Utilitarismo
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Concezione filosofica che indica nell’utilità il criterio
dell’azione morale. Sebbene motivi utilitaristici siano già presenti
nella filosofia di C.-A. Helvétius, fondatore di tale concezione può
essere considerato J.
Bentham, al quale si deve la formulazione del principio
fondamentale dell’u., secondo il quale è utile ciò che ha come
conseguenza la più grande felicità del maggior numero di persone.
Ancora a Bentham si può far risalire un’esigenza tipica di tutti gli
utilitaristi, quale quella di fare dell’etica una scienza esatta
come la matematica: un rigoroso edonismo basato sul calcolo della
differenza quantitativa tra i piaceri. Già con Bentham l’u. si
allarga al campo giuridico e politico, con la proposta di radicali
riforme. L’u. fu poi al centro della riflessione filosofica di J. Mill
e di J.S. Mill. A quest’ultimo è da attribuire la tendenza a
distinguere i piaceri anche dal punto di vista qualitativo e il
coerente radicalismo impegnato ad applicare in tutti i campi sociali
e politici il criterio utilitaristico di un accrescimento del
benessere e della felicità degli uomini.
Concezioni utilitaristiche sono presenti anche in altri filosofi:
così a H. Spencer si deve l’indicazione della morale
utilitaristica come ultima tappa dell’evoluzione; H.
Sidgwick (1839-1900) analizzò le varie forme di u.
conciliandole con il senso comune. In tutti questi filosofi l’u.
si distingue dall’edonismo con il considerare non l’utile
immediato del piacere bensì l’utile più remoto e costante, e si
contrappone anche a un u. puramente egoistico con l’esigenza di
considerare non solo l’utilità propria, bensì quella del maggior
numero possibile di individui. G.E. Moore sostenne infine un
peculiare ‘u. ideale’ che rifiutava la definizione edonistica del
bene. Successivamente il dibattito tra utilitaristi si è limitato
alla ricerca della struttura ottimale di un sistema
utilitaristico. Si è così distinto tra u. della regola (S.
Toulmin, P. Nowell-Smith) e u. dell’atto (J.J. Smart) a seconda
che si privilegiasse la giustificazione utilitaristica di poche
regole generali o di ogni singolo atto.
Enciclopedia delle Scienze Sociali
(1998)
di Carlo Augusto Viano
Utilitarismo
sommario: 1. Le origini. 2. La riforma delle
leggi. 3. La teoria del piacere. 4. L'etica pubblica e il programma
politico. 5. Utilitarismo e progresso storico. 6. L'utilitarismo
nella cultura accademica. 7. Utilitarismo ed economia. 8. L'economia
del benessere. 9. L'utilitarismo della regola. 10. Il ritorno
dell'economia. 11. Il ritorno dell'utilitarismo. □
Bibliografia.
1. Le origini
John Stuart Mill diceva che "in uno dei romanzi di Galt, Gli
annali della parrocchia, [...] il membro della Chiesa scozzese di
cui il libro costituisce un'immaginaria autobiografia viene
rappresentato nell'atto di ammonire i suoi parrocchiani a non
abbandonare il Vangelo e a non diventare, in conseguenza di ciò,
utilitaristi". Di lì Mill prese il termine quando, nel 1822, fondò
una piccola 'Società utilitaristica': "era la prima volta che
qualcuno assumeva il titolo di utilitarista e il termine si fece
strada [...] a partire da questa umile origine". La società si
sciolse già nel 1826 e non arrivò mai a dieci persone. Ma il suo
nome avrebbe avuto fortuna, perché "man mano che quelle opinioni
provocavano un interesse crescente il termine fu ripetuto da
estranei e oppositori e divenne di uso piuttosto comune proprio
intorno all'epoca in cui quelli che l'avevano originariamente
assunto lo abbandonarono, insieme ad altre caratteristiche di setta"
(John Stuart Mill, Autobiography, 1873; tr. it.: Autobiografia,
Roma-Bari 1976, pp. 63-64).
Le prime riunioni della Società si tennero nella casa di Jeremy
Bentham, che era il vero ispiratore di Mill e dei giovani raccoltisi
intorno a lui. Bentham aveva dedicato il suo primo scritto
impegnativo, Commento ai Commentari: critica ai Commentari sulle
leggi d'Inghilterra di William Blackstone, incominciato nel 1774, ma
mai pubblicato, appunto alla critica dell'opera principale,
pubblicata dal 1765 al 1769, di William Blackstone, alla cui scuola
si era formato a Oxford tra il 1767 e il 1770. Blackstone aveva
utilizzato la teoria tradizionale della legge di natura, immettendo
le leggi positive, "municipali" come le chiamava, in un sistema di
leggi (di natura, divine, delle nazioni) che le sovrastano, e nel
quale intervengono soltanto a confermare obblighi e divieti o a
introdurre obblighi e divieti nuovi in materie indifferenti, cioè
non disciplinate dalle leggi superiori.
