Eutanasia, Dolore, Accanimento terapeutico |
1. Alla vigilia di un Convegno (La giornata del sollievo) nel corso del quale si ripeterà lo scontro tra posizioni cattoliche e posizioni laiche sul tema del dolore e dell'eutanasia, il Ministro della Salute Girolamo Sirchia è intervenuto assumendo un atteggiamento inequivocabile. Ogni forma di soppressione della vita - ha detto - è un reato contro l'umanità, una grande mistificazione dei nostri tempi e un rischio gravissimo per la società. L'alternativa esiste - ha aggiunto: è l'uso di oppiacei, che sarà incentivato prossimamente da un decreto che, apportando dei cambiamenti alla legge varata nel 2001, renderà più semplice le procedure di prescrizione. Non si capisce bene quale sia la mistificazione cui fa riferimento il Ministro. L'accettazione o il rifiuto dei dolori inutili (quelli cioè che non sono funzionali a recuperare la salute, ma rendono terribile la fine) dovrebbe essere considerato un diritto individuale. Un diritto al cui esercizio un credente ovviamente può e deve rinunciare, in nome dell'accettazione della volontà divina. In nome di quale valore dovrebbe rinunciare ad esso un laico? La risposta del Ministro Sirchia è capziosa: la libertà soggettiva di decidere la propria morte è "una libertà solo teorica, perché la scelta di privarsi della vita dipende da un momento di grave turbamento della mente". E' gravissmo - ha aggiunto - approfittare di questo momento patologico per infliggere la morte. Che le persone le quali giungono, in conseguenza della loro sofferenza, a desiderare la morte, siano turbate o addirittura sconvolte dal dolore è fuori di ogni ragionevole dubbio. Iscrivere però tale sconvolgimento nell'ambito di una patologia mentale sembra - questa sì - una mistificazione e un gratuito insulto. La proposta del Ministro, poi, non sembra tenere conto del contesto culturale italiano. Un dato significativo a riguardo è di ordine statistico. Nel nostro paese, l'uso degli oppiacei per il controllo del dolore cronico è incredibilmente meno diffuso rispetto agli altri paesi europei: dodici volte più basso di quello della Germania, trentadue volte minore di quello della Francia, addirittura 110 volte inferiore di quello della Danimarca. La legge approvata nel 2001 (la n.12 dell'8 febbraio 2001), che ha già snellito in maniera rilevante le procedure di prescrizione, non ha conseguito risultati rilevanti, eccezion fatta per alcune regioni (per esempio l'Emilia-Romagna dove l'uso è passato dalle 70 alle 210 dosi giornaliere per milione di abitanti). Il Ministro spiega questo ritardo attribuendola ad una forte resistenza della cultura medica italiana: "i medici sono condizionati da una cappa di terrore, dall'equivalenza tra somministrazione di morfina e tossicodipendenza, da un eccessivo senso di responsabilità nella compilazione delle ricette". Ciò in parte è vero. La legge precedente, introdotta da Rosy Bindi, ha dovuto tenere conto delle remore dei cattolici - implacabili difensori della sacralità della vita - e prevede pene anche piuttosto pesanti per un uso erroneo degli oppiacei, vale a dire per un uso che accelera o favorisce la morte. Ma - c'è da chiedersi - esiste un uso strettamente terapeutico degli oppiacei? Sussistono molti dubbi a riguardo. La somministrazione di oppiacei contro i dolori cronici riguarda per la maggioranza pazienti affetti da tumori il cui organismo è già defedato. Essi assicurano il sollievo dai dolori, ma inducono rapidamente l'assuefazione. Se non si vuole essere crudeli, e mantenere l'effetto sintomatico, i dosaggi vanno progressivamente aumentati. Tale aumento incide sulla funzione respiratoria e su quella cardiovascolare, determinando quasi fatalmente una morte prematura rispetto all'evoluzione della malattia di base. Nella pratica medica corrente, tranne casi eccezionali, la somministrazione si attiene al principio di evitare o di rimandare il più possibile l'instaurarsi della dipendenza e dell'assuefazione, che, aggiungendo ai dolori di base i dolori da astinenza, costringe di fatto all'eutanasia. Ciò significa che i medici lasciano straziare i pazienti, intervenendo solo episodicamente. Questa strategia è oggettivamente crudele, perché, una volta che i pazienti hanno provato lo straordinario sollievo prodotto dagli oppiacei, essi avvertono con maggiore drammaticità i dolori tumorali. Il loro unico bisogno è non soffrire più. Imporre loro la sofferenza e favorire il