli del Tesoro britannico, la Federal Reserve i Treasury Bills, e la Bce forse comincia a pensare anch’essa a qualche forma di intervento. La Banca del Giappone dal canto suo i titoli emessi dal governo li compra già da anni.

E’ per i paesi emergenti tuttavia che il problema rischia di diventare drammatico. Si stima che il flusso degli investimenti esteri crolli dai mille miliardi di dollari del 2008 a soli 150 nel 2009, mentre le banche internazionali presenti in quelle aree, ricapitalizzate con i soldi dei contribuenti del paese dove hanno il loro quartier generale, tenderanno a concentrare lì l’erogazione del credito. In queste condizioni l’intervento pubblico per sostenere le banche locali e l’economia sarà più che mai necessario ma è diffusa la convinzione che senza un sostanzioso aiuto internazionale i paesi emergenti da soli non ce la possano fare.

Le differenze tra i vari emittenti le faranno i tassi, ma potrebbe non bastare. Per tutti resta l’opzione di accorciare le scadenze visto che la domanda per i titoli a breve è fortissima. Accorciare le scadenze oggi vuol dire però raddoppiare la quantità di debito che si dovrà rifinanziare domani e vuol dire aumentare la vulnerabilità dei propri conti esponendosi ad oscillazioni imprevedibili del costo del denaro. Sarà una partita difficile, in cui i governi saranno ciascuno competitore dell’altro nell’arena della finanza globale alla conquista della quota di risparmio di cui ciascuno ha bisogno, e alla fine è probabile che il club dei paesi che hanno un debito pubblico superiore al 100 per cento del pil, che oggi conta tra i suoi soci eccellenti l’Italia e il Giappone, sarà assai più affollato.

Ma il punto centrale di questa crisi è che il debito complessivo deve diminuire, la montagna che abbiamo accumulato è troppo alta e l’economia non è in grado di reggerla. E’ un processo complicato che gli economisti chiamano ‘deleveraging’, ovvero riduzione della leva. La leva è quel meccanismo che consente con uno sforzo limitato di sollevare grandi pesi. In finanza lo sforzo è il capitale e il peso che si riesce a sollevare è il debito. In fisica e in economia funziona a meraviglia, naturalmente finché c’è un equilibrio tra le due forze, perché quando si esagera il meccanismo si spezza. E’ esattamente quello che è successo e ci ha sprofondato nella recessione che stiamo attraversando.

La leva alla quale si è arrivati in questi anni è poderosa. Secondo quanto ha detto il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi il 21 ottobre scorso in un’audizione al Senato, se il rapporto medio tra il totale dell’attivo e il patrimonio di base dei primi cinque gruppi bancari italiani è inferiore a trenta, per le principali banche europee sale a quaranta, il che vuol dire che le banche europee (quelle americane facevano anche di peggio) per ogni euro di capitale posseduto erogavano credito per 39 euro. Appena una parte di quei crediti ha cominciato a scricchiolare la leva è diventata insostenibile e il meccanismo si è rotto.

Per rimetterlo in funzione bisogna ritrovare un equilibrio e le strade sono due: la prima è ripristinare il capitale che le perdite sui titoli tossici (e non solo) hanno distrutto, la seconda è ridurre il debito. La più semplice e meno dolorosa è la prima, e poiché di privati disposti a investire nelle banche non se ne trovano, a ricapitalizzarle sono gli stati, i quali a loro volta trovano i soldi necessari facendo nuovi debiti.

E’ un intervento necessario ma non sufficiente, si evita il tracollo ma il ‘deleveraging’ continuerà, la sfida è gestirlo in modo che non uccida l’economia. Quando non si eroga nuovo credito le famiglie non cambiano la macchina o il televisore, le imprese non investono in nuovi impianti e l’economia si ferma. La crisi aumenta i timori per il futuro e spinge a risparmiare di più e quindi a consumare di meno accentuando la recessione. Se poi il credito non basta fermarlo ma bisogna addirittura ridurlo il problema diventa ancora più drammatico, vuol dire che gli imprenditori devono trovare nuovo capitale, cosa difficile in questo periodo, oppure cedere parti dell’azienda, operazione anch’essa non facile. Devono ridimensionare, ridurre il perimetro di attività e, se non ce la fanno, chiudere. Il rischio vero, finale, è che si riduca la base produttiva e quindi le potenzialità di tornare a crescere in futuro.

Per evitare o almeno contenere questo rischio in questo momento non c’è che l’intervento pubblico, gli stati sono gli unici che riescono a raccogliere risparmio e che possono riimmetterlo nell’economia. Il debito globale non diminuisce ma c’è una possente migrazione degli investimenti dal privato verso il pubblico. Non si risolve il problema ma si compra tempo per dare modo al sistema di rimettersi in moto. Comunque vada il prezzo lo pagheranno i nostri figli.”