Per Bentham quelle leggi 'superiori' erano soltanto metafore, come
lo era il contratto originario che, per Blackstone e la teoria
tradizionale, aveva messo fine allo stato di natura e aveva
istituito il potere del re, con i suoi limiti e contrappesi
costituzionali. Attingendo a David Hume come a Joseph Priestley,
alla letteratura anticonformistica come alla scuola scozzese e
all'illuminismo continentale di Claude-Adrien Helvétius o di Cesare
Beccaria, Bentham criticava l'interpretazione tradizionale della
costituzione inglese, che mescolava teoria del contratto originario,
fedeltà alle tradizioni giuridiche consacrate dalla common law e
lealismo monarchico. In particolare riconosceva di aver imparato da
Hume a considerare il contratto originario una "chimera" e una
"finzione" dai "fondamenti sabbiosi". Eliminate quelle finzioni, la
legge municipale rimane la sola "cui gli uomini nel loro modo
ordinario di parlare darebbero il nome di 'legge' ", la sola "che
vediamo fatta in ogni nazione, per esprimere la volontà del corpo
che in essa governa" (A fragment on government, 1776, Introduzione
3, in The collected works, a cura di J. H. Burns, Principles of
legislation, London 1977, p. 422). Perché una legge è "un insieme di
parole [...] che siano segni di quella che potremmo dire una
volizione e servano a esprimerla" (A comment on the Commentaries,
ibid., p. 7).
2. La riforma delle leggi
Bentham riteneva che alla "scoperta e al progresso nel mondo
naturale" corrispondesse in quello morale "la riforma", che deve
muovere da "questo assioma fondamentale: è la massima felicità del
massimo numero che costituisce la misura di ciò che è corretto o
sbagliato" (A fragment on government, cit., Prefazione, p. 393).
Usando questa regola il censore delle leggi deve criticare le leggi
esistenti, valutando la loro tendenza a promuovere o a ostacolare
"la Felicità", il "fine comune" di tutti gli uomini. La tendenza a
promuovere la felicità "è ciò che in un atto chiamiamo la sua
utilità" (ibid., p. 415). Bentham riteneva, come Hume, "che i
fondamenti di tutte le virtù consistono nell'utilità", che
"l'utilità sia la prova e la misura di ogni virtù [...] e che
l'obbligo di provvedere alla felicità generale venga prima di ogni
altro e includa ogni altro" (ibid., vol. I, 36, p. 440). Il compito
censorio della giurisprudenza dovrebbe consistere soprattutto nello
sfrondamento delle legislazioni e nell'eliminazione delle leggi
inutili, che creano reati artificiali. Si potrebbe così fare a meno
delle tecniche usate dai giuristi alla Blackstone per adattare le
consuetudini inglesi ai tempi moderni, e si potrebbe liberare la
politica dagli inutili impedimenti costituzionali. La
contrapposizione tra un governo libero e un governo dispotico
riguardava, secondo Bentham, la distribuzione del potere, la fonte
dei titoli di potere, la frequenza dei mutamenti dei governanti, la
loro responsabilità, la presenza o assenza della libertà di stampa e
di associazione. Ma la critica delle leggi tradizionali e la
proposta di nuove leggi non poteva essere affidata a meccanismi
politici o giudiziari, perché chiunque può giudicare le leggi, pur
obbedendo a esse, senza bisogno di mediazioni costituzionali. "Sotto
il governo delle leggi [...] il motto di un buon cittadino [è]
obbedire puntualmente, censurare liberamente" (ibid., p. 399).
Il politico da parte sua deve realizzare l'interesse generale, senza
intenderlo come qualcosa che si sovrappone all'interesse dei
singoli, e provvedere alla felicità comune considerata come felicità
di ciascuno dei suoi membri. Pertanto chi detiene il potere politico
deve promulgare leggi efficaci, che innanzitutto non nuocciano
troppo alla felicità generale, affliggendo inutilmente i cittadini
con le pene, e deve astenersi dal punire quando la punizione è
inefficace, accettando perfino che si compiano reati difficilmente
perseguibili. La punizione è infatti un danno, e perciò un male, che
andrebbe evitato, se le leggi devono "aumentare la felicità totale
della comunità" ed "escludere nella misura del possibile ogni cosa
che tenda a diminuirla"; a meno che possa "escludere qualche male
maggiore" (An introduction to the principles of morals and
legislation, New York 1948, XIII, i, ii, p. 171). Pertanto bisogna
identificare i casi nei quali la punizione è infondata (cioè non c'è
un danno da prevenire), inefficace, svantaggiosa o troppo
dispendiosa (quando arreca più danno di quello che dovrebbe
prevenire) oppure non necessaria. Le sanzioni devono essere
proporzionate ai danni da prevenire, cioè devono arrecare danni
superiori ai benefici che si possono attendere dai comportamenti
proibiti, ma non devono arrecare più danni di quelli necessari per
dissuadere da quei comportamenti. Inoltre devono essere comparabili,
in modo da rendere possibile il confronto tra comportamenti dannosi
qualitativamente diversi, devono colpire gli abiti più che gli atti,
devono essere certe, prossime ed esemplari.
