Homo Homini lupus?

1.

Orrore, la parola che Conrad pone sulle labbra di Kutz morente, è quella che ormai torna più di frequente sulle prime pagine dei giornali per commentare gli atti di terrorismo sempre più spietati che si susseguono con una cadenza che non dà tregua all'immaginario collettivo occidentale, già afflitto per conto suo dal tran-tran del vivere quotidiano, dalla precarietà lavorativa, dall'alienazione consumistica, dalla crisi della famiglia e degli affetti, ecc.

L'orrore del mondo nel quale viviamo porta gran parte delle persone ad adottare sempre più spesso, sul piano psicologico, la rimozione - con il rischio che il rimosso scompagini il sonno e provochi incubi notturni - e, sul piano della vita pratica, l'evasione, la ricerca di ogni possibile distrazione, la fuga dalla riflessione.

Gli intellettuali, per la loro stessa formazione, non possono fare ricorso a questi meccanismi. Essi sono costretti - per una vocazione che diventa nel corso della vita una sorta di necessità - a riflettere, a formarsi delle opinioni, a fornire delle interpretazioni. Mai come oggi il loro ruolo appare, sulla carta, importante per arginare il fiume limaccioso dei luoghi comuni che scorre attraverso mass-media governati da un potere che sistematicamente falsifica la realtà.

Il problema è che anche gli intellettuali sembrano, nel nostro tempo, piuttosto smarriti, al punto di risultare preda essi stessi di luoghi comuni. Per comprovare questo assunto, prendo spunto da due eventi culturali che introdurranno un discorso più ampio.

Il primo evento concerne un libro singolare. Si tratta della rilettura in prosa che Alessandro Baricco propone dell’Iliade (Omero, Iliade, Feltrinelli, Milano 2004). Non metto in discussione la validità culturale della proposta, anche se i criteri adottati per spogliare l’opera dei suoi contenuti epici e mitologici, attraverso i quali traspare un universo mentale e storico fondamentalmente diverso dal nostro, sono chiaramente orientati a soddisfare la sensibilità del lettore contemporaneo. L’indizio preoccupante si ricava dalla Postilla sulla guerra che conclude il libro, il cui titolo sconcertante è: Un’altra bellezza.

L’intento di Baricco non è certo di esaltare la guerra come matrice della storia, quanto piuttosto quello di ricavare da un’opera che egli definisce "un monumento alla guerra" qualche criterio che agevoli l’affermarsi nell’umanità dell’inclinazione alla pace. L’intento attesta che egli non condivide il luogo comune dell’homo homini lupus. Cionondimeno il modo in cui egli interpreta la guerra, e soprattutto il suo impatto sull’immaginario collettivo, è piuttosto equivoco.

Secondo l’autore, l’Iliade "canta la bellezza della guerra, e lo fa con una forza e una passione memorabili…

La fascinazione per le armi è costante, e l’ammirazione per la bellezza estetica dei movimenti degli eserciti è continua…

Si direbbe che tutto, dagli uomini alla terra, trovi nell’esperienza della guerra il momento di sua più alta realizzazione, estetica e morale, quasi il culmine glorioso di una parabola che solo nell’atrocità dello contro mortale trova il proprio compimento. In questo omaggio alla bellezza della guerra, l’Iliade ci costringe a ricordare qualcosa di fastidioso ma inesorabilmente vero: per millenni la guerra è stata, per gli uomini, la circostanza in cui l’intensità — la bellezza — della vita si sprigiona in tutta la sua potenza e verità. Era quasi l’unica possibilità di cambiare il proprio destino per trovare la verità di se stessi, per assurgere ad un’alta consapevolezza etica. Di contro alle anemiche emozioni della vita, e alla mediocre statura morale della quotidianità, la guerra rimetteva in movimento il mondo e gettava gli individui al di là dei consueti confini, in un luogo dell’anima che doveva sembrar loro, finalmente, l’approdo do ogni ricerca e desiderio…

La bellezza della guerra — di ogni suo singolo particolare — dice la sua centralità nell’esperienza umana: tramanda l’idea che non c’è altro, nell’esperienza umana, per esistere veramente.

