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Il Chador e la cravatta

1.

L'analisi comparata delle culture, anche quando essa ha come oggetto piccoli gruppi, s'imbatte in difficoltà rilevanti perché ogni cultura è una totalità che, oltre ad avere degli aspetti istituzionali specifici (modo di produzione economico, distribuzione del potere, religione, ecc.), investe e permea l'intera vita dei soggetti che ad essa partecipano. Quando sono poi in gioco addirittura le civiltà, tale analisi diventa praticamente impossibile in termini globali.

Un modo per aggirare l'ostacolo è quello di adottare un metodo indiziario, vale a dire di comparare usi, costumi e tradizioni apparentemente minimali, confidando sul fatto che essi possano rivelare aspetti significativi della civiltà in questione. Il limite di questo metodo è che esso rischia di essere arbitrario, poiché si fonda su di un criterio selettivo opinabile. E' un rischio da correre, non dandosi alternative praticabili.

In questo articolo assumo come indizi significativi della civiltà islamica e di quella occidentale due "capi" di abbigliamento: il chador e la cravatta. La scelta è dovuta al fatto che entrambi sono obbligatori in rapporto ad un determinato status (l'esser donna nel primo caso, l'esser maschio e l'appartenere alla classe borghese nel secondo), entrambi riposano su tradizioni di antica data, entrambi, infine, sono funzionalmente inutili. Si tratta dunque di indizi squisitamente culturali, la cui analisi comparata può portare a conclusioni di un qualche interesse.

2.

L'obbligo della copertura (Hijab) per le donne mussulmane ha riscontro in due versetti del Corano:

" Di' ai credenti di abbassare il loro sguardo e di essere casti. Ciò è più puro per loro. Allah ben conosce quello che fanno.

Di' alle credenti di abbassare i loro sguardi e di essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciare scendere il loro velo fin sul petto e non mostrare ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai loro figli, ai figli dei loro mariti, ai loro fratelli, ai figli dei loro fratelli, ai figli delle loro sorelle, alle loro donne, alle schiave che possiedono, ai servi maschi che non hanno desiderio, ai ragazzi impuberi che non hanno interesse per le parti nascoste delle donne. E non battano i piedi sì da mostrare gli ornamenti che celano..." (Corano 24, 30-31)

" Oh Profeta, dì alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli, così da essere riconosciute e non essere molestate..." (Corano 33, 59)

L'obbligo del velo riguarda soprattutto il seno, dato che, per motivi climatici, l'uso di coprire il capo preesisteva a Maometto. Il "burka" (copertura totale di colore nero, guanti compresi) e il "niqab" (velo sul volto) rappresentano usi definitisi nel corso della storia dell'islamismo, che non hanno corrispondenza nel testo coranico, rappresentando dunque delle intepretazioni.

Il significato del chador non è controverso. Nella teologia islamica esso serve a tenere a freno l'eccitazione maschile e ad attestare, da parte della donna, la sua devozione ad Allah in termini di pudicizia e di riservatezza. Che non si tratti di un significato sessuofobico è attestato, com'è chiaro nei versetti, dalla notevole libertà assegnata alle donne in ambito domestico, laddove, ancora oggi, esse possono indossare vesti leggere, corte e addirittura scollate.

Nella misura in cui il chador, segno di virtù femminile, serve a moderare e tenere a freno la cupidigia maschile, si può ritenere senz'altro l'Islam una religione maschilista. La castità viene consigliata anche ai credenti maschi, ma è fuori di dubbio che il peso della moralità ricade sulle spalle delle donne. L'attribuzione alle donne di questa funzione moralizzatrice, coem ha rilevato Lévi-Strauss, è comune a gran parte delle culture umane. Nonostanti gli straordinari cambiamenti avvenuti, essa rimane, in qualche misura, latente anche nella nostra. Basta pensare ai processi per stupro, nel corso dei quali i difensori dello stupratore inquisiscono la donna per verificare se e in quale misura il suo comportamento può essere stato provocante.