3. La teoria del piacere
Constatare che una condotta è dannosa è "una materia di
fatto", "una questione di esperienza", perché le sole cose alle
quali gli uomini sono interessati "quando si tratta delle
conseguenze di una legge o di un atto che è fatto oggetto di una
legge [...] sono il dolore e il piacere": e piacere e dolore sono
criteri disponibili a tutti, che non richiedono il parere di tecnici
delle leggi (A fragment on government, cit., Prefazione, pp.
416-418). Nell'Introduction to the principles of morals and
legislation del 1789 Bentham attenuò il riferimento all'idea humiana
di utilità, presente nel Commento ai Commentari e nel Frammento sul
governo che nel 1776 ne aveva tratto, e sviluppò un'organica teoria
del piacere. "La natura - diceva - ha posto l'umanità sotto il
governo di due padroni sovrani, il dolore e il piacere"
(Introduction, cit., p. 1), cause delle azioni, criteri per il loro
giudizio e fini da perseguire. In una nota del 1822 dichiarava di
preferire la formulazione del principio utilitaristico in termini di
massima felicità, che ammetteva di aver preso da Priestley e
Beccaria, a quella humiana in termini di utilità, perché così
emergeva un riferimento più diretto al piacere e al dolore. Infatti
l'utilità è "la proprietà di un oggetto con la quale esso tende a
produrre beneficio, vantaggio, piacere, bene o felicità (e tutte
queste determinazioni ora si riducono alla medesima cosa) o (e di
nuovo si tratta della stessa cosa) a prevenire danno, dolore, male o
infelicità alla parte il cui interesse è preso in considerazione: e
se la parte è la comunità in generale, allora si tratterà della
felicità della comunità, se è un individuo particolare, allora si
tratterà della felicità di quell'individuo" (ibid., I, iii, p. 2).
Bentham rifiutava qualsiasi distinzione tra il bene comune della
società e il bene dei suoi membri e qualsiasi idea del dovere che
fosse diverso dal fine che i singoli si possono porre tenendo conto
delle cause per le quali agiscono.
Bentham distingueva piaceri e dolori in semplici e complessi,
enumerava quattordici varietà di piaceri semplici e dodici di dolori
semplici, che poi analizzava minutamente, e teneva anche conto del
grado di sensibilità a piacere e dolore, che dipende da diverse
circostanze. A piacere e dolore, considerati in se stessi, si
possono assegnare valori, che dipendono da intensità, durata,
certezza o incertezza e prossimità o lontananza. In base alla loro
tendenza, piacere e dolore devono essere valutati anche secondo
fecondità e purezza. Se poi si considera il numero delle persone
coinvolte, ai valori precedenti bisogna aggiungere l'estensione. Per
ogni individuo, se la somma dei valori del piacere prevale su quella
dei valori del dolore, si avrà una tendenza buona, che si
ripercuoterà favorevolmente sulla società. Ma l'effetto sarà tanto
maggiore quanto maggiore sarà il numero delle persone interessate,
perché "la tendenza generale di un atto è più o meno dannosa secondo
la somma totale delle sue conseguenze, cioè secondo la differenza
tra la somma di quelle che sono buone e la somma di quelle che sono
cattive" (ibid., VII, ii, p. 70). Poiché deve "promuovere la
felicità della società, punendo e premiando", il governo deve punire
gli atti che tendono a disturbare quella felicità (ibid., VII, i, p.
70). A questo scopo esso deve giudicare le azioni non soltanto in se
stesse, ma anche in base alle circostanze, all'intenzionalità e alla
consapevolezza di chi le compie e deve prendere in considerazione i
moventi che "agiscono sulla volontà" (ibid., X, iii, p. 98). La
volontà buona è quella i cui dettami "coincidono con maggiore
certezza con quelli del principio di utilità", perché questi sono "i
dettami della benevolenza più estesa e illuminata" (ibid. X, xxxvi,
p. 121).
