Il caso Welby |
1. Il dibattito in Italia sull'eutanasia, limitata anche solo alla richiesta di essere aiutato a morire da parte di un cittadino adulto, nel pieno possesso delle sue capacità mentali, affetto da una malattia invalidante e a prognosi infausta, non riesce ad andare avanti in sede parlamentare per l'opposizione trasversale dei cattolici, ligi al diktat della Chiesa sull'inviolabilità della vita, e di numerosi rappresentanti del centro-destra, che pensano di ricavare da essa qualche vantaggio elettorale. Anche la sinistra, purtroppo, soprattutto per quanto riguarda la componente riformista e moderata che, nella prospettiva della fondazione del Partito Democratico, non intende porre la Margherita di fronte ad un aut-aut, riconosce uno spettro di posizioni piuttosto eterogenee. Data questa situazione, già il pervenire ad una legislazione sul testamento biologico, che imporrà ai medici - fatto salvo il loro diritto all'obiezione di coscienza - di rispettare la volontà espressa in precedenza dal paziente sulle cure da praticare in fase terminale, potrà ritenersi un successo. L'impegno per pervenire ad una legge sull'eutanasia si pone, per ora, su di un terreno culturale. Si tratta, infatti, non solo di contrastare in maniera argomentata la dottrina della Chiesa, incentrata sull'inviolabile dignità dell'essere umano, ma di rimuovere anche una serie di resistenze attive a livello di immaginario collettivo, riconducibili alla ripugnanza nei confronti della morte, alla credenza secondo la quale l'attaccamento alla vita esprime un incoercibile istinto di conservazione e alla difficoltà di accettare che i medici possano svolgere un ruolo contrastante con quello simbolico - di guaritori - ad essi assegnato. L'attenzione sul problema dell'eutanasia si è riaperta clamorosamente il 21 settembre, in seguito ad una lettera aperta indirizzata al Presidente della Repubblica da Piergiorgio Welby, Co-Presidente dell'Associazione Concioni, filiazione del Partito Radicale, che si batte per la liberalizzazione della ricerca scientifica. Il testo integrale della lettera è il seguente: "21 settembre 2006 Caro Presidente, scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese. Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l'ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita. La giornata inizia con l'allarme del ventilatore polmonare mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth, trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie personali, medicazioni, bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo al più tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patologia, la distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario. A mezzogiorno con l'aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perchè sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno per un'ora una posizione differente di quella supina a letto. Tornato a letto, a volte, mi assopisco, ma mi risveglio spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere la radio ma la ascolto distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché penso sempre a come mettere fine a questa vita. Verso le sei faccio un altro sforzo a mettermi seduto, con l'aiuto di mia moglie Mina e mio nipote Simone. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un'ora mi accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l'ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina. Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l'amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso - morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita - è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio ... è lì, squadernato davanti a medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero, belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono italiano e qui non c'è pietà. Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una "morte dignitosa". No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte. La morte non può essere "dignitosa"; dignitosa, ovvero decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte è altro. Definire la morte per eutanasia "dignitosa" è un modo di negare la tragicità del morire. » un continuare a muoversi nel solco dell'occultamento o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare essere ciò che non è. Cos'è la morte? La morte è una condizione indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo: "Ostico, lottare. Sfacelo m'assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m'accerchia senza spiragli. Non esiste approdo". L'approdo esiste, ma