Quel che forse suggerisce l’Iliade è che nessun pacifismo, oggi, deve dimenticare, o negare quella bellezza: come se non fosse mai esistita. Dire e insegnare che la guerra è un inferno e basta è una dannosa menzogna. Per quanto suoni atroce, è necessario ricordarsi che la guerra è un inferno: ma bello. Da sempre gli uomini ci si buttano come falene attratte dalla luce mortale del fuoco. Non c’è paura, o orrore di sé, che sia riuscito a tenerli lontani dalle fiamme: perché in essa sempre hanno trovato l’unico riscatto possibile dalla penombra della vita." (pp. 161 — 162)

Si tratta di un punto di vista singolare. Il richiamo alla geometrica potenza di fuoco esaltata da qualcuno all'epoca della strage di via Fani è di sicuro involontaria. La realtà è che la guerra assume un valore estetico sulla carta, quando essa è narrata da autori come Omero, Ludovico Ariosto o Torquato Tasso. Si tratta però di una finzione che impedisce di vedere corpi sanguinanti, arti mozzati, viscere sventrate e cose del genere. Il fascino della guerra può persistere anche a livello filmico, allorché, come accade in alcune opere di Kurosawa, essa è rappresentata in una dimensione epica e scenografica. Il fascino viene, invece, immediatamente sostituita dall'orrore e dal raccapriccio allorché, come accade per esempio in altri film (da Nulla di Nuovo sul fronte occidentale a Salvate il soldato Ryan), la guerra è ricostruita per quello che essa è: una carneficina.

Baricco sostiene che il pacifismo mente quando identifica la guerra solo con un inferno. Il fascino irresistibile che essa esercita sull’anima umana sarebbe dovuta al fatto che essa, sia pure in maniera alienata, soddisfa il bisogno di dare senso e pienezza alla vita. Per questa via, però, l’ideologia dell’homo homini lupus, pure estranea alla cultura dell’autore, viene a riproporsi. Perché mai gli uomini dovrebbero trovare la loro verità e il riscatto dalla mediocrità della vita quotidiana nell’uccidere l’altro a rischio di morire se la natura non li avesse dotati di un’aggressività intraspecifica?

E' evidente che Baricco non intende esaltare la guerra, bensì solo suggestivamente propagandare il suo lavoro. Ma c'è da chiedersi se in un periodo storico tragico, che rischia di imboccare sia pure in maniera strisciante il tunnel di una catastrofica e non convenzionale quarta guerra mondiale, un intellettuale non dovrebbe sentire il dovere di essere un po' più cauto e meno originale.

Tutti i luoghi comuni, peraltro, hanno un fondamento e possono essere compresi storicamente. Con i Re e i Sacerdoti, la classe dei Guerrieri ha contribuito, con l'avvio della storia, a strutturare la società umana sulla base della gerarchia di potere. La suggestione esercitata da questa classe si può capire facilmente se ci si mette nei panni di un'umile popolazione di contadini sbilenchi, malnutriti, straccioni che si confrontano con esseri i quali, in virtù delle corazze, delle armi, delle bardature, dei vessilli, dei cavalli, dei cocchi, sembrano venire da un altro mondo o appartenere ad una razza superiore.

Il fascino delle classi separate dal popolo, che si tengono a distanza a appaiono in pubblico avvolte, in virtù del loro abbigliamento e dei simboli, da un alone magico vale ovviamente solo per le nazioni, come l'Egitto, che raggiungono rapidamente la dimensione dello Stato. Per gli altri popoli dell'antichità, nomadici o alla ricerca di un territorio di cui appropriarsi, il discorso è diverso. In essi, seppure si danno gerarchie, non si dà una separazione di classi. Il gruppo vive insieme. Tutti gli uomini partecipano alla guerra o alle razzie, che non hanno alcunché di epico. Anche questi popoli però sviluppano il culto della guerra, dotandosi, come hanno fatto gli Ebrei con Mosè e gli Arabi con Maometto, di un Dio invincibile, che guida le loro imprese e le porta al successo.