4. L'etica pubblica e il programma politico
Bentham riteneva che la sanzione giudiziaria non fosse
l'unico strumento del quale la politica deve servirsi. L'arte di
governo, accanto alla legislazione e all'amministrazione, ha anche
il compito dell'educazione pubblica dei non adulti e non è estranea
neppure all'"etica privata" (Introduction, cit., XVII, i, p. 309),
che è un'"arte di autogoverno" (ibid., XVII, iii, p. 310). L'etica
comprende doveri verso se stessi, ai quali corrisponde la qualità
della prudenza, e doveri verso gli altri, che possono essere
negativi, se impediscono di diminuire la felicità del prossimo, o
positivi, se impongono di accrescerla. Ai doveri negativi
corrisponde la probità, a quelli negativi la beneficenza. A prima
vista sembra che ciascuno debba pensare alla propria felicità e che
non ci siano ragioni per probità e beneficenza; eppure gli uomini
sono mossi anche dalla simpatia e dalla benevolenza, che sono motivi
puramente sociali, o dall'amicizia e dall'amore della reputazione,
che sono motivi semisociali. Perciò etica privata e legislazione
"vanno mano nella mano" (ibid., XVII, viii, p. 313), perché entrambe
hanno come fine la felicità degli individui, anche se c'è una
differenza, perché all'etica non sfugge nessun atto, mentre la
legislazione non può raggiungerli tutti. Quando le punizioni legali
sono infondate, inefficaci, svantaggiose o superflue interviene
l'etica, e la legislazione può aiutarla, non tanto accrescendo la
prudenza, perché gli individui sanno badare a se stessi, quanto
incoraggiando la probità, mentre la beneficenza appartiene
totalmente all'etica privata.
Gli avversari dell'utilitarismo hanno spesso sostenuto che esso
fosse una negazione della morale. Bentham delineava invece un'etica
pubblica che i governanti possono e devono seguire, e in base alla
quale i cittadini possono giudicarli. La guida della società non può
essere affidata a giuristi o a politici chiusi all'interno della
propria tradizione. Nella nota del 1822 a An introduction to the
principles of morals and legislation Bentham contrapponeva i
governanti che si occupano della felicità di uno solo o di un
piccolo numero di cittadini a quelli che tengono presente la
felicità del maggior numero. Il programma benthamiano pretendeva di
porsi fuori delle tradizioni politiche inglesi dominanti, di quella
tory come di quella whig che, entrambe, puntavano più sulle
istituzioni che sulla capacità dei singoli di giudicare le leggi.
Dell'etica tradizionale Bentham rifiutava quelli che considerava
falsi principî e che chiamava principio "ascetico" e "principio di
simpatia e antipatia": chi li accetta pretende che la morale sia una
rinuncia ai piaceri o dipenda da sentimenti, di simpatia e antipatia
appunto, diversi dai piaceri e dai dolori, mentre di fatto esprime,
senza riconoscerlo, l'apprezzamento di tipi particolari di piaceri.
In realtà si tratta di tentativi di sottrarre le scelte morali al
vaglio del criterio dell'utilità e al giudizio diretto dei
cittadini.
Bentham guardava con simpatia agli esperimenti fatti in Francia dopo
il 1789. Pierre-Étienne-Louis Dumont favorì i rapporti tra Bentham e
gli esponenti della Rivoluzione francese, in particolare Mirabeau,
trasse da un'ingente massa di manoscritti benthamiani i tre volumi
del Traité de législation civile et pénale, pubblicati nel 1802, e
contribuì al successo dell'opera di Bentham in Europa come in
America. Molte cose dividevano Bentham dai programmi della
Rivoluzione americana e di quella francese, in particolare dal
giusnaturalismo che ispirava le dichiarazioni dei diritti. Bentham
poteva accettare la rivendicazione della piena capacità legislativa
da parte dei giacobini, ma non era disposto a riconoscere la delega
dell'interpretazione degli interessi dei cittadini al governo
centrale: l'idea russoiana di popolo gli era del tutto estranea. In
Inghilterra il programma benthamiano trovò affinità con i movimenti
riformatori che chiedevano una modificazione della tradizione
costituzionale, ma non si ridusse mai a una difesa della democrazia,
perché puntò sempre sull'opera riformatrice di uomini illuminati,
capaci di promuovere la felicità collettiva nei modi che ciascuno
avrebbe potuto giudicare. In questa prospettiva Bentham propose
molte idee nuove in materia di codificazione, proprietà, sicurezza,
uguaglianza, rapporti di lavoro, relazioni personali, schiavitù,
famiglia, condizione delle donne, libertà sessuale per gli adulti e
riconoscimento di tutte le forme di vita oltre quella umana.
