Voltaire François-Marie Arouet detto
www.treccani.it
Enciclopedie on line
Scrittore e filosofo (Parigi 1694 - ivi 1778). Nato da
famiglia borghese, ricevette un'eccellente educazione umanistica al
collegio Louis-le-Grand tenuto dai gesuiti. Precocissimo autore di
versi leggeri e arguti, accolto presto per le sue doti di spirito in
circoli eleganti e libertini, il successo (1718) della tragedia Œdipe
gli aprì l'accesso all'alta società. Attivissimo (nel 1723 uscì,
semiclandestina, La ligue, ou Henry le Grand, che nell'ed.
di Londra del 1728 assunse il titolo di Henriade), col senso
sicuro del proprio utile particolare, V. s'inserì in una forma di
vita brillante e insieme favorevole alla sua attività letteraria. Ma
al principio del 1727, per un contrasto con il cavaliere de Rohan,
V. venne rinchiuso alla Bastiglia ingiustamente. L'amara delusione
procuratagli dagli amici aristocratici spronò il suo orgoglio di
borghese.
Messo in libertà dopo alcune settimane, ma costretto a lasciare la
Francia, si recò in Inghilterra, dove rimase circa tre anni
ottenendo larghi riconoscimenti. Ma, soprattutto, il soggiorno
inglese determinò la sua carriera di filosofo e di polemista. In
Inghilterra, infatti, V. conobbe una società assai meno raffinata di
quella francese, ma più moderna, più progredita e libera; venne a
contatto con una realtà politica, sociale, civile e culturale che
contrastava totalmente con quella francese. Le Lettres sur les
Anglais (o Lettres philosophiques), entrate in circolazione in
Francia nel 1734, sono l'espressione più matura del primo periodo
della sua attività di scrittore. Dietro il simulato scopo di
un'informazione sulle cose d'Inghilterra, le Lettres - la
prima bomba, fu detto, lanciata contro l'ancien régime - erano un
violento attacco alle istituzioni politiche, sociali e religiose
della Francia assolutista e feudale. Il successo fu enorme: mai un
libro allargò come le Lettres l'orizzonte intellettuale di
una nazione. Altrettanto grande, naturalmente, lo scandalo: l'opera
venne condannata dal Parlamento di Parigi; V. fuggì in Lorena e,
quando un mese dopo gli fu permesso di ritornare in Francia, gli
venne vietata la residenza a Parigi.
Si stabilì allora al castello di Cirey (Champagne) presso M.me du
Châtelet. Da questa donna, appassionata di problemi scientifici, V.
ricevette stimolo all'approfondimento delle matematiche e della
fisica (nel 1738 comparvero gli Éléments de la philosophie de
Newton, violento attacco all'allora dominante fisica
cartesiana). V. proseguì la sua attività di poeta e drammaturgo
affascinato dal miraggio di emancipare la scena francese
dall'imitazione spagnola e inglese per ricondurla alla severa
nobiltà dei Greci e di Racine. Sono infatti di questi anni di ritiro
le tragedie Alzire, Mahomet, Mérope. Nel
1738 era d'altronde già in avanzato stato di composizione il suo
capolavoro, Le siècle de Louis XIV.
Nel 1744, con la nomina a ministro degli Esteri del marchese
d'Argenson, suo vecchio compagno di collegio, migliorò la posizione
di V. nell'ambiente della corte francese, fino ad allora a lui
piuttosto ostile: nel 1745 M.me de Pompadour gli ottenne un diploma
di storiografo di Francia con la carica di gentiluomo di camera del
re; nel 1746 fu ricevuto all'Accademia; nel 1747 si trasferì con
M.me du Châtelet a Lunéville. Dopo la morte di costei, teneramente
rimpianta, nel 1749, V. si trasferì a Berlino presso Federico II che
professava per lui incondizionata ammirazione.
A Berlino, nel 1751, uscì Le siècle de Louis XIV. Verso la
fine del 1752 per gelosie e pettegolezzi avvenne la rottura tra il
re e il filosofo. V. tornò in Francia, ma non gli fu permesso di
stabilirsi a Parigi. È questo il periodo in cui V., dopo gli inviti
di D'Alembert e Diderot, collaborò con l'Encyclopédie con
circa 40 voci letterarie e filosofiche, alcune delle quali di un
certo interesse per l'estetica e la storia del gusto. La sua
collaborazione fu di breve durata. Iniziata nel 1754, terminò
quattro anni dopo, in seguito allo scandalo suscitato dalla
pubblicazione, nel vol. VII del Dictionnaire raisonné, della
voce Genève di D'Alembert, ispirata dallo stesso V.: con la sua
sottile critica dell'intolleranza, la voce accentuava le polemiche,
soprattutto con i calvinisti, fino a costituire una delle maggiori
cause della crisi dell'Encyclopédie.