Se si è arrivati a questo punto, se cioè lo Stato deve intervenire massicciamente per scongiurare la catastrofe del sistema prodotto dalle banche, è evidente che nel sistema stesso c'è qualcosa di intrinsecamente distorto e pernicioso.

Il rimedio ultimo della nazionalizzazione del sistema bancario, che segnerebbe la fine del libero mercato ( non ovviamente del mercato), fa nuovamente spuntare all'orizzonte il fantasma di Marx.

L'economista Rinaldo Gianola, sull'Unità del 2 febbraio, scrive:

“Se uno legge i magazines o gli autorevolissimi quotidiani americani viene colto dal dubbio di aver sbagliato secolo, di essersi addormentato e poi risvegliato in un’altra epoca.

La crisi finanziaria, gli scandali bancari, la recessione economica alimentano analisi e proposte che potrebbero far pensare a un clamoroso successo postumo - tenetevi forte - del comunismo.

IL SALVATORE

Prendiamo il settimanale Time. La settimana scorsa ha messo in copertina il faccione di Carlo Marx affermando serenamente che «per salvare il capitalismo è necessario studiare il più grande critico del nostro sistema». E via con pagine di citazioni e analisi sullo sviluppo della borghesia, sulla produzione e lo sfruttamento del lavoro. Come se non bastasse il settimanale è ritornato sul tema nell’ultimo numero proponendo che l’intero sistema creditizio degli Stati Uniti passi nelle mani dello Stato. «La nazionalizzazione delle banche è l’unica strada per salvarle» scrive una delle grandi testate americane.

Questa ondata di neostatalisti di ritorno, marxisti da college, comunisti delle stock options è sorprendente. Viene da pensare a quante battaglie politiche e ideali si potrebbero oggi condurre in Italia se fosse rimasto almeno un partito che non si vergognasse di dichiararsi, non marxista per carità, ma un po’ di sinistra.

Ci siamo appisolati sull’«agenda Giavazzi» e sulla «Commissione Attali» mentre il mondo vira su Marx. Vedremo presto economisti declassati, liberisti pentiti, privatizzatori delusi in coda al cimitero londinese di Highgate dove riposa il filosofo di Treviri.

LO STATO

Piaccia o no, la statalizzazione delle banche sta diventando la linea di condotta di ogni governo che voglia salvare il proprio sistema creditizio e il tessuto economico. Le banche tornano in mano pubblica e si interrompe una tendenza che pareva irresistibile.

La causa, ovviamente, non va ricercata nell’ideologia, ma nella gestione spesso sciagurata delle banche, nella voracità di azionisti e manager, nell’inconfessabile rilassatezza della politica e delle autorità di controllo. Il mercato alimenta profitti e sviluppo, ma produce anche i crac bancari, la disoccupazione di massa e gangster della finanza come il signor Bernard Madoff che si permette di truffare i suoi amici della comunità ebraica.

Di fronte a questo disastro siamo a un passaggio storico. Pensiamo alla data del 15 settembre 2008, che nel giornalismo statunitense rischia di essere più citata della tragedia terrorista dell’11 settembre. Il 15 settembre è il giorno del fallimento della Lehman Brothers, conosciuta nel mondo degli affari come «la banca che non può fallire». Il crollo della Lehman, coetanea del Manifesto dei comunisti, è lo spartiacque tra una crisi che le autorità pensavano di poter gestire con i pannicelli caldi e la catastrofe incombente.

Negli ultimi due decenni Lehman Brothers è stata con altre quattro banche d’affari (Goldman Sachs, Morgan Stanley, Merrill Lynch, Bearn Stearns) il motore della globalizzazione del sistema finanziario con influenze enormi sull’ industria. la delocalizzazione produttiva, il controllo dei flussi di capitale. Queste banche costituivano un potere planetario, spesso più rilevante di molti governi.

Oggi di questi istituti è rimasto poco. Bearn Stearns, sull’orlo del crac, è stata rilevata da Jp Morgan. Merrill Lynch è finita nelle mani di Bank of America, ma l’operazione necessita di aiuti di Stato per essere completata. Lehman è morta. Goldman Sachs e Morgan Stanley hanno dovuto cambiare lo statuto per poter accedere ai finanziamenti pubblici e non crollare.

Stiamo parlando solo della crema del sistema creditizio Usa che avrà bisogno ancora di miliardi di dollari pubblici. Ma le cose stanno così ovunque.

In Germania lo Stato è entrato in Deutsche Bank e Commerzbank, le prestigiose hausbank. Nell’Inghilterra della Thatcher, il governo ha salvato Northern Rock e Royal Bank of Scotland: i manager di quest’ultima andavano in giro a comprare banche a prezzi assurdi e sono ancora lì.”

4.

E' evidente che politici ed economisti sono disposti a fare i salti mortali pur di non dare ragione a Marx, il quale riteneva ridicola e infondata non solo l'autoregolazione del mercato ma che il Capitale si affrancasse dalla logica dell'après moi le déluge.