Simbolo originariamente esteriore, che serviva a distinguere le donne musulmane da quelle non musulmane, il chador solo lentamente ha acquisito un significato più profondo, spirituale. La teologia islamica successiva a Maometto è giunta infatti a due conclusioni: primo, il velo rappresenta un modo per sottolineare il significato dei rapporti tra uomo e donna all'interno dell'Islam, che tende a privilegiare le qualità personali, spirituali e morali rispetto a quelle estetiche e sessuali; secondo, esso è insignificante senza un'adesione convinta del soggetto femminile a una pratica di vita religiosa interiore, attestata da un modo di pensare e di comportarsi pudico. Quest'ultima conclusione permette di capire perché, posta che si dia tale adesione, l'Islam moderato non ritiene più necessario il velo. Anzi addirittura esso è sconsgiliato in un contesto culturale diverso, quale quello occidentale, laddove può conseguire l'effetto paradossale di attirare l'attenzione piuttosto che depistarla.

E' vero che in alcuni paesi islamici l'uso del velo è ancora imposto, ed esprime dunque una limitazione della libertà femminile. Si danno due circostanze però che lasciano capire che tale uso, come ogni tradizione culturale, è stato interiorizzato nei suoi significati. In Afghanistan, un numero rilevante di donne continua a portare il burka dopo la caduta del regime talebano. In Occidente sta crescendo il numero delle donne musulmane che, casomai dopo averlo abbandonato, sono tornate ad adottare il velo, per attestare la loro appartenenza all'Islam e sottolineare la loro diversità rispetto alle donne occidentali.

Il problema in Francia ha assunto una configurazione tale da indurre il governo ad adottare una linea rigorosamente laica. Posto, infatti, che nelle scuole francesi, è vietato l'esposizione di qualunque simbolo religioso, il governo ha deciso di vietare l'uso del chador. Tranne che per una frangia di sciiti che, oggi più che mai, tende a sottolineare l'appartenenza all'Islam e alle sue tradizioni, il divieto non inciderà presumibilmente sulle studentesse musulmane. L'imam ripeterà loro che la pudicizia e la castità sono virtù interiori, e che esse non necessitano né sono automaticamente comprovate dal velo.

Come che vadano le cose, è chiaro che, nell'interazione tra culture, ci si imbatte di continuo in problemi di comprensione reciproca. Ma su che base si può fondare la comprensione? Io penso che il confronto dovrebbe avvenire a partire dai significati profondi degli usi e dei costuni culturali, piuttosto che sulla base delle apparenze. E' evidente che per un musulmano una donna occidentale piuttosto succinta e che veste abiti attillati è una donna immorale, perché tende ad esibire i suoi "ornamenti" per catturare gli sguardi degli uomini ed eccitarli, come pure che, per un occidentale, una donna musulmana che porta il velo è un soggetto represso e inibito, che accetta e subisce il potere maschilista.

Queste interpretazioni superficiali non sono del tutto prive di verità. Di fatto, la donna occidentale, vestendosi come meglio crede, rivendica il suo diritto di affrancarsi dalla tradizione che fa pesare sulle sue spalle il peso del controllo morale della sessualità maschile. Tale rivendicazione è sacrosanta nella misura in cui tende a promuovere una cultura fondata sulla pari responsabilità morale. E' pur vero però che essa non esclude affatto che la donna, consciamente e inconsciamente, miri a catturare gli sguardi maschili e ad ottenere delle conferme riguardo al proprio potere attrattivo. Tanto più quest'intento è spiccato, tanto più il soggetto femminile, senza saperlo, attesta la sua subordinazione inconscia ad una tradizione nella cui ottica la donna ha valore solo in funzione dello sguardo maschile, o, in senso lato, dell'uomo.