decorso naturale della malattia per evitare di aiutarli a morire, o d'incappare addirittura nell'accusa di eutanasia, è la forma più comune di accanimento terapeutico, se con questo termine s'intende non solo prolungare irragionevolmente con le cure una malattia ma anche lasciare che una malattia dolorosa faccia il suo corso. Ben venga il decreto legge del Ministro Sirchia. Per essere efficace però esso dovrebbe non solo depenalizzare l'uso terapeutico degli oppiacei, rimuovendo il riferimento all'uso erroneo e affidando al paziente che sente il dolore il diritto di decidere, se non le le dosi, le somministrazione di cui ha bisogno. Occorrerebbe anche convincere i medici (salvo restando il diritto di quelli cattolici di avanzare obiezione di coscienza) che, laddove non si danno speranze di guarigione, la lotta contro il dolore soggettivamente intollerabile con qualunque mezzo, anche a costo di accelerare il decesso, è un dovere, che fa onore ad una pratica professionale capace di riconoscere e di accettare i propri limiti. Ma a questo livello gli ostacoli sono due. Primo, i medici in genere non tollerano l'impotenza, e, non potendo sconfiggere il male, si riscattano prolungando la vita. Occorrerebbe da parte loro un atto di umiltà e, soprattutto, la capacità di mettersi nei panni dei pazienti, di dare credito a ciò che essi sentono, che invece viene sempre pregiudicato come un'esagerazione. Secondo, il "terrorismo"dei medici e delle organizzazioni cattoliche incombe sulla pratica terapeutica squalificando come immorale se non addirittura delittuoso qualunque intervento che attenta alla sacralità della vita. Il difetto di una legislazione sulla buona morte rende quel terrorismo psicologicamente e penalmente temibile. 2. Detto questo, non posso esimermi da considerazioni di ordine generale. Il dolore è un vissuto di ordine eminentemente soggettivo, che, al di là delle cause organiche che lo provocano, coinvolge la totalità dell'esperienza individuale, della storia interiore e dell'organizzazione della personalità. Non dandosi una misura oggettiva del dolore, non si capisce perché non debba essere il paziente, piuttosto che il medico, a definire il tipo di aiuto di cui avverte bisogno. Questo diritto, ovviamente, va subordinato alla diagnosi e dovrebbe essere convalidato solo nei casi in cui questa comporta una prognosi inesorabilmente fatale. E' noto che in medicina si danno casi oltremodo rari di guarigioni "miracolose", vale a dire di remissioni talora totali di tumori anche in fase avanzata. Si tratta di eventi che riesce difficile spiegare sulla base delle conoscenze attuali. Ciò che si può dire, alla luce della teoria dei sistemi complessi, è che ogni organismo pone in atto delle difese contro la malattia. Se questa è grave, si realizza quasi sempre una situazione di equiprobabilità (un punto di catastrofe nel linguaggio della teoria dei sistemi complessi) che, nella stragrande maggioranza dei casi, dà luogo all'abbattimento delle difese organismiche. In casi oltremodo rari (nell'ordine di uno su svariati milioni, se si tiene conto del rapporto tra i pazienti che invocano il miracolo e quelli che lo ottengono), il punto di catastrofe evolve nella direzione della guarigione per una somma di fattori - psichici e fisici - che sottolineano il fatto che ogni organismo è un mondo a sé, ha un'individualità che può violare le leggi che valgno per tanti altri organismi. Ritenere delittuoso un intervento medico che non tiene conto di questa possibilità è criticabile. Trattandosi infatti di una lotteria che comporta, per ogni paziente, probabilità infinitesimali di guarigione, è comunque a lui, e non al medico, che spetta il diritto di decidere se partecipare o meno. L'ultimo problema concerne la responsabilità del medico. E' ovvio che nessun medico può essere costretto ad agire comportamenti, finalizzati ad agevolare la morte, che contrastano con i suoi valori, il suo modo di vedere e di sentire. Se però il primo dovere dei medici, giusto il giuramento di Ippocrate, è di non nuocere, non sarebbe illecito autorizzare alcuni di essi, che già lo pensano, a ritenere un danno per i pazienti i dolori inutili che precedono la morte. Agevolare la fine, allorché i pazienti la invocano, esprime una pietas che ha ben poco a che vedere con il codice penale. Considerare questo comportamento un reato contro l'umanità implica una concezione alquanto singolare della stessa. Maggio 2003 |