Tutti lavorano nell'intento di restaurare, blindare e sottoporre a regole rigide il sistema capitalistico.

Marco Panara, su Affari&Finanza del 16 febbraio riassume così gli sforzi dei vertici economici e politici:

“Fed e Bce, una rete anti-crac

Sono al lavoro il G8 e il G20, il Fondo Monetario e l'Ocse, il Financial Stability Forum e la Banca dei Regolamenti Internazionali, la Commissione De Larosiére a Bruxelles e l'Economic Recovery Advisory Board a Washington. La missione è riscrivere un sistema di regole che valga per tutti - paesi grandi e paesi piccoli, anglosassoni, asiatici e latini, industrializzati ed emergenti - e che sia tale da evitarci in futuro di cadere di nuovo in una crisi come questa. La posta in gioco è gigantesca per gli interessi coinvolti, perché si tratta di mettere le briglie alle banche, agli hedge fund, ai private equity, ai mercati oggi selvaggi dei titoli derivati e strutturati, agli stipendi dei manager e anche ai comportamenti degli stati. La prima tappa è stata la riunione dei ministri dell'economia e dei governatori del G7 sabato a Roma, la prossima sarà l'incontro dei capi di governo europei a Bruxelles all'inizio di marzo e quella chiave il 2 aprile prossimo a Londra, per il G20 convocato dal primo ministro britannico Gordon Brown.

In tutti i documenti fin qui prodotti, così come nelle dichiarazioni di governatori, ministri e capi di governo, le parole più citate sono coordinamento e cooperazione. Peccato però che nei fatti la Francia sia contro la Germania, tutte e due siano contro l'Inghilterra mentre gli Stati Uniti se ne vanno per la propria strada. A dividere non sono querelle di poco conto: non è la stessa cosa se la Nomura, per fare un esempio, è vigilata da Londra per tutte le sue attività in Europa, come avviene oggi e Londra vuole che continui ad essere in futuro, oppure se il controllo passa a un altro soggetto che sta di qua dalla Manica. E non è la stessa cosa se il mercato dei derivati resta non organizzato e non regolamentato, come gli inglesi pensano che debba continuare ad essere, oppure se si va verso una regolamentazione. La lista è lunga, si va dal modo di valutare il capitale delle banche rispetto ai rischi che assumono a come esercitare la vigilanza sulle compagnie di assicurazione. Si parla di poteri della Fed, della Bce, delle banche centrali nazionali e delle authority che vegliano sulla trasparenza, e si parla dei poteri che i singoli governi dovrebbero cedere a soggetti sovranazionali.

Il punto di partenza è che la drammaticità della crisi lascia l'impressione che non abbia funzionato nulla, che il sistema di regole che c'è sia tutto sbagliato e tutto da rifare. Probabilmente non è proprio così, ma prima ancora che gli interessi di settori e soggetti specifici e gli interessi dei singoli stati, si scontrano due diverse visioni, la prima che sostiene la tesi ‘incrementale', ovvero migliorare e allargare il raggio di azione delle regole che già ci sono, e la seconda che invece punta su una revisione sostanziale del sistema. Accanto a questo confronto ce n'è un altro, ed è quello tra il modello europeo continentale con le sue incompiutezze ma anche con i suoi valori sociali e il modello anglosassone, che nonostante sia quello che ci ha portato in questo disastro continua ad avere una fortissima presa, perché esprime e realizza la cultura dei due principali mercati finanziari mondiali e ancora di più perché dall'egemonia di quel modello dipendono interessi economici e politici enormi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna.

A provare a mettere ordine in tutto ciò sono innanzitutto l'Ocse e il Financial Stability Forum. L'Ocse si sta occupando del ‘legal standard' del quale parla Giulio Tremonti. «Il nome ‘legal standard' è provvisorio - dice Pier Carlo Padoan, vice segretario generale dell'Ocse - perché la parola ‘legal' ha una forza diversa nelle culture anglosassoni rispetto a quelle dell'Europa continentale. Ma al di là del nome, la sostanza è che si può intervenire su una serie di strumenti regolatori e legali che già esistono, e che riguardano dalle multinazionali alla corporate governance, dalla trasparenza fiscale alla qualità del lavoro, per farne una revisione complessiva con l'obiettivo di renderli coerenti con il nuovo quadro e per allargarne l'ambito di applicazione. L'Ocse lavorerà a tutto questo in collaborazione con altri organismi, come l'Organizzazione Internazionale del Lavoro per i temi della qualità del lavoro o con lo stesso Financial Stability Forum per i mercati finanziari».

La stabilità del sistema finanziario internazionale è affidata soprattutto al Financial Stability Forum, creato dal G7 nel 1999 proprio in seguito alle crisi asiatica e russa e al fallimento dell'hedge fund Ltcm (Long Term Capital Management). Il Forum, che è oggi presieduto a Mario Draghi, ha già presentato un sostanzioso rapporto nell'aprile del 2008, con una serie di misure alcune delle quali sono già in fase di implementazione. Altre proposte sono in corso di elaborazione.

