Madre e moglie perfetta...

Post-scriptum

Scritto a caldo, subito dopo l'arresto di Anna Maria Franzoni, l'articolo non poteva prescindere, dato l'ambito ristrettissimo degli indagati, dalle conclusioni cui erano pervenuti gli inquirenti. Si sa poi come sono andate le cose. La questione è ancora in alto mare, e nessuno sa se si giungerà mai all'accertamento della verità. Pubblico l'articolo non certo per spezzare una lancia a favore degli inquirenti, bensì perchè la problematica di fondo che esso affronta - la precaria condizione psicologica delle madri, e soprattutto di quelle perfezioniste - indipendentemente dalla colpevolezza o dall'innocenza di Anna Maria Franzoni, è attuale e drammaticissimo. Altri episodi di cronaca avvenuti da marzo ad oggi lo confermano. Gli psichiatri insistono, a parlare di malattia mentale tout-court, gli psicologi a dire che la soluzione è educare le madri a fare il loro mestiere. Si tratta invece di prendere atto di una problematica di ordine generale che imporrà di ristrutturare l'organizzazione sociale e di modificare la mentalità per renderle compatibili con l'impegno dell'allevamento e con i bisogni degli adulti e dei bambini. E' questa problematica, riconducibile alla nuclearizzazione della famiglia e al perfezionismo, il cuore dell'articolo.

settembre 2002

Sono occorsi quarantaquattro giorni per giungere all'arresto di Anna Maria Franzoni, colpevole - secondo gli inquirenti - di avere ucciso il figlio Samuele fracassandogli il cranio con un oggetto ancora non identificato. Il lungo intervallo non può essere giustificato da una particolare complessità del caso. L'intuizione dell'opinione pubblica sembrerebbe, purtroppo, fondata. Fin dal primo giorno, riusciva difficile credere che, nei pochi minuti di assenza della madre, un estraneo fosse penetrato in casa e avesse infierito selvaggiamente su su di un bimbo inerme.

La cautela degli inquirenti è stata motivata dalla necessità di acquisire prove certe. Di fatto nessuna prova - la confessione dell'assassino, l'arma del delitto, il movente - è stata acquisita. Come motivare dunque quella cautela? E' probabile che gli inquirenti, pur avendo immediatamente sospettato la madre, siano rimasti perplessi di fronte al suo sincero e straziante dolore e alle ripetute rivendicazioni d'innocenza. Ci sono limiti nella comprensione dei fatti umani difficili da sormontare. Un crimine efferato come l'uccisione di un bambino fa pensare ad una motivazione abietta (come la vendetta) o ad un raptus di follia. Se l'assassino è la madre, rimane quasi solo la seconda. Anna Maria, però, apparentemente, non ha nulla della persona folle, e il suo comportamento successivo all'evento è inconsueto.

Il figlicidio, considerato da sempre uno dei peggiori delitti, è un crimine raro ma non eccezionale. Di solito, esso corrisponde o alla volontà di liberarsi di un figlio indesiderato o ad un raptus di follia. In questo secondo caso, la madre rimane in uno stato catatonico e confusionale o manifesta un distacco emotivo totale, come se ciò che è avvenuto non la riguardasse. Dopo il trauma della scoperta del figlio moribondo, Anna Maria ha recuperato una notevole lucidità e ha manifestato il dolore che ci si aspetta da una madre che ha perso il bambino.

Essa inoltre gode della fama di essere una madre e una moglie perfetta, dedita a tempo pieno alla casa, al marito e ai figli. Non è neppure una perfezionista isterica, che vive nell'isolamento dettato dall'ossessione dell'ordine e della pulizia, è perennemente nervosa col marito e con i figli, colpevoli di sporcare e di disordinare, e, quando deve ricevere qualcuno, sta male una settimana prima e quella dopo. Anna Maria è serena e disponibile con tutti, ospita spesso dei parenti, organizza spesso festicciole invitando gli amici dei figli, si trattiene con le loro madri. Come può - si chiedono gli inquirenti e la gente - affiorare su questo sfondo un raptus di follia?