In questi casi, è la commistione dei poteri - quello militare e quello religioso - a suggestionare il popolo.

Tale commistione governa anche la lunga stagione dell'Impero romano sotto forma di convergenza del potere politico e di quello militare. I generali spesso diventano Imperatori, e le loro imprese militari vengono ritualmente celebrate con il trionfo.

Con la caduta dell'Impero romano, la guerra perde il suo fascino perché viene agita da orde di barbari i cui costumi sono ritenuti incivili rispetto alla civiltà romana. Insediatisi e cristianizzatisi i Barbari, subentra la stagione lunghissima dei mercenari: soldati di professione, valorosi ma senza ideali, subordinati alla volontà di chi li paga. La guerra diventa un conflitto tra signori che non ha è più alcunché di epico.

Solo con il formarsi delle nazioni e il costituirsi di eserciti di leva, la guerra torna a fare presa sull'immaginario popolare, perché i soldati rappresentano i membri del gruppo disposti a dare la loro vita per il bene della patria. Il patriottismo nazionalista si alimenta poi degli sviluppi della tecnologia. Esseri comuni, i militari, dotati di mezzi blindati, di armi sofisticate, di tattiche formidabili, rievocano la suggestione originaria.

Una triste suggestione perché, in ultima analisi, l'uomo in armi è semplicemente il simbolo di una aggressività intraspecifica che rende l'uomo inferiore a tutte le altre specie animali.

In un articolo precedente sul pacifismo ho scritto che la guerra è una "malattia" dalla quale l'umanità dovrà guarire per uscire dalla sua preistoria. Il problema è quando, come e in nome di cosa ciò potrà avvenire. Sul quando e sul come è arduo fare previsioni. Sulla base di cosa invece ci conduce su di un altro terreno discorsivo.

2.

Da una "malattia" si guarisce solo se le sue cause sono sufficientemente chiare. Per quanto riguarda la guerra, la causalità più spesso addotta - che fa riferimento alla natura aggressiva dell'uomo - porta in un vicolo cieco. Se essa fosse vera si potrebbe tutt'al più programmare un contenimento, ma non un superamento. Purtroppo, però, si tratta di un luogo comune che sembra a tal punto radicato nella mentalità collettiva da irretire anche intellettuali di notevole levatura.

In un'intervista pubblicata il 20 settembre su L'Unità, Umberto Galimberti lo ripete all'interno di un discorso peraltro singolare. L'intervista verte sullo stato di cose esistente nel mondo e, in particolare sul terrorismo. A riguardo, Galimberti si astiene dal reiterare l'altro luogo comune secondo il quale il terrorismo è null'altro che barbarie. Egli ritiene che esso sia la conseguenza del sopravvivere di una idea teleologica, finalistica della storia presso una civiltà - quella islamica - che appare fuori del tempo perché tale idea contrasta con il "disincanto" cui è andato incontro l'Occidente. Ritiene, in altri termini, anacronistica quella sopravvivenza, ma non meno grave questo disincanto, che si sarebbe accentuato dopo la fine del comunismo con il trionfo del capitalismo. Tale trionfo sarebbe risultato catastrofico perché il capitalismo - è questa la tesi singolare - sarebbe "una struttura secondo natura, ovvero che mette tra parentesi la cultura." Ora, secondo Galimberti, "la storia dell'umanità è un tentativo di correggere continuamente la naturalità dell'aggressione di un uomo sull'altro: homo homini lupus. Per natura devo sopprimere il prossimo. Perché l'uomo non è portato alla convivenza o alla pacificazione. A queste cose non ci si arriva per natura, ci si arriva per cultura." Posto questo, è chiaro che "il capitalismo non fa altro che ricalcare la natura originaria dell'uomo, la sua natura senz'anima." Alle leggi oggettive del capitalismo, che ratificano il "brigantaggio" e la rapina, non c'è da sorprendersi che corrispondano reazioni aggressive da parte del resto del mondo. Tali reazioni vengono definite terroristiche perché l'Occidente, abituato alla razionalità del logos, non riesce a capirne la logica comunicativa, riconducibile al fatto che "chi non ha avuto uno sviluppo di massa del linguaggio, ci non ha avuto un'articolazione dello psichico, come abbiamo avuto noi occidentali, non ha parole, ma ha gesti": "chi non ha le parole fa degli eccidi."