Intorno a Bentham si raccolsero personaggi che cercarono di dare
forma alle sue idee e ai suoi scritti, spesso disordinati e mal
costruiti, e svolsero un'intensa propaganda per liberare l'umanità
da pregiudizi morali e religiosi. John Stuart Mill (Autobiography,
cit., III; tr. it., p. 56) cita "un libro (scritto sulla base di
alcuni manoscritti di Bentham e pubblicato sotto lo pseudonimo di
Philip Beauchamp) intitolato Analisi dell'influenza della religione
naturale sulla felicità temporale degli uomini" nel quale si
mettevano in luce le "contraddizioni [...] pervertitrici dei
sentimenti morali" nella religione naturale "quanto [in] qualsiasi
forma di cristianesimo se realizzata davvero compiutamente". Oltre a
Dumont, John Austin diede forma sistematica alle teorie giuridiche
benthamiane con Province of jurisprudence determined del 1832. Ma il
vero costruttore della dottrina utilitaristica fu James Mill, che
nel 1820 pubblicò Jurisprudence (un compendio delle teorie
giuridiche di Bentham) ed Essay on government, nel 1821 Elements of
political economy, e tra il 1822 e il 1829 scrisse Analysis of the
phenomena of the human mind, per dare una base filosofica alle
dottrine benthamiane, attingendo alle Observations on man, his
frame, his duty and his expectations, un'opera di David Hartley in
due volumi pubblicata nel 1749 e riedita in forma ridotta nel 1775 a
cura di Joseph Priestley. John Stuart Mill non sapeva più in che
occasione suo padre, James, avesse conosciuto Bentham, probabilmente
tra il 1806 e il 1808, ma era sicuro che egli fosse "comunque il
primo inglese di grande valore che comprese perfettamente e adottò
nel loro complesso le concezioni generali di Bentham sull'etica,
sullo Stato e sulla legislazione. La qual cosa costituì una base di
accordo naturale fra di loro e li rese amici intimi" (Autobiography,
cit., II; tr. it., p. 41). Tra la famiglia di Mill e Bentham si
stabilì un solido legame e quasi una forma di convivenza.
Negli Elements of political economy James Mill riprendeva i
Principles of political economy and taxation che David Ricardo aveva
pubblicato nel 1817. Ma fin dal 1787 in A defence of usury Bentham
aveva invocato la completa abolizione di ogni legge in materia di
interesse finanziario, applicando il principio che faceva valere
contro le leggi inefficaci, una linea alla quale convertì lo stesso
Adam Smith. Insieme con quelle di Ricardo, nel circolo benthamiano
entrarono le teorie di Thomas Robert Malthus sulla popolazione, e
l'attenzione si spostò verso la trasformazione dell'Inghilterra da
paese agricolo a paese industriale e verso i problemi di riforma
politica posti da questo processo. I programmi demografici ispirati
a Malthus sembravano l'unico mezzo per assicurare pieno impiego con
alti salari, attraverso la limitazione volontaria della crescita
numerica della popolazione lavoratrice. A questo si poteva giungere
soltanto impartendo un'educazione che mettesse tutti in grado di
leggere, perché tutte le opinioni potessero esprimersi con la parola
e gli scritti e, su questa base, i cittadini potessero orientarsi
per eleggere un'assemblea legislativa. Mentre la fiducia nel governo
rappresentativo e nella completa libertà di discussione era quasi
illimitata, la società aristocratica tradizionale e la Chiesa erano
considerate gli ostacoli maggiori al progresso della ragione umana.
Verso il 1819 al gruppo benthamiano si unì George Grote che,
presentato a James Mill da Ricardo, nel 1820 scrisse un opuscolo in
difesa della riforma radicale, in risposta a un articolo di James
Mackintosh sulla "Edinburgh review". Charles Austin, fratello di
John, fece conoscere soprattutto a Cambridge, nella Union Debating
Society, le idee politiche dei benthamiani. Nel 1822-1823 John
Stuart Mill costituì la piccola 'Società utilitaristica', che
avrebbe determinato la fortuna del termine sia tra i benthamiani sia
tra estranei e oppositori. Intorno alla Società si raccolsero
personaggi come William Eyton Tooke, figlio dell'economista, William
Ellis, economista, George Graham e John Arthur Roebuck. La
"Westminster review", uscita nel 1824 per iniziativa di John
Bowring, e lo "Spectator" di R. S. Rintoul, uscito nel 1828, furono
i periodici che propagandarono le idee benthamiane.
5. Utilitarismo e progresso storico
In parte proseguendo l'opera del padre, John Stuart Mill
cercò di dare un preciso statuto filosofico all'utilitarismo. Come
Bentham, egli riteneva che l'etica tradizionale avesse dato una
veste dottrinale ai pregiudizi morali correnti: la "scuola
intuitiva" richiamandosi a "principî [...] evidenti a priori", la
"scuola induttiva" pretendendo di ricavare lecito e illecito dalla
"esperienza" (Utilitarianism, 1861, 1863, I; tr. it.: Utilitarismo,
Milano 1946, p. 179). In realtà ogni regola o consuetudine morale
deve il proprio successo all'utilità che possiede, e deve essere
vagliata alla luce del principio di utilità o della massima
felicità, per il quale "le azioni sono lecite proporzionatamente
alla felicità che promuovono", dove "per felicità s'intende piacere
e assenza di dolore" (ibid., II, p. 184). La maggior parte delle
buone azioni ha per scopo non il bene dell'umanità o della società
in generale, bensì quello degli individui, e le preoccupazioni
dell'uomo più scrupoloso non devono andare oltre le persone che sono
comprese nella sfera delle sue azioni. La prima forma, elementare,
di rispetto per l'interesse generale consiste nell'astensione dalle
azioni vantaggiose che, se compiute da tutti, sarebbero dannose alla
società. Le occasioni di promuovere "la moltiplicazione della
felicità", che è "l'oggetto della virtù", cioè di diventare pubblici
benefattori, sono rarissime. Solo coloro che si occupano della
società in generale devono preoccuparsi abitualmente di un così
vasto campo d'azione. Tuttavia, per i postulati fondamentali
dell'utilitarismo, che faceva consistere l'utilità collettiva nella
somma delle utilità individuali, anche badando al proprio vantaggio
si contribuisce alla felicità generale purché si evitino i
comportamenti dannosi.