Gli esperti - criminologi e psichiatri - vengono immediatamente consultati perché ad essi si attribuiscono chiavi interpretative che possono consentire di risolvere il mistero. Le interpretazioni che forniscono sono però inquietanti. Gli psicoanalisti e gli psicologi si riconducono al tema dell'ambivalenza affettiva che caratterizza il cuore umano e investe in particolare le relazioni significative e durature, quelle familiari. Trattandosi di un'ovvietà che pensa anche l'uomo della strada, essi devono complicare il discorso per rivendicare il loro ruolo di specialisti. Ma lo fanno nel modo peggiore sacralizzando l'amore e demonizzando l'odio, che diventa una patologia dell'affettività umana sempre pronta ad esplodere e a produrre comportamenti mostruosi. La presenza del male nella psiche umana, soprattutto a livello inconscio è il leit-motiv che viene sempre fuori, nonostante gran parte degli analisti rifiutino la teoria dell'istinto di morte di Freud.

Gli psichiatri affermano tout-court che Anna Maria è malata di mente. Si tratta di una malattia insidiosa - la schizofrenia o la personalità multipla - che può ingannare tutti e fare risultare la persona assolutamente normale agli occhi dei congiunti e degli amici, finché non esita in un acting-out che la manifesta.

C'è da chiedersi se gli psichiatri si rendano conto di ciò che dicono e degli effetti sociali delle loro affermazioni. Indurre la gente a pensare che esista una malattia mentale grave che, per anni, può evolvere senza che nessuno se ne accorga e poi esplodere repentinamente in atti criminali, significa non solo riabilitare il fantasma pregiudiziale che associa alla follia un'estrema pericolosità sociale (mentre è noto che i malati di mentecommettono meno delitti in rapporto ad un qualunque campione di popolazione normale) ma indurre, nella coscienza sociale, una diffidenza universale. Se una cosa del genere fosse vera, di chi mai ci si potrebbe fidare in famiglia e nella vita quotidiana?

Il problema in cui inciampa la psichiatria è di continuare a distinguere normalità e patologia in modo così netto e univoco da non capire che numerose esperienze normali, o meglio troppo normali, sono di per sé indiziarie di un grave disagio soggettivo. Questo vale per i bambini perfetti, i figli d'oro, che vivono nell'angoscia perpetua di deludere le aspettative dei grandi e di perdere la loro stima, per gli adolescenti perfetti che non vanno incontro ad alcuna crisi e sembrano saltare direttamente dall'infanzia ad un nodo di essere adulto e maturo, per le madri e le mogli perfette la cui dedizione sacrificale ai doveri affettivi e domestici evoca un'univoca conferma sociale.

Gli esseri umani sono imperfetti e limitati. Nessuna società, però, e meno che mai la nostra, rinuncia a coltivare il mito della perfezione. L'immaginario collettivo ha bisogno di delegare a qualcuno il ruolo di rappresentare in modo ottimale i valori di riferimento su cui si fonda la struttura sociale. Si dà nell'immaginario collettivo il genitore, il figlio, la moglie, il marito perfetti (nonché - ma qui non interessa - il lavoratore, il professionista, l'imprenditore, il magistrato, il politico perfetti). A livello evolutivo, tale mito spesso fa presa su persone dotate di una viva sensibilità o particolarmente bisognose di conferme, che, recependolo, interiorizzandolo e realizzandolo, giungono ad apparire ipernormali. Si tratta però di un ruolo che comporta prezzi interiori pesanti e che, a livello profondo, produce effetti di scissione della personalità.

Il perfezionismo è una malattia che non viene riconosciuta da chi ne è affetto e raramente, solo in casi estremi, da coloro che lo circondano perché esso dà luogo spesso a prestazioni socialmente convalidate come positive, ed appare espressivo o di una grande forza di carattere o di un orientamento pregevolmente virtuoso. In realtà si tratta di un regime soggettivo di schiavitù che, a lungo andare, diventa intollerabile.