Oltre all'Ocse e al Financial Stability Forum, sono al lavoro due gruppi di lavoro, uno europeo ed uno americano, alla ricerca di soluzioni per le due aree economiche. A Washington il presidente Obama ha affidato l'incarico alle mani sapienti di Paul Volcker che, alla guida della Fed negli anni '80, fu colui che con una politica monetaria severa riuscì a stroncare l'inflazione che era stata scatenata dai due oil shock del decennio precedente. Volcker guida l'Economic Recovery Advisory Board e si stanno già delineando alcune linee d'azione che, nei programmi, dovranno trasformarsi in un set di nuove regole da varare per la fine di giugno. Molti elementi sono già stati individuati da un gruppo di lavoro creato nel luglio del 2008 all'interno del Gruppo dei 30 e guidato dallo stesso Volcker insieme a Tommaso Padoa Schioppa e all'ex governatore del Banco do Brasil, Arminio Fraga Neto. Il 15 gennaio scorso il Gruppo dei 30 ha reso pubblico il documento conclusivo, dal titolo ‘Financial Reform, a Framework for Financial Stability', che contiene 18 raccomandazioni rivolte a tutti i governi, ma alcune delle quali sono dirette esplicitamente a quello di Washington.

Per quanto si coglie in questa fase ancora preparatoria gli Stati Uniti vanno verso una vigilanza su tutti i soggetti che hanno rilevanza sistemica, compresi quindi i grandi hedge fund e private equity, con il ruolo centrale affidato alla Federal Reserve, per la quale si prevede un più stretto matrimonio (o incesto, secondo alcuni) con il Tesoro. Alla Fed sarebbero affidate oltre alla politica monetaria la macro e la microsorveglianza su tutti i soggetti di ‘rilevanza sistemica'. La concentrazione dei poteri nella Fed è ancora oggetto di discussione, poiché nel Congresso c'è chi preferirebbe separare sorveglianza da politica monetaria e affidare la prima ad un altro soggetto, sembra tuttavia che al momento prevalga la linea della concentrazione, bilanciata però da un maggiore controllo del Congresso stesso, con il quale il presidente della Fed e i governatori, insieme al segretario del Tesoro, discuterebbero ogni tre mesi le politiche e le linee operative. Sempre negli Stati Uniti le assicurazioni manterrebbero un assetto regolamentare distinto ma non sarà loro più consentito di investire in derivati senza sottostare a specifici controlli. Infine si va verso una revisione del sistema di incentivi a manager e trader con un ruolo rafforzato dei risk manager.

In Europa una missione simile a quella che svolge Volcker di là dell'Atlantico è stata affidata ad una commissione guidata dall'ex governatore della Banca di Francia Jacques de Larosière e composta da sette membri indicati da Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Spagna e Svezia. Il membro italiano è Rainer Masera. «Concluderemo i lavori per la fine di febbraio e le proposte saranno presentate alla Commissione Europea e successivamente al Consiglio e al Parlamento. E' un lavoro complesso che ha l'obiettivo di arrivare ad un sistema di vigilanza europea più efficiente ed integrata» spiega Masera.

In Europa il lavoro è più difficile che negli Stati Uniti. C'è una divaricazione tra i paesi euro e quelli non euro, ci sono posizioni confliggenti tra gli stessi paesi dell'area euro e quando si toccano aspetti significativi si sbatte subito sulla necessità di riformare il Trattato, il che vuol dire referendum e voto parlamentare nei vari paesi.

Uno dei problemi chiave è la contrapposizione tra l'Europa continentale e la Gran Bretagna, che vuol essere al centro del sistema finanziario europeo facendo riferimento però più agli Stati Uniti che all'Europa stessa. E' una posizione che i paesi dell'euro accettano sempre meno e che ha risvolti concreti, che vanno dalla sorveglianza sistemica sulle grandi istituzioni finanziarie internazionali, che sono spesso basate a Londra ma che i paesi di Eurolandia vorrebbero controllare dal continente, alla regolamentazione dei mercati oggi non organizzati, come quelli dei derivati e dei credit default swaps.

Divergenze ci sono anche all'interno di Eurolandia sul ruolo della Bce. Si concorda sul fatto che è necessario prevedere una sorveglianza sui soggetti che hanno un impatto sistemico si discute tra chi, come il vice presidente della Bce Lucas Papademos (ma non solo), spinge per affidare alla Bce questi compiti e chi, come la Bundesbank, invece si oppone perché ritiene che i compiti di sorveglianza possono contaminare le scelte di politica monetaria.

Ma queste sono solo le punte dell'iceberg, i problemi tecnici e politici, le divergenze tra paesi (e la tendenza di alcuni di questi di fare delle banche salvate e nazionalizzate dei campioni nazionali), la difficoltà di affidare maggiori compiti alla Bce senza che questa abbia un ministero del Tesoro di riferimento, rendono il lavoro della commissione de Larosière particolarmente complesso.