La donna musulmana, per suo conto, può sostenere in buona fede che l'uso del velo è scelto liberamente e corrisponde ad un suo modo di sentire religioso. Essa però non sa che tale uso, come ogni comportamento mortificante, implica l'attribuzione al corpo di una potenziale pericolosità istintuale che va tenuta a freno per mantenere integra l'anima. Per quanto interiorizzata e partecipata, la sua religiosità oppone ancora anima e corpo come due distinte realtà.

L'integrazione delle culture, che, nel caso specifico, significa la liberazione delle donne occidentali dalla dipendenza dallo sguardo maschile e la liberazione delle donne musulmane da una virtù che implica la mortificazione del corpo, potrà avvenire solo sulla base di un'interpretazione profonda dei significati degli usi, delle tradizioni e dei comportamenti sociali. A tale fine, occorre però che nessuna cultura, pur conscia dei propri valori, si astenga dal criticarli, e pretenda, in nome della condivisione sociale di quei valori, che essi siano assoluti e superiori a quelli di tutte le altre.

Da questo punto di vista, l'Occidente, nonostante le sue tradizioni illuministiche e critiche, sembra fortemente in ritardo. La sua capacità di cogliere nelle altre culture i limiti e i difetti si traduce, infatti, sul piano autocritico, in una sorta di cecità.

3.

Un esempio di questa cecità si può ricondurre ad uno dei simboli più noti e differenziali dell'abbigliamento occidentale: la cravatta. Questo simbolo ha una storia del tutto particolare. Le sue origini risalgono a Luigi XIV, che l'adottò in onore di un reggimento di cavalieri croati, che rappresentavano la punta di diamante del suo esercito, i quali portavano una vistosa striscia di lino bianco annodata intorno al collo. Il Re si fregiò di questo stesso ornamento, però di seta, che battezzò cravate (adulterazione di croate) e ne impose l'uso a tutta la Corte. La semplice striscia di seta si trasformò poi in un sempre più complicato nodo di merletto, e divenne un segno distintivo della classe nobiliare.

La Rivoluzione francese, che pure abolì i calzoni corti nobiliari, adottò tale simbolo, trasformandolo in un cravattone che ingozzava gli uomini fin sotto il mento, e dando ad esso un nuovo significato distintivo. Nonostante il verbo dell'uguaglianza, la cravatta, con piccoli cambiamenti di forma che l'hanno resa meno ingombrante, rappresenta da allora l'appartenenza alla classe borghese: ad una classe cioè che, in nome dell'esercizio della razionalità, può astenersi dai lavori manuali.

Si tratta di un capo d'abbigliamento liberale, nel senso che a nessun cittadino ne è precluso l'uso. Il suo valore simbolico e distintivo però rimane. In occasione di feste o di cerimonie (matrimoni, battesimi, comunioni, ecc.), la cravatta è obbligatoria per tutti gli uomini, perché in tali occasioni ogni famiglia o gruppo parentale avverte il bisogno di esibire o simulare la sua appartenenza alla classe superiore. Nella vita quotidiana, la cravatta è impraticabile per i muratori, gli spazzini, i meccanici, gli idraulici, ecc. Vicedersa essa, sia pure implicitamente, è obbligatoria per i politici, i managers, i funzionari, i libero professionisti, e per tutti coloro che aspirano ad appartenere a questi ceti. E' difficile che uno studente in giurisprudenza superi l'esame se si presenta senza cravatta. E' difficile che una società assuma giovani venditori porta a porta se essi non si presentano al colloquio incravattati.

E' stato il '68 a smascherare il significato classista della cravatta, fino al punto da investirla, con la giacca con cui spesso si associa, di un giudizio sprezzante, e di abolirne l'uso per coloro che contestavano i formalismi e le "costrizioni" borghesi in nome di un mondo di esseri uguali e liberi.