Il perfezionista, intanto, è schiavo degli occhi della gente, del giudizio sociale. Esso vive unicamente agendo comportamenti che, sul versante interno, gli consentono di avere la coscienza tranquilla (di avere adempiuto il proprio dovere), e, sul versante, sociale di sentirsi confermato. Quest'ultimo obiettivo si realizza quasi sempre, il primo mai. Per quanto si sforzi, il perfezionista non giunge mai a sentirsi interiormente appagato. Qualunque cosa faccia, il dubbio che avrebbe potuto farla meglio è costante. Questo vissuto d'inadempienza è costante e angoscioso, e promuove spesso la tendenza a darsi da fare sempre di più. Dato che la perfezione è un miraggio, lo sforzo è a vicolo cieco, anzi produce degli effetti paradossali. Il primo di questi è che il perfezionista, non riuscendo mai a sentirsi soddisfatto delle prestazioni che fornisce, è confortato dalle conferme sociali che riceve, ma, nel suo intimo, non ci crede. Egli pensa che gli altri sbaglino nel valutare come ottimale ciò che egli ritiene mediocre, o che l'errore di giudizio dipende dalla sua formidabile capacità d'ingannare la gente. Il secondo effetto paradossale è che la tensione perfezionistica attiva costantemente a livello interiore (spesso inconscio) un compenso, opposizionistico o negativistico, che si traduce in fantasie rivendicative di una libertà antitetica ai doveri quotidianamente assolti. Tali fantasie sono di vario genere, ma riconoscono come comune denominatore comune un desiderio di libertà anarchico e trasgressivo. Anche se tali fantasie non affiorano alla coscienza, la loro presenza nel mondo interiore produce uno stato cosciente di allarme costante. Il perfezionista sente spesso di essere al limite delle sue forze, di poter crollare e perdere il controllo su di sé. L'allarme, però, anziché sollecitarlo a darsi tregua e a diminuire le sue prestazioni, lo spinge a scongiurare il pericolo dandosi da fare sempre di più per essere sicuro di una piena padronanza su di sé. L'effetto dell'iperimpegno è di portare il soggetto ad un punto critico al di là del quale il crollo è inevitabile. Spesso il crollo si configura sotto forma di una depressione che, svuotandolo di energie, obbliga il perfezionista a darsi una tregua. Altrettanto spesso esso si traduce in un attacco di panico che inibisvce nella realizzazione e punisce la fantasia di mandare tutti a quel paese. Non di rado, il crollo è un acting-out, per esempio la crisi isterica della casalinga perfezionista che, perpetuamente assillata dall'ordine e dalla pulizia della casa, sfascia e devasta tutto ciò che le capita a tiro, vale a dire gli oggetti che per anni ha curato con amore.

Di certo, si dà un bel salto tra un soprammobile e un bambino. Per comprendere le condizioni di base per cui questo salto può avvenire occorre entrare nel vivo della vicenda in questione.

Tra i miti che la nostra società propone, e di cui qualcuno deve farsi carico, uno dei più insidiosi è quello della madre perfetta, vale a dire della donna che, dedicando totalmente la sua vita all'allevamento dei figli, realizza il modello che stoltamente propongono come ottimale anche gli psicologi e gli psicoanalisti. Per capire quanto questo modello sia potenzialmente patogeno basta una sola considerazione:

"Creando un essere come l'infante, totalmente bisognoso e lungamente dipendente, la natura, il cui modello di riferimento è stato il gruppo dei primati, non prevedeva presumibilmente di sottoporre alla prova dell’allevamento solo un membro - la madre - assistita più o meno validamente dal partner. I bambini di fatto, nella storia dell'umanità, sono stati sempre allevati fino ad epoca recente in una situazione di gruppo (famiglia allargata, comunità di paese, di quartiere, ecc.). I cambiamenti sociali, associati ad un'ideologia del progresso che li vanta come univocamente positivi, hanno creato il monstrum della famiglia nucleare, la cui economia psicologica è del tutto disfunzionale ai fini dell'allevamento."

I pericoli discendenti dalla famiglia nucleare possono essere ricondotti a due aspetti:

"La privacy di cui gode la famiglia nucleare è una medaglia a due facce. Per un verso essa ha reso più intimi i rapporti tra i membri, meno rilevanti le gerarchie, più ricche le interazioni interpersonali soprattutto sotto il profilo comunicativo. La privacy ha anche affrancato il nucleo familiare dal rigido controllo esercitato dalle generazioni precedenti e quindi dalle tradizioni, consentendo ad ogni famiglia di diversificarsi e di produrre un suo modo di essere culturale, un suo stile di vita e un suo modello pedagogico. Ma occorre considerare che la privacy comporta di fatto un affrancamento totale da qualunque tipo di controllo sociale e che tale affrancamento viene vissuto solitamente dai membri come un diritto. Questo diritto non sussiste, poichè l’ordinamento giuridico non prevede lo spazio privato domestico come un’area franca. Si danno diritti e doveri giuridici che riguardano i coniugi e i figli. Ma in difetto di un controllo comunitario o statale, tali diritti e doveri possono essere facilmente ignorati. Ciò apre la via ad ogni possibile arbitrio, conscio e inconscio, nel rapporto tra i coniugi e tra i genitori e i figli. I casi, peraltro non rari, di violenze fisiche tra le pareti domestiche rappresentano la punta di un iceberg di violenze di ogni genere, consce e inconsce, che avvengono in virtù della privacy e le cui conseguenze, per quanto concerne i figli, si realizzano talora a distanza di anni. Ma la stessa privacy comporta anche il fatto che i figli, dall’adolescenza in poi, possono agire essi stessi violenza sui genitori. Ciò avviene di solito quando i figli sono affetti da una qualche forma di disagio psichico. E’ noto però che anche in tali casi l’arbitrio comportamentale è fortemente vincolato al percepire lo spazio privato domestico come un’area franca da ogni controllo sociale.