Ma non è finita qui. Oltre a Ocse e Fsf, a Volcker e de Larosière, a lavorare sul problema ci sono anche altri soggetti. Il più importante è la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, dove si sta discutendo la questione chiave dei requisiti di capitale delle banche. E' ormai chiaro che l'impostazione di Basilea (I e II) va corretta perché è prociclica, ovvero spinge le banche a comportamenti che accentuano la tendenza del ciclo economico e quindi, nel caso della crisi che stiamo vivendo, accentua il credit crunch. Gli svizzeri, padroni di casa ma con un sistema bancario molto provato, sostengono che il modello attuale che prevede requisiti di capitale ponderati in base alle tipologie di rischio non garantisca la stabilità del sistema, e spingono per criteri più semplici e omogenei. In questa posizione non sono isolati, ma dai requisiti di capitale dipende la leva che le banche possono attivare e quindi certamente il livello di rischio ma anche la capacità di produrre profitti per gli azionisti.

Ciascuna di queste partite è delicatissima e le potentissime lobby sono al lavoro. Ma la chiave, come sempre, è nelle mani degli Stati Uniti. Da una parte la crisi ha lì le sue radici profonde, dall'altra c'è la novità dell'amministrazione Obama. Ma se l'America è disposta a condividere con gli altri la costruzione di un sistema di regole globale che le renda le mani un po' meno libere, ancora non è chiaro. Secondo molti è improbabile, e se questi molti avranno ragione le nuove regole si faranno, ma avranno gli stessi limiti di quelle vecchie.”

Luigi Spaventa, sempre su Affari&Finanza del 16 febbraio, espone addirittura (forse con un'involontaria ironia) il Manifesto per la stabilità finanziaria:

“In questi tempi così difficili, con banche che falliscono quasi ogni settimana e con le arterie del credito occluse malgrado interventi governativi di importi e natura senza precedenti, abbozzare piani di riforma del sistema finanziario potrebbe sembrare una distrazione superflua da sfide più pressanti. Non è così. Un accordo sulla definizione (per non parlare dell'attuazione) di nuove regole richiede tempo; e poi, come si dice, "beato quell'uomo che pianta un albero sotto la cui ombra non siederà mai". E così, il 15 novembre dell'anno scorso il G20 fu convocato per "gettare le fondamenta di una riforma" tale da impedire che "una crisi globale come quella che stiamo ora vivendo possa ripetersi". In quella riunione si lanciò un piano d'intervento basato su alcuni principi condivisi.

Le azioni previste (nel complesso più di una quarantina) consistono in buona parte nell'assegnazione di compiti ad altre istanze internazionali, quali il Forum per la Stabilità Finanziaria, il Comitato di Basilea e le organizzazioni che stabiliscono gli standard contabili, nonché ai regolatori nazionali. Tutte queste istituzioni si sono messe alacremente al lavoro. Possiamo esser certi che nella prossima riunione i partecipanti al G20 non potranno lamentarsi per mancanza di documenti, carte e proposte dettagliate. Ma poi? Con l'approccio seguito finora, vi è il rischio che il G20 resti impantanato in una miriade di soluzioni parziali e dettagli tecnici. Il G20 riuscirà a mettere a punto le riforme del sistema finanziario mondiale?

C'è il pericolo insomma che si perda di vista un disegno di riforma che dipende anche da difficili scelte politiche.

Una carta per la stabilità finanziaria internazionale?

Il lavoro intrapreso dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria (per il potenziamento dei requisiti di capitale e dell'assetto di vigilanza), dall'International Accounting Standards Board e dal Financial Accounting Standard Board (sul consolidamento delle entità fuori bilancio e sui problemi della contabilizazione delle attività finanziarie a valori di mercato in tempi di crisi), nonché dal Forum per la Stabilità Finanziaria e da altri enti nazionali e internazionali interviene per correggere, più che cambiare, la configurazione esistente e in quanto tale è di natura molto tecnica. Il G20 – un'entità preminentemente politica – assai difficilmente può entrare nello specifico delle soluzioni proposte. Il suo avvallo è naturalmente importante per rendere più spedita e agevole la traduzione dei cambiamenti e delle innovazioni elaborate nelle legislazioni nazionali (o regionali, nel caso dell'Europa). Ma questo è pressoché tutto.

Mentre questo approccio ha i suoi meriti (soprattutto la rapidità), ci sono molte questioni più importanti e più generali che non possono essere risolte soltanto in base a criteri tecnici o di mera efficienza. Si tratta di questioni che richiedono scelte politiche che è impossibile delegare a istanze tecniche, ma che devono essere prese a livello di G20. Si considerino tre esempi.