Mill introduceva però una differenza qualitativa tra i piaceri che
costituiscono la felicità, e contrapponeva alla semplice ricerca
della serenità, che induce ad accontentarsi, il desiderio, che
sollecita a sopportare anche dei dolori e a rifiutare un'idea
statica di felicità come soddisfazione. È la cultura che, rendendo
gli uomini interessati ai fenomeni della natura, ai capolavori
dell'arte, alle immaginazioni della poesia, agli avvenimenti della
storia, al progresso dell'umanità e alle sue possibilità future,
permette di apprezzare le differenze qualitative tra i piaceri: ogni
uomo nato in un paese civile può giungere a godere di una felicità
superiore.
Mill riteneva che la storia procedesse verso società di uguali,
nelle quali gli interessi di tutti sono considerati nella medesima
misura e ciascuno è obbligato a basare la propria vita sul rispetto
degli interessi collettivi. Pur attribuendo alla propria età un
progresso appena incipiente, Mill riteneva che già in essa ogni
individuo si considerasse un essere sociale e sentisse un bisogno
naturale di armonia tra i propri fini e quelli degli altri, anche se
il sentimento della socialità era ancora molto meno intenso dei
sentimenti egoistici, e spesso mancava completamente. Era
soprattutto l'educazione che, sostituendosi alla religione, poteva
irrobustire il senso di solidarietà, risolvere i contrasti fra gli
interessi e livellare le ineguaglianze dovute a privilegi di
individui e categorie. Questo processo avrebbe generato in ogni
individuo un sentimento di unità con tutto ciò che lo circonda e lo
avrebbe indotto a non desiderare per se stesso un benessere che non
includesse il benessere degli altri. Attraverso l'educazione il
senso di socialità, sempre presente ma originariamente ridotto, si
sarebbe esteso e sarebbe diventato anch'esso a suo modo naturale.
D'altra parte non occorre che le azioni produttrici di benessere
generale, giustamente considerate virtuose, siano compiute
esclusivamente per senso del dovere. Anche motivazioni egoistiche
possono rendere virtuosi i comportamenti che generano, perché il
movente delle azioni riguarda il merito di chi agisce, non il
contenuto delle sue azioni, che è determinato dalle loro conseguenze
sulla felicità di chi le compie e della società cui appartiene.
Per Bentham il principio di utilità non era dimostrabile, proprio
perché è un principio dal quale si deve partire per provare tutto il
resto. Anche Mill ammetteva che dell'utilitarismo non ci fosse una
prova, "nel significato ordinario della parola", ma pensava di poter
mostrare che il principio di utilità è conforme alla struttura dei
nostri desideri: "l'unico oggetto di desiderio è la felicità.
Qualunque cosa venga desiderata, in quanto strumento per il
raggiungimento di altri fini oltre se stessa, e alla fine per la
felicità, non può essere desiderata che come parte della felicità
medesima" (ibid., IV, p. 223). In realtà la 'prova' milliana
(tutt'altro che chiara e lineare) consisteva nel mostrare che tutti
gli atti umani, anche quelli che sembrano non rivelare questo scopo,
hanno come fine la ricerca della felicità e che ogni valutazione
morale può essere ricondotta al contributo che i singoli atti
arrecano alla felicità collettiva. Bentham aveva presentato come una
scelta preliminare quella di pubblici ufficiali che si servano di
mezzi di governo in grado di rendere minime le afflizioni degli
individui, partendo dal riconoscimento che non esiste altra felicità
collettiva che non sia quella costituita dalla somma delle felicità
individuali. Mill intendeva mostrare che l'idea di felicità muta nel
corso della storia umana e può via via incorporare contenuti
diversi, fino a comprendere molte delle cose che la teoria etica
tradizionale in qualche modo conteneva. La prova di Mill consisteva
in sostanza nel mostrare che il principio di utilità resta costante
nello sviluppo storico nonostante che si configuri in modi diversi,
perché gli uomini tendono pur sempre alla felicità e ogni loro fine
si configura come parte della felicità cui tendono. Bentham passava
dalla teoria etica edonistica a un programma politico di promozione
del benessere collettivo, facendo valere con forza la riduzione
della felicità totale alla somma delle felicità individuali. Mill
ricorreva invece alla mediazione della storia: soltanto al termine
di un processo storico ancora agli inizi la ricerca della felicità
individuale sarebbe potuta coincidere con la ricerca della felicità
collettiva, e il senso di solidarietà avrebbe fatto parte della
felicità di ciascuno. Come già Bentham, Mill assegnava un posto
importante all'educazione e, come lui, riteneva che malattie e
povertà fossero due impedimenti gravi alla possibilità di istruire
tutti in modo adeguato. Ma malattie e povertà sarebbero stati
sconfitti. In questo senso Mill riprendeva temi propri
dell'utilitarismo della prima generazione, ma introduceva nelle
dottrine utilitaristiche temi che aveva importato dalla cultura
europea continentale, dal sansimonismo e positivismo comtiano alla
cultura idealistica e romantica tedesca, conosciuta attraverso
Coleridge e Carlyle.