Un secondo aspetto che rende la famiglia nucleare un’istituzione a rischio è legato all’allevamento dei bambini. Molteplici influenze, da quelle di ordine religioso a quelle di ordine psicologico, hanno prodotto il mito per cui un allevamento ottimale comporta un rapporto pressoché esclusivo tra genitori e figli, e in particolare tra madre e bambino. Questo mito comporta, laddove è disponibile un aiuto parentale, una tendenza a farne a meno per rendere l’educazione più coerente, e laddove quell’aiuto non si dà, a considerare come naturale la dedizione completa del genitore ai compiti dell’allevamento. Le conseguenze di questo mito sono devastanti. Le famiglie che si assumono da sole il peso dell’allevamento anche di un solo bambino arrivano rapidamente ad una situazione di stress. Le madri poi che, talora escludendo il partner, si cimentano in una relazione duale sviluppano quasi sempre un disagio psichico, che va da una depressione frustra a nevrosi ossessive incentrate su fantasie di eliminazione del figlio."

Il secondo pericolo è reso più insidioso da influenze culturali fuorvianti:

"Alla trappola della struttura familiare, se ne associano altre di carattere ideologico. La più pericolosa è sorprendentemente il prodotto delle scienze psicologiche, in primis della psicoanalisi. Per promuovere una sensibilizzazione pedagogica, si è infatti adottata, da parte di tali scienze, l’arma peggiore: la costruzione del fantasma del bambino come esserino infinitamente bisognoso di cure e attenzioni in quanto estremamente vulnerabile sotto il profilo psicologico. E’ lecito parlare di un fantasma poiché se è inconfutabile che la vita emozionale del bambino è molto più intensa, drammatica e squilibrata di quanto appare in superficie, non è affatto vero che essa si svolge nel segno di una precarietà tale per cui basterebbe un trauma psicologico anche di modesta entità a segnare l’esperienza ulteriore: in breve, a porre le premesse di un disagio psichico. Lo squilibrio emozionale infantile non è tanto l’espressione di una tremenda vulnerabilità quanto di un processo evolutivo che la postula e procede, a salti, anche in virtù di essa. Quel fantasma, infatti, trascura del tutto che l’evoluzione della personalità infantile avviene parallelamente allo sviluppo delle strutture cerebrali, e che questo sviluppo, che comporta fasi critiche di dilatazione della vita emozionale che solo successivamente vengono integrate a livello cognitivo e comportamentale, riconosce lo squilibrio come indispensabile requisito. L'incidenza educativa di questo fantasma è restituita genericamente dai livelli di ansia genitoriale incentrati, più o meno ossessivamente, sulla paura di sbagliare e di danneggiare il figlio. In particolare, poi, occorre rilevare che esso ha concorso a riproporre l’assoluta necessità, ai fini di uno sviluppo sano e armonioso dell’infante, di un rapporto diadico madre-bambino il più intimo e partecipe possibile, inducendo molte madri, negli ultimi anni, a cimentarsi in un'impresa che, come si è già detto, quando avviene sul registro dell’isolamento nucleare, è inesorabilmente nevrotizzante per la madre e molto spesso perniciosa per il bambino, che ne ricava un condizionamento a dipendere."