Stimando profondamente Galimberti come uno dei pochi maîtres-a-penser del nostro tempo, mi dispiace esprimere, in questa circostanza, un dissenso totale sulla sua analisi. Il problema non è tanto il criterio distintivo tra la nostra civiltà, incentrata del logos, e quella islamica, incentrata sul gesto, che sembra immediatamente insostenibile nel momento in cui si prende atto che nel seno della nostra civiltà è maturata l'ideologia della guerra preventiva. Il problema vero è che l'analisi di Galimberti è coerente come un sillogismo, la cui premessa è sbagliata. Se la natura umana è dotata di un'elevata aggressività intraspecifica, per cui l'uomo tende naturalmente ad aggredire l'altro uomo, e se il contenimento di tale aggressività avviene solo per effetto della cultura, il suo esprimersi in maniera incontrollabile nel nostro mondo significa che la natura umana si sta affrancando dai vincoli culturali.

La colpa di ciò, secondo Galimberti, è duplice: del capitalismo per un verso, nella misura in cui la sua razionalità di ordine economico allenta i vincoli culturali liberando gli spiriti animali, riconducendo cioè gli uomini alla loro natura originaria, e delle culture rimaste ad uno stadio di sviluppo tale per cui esse favoriscono l’espressione dei contenuti psichici attraverso il gesto.

Mi chiedo quale smarrimento sia subentrato in Galimberti, che pure conosce a menadito sia Marx che Weber, e di quest’ultimo deve avere assimilato la concezione sociologica delle religioni, per portarlo ad affermazioni del genere.

La lista degli intellettuali inclini ad un paradossale cupio dissolvi (dello spirito critico) potrebbe allungarsi. Occorrerebbe includervi tutti coloro che, come Adriano Sofri, considerano il pacifismo espressione di una patetica utopia, o coloro che, come Joaquim Fets, identificano nel Nazismo la prova del Male assoluto intrinseco alla natura umana.

3.

In Abracadabra ho contestato puntigliosamente, nel secondo capitolo, l’ideologia dell’homo homini lupus, che fa acqua da tutte le parti. Se si ammette la creazione, nell’ottica di quell’ideologia l’uomo sarebbe un essere venuto veramente male: una bestemmia nei confronti di Dio di cui sarebbe fatto a immagine e somiglianza. Se si ammette, viceversa, ch’egli sia il prodotto di un’evoluzione naturale, a maggior ragione, come sostiene Darwin, occorre attribuirgli un istinto sociale, l’alternativa essendo quella per cui, da progenitori rozzi ma sicuramente sociali, sarebbe nato un discendente asociale, che odia il simile.

Certo, riconoscere che l’uomo non può non essere dotato di un istinto sociale, non significa ch’egli è buono per natura. Se la socialità è un istinto, è evidente che essa non è — in sé e per sé - una virtù. L’istinto sociale significa solo che l’uomo, oltre ad avere un bisogno innato di appartenenza ad un gruppo, s’identifica con l’altro e, in virtù dell’identificazione, lo riconosce come simile. Simile nei suoi desideri, nelle sue brame, nella sua volontà di sopravvivere, nel suo essere disposto a lottare per tutelare se stesso e affermare i suoi diritti; simile, però, anche nella precarietà, nella vulnerabilità, nel terrore di soffrire e di morire.

Nulla impedisce di pensare che il riconoscimento dell’altro come simile abbia potenzialmente una dimensione universale. Con René Spitz, la psicologia ha scoperto un momento dello sviluppo infantile che depone a favore di quest’ipotesi. Intorno al terzo mese il bambino reagisce con il sorriso ad ogni volto umano che gli si presenti di fronte. E’ vero che lo stesso Spitz ha scoperto che, all’ottavo mese, l’universo mentale del bambino comporta, più o meno bruscamente, una netta distinzione tra familiare ed estraneo, e che tale distinzione comporta una reazione di angoscia di fronte all’estraneo. A riguardo, c’è da considerare che la mente non può organizzarsi che sulla base delle opposizioni e delle scissioni categoriali. La distinzione in questione non deve portare a minimizzare quella che la precede di alcuni mesi.