I partecipanti al summit del 15 novembre si sono impegnati a "garantire che tutti i mercati finanziari, i prodotti e i soggetti siano regolati o soggetti a controllo". La grossa questione che si nasconde dietro questo nebuloso obiettivo è quella di ripensare i criteri con cui fissare i confini della regolazione prudenziale (l'enfasi sul leverage, per esempio, conduce all'inserimento di broker-dealer, banche di investimento e gli hedge fund più grandi nel territorio regolamentato). La traduzione operativa di questa aspirazione è tuttavia deludente: «Le istituzioni a ciò deputate….dovrebbero intraprendere…un riesame delle finalità della regolazione finanziaria,con particolare riferimento alle istituzioni, agli strumenti e ai mercati che attualmente sono privi di regolamentazione». Ci si aspetterebbe che tocchi proprio al G20 raggiungere un consenso su questa questione, senza dover attendere un documento semi-accademico sulle "finalità della regolazione finanziaria".

Si consideri poi il trading proprietario e l'attività delle grandi banche più vicina a quella di uno hedge fund, che hanno avuto un ruolo determinante nell'attuale crisi. La questione qui è capire se nel caso delle banche di deposito siffatte attività debbano essere proibite o limitate, magari per mezzo di speciali requisiti di capitale.

Un terzo esempio riguarda il trattamento di istituzioni che, malgrado operino nei principali centri finanziari, sono legalmente domiciliate in località offshore, poco regolate, per sfruttare un arbitraggio normativo. Più in generale, ci si potrebbe chiedere se e come sia possibile conciliare l'esigenza di maggiori informazioni e trasparenza con l'esistenza stessa di giurisdizioni offshore. Credo proprio che l'unanimità così facilmente e rapidamente raggiunta nella dichiarazione del 15 novembre sarebbe molto più difficile da conseguire discutendo le risposte da dare a simili problemi e ad altri analoghi. Ma è precisamente questa difficoltà, che nasce dalla natura politica delle questioni in gioco, a fornire un valore aggiunto a un'organizzazione come quella del G20, nella quale un accordo politico può essere raggiunto.

In questa fase, quindi, l'obiettivo da perseguire a livello di G20 dovrebbe essere un consenso condiviso su una sorta di costituzione finanziaria internazionale: un elenco di linee guida sulle questioni più importanti, che, pur se basate su principi, siano operativamente significative e tali da tradursi poi – in una fase successiva e diversa – in vere e proprie regole. Un recente rapporto del Gruppo dei Trenta (un'organizzazione privata), redatto da Paul Volcker, Arminio Fraga Neto e Tommaso Padoa-Schioppa, fornisce un buon esempio di questo metodo: quattro indicazioni fondamentali, basate su alcuni principi generali, sono dettagliate in diciotto raccomandazioni più precise. Naturalmente l'approvazione di linee guida non vincolanti può essere solo una premessa alla definizione di una vera riforma normativa, coordinata fra giurisdizioni diverse. Si tratta tuttavia di una premessa indispensabile, per dare una rotta e fissare un parametro di riferimento in rapporto al quale valutare le politiche di regolamentazione. Un esempio interessante, anche se limitato, lo si trova in ambito finanziario. L'organizzazione internazionale delle autorità di vigilanza dei mercati (International Organization of Securities Commissions) adottò nel 1998 un insieme di "Obiettivi e principi di regolamentazione finanziaria", oggi usati come piattaforma per una valutazione della legislazione e della regolazione dei paesi membri.

E le istituzioni?

Un accordo su uno statuto internazionale dei principi e degli obiettivi prudenziali e di stabilità non esaurirebbe certo i compiti del G20. E' ormai opinione comune che esiste una profonda contraddizione tra la natura intrinsecamente globale del sistema finanziario e la frammentazione nazionale della regolazione. In buona sostanza ogni guardacaccia non può superare i confini della sua tenuta, mentre i cacciatori di frodo possono liberamente spostarsi da una tenuta all'altra a seconda delle convenienza (spesso allettati da un guardacaccia tollerante, desideroso di far crescere il numero di visitatori). è vero, esiste una rete complessa di organizzazioni e commissioni internazionali che si occupano di questioni relative alla regolamentazione. Tuttavia, come ha osservato Howard Davies, il "sistema", se così possiamo definirlo, è un risultato casuale più che il prodotto di un progetto intelligente" e si basa su accordi volontari.

I suoi punti deboli si sono dolorosamente palesati nell'attuale crisi: le differenze nei regimi di regolamentazione tra le varie giurisdizioni hanno contribuito alle cause della crisi, mentre la mancanza di coordinamento e le differenze nei meccanismi di risoluzione ne hanno aumentato i costi. Eppure, mentre tutti ammettono che l'attuale situazione è assolutamente insoddisfacente, non si sono prese iniziative concrete per migliorarla e il dibattito sulle possibili soluzioni non fa che oscillare tra l'impossibile e l'irrilevante, senza che si prendano in considerazione posizioni intermedie praticabili.