l'eutanasia non è "morte dignitosa", ma morte opportuna, nelle parole dell'uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ciò che "spinge verso il porto"; per Plutarco, la morte dei giovani è un naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce il solo "luogo" dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro. In Italia, l'eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non "esista": vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa, possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di pazienti coscienti. Per esaudire la richiesta di eutanasia, alcuni paesi europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle procedure che consentono al paziente "terminale" che ne faccia richiesta di programmare con il medico il percorso di "approdo" alla morte opportuna. Una legge sull'eutanasia non è più la richiesta incomprensibile di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L'associazione degli anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il recente pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato) Comitato Nazionale per la bioetica sulle Direttive Anticipate di Trattamento ha messo in luce l'impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel caso in cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti. Anche nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che, pur restando nell'alveo della tradizione, permettono di intervenire pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie sproporzionate che non portino benefici concreti al paziente. L'opinione pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e altamente invalidante ed hanno maturato la decisione di, se fosse capitato a loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno assistito alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente. Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire. Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai centri di rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare per anni. Noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza. Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che "di fronte alla pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale". Ma che cosa c'è di "naturale" in una sala di rianimazione? Che cosa c'è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c'è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l'aria nei polmoni? Che cosa c'è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l'ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni si possa "giocare" con la vita e il dolore altrui. Quando un malato terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente ëbiologica' - io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico. Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato anche, attraverso il mio corpo malato, di politica, e di obiettivi necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come la mia, sono investite da questo confronto. Il sogno di Luca Coscioni era quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato conosciuto. Ora siamo noi a dover sognare anche per lui. Il mio sogno, anche come co-Presidente dell'Associazione che porta il nome di Luca, la mia volontà, la mia richiesta, che voglio porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l'eutanasia. Vorrei che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi. Piergiorgio Welby". La lettera conclude una battaglia alla quale Welby aveva già dato un significativo apporto pubblicando sul sito dell'Associazione di cui è Co-Presidente (www.lucacoscioni.it) un breve appunto che, sottolineando la sua condizione di malato terminale, propugnava la liberalizzazione della ricerca sulle cellule staminali al fine di curare non già se stesso ma altri affetti dal suo e da altri mali: "Il mio nome è Piergiorgio, la mia storia è simile a quella di tanti altri distrofici. Ricordare come tutto sia iniziato non è facile perché la memoria non è accumulazione ma selezione e catalogazione. Forse fu una caduta immotivata o il bicchiere, troppo spesso sfuggito di mano etc. ma quello che nessun distrofico può scordare è il giorno in cui il medico, dopo la biopsia muscolare e l'elettromiografia, ti comunica la diagnosi: Distrofia Muscolare Progressiva. Questa è una delle patologie più crudeli; pur lasciando intatte le facoltà intellettive, costringe il malato a confrontarsi con tutti gli handicap conosciuti: da claudicante a paraplegico, da paraplegico a tetraplegico, poi arriva l'insufficienza respiratoria e la tracheotomia. Il cuore, di solito, non viene colpito e l'esito infausto, come dicono i