Di questi anni è la stesura dell'Histoire universelle, che
ebbe poi il titolo di Essai sur les moeurs et l'esprit des
nations (1756).
Nel 1755 si stabilì in Svizzera, in una villa periferica di Ginevra,
da lui acquistata e chiamata des Délices, dove visse dieci anni
(anche dopo aver acquistato i castelli di Tornay e di Ferney,
contigui alla città di Ginevra ma in territorio francese),
costituendovi un centro intellettuale, cui convenivano scrittori,
artisti, dame d'ogni parte d'Europa. Era ormai ricco abbastanza da
poter vivere da gran signore, famoso in tutta Europa, corteggiato
dai sovrani e dall'alta nobiltà. La sua parola aveva un effetto
irresistibile: il suo intervento nei processi Calas, La Barre,
Sirven, Lally ne fece dei casi clamorosi e portò persino alla
revisione d'ingiuste sentenze.
In questi anni in cui il moto filosofico rivoluzionario si faceva
più impetuoso, V., impareggiabile e inesauribile pubblicista,
instaurò in Europa la sovranità tutta nuova dell'opinione pubblica.
Portentosa è la fecondità di V. in questi ultimi ventitré anni della
sua esistenza. Con un numero quasi incredibile di scritti di ogni
genere (e con innumerevoli lettere) riuscì a tenere desta su di sé
l'attenzione di tutta l'Europa colta, impegnandosi in una polemica
contro la superstizione, il fanatismo, il privilegio, il passato
sempre più violenta ed esplicita, ricca di brio, d'invenzione, di
eloquenza seria e di grazia leggera.
Di questo periodo è il Dictionnaire philosophique (1764), il
suo testamento filosofico, dove in sentenze lapidarie prende forma
definitiva la sua battaglia di mezzo secolo contro l'intolleranza,
il miracolo, l'autorità, la falsificazione delle leggende e delle
tradizioni.
Nel marzo 1778 Parigi accolse trionfalmente il filosofo venuto ad
assistere alla rappresentazione dell'ultima sua tragedia, Irène;
affaticato da queste emozioni V. morì poco dopo, a Parigi, il 30
maggio. Nel 1791, con solenne cerimonia, le sue ceneri furono
deposte nel Panthéon.
▭ V. volle essere soprattutto poeta e si cimentò con tutti i generi
letterarî allora in voga trattando con versatilità impareggiabile la
tragedia, il poema epico, il poema scherzoso e burlesco, la satira,
l'epistola didascalica, l'epigramma, la lirica leggera. Con l'Henriade
(1722), il poema giovanile su Enrico IV, si propose, senza
riuscirvi, di dotare la Francia di un grande poema nazionale: troppo
aliena dal meraviglioso e dal soprannaturale era l'immaginazione di
Voltaire. Più conforme al suo spirito polemico era invece l'epistola
moraleggiante, dove lo scrittore diede forma alle sue idee e alla
sua predicazione deistica e filantropica. Poemi come Le temple
du goût, il Poème sur la loi naturelle, il Poème
sur le désastre de Lisbonne riboccano di quella grazia
inimitabile che unisce la profondità speculativa alla disinvoltura
briosa.
Tuttavia sulla scena tragica V. raccolse i maggiori allori e suscitò
le più fiere battaglie: Œdipe (1718), Brutus (1730),
Zaïre (1732), La mort de César (1735), Alzire
(1736), Mahomet (1742), La Mérope française (1744),
poi Sémiramis (1749), L'orphelin de la Chine (1755),
Tancrède (1760), Olympie (1762) assicurarono a V. una
larga popolarità e il gusto francese, prima dell'avvento del
romanticismo, le situò accanto ai più celebrati modelli del gran
secolo. Oggi esse appaiono vere e proprie dissertazioni in favore
della tolleranza, della libertà, dell'abolizione degli odî di razza
e di religione.
La stessa vis polemica, che nelle tragedie sopraffà la forza
rappresentativa e artistica, anima i romanzi: Zadig (1747),
Candide (1759), L'ingénu (1767), L'homme aux
quarante écus (1768), La princesse de Babylone (1768)
non sono racconti ma rassegne satiriche delle stravaganze, delle
follie e degli abusi ingenerati dalla superstizione e dal fanatismo.