Alla concezione fondamentalmente individualistica della società
propria dell'utilitarismo, nella quale ricevevano un'attenzione
speciale la sicurezza degli individui e delle loro proprietà, si
contrapponevano i nuovi sistemi che arrivavano dalla Francia, e che
dipingevano la società come un tutto complesso, nel quale
interagivano tra loro organizzazione del lavoro, cultura e strutture
sociali, politiche e familiari. Gli intellettuali erano gli eredi
dei sacerdoti e dovevano riformare la società esercitando un potere
simile a quello che un tempo era spettato ai sacerdoti. I
positivisti, stabilendo un collegamento più stretto, organico, tra
cultura e società, sembravano in grado di prospettare mutamenti
sociali molto più profondi di quelli proposti dai benthamiani.
D'altra parte la cultura tedesca sembrava offrire contenuti più
sostanziosi per i progetti educativi cari agli utilitaristi: i
letterati tedeschi, da Goethe a Humboldt, mettevano a disposizione
strumenti con i quali stimolare la sensibilità per i piaceri
qualitativamente superiori, che Mill aveva introdotto nella teoria
utilitaristica.
6. L'utilitarismo nella cultura accademica
Per realizzare i propri programmi educativi gli utilitaristi
promossero la fondazione dell'University College che, all'interno
dell'Università di Londra, doveva trasmettere un sapere non dominato
dalla teologia e accessibile anche alle donne. Ma l'utilitarismo
penetrò anche nella cultura inglese più legata alla tradizione.
Charles Austin propagandò le idee utilitaristiche a Cambridge, e
proprio qui l'utilitarismo trovò la massima attenzione presso un
professore importante come Henry Sidgwick.
Sidgwick riconosceva l'utilitarismo quale uno dei Metodi dell'etica,
come si intitolava la sua celebre opera (pubblicata nel 1874 e
destinata ad avere molte edizioni), accanto alle teorie
intuizionistiche, che Mill considerava alternative a quelle
utilitaristiche. Per Sidgwick l'intuizionismo dava ragione del fatto
che l'uomo comune di solito non ha difficoltà a conoscere quali
comportamenti, indipendentemente dalle loro conseguenze, imponga il
dovere: ha appunto intuizioni etiche. Gli stessi utilitaristi
avevano avuto bisogno di integrazioni intuizionistiche perché, se si
fossero affidati al puro edonismo, che pure è uno dei metodi
possibili dell'etica, non avrebbero potuto introdurre gli elementi
universalistici, come il riferimento alla felicità generale, che la
loro dottrina conteneva. Mill aveva cercato di non riconoscere
quell'integrazione, costruendo una 'prova' del principio
utilitaristico che, basata com'era sul corso della storia, dava
l'impressione di rifarsi alla struttura del desiderio umano; in
realtà aveva fatto di quel principio una regola, l'indicazione di un
fine da perseguire o la prescrizione di un dovere. Ciò mostrava che,
malgrado i loro sotterfugi, gli utilitaristi sostenevano un
"edonismo universalistico" molto più affine all'intuizionismo che
all'"edonismo egoistico". Sidgwick riteneva che il tentativo di
Mill, di tener ferma la base edonistica pur arricchendola, senza
compromettersi con l'intuizionismo, con l'introduzione di differenze
qualitative tra i piaceri, fosse fallito, perché ogni confronto
qualitativo di piaceri si risolve in un confronto quantitativo.
Anziché cercare nel desiderio di felicità comune a tutti gli uomini
la base del principio di utilità, bisognava spostarsi sul piano
delle regole e delle obbligazioni: così quel principio sarebbe
diventato non tanto una generalizzazione fattuale o quasi fattuale,
ma una regola applicabile per rendere coerenti tutte le obbligazioni
che a prima vista vincolano gli individui.