medici, si ha per i decubiti o una polmonite. Io ho raggiunto l'ultimo stadio: respiro con l'ausilio di un ventilatore polmonare, mi nutro di un alimento artificiale (Pulmocare), parlo con l'ausilio di un computer e di un software. Per anni e anni ho sperato che la ricerca scientifica trovasse un rimedio. Oggi, che le prospettive di una cura potrebbero, grazie agli studi sulle cellule staminali, sia adulte che embrionali, trasformarsi da speranza in realtà, sempre più ostacoli si frappongono sul cammino di una ricerca libera. Questa malattia non è una maledizione biblica, è una malattia genetica che può essere sconfitta grazie alla diagnosi prenatale: i villi coriali, l'amniocentesi e soprattutto la diagnosi preimpianto. In Italia ci sono oggi circa 2.000 bambini con distrofia muscolare Duchenne. L'incidenza della distrofia miotonica, la più comune distrofia muscolare dell'adulto, è di approssimativamente 135 casi ogni milione di nascite (maschi o femmine). L'incidenza della distrofia dei cingoli è di circa 65 casi per milione di nascite e quella della distrofia facioscapolomerale è ancora inferiore. Considerando insieme tutte le principali malattie neuromuscolari ereditarie, verosimilmente ne risultano colpiti in Italia circa 30 persone ogni 100.000 abitanti, ossia oltre 17.000 persone. Se delle dispute capziose e, spesso, ideologiche dovessero ritardare la scoperta di una cura e condannare anche un solo bambino a vivere il dramma che io ho vissuto e sto vivendo...beh, pensateci! Pensateci questa estate quando vi tufferete, affronterete un sesto grado, percorrerete un sentiero con la mountain bike...". Dopo appena due giorni, è giunta la risposta del presidente Giorgio Napoletano: "Caro Welby, ho ascoltato e letto con profonda partecipazione emotiva l'appello che lei ha voluto pubblicamente rivolgermi. Ne sono stato toccato e colpito come persona e come Presidente. Lei ha mostrato piena comprensione della natura e dei limiti del ruolo che il Parlamento mi ha chiamato ad assolvere, secondo il dettato e lo spirito della nostra Costituzione. Penso che tra le mie responsabilità vi sia quella di ascoltare con la più grande attenzione quanti esprimano sentimenti e pongano problemi che non trovano risposta in decisioni del governo, del Parlamento, delle altre autorità cui esse competono. E quindi raccolgo il suo messaggio di tragica sofferenza con sincera comprensione e solidarietà. Esso può rappresentare un'occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e temi, di particolare complessità sul piano etico, che richiedono un confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva la conclusione approvata dai più. Mi auguro che un tale confronto ci sia, nelle sedi più idonee, perché il solo atteggiamento ingiustificabile sarebbe il silenzio, la sospensione o l'elusione di ogni responsabile chiarimento. Con sentimenti di rinnovata partecipazione, Giorgio Napoletano". La sollecitazione del Presidente della Repubblica ha evocato immediatamente le reazioni del mondo politico: caute e timorose quelle delle forze di sinistra, che ritengono comunque opportuna una riflessione sul problema, anche se, per ora, la loro disponibilità si limita alla legalizzazione del testamento biologico; dure e inflessibili quelle del centro-destra che, facendo appello al valore liberale del diritto alla vita e all'integrità fisica, che consente di cooptare quello cattolico, sembrano del tutto immuni dal prendere atto che tale diritto, se viene imposto a individui determinati a rinunciare ad esso, diventa di fatto paradossalmente un dovere, un'imposizione "statalista". E' prevedibile, dunque, che l'invito al confronto rivolto dal Presidente della Repubblica al Parlamento verrà vagliato con la cautela necessaria data la "delicatezza" dell'argomento e, di fatto, nel merito, che concerne l'eutanasia, disatteso. 2. Per portare avanti la battaglia culturale per la buona morte, occorre sfatare anzitutto il luogo comune per cui si tratta di un argomento delicato. Se la delicatezza viene riferita alla suscettibilità dei cattolici a riguardo, il luogo comune è del tutto giustificato. Nella richiesta da parte di un cittadino lucido, consapevole e determinato di essere aiutato a morire, essi, infatti, leggono il rifiuto di considerare la dignità della vita come un attributo ontologico che trascende la volontà del soggetto e un approccio al problema della sofferenza che prescinde dal dare ad essa, al di là di un certo limite, un significato che non si riconduca all'essere l'organismo biologico un perpetuo campo di sperimentazione della Natura. Vi