Più popolare e famoso tra tutti è rimasto meritatamente Candide,
dov'è beffeggiato sistematicamente l'ottimismo leibniziano.
Sempre spregiudicato e innovatore, V. sacrificò invece alla
tradizione e al gusto dominante quando giudicò di poesia,
professando sempre reverenza incondizionata ai grandi modelli del
secolo di Luigi XIV.
▭ Sotto il riguardo strettamente scientifico l'ambito nel quale V.
lasciò l'opera di valore più duraturo fu quello storiografico con Le
siècle de Louis XIV comparso nel 1751. Composto con amore di
compiutezza d'informazione esemplare, esso inaugurava un nuovo
genere di storiografia: è la prima opera storica moderna che rompe
la tradizione annalistica, ordinando gli eventi secondo la loro
interna connessione e illustrando la vita complessiva di uno stato
in tutti i suoi aspetti. V. introduceva nella storiografia un
concetto nuovo, quello di civiltà, che gli consentiva di discernere,
ordinare e interpretare quello che nei suoi predecessori ed emuli
contemporanei era rimasto materiale disparato.
L'altra grande opera storiografica di V., l'Essai sur les moeurs
et l'esprit des nations (1756), concepita in opposizione al
Discours di Bossuet, è il primo tentativo in senso laico e critico
di una "storia dello spirito umano" che ordini secondo poche grandi
linee la storia universale. Con l'Essai tramontava la statica
visione della storia universale incentrata sulle vicende prima del
popolo ebraico, poi del mondo cristiano, alla cui recente formazione
V. contrapponeva la veneranda antichità della Cina, dell'Egitto,
dell'India. Ormai l'orizzonte dell'interesse storico veniva esteso a
ogni manifestazione umana.
Altre opere storiche di V. sono: Histoire de Charles XII
(1731), Les Annales de l'Empire (1753), Histoire de
l'Empire de Russie sous Pierre-le-Grand (1759-63), Précis
du siècle de Louis XV (1769).
▭ Sul piano filosofico, in polemica con le varie forme di
metafisica contemporanea, e sulla scorta della cultura empiristica
inglese, egli s'impegnò a combattere la fisica cartesiana, dominante
in Francia, in nome della fisica newtoniana destinata a
soppiantarla; ma ancor più combatté tutto Cartesio e i sistemi
metafisici del sec. 17°, contrapponendo all'esprit de système, che
tendeva a dare una soluzione integrale del problema dell'universo,
la scienza sperimentale con il suo orizzonte che si allarga
progressivamente.
La sua metafisica ammetteva Dio, ma si dichiarava incapace di
determinarne l'essenza e gli attributi; la sua psicologia, messe da
parte le infinite discussioni sull'anima, si teneva ferma
all'immediata evidenza: "io sono corpo e penso". Sul piano
religioso, coerentemente con le sue posizioni gnoseologiche, vicine
a quelle di Locke, fu fautore di una forma di deismo basato
sull'ammissione di un Dio "primo motore intelligente", eterno autore
di un mondo altrettanto eterno; e di una religione naturale
riconducibile a una serie di "principî morali comuni al genere
umano".
Sono queste le idee che, letterariamente variate all'infinito,
tornano nei suoi scritti filosofici: il Traité de méthaphysique
(1734), Le philosophe ignorant (1766), le Questions sur
l'Encyclopédie (1770-72), il Dictionnaire philosophique
(una delle sue grandi opere), e in numerosi agili opuscoli. Infine,
quale che ne fosse il valore scientifico, vanno ricordati gli
scritti di critica al Vecchio e al Nuovo Testamento. V. vi
riprendeva le tesi e gli argomenti che erano già stati proposti da
Spinoza, da Richard Simon, da Bayle, ma presentandoli con quel brio
polemico che ne favorì la diffusione in tutti gli strati
dell'opinione pubblica e fece sì che fossero universalmente letti
libri come La Bible enfin expliquée, Le tombeau
du fanatisme, L'établissement du christianisme.
In questi scritti, e soprattutto nel Dictionnaire philosophique che
ne riprende tutti i temi, è consegnato ciò che le generazioni
successive (limitando il più vasto significato della complessiva
opera di V.) avversarono o esaltarono come volterrianesimo, inteso
come spirito di radicale incredulità e di perentorio rifiuto del
soprannaturale.