Il rischio che corrono le giovani madri può essere illustrato sinteticamente:

"La patologia in questione concerne le depressioni che sopravvengono nelle giovani madri nel corso dei primi anni dell’allevamento. Si tratta ovviamente di situazioni eterogenee, di diversa gravità, che vanno dalla depressione frusta (quello che comunemente si definisce esaurimento) alla depressione conclamata, spesso con segni di vitalizzazione (insonnia, inappetenza) e un’ansia spiccata. Il fattore comune a tutte queste condizioni è il senso di colpa. Di qualunque grado sia, la depressione riduce la disponibilità della madre nei confronti del bambino, e la riduce sia praticamente (per quanto concerne la capacità di erogare cure) che affettivamente. Non c’è difficoltà a capire che il venir meno al dovere assistenziale possa far sentire in colpa essendo il referente delle cure un essere oggettivamente bisognoso. A ciò occorre aggiungere il sentirsi esposta ad un rimprovero sociale implicito o esplicito, perché la depressione interviene spesso nel corso dell’allevamento di un solo figlio, e non mancano mai madri, zie e nonne che rievocano la loro capacità di star dietro a una nidiata di figli.

Da un punto di vista fenomenologico, si tratta in genere di una situazione di particolare gravità anche laddove la sintomatologia appare sfumata. Le madri fanno il possibile per minimizzare ciò che di fatto provano: il rifiuto viscerale del figlio. Non appena comprendono che il contesto comunicativo è tale da porle al riparo dall’essere giudicate madri snaturate (accusa che è già presente nel loro intimo), di solito ammettono che di ciò si tratta, che al di sotto della depressione c’è la fantasia di non volerne più sapere di quell’esserino che toglie loro il respiro con i suoi bisogni. Se appena questa pista dei vissuti viene battuta senza remore, ci si ritrova di fronte, molto frequentemente, a fantasie sconcertanti. Si tratta di fantasie parassitarie, di pensieri o coazioni che attraversano le menti delle madri, e contro le quali, temendone la realizzazione, esse lottano strenuamente. Fantasie definite il più spesso pazzesche e vissute come sintomi di una disfunzione molto grave, di solito una malattia mentale. Si tratta infatti di fantasie di eliminazione del figlio, che assumono spesso connotazioni agghiaccianti (strangolamento, squartamento, defenestrazione, ecc.), aggravate dal fatto di concernere un essere vulnerabile e indifeso.

Cosa induce a pensare che si tratti di una patologia che affonda le sue radici nella storia sociale oltre che nella storia personale? Intanto, la frequenza. Laddove si realizzano condizioni tali per cui la madre si ritrova sola col figlio gran parte del giorno, e costretta a condividere con lui la totalità della propria esperienza, è estremamente probabile che, nel giro di alcuni mesi, al massimo entro l’anno, affiori una depressione. E, inoltre, il paradosso per cui i soggetti più a rischio non sono solo donne già gravate di problemi nevrotici, quanto piuttosto madri amorevoli, efficienti (o iperefficienti), la cui dedizione all’allevamento è consapevole, partecipe e, fino all’affiorare dei disturbi, totale. Il problema consiste nello spiegare come sia possibile che, a questo livello, la normalità si trasformi più o meno repentinamente in patologia.

Per spiegare tale patologia in termini di storia sociale, occorre tener conto di tre fattori concorrenti: i cambiamenti intervenuti nell’organizzazione della famiglia, il modo del tutto nuovo in cui il bambino viene vissuto dagli educatori, i modelli ottimali di allevamento proposti dalle scienze psicologiche e avallati dalla Chiesa. Avendoli già analizzati in precedenza, non torneremo su di essi. Si tratta qui piuttosto di vedere in concreto, sulla base di un esempio immaginario, come essi agiscono.

Dunque una giovane madre si trova ad affrontare l’allevamento di un figlio. L’isolamento sociale può essere dovuto a due fattori: alla carenza di sostegni parentali o al rifiuto da parte della madre di utilizzarli, ritenendo naturale di voler fare da sola. La dedizione materna é segnata dalla percezione del bambino come essere vulnerabile, che richiede un’attenzione continua per non disintegrarsi e disperarsi. Questa percezione ansiogena obbliga la madre a decifrare tutte le richieste del bambino e ad essere pronta a rispondere. Essa inoltre, via via che si instaura un rapporto significativo, impedisce alla madre di separarsi dal suo bambino, con il quale ha un rapporto comunicativo privilegiato. Anche se la disponibilità del partner é significativa, non allenta mai la tensione del rapporto poiché la madre comunque si sente responsabile diretta del benessere del figlio. Che cosa accade in questa situazione, che sembra realizzare condizioni di sperimentazione dei limiti delle capacità umane di tollerare la costrizione interpersonale, di rinunciare a un minimo di libertà, e di praticare la virtù del sacrificio totale di sé a favore dell’altro? Accade che, più o meno rapidamente, quasi sempre a livello inconsapevole, il rapporto diadico si configura come una gabbia soffocante e il bambino come un persecutore. L’incapacità della madre di dare un senso umano, e non patologico, ai segnali molteplici che attestano il suo disagio, determina poi una strategia perdente. Per soffocare tali segnali, la madre si impegna sempre di più nel rapporto col bambino. E’ ovvio che questa strategia non può fare altro che incrementare il disagio stesso e portarlo alle estreme conseguenze: la nevrotizzazione e l’affiorare dei sintomi.