leggono, insomma, l'espressione di un laicismo radicale che contrappone la volontà umana all'implacabile incidenza della casualità, attraverso cui quella sperimentazione si realizza, e che essi viceversa riconducono all'imperscrutabile volontà di Dio. Ho già scritto degli articoli sui fondamenti teologici della posizione della Chiesa in materia bioetica. Torno su questo punto per rilevare ancora una volta una contraddizione implicita in quella posizione, ricavabile facilmente dalle parole del Papa laddove ribadisce "la dignità inviolabile della vita umana, dal concepimento al suo termine naturale". Tra i due estremi - l'inizio e la fine della vita - si dà evidentemente, nell'ottica cattolica, una differenza paradossale: il concepimento, associandosi all'infusione dell'anima (circostanza sulla quale non tutti i teologi sono d'accordo), implica l'immediato sovrapporsi alla natura del soprannaturale: la fine, viceversa, deve rispettare le leggi della natura, anche se esse, nel loro cieco determinismo, comportano sofferenze intollerabili e, per giunta, sterili. Il rispetto, certo, fa capo al fatto che quelle leggi si realizzano in un essere biologico dotato di un'anima spirituale: è questa ovviamente, inviolabile. Il paradosso, però, è evidente: ciò che nobilita l'uomo, e lo differenzia da tutti gli altri esseri viventi, - la dotazione di un'anima spirituale e immortale che vive, per un certo intervallo di tempo, nel corpo - lo obbliga a lasciare che sia la natura a decidere quando ha termine la sua esperienza terrena. Nessun teologo pensa che la soppressione del corpo coincida con quella dell'anima. C'è da chiedersi dunque perché il corpo, realtà transitoria impastata di materia e assoggettato a leggi naturali, non possa essere soppresso su richiesta esplicita del diretto interessato. La risposta teologica è espressa dal Papa in termini inconfutabili: la sofferenza va accettata come espressione della soggezione dell'uomo all'imperscrutabile volontà divina. Questa però si realizza attraverso leggi intrinseche all'organizzazione biologica. Dunque delle due l'una: o Dio ha sbagliato nella costruzione di una "macchina" che imbocca talvolta vicoli ciechi, che comportano inutili sofferenze e una lunga agonia, o Egli, pur avendole create, è impotente di fronte alle leggi della natura. Da qualunque angolatura si affronti il problema, il risultato è l'insolubilità delle contraddizioni teologiche. Dio, infatti, avrebbe creato l'uomo a sua immagine e somiglianza e, al tempo stesso, lo avrebbe reso schiavo di un organismo governato da determinismi causali (quelli che generano le malattie) e indeterminismi casuali (le mutazioni o le predisposizioni presenti in un organismo piuttosto che in un altro). Il sovrannaturale e il naturale sarebbero dunque due ordini distinti il cui punto di contatto è l'esperienza dell'individuo che, in nome della gratitudine nei confronti del Creatore, deve accettare che la natura faccia i suoi imperscrutabili giochi, i quali, però, hanno senso solo in un'ottica a partire dalla quale l'accettazione e la tolleranza del dolore diventano una virtù. Se si approfondisce questa contraddizione, si arriva ad una conclusione sorprendente. Erede di una tradizione culturale prescientifica, la Chiesa continua a sacralizzare non solo (come è ovvio) Dio, ma anche la natura che egli ha creato, di cui l'uomo è il vertice. Non c'è da sorprendersi per questo. La matrice originaria dei fenomeni religiosi, sul cui sfondo si sono definite le religioni storiche, è inequivocabilmente l'ambivalenza con cui l'uomo si rapporta alla natura: la Grande Madre dotata di poteri distruttivi. La sacralizzazione della natura, implicita anche nel pensiero cattolico, a partire dalla quale si spiega anche l'ostilità nei confronti dell'ingegneria genetica, comporta il non voler prendere atto che, se essa non è Matrigna, in conseguenza dei suoi "giochi" l'uomo, in quanto organismo biologico esposto al rischio di opporre un'inutile resistenza nei confronti di un male inguaribile, è null'altro che una cavia. Non c'è alcun Disegno Intelligente in tutto questo, se si tiene conto che la sperimentazione avviene sulla base della casualità (le mutazioni genetiche) e di implacabili meccanismi causali tali per cui lo scostamento di una variabile dalla norma induce effetti disfunzionali di vario genere (come, per esempio, nel caso dell'iperglicemia diabetica che, a lungo andare, può danneggiare i vasi arteriosi). 