Impossibile è la ricorrente proposta di adottare un unico regolamento finanziario globale: codesta impossibilità nasce non soltanto dalla riluttanza da parte degli stati nazione a rinunciare alla loro giurisdizione in materia, ma ancor più dalla mancanza – a tutt'oggi – di un comune libro di regole e, ancor prima, dalle profonde differenze esistenti tra i sistemi legali, che limiterebbero necessariamente i poteri di un ipotetico regolatore mondiale. Sono invece irrilevanti le esortazioni a migliorare il coordinamento e la cooperazione tra le autorità di regolazione senza al di fuori di qualsiasi contesto istituzionale, come avviene nella dichiarazione del G20 (malgrado il suggerimento di istituire collegi di supervisori per le istituzioni finanziarie transfrontaliere) e nel rapporto del Gruppo dei Trenta.

Per andare oltre la fase primitiva del coordinamento-cooperazione su base volontaria occorrerebbe qualche fondamento istituzionale, ma le gelosie nazionali e le controversie territoriali tra regolatori sono un ostacolo di rilievo all'evoluzione istituzionale nell'ambito della regolamentazione, come documentato tra l'altro dal testo "Nuove regole e mercati finanziari" di Fabrizio Saccomanni del 19 gennaio 2009. La ricerca di una soluzione intermedia realizzabile tra i due estremi costituiti da un regolatore unico e un vuoto istituzionale è pertanto un problema politico complesso: ma è altresì la ragione per la quale questo argomento meriterebbe una posizione di primo piano nell'agenda del G20.

Due possibili soluzioni vengono in mente, ciascuna con un diverso peso istituzionale. La più "leggera" è quella offerta dallo IOSCO di cui sopra: un documento condiviso di principi e obiettivi; un modello per una rete di memorandum di intenti "concernenti la consultazione, la cooperazione e lo scambio di informazioni"; un ruolo nell'esame e nella valutazione dell'osservanza dei principi condivisi da parte dei membri. Con un segretariato molto snello, lo IOSCO fornisce una struttura organizzativa e alcune regole che fungono da utile vincolo per la discrezionalità dei suoi membri. L'alternativa più pesante è un'organizzazione in stile Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO): guardiano di un preciso insieme di regole basate su accordi vincolanti negoziati tra i membri dell'organizzazione, con giurisdizione sulla risoluzione delle dispute riguardanti le presunte violazioni degli accordi; un segretariato pesante alle dipendenze di un potente direttore generale. In una graduale evoluzione, il primo modello potrebbe approdare al secondo, come è già accaduto con la transizione dal GATT al WTO. Al fine di evitare ulteriori appendici in un'arena già molto affollata, l'alquanto nebuloso e vago Forum per la Stabilità Finanziaria potrebbe, prevedendo una partecipazione più ampia, essere facilmente ristrutturato e trasformato in un'Organizzazione per la Stabilità Finanziaria.

Meno si sogna una nuova Bretton Woods, tanto meglio. Per il momento siamo lontanissimi da quello standard. Tuttavia, se questa volta il meeting del G20 durasse più di un giorno solo sarebbe già un segnale positivo: significherebbe che nel suo ordine del giorno sono finalmente entrate a far parte questioni importanti e controverse.”

C'è una questione, però, che non può rientrare nell'ordine del giorno: la questione sociale, vale a dire gli effetti della crisi sulla popolazione mondiale. La camera di rianimazione nella quale si affannano politici ed economisti è dedicata a trarre il sistema da uno stato semicomatoso. Essi sembrano, in qualche misura, indifferenti o poco consapevoli del numero stravolgente delle vittime del sistema che hanno bisogno di un pronto soccorso.

Tra queste vittime, ce n'è una nuova. Nel 2003 e nel 2004 ho dedicato due articoli alla crisi della classe media, evidenziando la sua novità e i suoi possibili e temibili sviluppi.

"Che succede se la borghesia torna povera" si domanda Massimo Giannini su Affari&Finanza del 16 febbraio. L'articolo breve, ma interessante, è il seguente:

“Borghesi di tutto il mondo, unitevi. Se fosse ancora vivo, forse oggi Carlo Marx integrerebbe il suo "Manifesto", allargando il leggendario appello rivolto a suo tempo ai soli proletari. Con la tempesta perfetta che si è abbattuta sull'economia mondiale, stavolta, chi rischia di più non sono i diseredati del mondo, che non hanno nulla da perdere. Chi rischia di più, come ci avverte acutamente l'ultimo numero dell'Economist, sono gli oltre 2 miliardi di persone che, sui mercati emergenti, hanno creato un gigantesco e inedito blocco sociale: potremmo definirlo come il nuovo «ceto medio» globale. Un esercito di donne e di uomini che, dall'India alla Cina, dal Brasile alla Russia, ha propiziato con il suo lavoro e beneficiato con il suo salario del più alto tasso di sviluppo dell'economia mondiale mai registrato da un secolo a questa parte.