Il problema é che se i sintomi che affiorano rientrano nell’ambito della stanchezza e del nervosismo da stress, essi possono essere confessati. Ma allorché - ed é molto più frequente di quanto si pensi - assumono una configurazione drammatica, sotto forma di fantasie e di coazioni a far male al bambino, risultano inconfessabili, poiché la madre si sente snaturata, se non addirittura pazza, e, in riferimento all’ideologia dominante della diade madre-bambino, si sente unica nella sua mostruosità. E’ incredibile a quali livelli di sofferenza soggettiva possa giungere una situazione del genere. E come essa, in casi oltremodo rari, determini un passaggio all’atto. Ma sono proprio questi casi, che finiscono in cronaca nera, ad incidere profondamente a livello psicologico, poiché, colti come espressione di una follia criminale contro natura e non come punte di un iceberg il cui corpo é rappresentato dall’universo delle giovani madri, essi determinano un’estrema resistenza nel confessare un bisogno di aiuto. Quasi tutte le donne che vivono questo dramma sono infatti convinte che rivolgersi ad un esperto sancirà una diagnosi fatale e un internamento. La sintomatologia delle depressioni delle giovani madri ha delle caratteristiche singolari che vanno rilevate. Solo raramente essa infatti risolve radicalmente il problema dando luogo ad una condizione che impedisce di fatto alla madre di accudire i figli e la mette praticamente in sciopero. Per quanto infatti attentato dall’opposizionismo inconscio nei confronti di una eccessiva costrizione, il dovere materno, con il suo carico di responsabilità e di sensi di colpa, raramente si allenta. La colpevolizzazione per le inadempienze dovute ai momenti depressivi dà luogo infatti ad un tentativo di compenso che si traduce periodicamente in un’iperprotezione riparativa. Il rapporto si configura perciò caratteristicamente come ambivalente, contrassegnato da atteggiamenti di cura ossessivi e da atteggiamenti di distacco e di rifiuto, con conseguenze facilmente immaginabili a livello di evoluzione della personalità filiale incapace di dare senso a questa ambivalenza. Già frequenti infatti in precedenza, per via dell’iperprotezione legata al modello pedagogico di riferimento diadico, i disturbi infantili, in particolare per quanto riguarda il sonno, l’alimentazione e l’attività motoria, tendono ad incrementarsi con la conseguenza di colpevolizzare per un verso e di estenuare per un altro la madre. Quando non viene colto nella sua drammaticità, questo circolo vizioso può, in un certo numero di casi, fare affiorare delle fantasie suicidarie che, all’estremo, coinvolgono anche il figlio che la madre non intende abbandonare."