3. Se si prescinde dalla suscettibilità di una religione che non vuole vedere le cose come stanno, il problema non è affatto delicato. Welby semplicemente non intende rimanere schiacciato tra una natura che fa i suoi giochi - legittimi, in quanto ha il potere di farli, ma non compatibili con la dignità di un soggetto che assiste alla perdita progressiva della sua autonomia fisica e psichica - e una medicina che, pur consapevole della sua sostanziale impotenza a guarire il male, sperimenta essa stessa su di un corpo ridotto ad appendice di macchine e di pratiche che lo tengono in vita. Certo, la sua stessa lucidità e capacità di analisi sorprendono, date le sue condizioni fisiche, fino al punto di far sospettare che nell'uomo esista veramente una potenzialità che trascende il corpo. Si tratta, però, di una potenzialità del cervello e del soggetto che, nel caso specifico, non sono minimamente interferite da una malattia che riguarda l'apparato muscolare. Il problema è proprio questo, nel caso di Welby e di tanti altri. In nome di quale oscura necessità si può imporre loro di assistere lucidamente al progressivo disfacimento del corpo e delle sue funzioni? Volendo rispettare lo spirito della medicina, occorrerebbe intervenire per porre la coscienza al riparo da questa atroce consapevolezza, che rende l'uomo meno adattabile al dolore più di qualunque altro animale. Un intervento del genere è senz'altro tecnicamente possibile con psicofarmaci ad azione sedativa a dosi elevate (terapia del sonno) e, in altri casi, nei quali il problema principale sono insopportabili dolori, con morfina e succedanei eventualmente associati a psicofarmaci. La sedazione, nel caso di Welby, sarebbe necessaria perché il distacco del respiratore determina una morte per asfissia, che è, notoriamente, l'esperienza più sconvolgente che può fare un uomo la cui coscienza è lucida. Trattandosi di un intervento possibile e giuridicamente inoppugnabile, dato che nessuno, in rapporto alla malattia in questione (a differenza di quanto avviene per le situazioni comatose), può fare riferimento ad una situazione reversibile, c'è da chiedersi che cosa ne impedisca la realizzazione. L'ostacolo a riguardo è semplicemente la cultura medica. Quale che sia la malattia di base, l'uomo muore sempre e comunque per un arresto cardiocircolatorio e respiratorio. Ora, i farmaci che si dovrebbero usare per staccare il respiratore incidono su queste funzioni in maniera più o meno rilevante. I medici, dunque, e in particolare quelli italiani, tendono a limitare al massimo quell'uso per non incorre nel sospetto di praticare un'eutanasia attiva. In conseguenza di questa remora - morale in alcuni, legale in altri -, negli ospedali e nelle cliniche si assiste a strazianti decorsi terminali e a terribili agonie, caratterizzati dal mantenersi della lucidità della coscienza fino alla fine. Dotandolo di autoconsapevolezza, la natura ha esposto l'uomo al rischio di dover bere fino al fondo questo amaro calice, che diventa assolutamente repellente nei casi in cui, come per il signor Welby e tanti altri, non si dà una visione del mondo aperta sulla trascendenza. Non rispondere alle richieste pressanti dei pazienti non ha nulla a che vedere con il rispetto della dignità umana. E' semplicemente un atto di gratuita crudeltà e di disumanità, come ben sanno, tra l'altro i non rari medici che, affetti da un male inguaribile, provvedono essi stessi a suicidarsi. La dignità dell'uomo può essere valutata da due diversi punti di vista. In un'ottica religiosa, essa comporta la necessità che il credente si rimetta sempre e comunque alla volontà divina, e si affidi alla medicina per contenere o limitare le sofferenze. In un'ottica laica, viceversa la dignità umana, come peraltro esprime in termini toccanti il signor Welby nella sua lettera, si identifica non solo con il mantenersi di una qualità della vita che abbia senso per il soggetto, ma anche con il rifiutare di assoggettarsi agli arbitri della natura e di accettare il ruolo di cavia, iscritto nel suo organismo biologico. Riconoscere e rispettare questi diversi punti di vista è il dovere di una cultura che prescinde dall'assegnare ad uno di essi un carattere di verità assoluta e di uno Stato che privilegi, anche a livello legislativo, i bisogni dei cittadini. Ogni ritardo su questo piano non è giustificabile né condivisibile. La Chiesa sostiene che l'uomo non è padrone della sua vita. E' vero anche in un'ottica laica: l'organismo nel quale vive non l'ha creato lui, ma la natura attraverso l'evoluzione. Se, dunque, in senso proprio, non è padrone, ne è però inconfutabilmente amministratore unico. Questo, almeno, gli va riconosciuto.
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