Una crescita media, e stabile, del 5% annuo. Con punte del 12% in alcune aree del pianeta. Sembra un sogno, oggi. Ma è esattamente quello che è accaduto dall'inizio degli anni '90 in poi. Ora che recessione e deflazione colpiscono senza pietà a tutte le latitudini, questa «nuova borghesia» non ricca ma relativamente benestante, che può impiegare almeno un terzo del suo reddito per spese voluttuarie dopo aver soddisfatto i suoi bisogni primari di alimentazione e di protezione, corre un pericolo mortale. Quello di regredire a una condizione sociale di semi-povertà, la stessa dalla quale si è sollevata faticosamente e orgogliosamente dal 1990 in poi.

L'Economist ripesca proprio Marx, e ricorda che «la borghesia ha sempre giocato un ruolo fortemente rivoluzionario» nella Storia. Di fronte al crollo del benessere economico e delle aspirazioni sociali, la middle class ha reagito in modo ogni volta differenti. Ha supportato i governi nazi-fascisti nell'Europa degli Anni '30 e le giunte militari nel Sudamerica degli Anni '80. Ha manifestato pacificamente per ottenere il diritto di voto nella Gran Bretagna del 19esimo secolo e ha ottenuto la democrazia nell'America Latina degli Anni '90. In questo Terzo Millennio è difficile immaginare cosa potrebbe accadere, se 2 miliardi di persone, dopo aver conquistato il benessere in 15 lunghi anni, ricadessero in miseria in un anno solo. Marxianamente parlando, in gioco c'è prima di tutto la «struttura», cioè la condizione di vita di milioni e milioni di persone. Ma in ballo c'è anche la «sovrastruttura», cioè i sistemi politici, gli assetti istituzionali, le democrazie. Solo a pensarci, tremano le vene ai polsi.”

E' giustificato questo tremore? Penso di sì, perché la classe media, eccezion fatta per un'esigua fascia di intellettuali progressisti, non ha mai sviluppato una coscienza di classe e tanto meno di specie, mentre si è sempre identificata nei privilegi conseguiti, interpretati come conseguenza della sua laboriosità e intraprendenza, e non di una struttura socioeconomica organizzata in maniera tale da avvantaggiare gli uni svantaggiando gli altri.

Cosa accadrà nel momento in cui essa prenderà atto che quella stessa struttura, che ne ha permesso l'ascesa sociale, adesso ne promuove la lenta, inesorabile discesa verso gli inferi della miseria, almeno relativa. Cosa accadrà nel momento in cui prenderà atto che le promesse del potere di riavviare la crescita, se pure si realizzeranno, non permetteranno più di procedere sul registro di uno sviluppo illimitato della ricchezza? Cosa accadrà, infine, quando si renderà conto che, per non trasformare il Pianeta in un immane focolaio di guerriglia, che non sarà più una lotta di classe bensì una selvaggia jacquérie, essa dovrà arrendersi ad una certa austerità e dividere la “torta” della ricchezza con i poveri del mondo, rinunciando alla parte ingente che essa ritiene le spetti di diritto?

Nessuno è oggi in grado di rispondere a questi interrogativi. Storicamente, quando si sente minacciata da un processo di immiserimento, la classe media si sposta verso la destra. Questo trend è già in atto in alcuni Paesi occidentali, tra cui la nostra povera Italia. Ma dove arriverà questo spostamento? Il pericolo di un rigurgito del nazi-fascismo è remoto, essendo troppo diverse le circostanze storiche, sociali e culturali rispetto a quelle del primo dopoguerra del secolo scorso. Il pericolo reale è quello di un regime blindato di destra nella cornice di una democrazia formale.

Scongiurare tale pericolo significa rilanciare a gran voce un progetto socialista per il terzo millennio che non sia equivoco. Tale progetto non può, certo, essere quello che si profila con la nazionalizzazione delle banche. Esso, infatti, nell'attuale situazione significherebbe semplicemente sostituire gli sciagurati manager e investitori dell'ultimo quindicennio con una classe politica che, complessivamente, non dà maggiore affidamento.

Non occorre dimenticare che il progetto originario di Marx non comportava lo Statalismo, bensì la dissoluzione dello Stato e la presa in gestione da parte dell'umanità dei suoi destini. Questo controllo sembra, oggi, del tutto utopistico. Esso postula, di fatto, un obiettivo a lungo termine, che non potrà realizzarsi se non in virtù di una straordinaria crescita culturale.

Il Socialismo, oggi, non può proporsi come obiettivo la Rivoluzione. Deve accettare le condizioni storiche che impongono una lunga, forse lunghissima marcia verso una fuoriuscita dal capitalismo. Il riformismo rivoluzionario è un ossimoro destinato - presumo - a farsi strada.

In che modo si può formulare un progetto socialista, senza cadere nella trappola dello Statalismo, sarà il tema di un ulteriore articolo.