Per quanto incisive nel sottolineare una problematica sociale misconosciuta, che si traduce in atroci drammi soggettivi, anche queste riflessioni non sono esaurienti. Se è vero, infatti, che date le condizioni in cui si realizza l'allevamento dei bambini e una cultura che sollecita sempre più spesso le giovani madri a cimentarsi in un'impresa solitaria, stati di stress, di esasperazione e di nevrosi si producono con crescente frequenza, rimane da spiegare il passaggio all'atto, vale a dire un comportamento distruttivo. La risposta più semplice, fornita dalla psichiatria tradizionale, è che questo implichi una patologia sottostante grave: la schizofrenia o la personalità multipla. Si tratta al solito del ricorso ad un quid che risolve il problema senza di fatto spiegare alcunché. Per giungere ad una risposta più esauriente, si può adottare un codice interpretativo psicodinamico. La schiavitù perfezionistica è dovuta ad un super-io esigente e severo, che impone una dedizione al dovere sempre più marcata e non è mai soddisfatto: una funzione psichica che veicola una logica e un sistema di valori interiorizzato, spesso facilmente identificabile nel contesto in cui è evoluta la personalità, la cui matrice culturale con elevata frequenza è religiosa. A livello di esperienza materna, le implacabili richieste superegoiche vengono ad essere identificate con i bisogni o le richieste dei bambini, che sono di fatto elevate senza essere implacabili. Nel momento in cui la somma delle richieste interne e di quelle esterne porta la madre a sentire che i suoi equilibri psichici sono minacciati, nel senso che sta per crollare, si può definire un cortocircuito tra interno e esterno per cui il bambino diventa un minaccioso persecutore. Maltrattarlo, picchiarlo o, al limite, eliminarlo si configura soggettivamente come l'unica possibilità di preservare la propria integrità psichica. L'acting-out, paradossalmente, è una rivendicazione di libertà, vale a dire un "atto terapeutico" che, malauguratamente e drammaticamente, per i livelli di confusione della coscienza riguardo al problema reale da risolvere (il perfezionismo), fallisce del tutto il bersaglio.

Poste queste premesse, ci si può chiedere se esse hanno qualche pertinenza con l'esperienza di Anna Maria. La risposta che posso fornire si avvale solo delle notizie sulla biografia e sulla personalità che sono state diffuse dalla stampa: scarse ma estremamente significative.

Anna Maria è descritta dagli abitanti di Cogne, dai parenti e dagli amici come una madre e una moglie perfetta. Cura la casa, porta a spasso i bambini - uno per la mano, l'altro nel passeggino -, va a fare le compere con loro, organizza spesso in casa delle feste invitando altre mamme coi loro piccoli. E' sempre distesa, serena, sorridente. Colpiva - dicono gli abitanti di Cogne - che per tanta dedizione non pagasse prezzi, almeno apparentemente. All'alba del giorno del delitto, Anna Maria però ha una crisi di panico caratterizzata da tremori, formicolii al braccio senso di oppressione respiratoria e, ovviamente, paura di morire. La guardia medica interviene e, preso atto che non è in gioco un infarto, la tranquillizza. Ma un attacco di panico che sopravviene in una giovane madre si sa a cosa corrisponde: ad uno stato di esasperazione totale associato a fantasie di fuga e di scioglimento dei legami familiari. Anna Maria è dunque sul punto di crollare, sul crinale pericoloso che comporta la possibilità che la rabbia accumulata per l'iperimpegno imploda - sotto forma di depressione, ansia, ecc. - o esploda sotto forma di fuga o di attacco nei confronti di coloro che la schiavizzano. Il perfezionismo porta sempre, prima o poi, a questo punto critico. Stando alla biografia, Anna Maria ha retto sin troppo a lungo. Essa è la seconda di undici figli, che dovevano essere dodici perché tanti come gli apostoli ne voleva il padre, un patriarca religiosissimo che impone la sua forte personalità e la sua autorità a tutta la famiglia. Anna Maria è una figlia d'oro, che si sobbarca il ruolo di vicemadre, va bene a scuola, frequenta la parrocchia, è seria e posata, non manifesta mai da adolescente alcuna insofferenza o ribellione. Una ragazza insomma che sembra nata già adulta, e a poco più di vent'anni, praticamente senza avere vissuto, è già pronta per imbarcarsi nell'esperienza del matrimonio e della maternità. Sceglie naturalmente un partner serio come lei, che proviene egli stesso da una famiglia religiosissima. Si ritira con lui dalla città in montagna alla ricerca della pace.

Stando a ciò che è stato detto in precedenza, che una crisi dovesse intervenire nella vita di Anna Maria era inevitabile. Ciò che è accaduto, però, stando agli inquirenti, è quanto di peggio potesse accadere: un delittoa tal punto efferato che tutte le interpretazioni possibili - psicosociali e psicodinamiche - sembrano inadeguate. C'è un quid che sfugge e si pone come misterioso tra cause e effetti. Il mistero della follia? Tutte le interpretazioni di fatti di cronaca del genere vengono ad urtare contro quest'ostacolo. Si ricostruiscono i presupposti sociali, biografici e interiori che hanno portato un soggetto ad un punto critico. Ciò che avviene al di là di un punto critico sembra però comportare un nesso che manca. I presupposti in questione sono, infatti, comuni ad infinite altre esperienze. Perché dunque in un caso accade, eccezionalmente, qualcosa che negli altri per fortuna non accade?