Il fallimento del '68 ha dato luogo ad una restaurazione borghese che, tra l'altro, ha reso obbligatorio l'uso della cravatta per tutti coloro che svolgono lavori borghesi o in ambiti istituzionali borghesi (banche, assicurazioni, società private, ecc.). Il carattere coercitivo di questo obbligo, non scritto ma inderogabile, sembra sconfinare dall'ambito della distinzione di status. In effetti, l'uso della cravatta, anche d'estate, ha assunto inconsapevolmente un significato morale. Essa attribuisce implicitamente lo status e i privilegi di un determinato ceto sociale (managers, professionisti, ecc.) ad una capacità di sacrificarsi sull'altare del lavoro che li giustifica. E' insomma un indizio di meritocrazia, secondo la quale, nella nostra società, ciascuno ha quello che riesce a conquistare in virtù della sua adesione all'etica del lavoro borghese, che, in nome della razionalità, comporta la costrizione e il sacrificio. Capacità, queste, evidentemente assenti in coloro che, per esempio con il sopravvenire della stagione calda, si sbragano, e rivelano con ciò la loro mediocrità.

4.

Il chador e la cravatta sono dunque due simboli sociali che hanno entrambi un significato morale: l'uno fa riferimento alla virtù della pudicizia e della riservatezza, l'altro alla virtù della dedizione al lavoro e della capacità di sacrificio.

Una differenza importante tra i due simboli è che le donne musulmane che usano il chador sanno ciò che esso significa in senso religioso e, per quanto si attengano ad un obbligo prescritto dalla tradizione, partecipano quel significato. Molti occidentali che usano la cravatta l'apprezzano come un capo d'abbigliamento estetico (stupidamente, perché, tra l'altro, è brutto), ne riconoscono il valore di status symbol, ma, tranne rari casi, sono ben lungi dal coglierne il significato morale. Tanto meno essi sono in grado di capire che l'ostentazione della cravatta è implicitamente offensiva nei confronti di tutti coloro che, per motivi lavorativi, non possono indossarla, perché essa designa una differenza di classe.

La rimozione del significato morale della cravatta non è casuale. Ad alcuni borghesi in buona fede, che riversano tutte le energie nel lavoro, non va a genio l'idea di essere schiavi di un'etica calvinista. Per altri, che non fanno alcun particolare sacrificio, partecipando ad attività ad alto reddito che non richiedono sforzo alcuno (consigli di amministrazione, traffici finanziari, ecc.) si tratta di una scelta meramente opportunistica.

Quel'è il problema che discende da questa analisi indiziaria? Nonostante l'avanzata dell'Islam integralista, che comunque rimane minoritario, l'Islam moderato ha già sormontato il formalismo del velo, privilegiando la virtù interiore, che non necessita di un simbolo esteriore. Esso addirittura ne sconsiglia l'uso nei contesti occidentali, laddove quel simbolo non può essere apprezzato nel suo autentico significato morale, e può apparire semplicemente folcloristico. Si tratta dunque di una civiltà che, sia pure lentamente, sta cambiando, e, date le sue radici religiosi, mira a privilegiare l'essere rispetto all'appariore.

Per quanto riguarda la cravatta, la restaurazione seguita al '68 sembra una regressione culturale. L'uso della cravatta è un'universale mascherata, il cui significato profondo, secondo il quale l'uomo ascende socialmente solo in virtù del sacrificio, è ignoto ai più, e non corrisponde, di fatto, se non raramente, alla verità. Quell'uso si pone come segno di rispettabilità, peraltro dubbia. La grande criminalità del nostro tempo, che è quella finanziaria, è agita da uomini rigorosamente in giacca e cravatta.

E' difficile dire quale delle due civiltà sia superiore. L'Islam è patetico nella sua volontà di arginare un processo di secolarizzazione che è nell'aria e non dipende solo dalla nefasta influenza del materialismo occidentale, ma l'Occidente, con le sue pretese di occultare sotto le apparenze della rispettabilità gli spiriti animali del capitalismo, a loro volta irretiti da valori sacrificali, è autenticamente ridicolo. Una civiltà superiore fatta a misura d'uomo, da ultimo, è di là da venire.

Gennanio 2003