Il riconoscimento dell’altro come simile è, dunque, un dato originario della natura umana, un dato viscerale o, meglio, genetico. Nulla vieta di ritenere che esso possa, in virtù della cultura, riproporsi come un dato emozionale e cognitivo nello stesso tempo. Il problema è che la cultura tende in genere a sancire il confine tra familiare ed estraneo, anche se questo confine varia dal gruppo di appartenenza a quello etnico e a quello nazionale. Essa insomma ostacola l’universalizzazione del riconoscimento del simile, fino all’estremo per cui l’altro non è solo l’estraneo, ma anche il rivale e il nemico.

L’identità etnica, religiosa, nazionale giunge a frustrare l’istinto sociale e a modellarlo sul registro del Noi e del Voi, che implica facilmente una corrente di reciproca ostilità e diffidenza, accentuata dalle differenze di lingua, di costume, di tradizioni, ecc.

Attribuire alla natura ciò che è un effetto di cultura è la matrice del luogo comune dell’homo homini lupus e dell’ideologia che attribuisce all’uomo una elevata aggressività intraspecifica. Di fatto, tale aggressività si esprime, tra gruppi e nazioni, piuttosto in conseguenza di un difetto di riconoscimento – emozionale più che cognitivo - di appartenenza alla stessa specie.

Se, nel corso della storia, è avvenuta una catastrofe antropologica, essa va ricondotta alla diaspora della specie umana sul pianeta che, in difetto di comunicazione, ha creato differenziazioni fisiche e culturali tali che i gruppi umani sono giunti a vedersi e a viversi come estranei e reciprocamente incomprensibili.

Da questo punto di vista, nessun episodio storico più della conquista dell’America pone di fronte al paradosso per cui la cultura, nel suo evolversi, rischia d’inibire l’istinto sociale in ciò che esso ha di universale. I primitivi che accolsero Colombo e i suoi senza alcuna paura, facendo festa e manifestando uno straordinario spirito di ospitalità, erano semplicemente più a contatto con la loro natura umana dei Bianchi, che li trattarono da selvaggi e, per parecchio tempo, dubitarono della loro appartenenza alla specie umana. Tale paradosso si è peraltro riproposto lungo il corso di tutta la lunga stagione del colonialismo.

4.

Il riferimento all’homo homini lupus serve oggi agli intellettuali per offrire, ad un mondo perplesso, la più semplice chiave di lettura delle atrocità che lo caratterizzano. Essi sembrano non rendersi conto che tali atrocità, nella misura in cui s’iscrivono nel quadro di una guerra tra civiltà, obbligano, piuttosto che a prendersela con la natura umana, a interrogarsi sulla duplice potenzialità che sembra intrinseca ad ogni cultura e ad ogni civiltà: di civilizzazione per un verso e d’imbarbarimento per un altro.

L’ho scritto tante volte che mi riesce penoso ripeterlo. Posto che l’uomo viene al mondo dotato di un istinto sociale, che comporta una sensibilità la quale si esprime nell’identificazione con l’altro, con il simile, se tale qualità venisse alimentata dalla cultura, essa rappresenterebbe un limite naturale all’aggressività. Se un soggetto intende colpire e ferire un altro e sente il brivido del dolore che egli potrebbe arrecare, come se lo vivesse sulla sua pelle, egli non può né colpire né ferire.

Homo homini lupus? Si se si considera che tra i lupi quell’inibizione si dà sotto forma di istinto. Nel passaggio all’uomo la natura ha prodotto la peste di una libertà affrancata da rigidi vincoli istintuali e il vaccino della sensibilità sociale, matrice dell’identificazione con l’altro. Che la cultura inattivi questo vaccino, promuovendo l’estraneazione e la cosificazione dell’altro: questo è il problema.

Novembre 2004