La risposta non è semplice da dare perché richiede un cambiamento radicale di prospettiva sui fatti umani. La nostra cultura, razionale e analitica, nel confrontarsi con delitti familiari, è ferma agli eventi e alla personalità degli attori. I mass-media soprattutto sembrano irretiti dallo svolgimento dei fatti, che vengono ricostruiti minuziosamente come se questa metodologia permettesse di comprenderli. Gli esperti chiamati a commentarli - psichiatri, criminologi, opinionisti - sono costretti a stare al gioco di un'opinione pubblica che non vuole riflettere ma solo (morbosamente) sapere perché accadono certi eventi. Per questa via, però, non si arriva mai ad altra conclusione che non opponga ai colpevolisti - che stigmatizzano i colpevoli come mostri - gli innocentisti - che negano l'imputabilità in nome della malattia mentale.

Senza negare l'ovvio, per cui parecchi delitti familiari implicano inconfutabilmente uno stato di disagio psichico grave, una comprensione più profonda dei fatti deve adottare una logica sistemica. Alcuni indizi psicosociologici inducono a pensare che ciò sia lecito. E' noto che il caso di Erika ha indotto, in una parte giovanile, un consenso e quasi una giustificazione del suo comportamento. Attraverso lettere, interviste, assemblee numerosi figli hanno espresso un'identificazione totale con la rabbia distruttiva di Erika. Ciò significa che, nel corpo sociale, si dà una quota rilevante di figli che odiano a morte i genitori, anche se l'odio non viene agito in modo fatale. I figlicidi non evocano in genere le stesse reazioni. Nessuna madre confessa pubblicamente di odiare i figli. Molte madri però, che vivono in situazioni di isolamento e di stress, in conseguenza degli eventi di cronaca sviluppano il dubbio ossessivo o la paura di poter perdere il controllo sul comportamento. Questo avviene in nome del fatto che, come si è detto, le condizioni di allevamento incrementano la naturale ambivalenza genitoriale nei confronti dei figli e la portano sempre più spesso a livelli critici. L'ambivalenza non comporta però, come sostengono gli psicoanalisti, l'odio dei figli, Ciò che le madri, soprattutto quelle perfezioniste, odiano è lo svuotamento di senso della loro esistenza individuale in nome della logica del sacrificio totale di sé. Ma essendo ancora questa logica culturalmente avallata come espressione massima della virtù materna, esse non riescono a cogliere il contenuto reale dell'odio, che è il loro modo di vivere e di agire coercitivamente il ruolo materno.

La logica sistemica porta a pensare che laddove, in un corpo sociale, in conseguenza di cambiamenti strutturali spesso sottesi dalla persistenza di valori culturali tradizionali, determinati ruoli diventano problematici, vale a dire tali da produrre facilmente conflitti psicodinamici, si crea una tensione che investe tutte le persone che li agiscono. L'evento delittuoso, da questo punto di vista, rappresenta l'indizio congiunturale di quella tensione che localmente, vale a dire in un singolo individuo, dà luogo ad una rottura comportamentale. Le motivazioni per cui l'evento accade appartengono sì alla sfera della soggettività individuale, conscia e inconscia, ma non solo ad essa. Esse sono indiziarie di qualcosa che non va nel sistema socio-culturale, di una disumanità inconsapevole che promuove comportamenti disumani. Quest'aspetto, sul quale non si finirà mai di riflettere, è tanto più rilevante quanto più il soggetto interessato, com'è nel caso di Anna Maria, ha fatto il possibile per essere fedele a valori culturali e a moduli di comportamento ritenuti comunemente ottimali e che, invece, sono inesorabilmente patogeni. Il problema è che la rottura comportamentale avviene, costantemente, nei soggetti i cui livelli di coscienza comportano una rimozione totale dei conflitti.

Per capire la follia, al di là di stereotipi sociali avallati dalla psichiatria, occorre ricominciare a interrogarsi sui valori e sui ruoli mistificati che la nostra società proponeai suoi membri, funzionali alla riproduzione e alla corroborazione di un sistema per tanti aspetti incompatibile con gli autentici bisogni umani.

Occorre, infine, riabilitare una sociologia, una psicologia e una psichiatria critica.

 

Roma 15.03.2002