Perché effettivamente l'utilitarismo aveva contribuito a mettere in
luce i conflitti tra principî morali diversi, richiamando
l'attenzione sulle ripercussioni dei comportamenti sulla felicità,
cosa alla quale non sempre l'intuizionismo si era mostrato
sensibile. Ma lo stesso principio di utilità si prestava a
interpretazioni diverse. Infatti esso affermava che la felicità
collettiva deve consistere nella somma delle felicità individuali,
ma ammetteva che il massimo di felicità collettiva potesse
comportare il sacrificio degli individui. Già Bentham aveva
osservato che non conviene punire tutte le trasgressioni, che si
deve preferire la tutela della sicurezza a quella dei diritti di
proprietà, che si può togliere a chi ha di più per dare a chi ha di
meno. Mill aveva riconosciuto che esistono diverse concezioni della
giustizia e dell'uguaglianza, e che soltanto tenendo conto
dell'utilità generale sarebbe possibile scegliere quella più
opportuna. Mill aveva cercato nello sviluppo della storia le
indicazioni per conciliare cose diverse tra loro: l'utilitarismo
originario con le dottrine socialiste, quelle positiviste e il
liberalismo europeo continentale, e aveva finito con l'elaborare una
teoria della libertà nella quale le differenze sono in generale un
arricchimento della società, purché si tuteli il diritto dei singoli
a non essere danneggiati. La matrice utilitaristica delle sue
dottrine lo induceva a pensare che esistesse una base comune per
intendere i danni che si possono arrecare agli individui.
Sidgwick riconosceva che le teorie intuizionistiche erano incomplete
e inadeguate, e che potevano aver ragione gli utilitaristi quando si
richiamavano al principio di utilità per stabilire quali regole di
comportamento applicare nei singoli casi. Ma anche l'utilitarismo
aveva le proprie difficoltà interne. Altro è ammettere che una
regola generale possa avere conseguenze svantaggiose e debba essere
specificata con regole meno generali per adattarla a circostanze
particolari; altro è ammettere che atti singoli di trasgressione
delle regole generalmente seguite costituiscano la soluzione più
vantaggiosa. Se tutti osservano le regole e un individuo le
trasgredisce, il vantaggio di questo individuo, e perciò della
società cui esso appartiene, cresce. Ma il riconoscimento
dell'eccezione rischia di minare l'osservanza generale della regola,
che è la condizione perché l'eccezione sia vantaggiosa. Se
l'osservanza diffusa è fondata su tendenze extramorali, l'eccezione
può essere ammessa più facilmente, perché non mina l'osservanza
diffusa della regola. Se invece il rispetto della regola dipende da
ragioni morali, l'eccezione utilitaristica crea delle difficoltà,
soprattutto se la società in cui opera l'utilitarista non è
costituita da "utilitaristi illuminati". In questo caso
l'utilitarista può privatamente praticare un'etica diversa da quella
che consiglia in pubblico. Si arriverebbe così ad approvare una
"morale esoterica", cioè diversa da quella corrente, che dovrebbe
esser mantenuta segreta per non incoraggiare la violazione della
moralità corrente. Mentre Mill aveva contato sulla possibilità che
lo sviluppo della storia stessa avrebbe reso compatibile
l'estrinsecazione massima delle preferenze individuali con la
massima felicità collettiva, Sidgwick vedeva le cose dal punto di
vista del senso comune, inteso come un insieme di obbligazioni non
del tutto coerenti, che il principio di utilità avrebbe potuto
contribuire a rendere compatibili. In realtà l'utilitarismo si
proponeva di riuscire dove non riuscivano gli altri metodi etici,
cioè di garantire la coincidenza tra l'osservanza dei doveri verso
gli altri e l'esercizio delle virtù sociali da una parte, e il
raggiungimento della massima felicità possibile per chi agisce
virtuosamente dall'altra. Ma per Sidgwick la coincidenza di felicità
individuale e felicità collettiva era fuori della portata di
qualsiasi teoria etica, e le ambizioni dell'utilitarismo rischiavano
di mettere in pericolo l'idea stessa di un sistema di obbligazioni,
introducendo la possibilità di ammettere eccezioni o di giustificare
una doppia morale.Sidgwick riportava l'utilitarismo entro il solco
della tradizione filosofica accademica, e cercava di mostrare come
neppur esso potesse offrire una teoria etica totalmente immune da
incompletezze e compromessi. A questo modo egli apriva anche la
strada alle critiche dell'utilitarismo che costituiranno tanta parte
della filosofia, soprattutto della filosofia morale, della seconda
metà dell'Ottocento e del Novecento. Ma Sidgwick riprendeva anche i
temi propriamente economici dell'utilitarismo. In un primo tempo era
sembrato che la liberazione del mondo economico da leggi inutili
avrebbe condotto alla massima felicità degli individui e della
società: in questo senso si era mosso Bentham criticando la
proibizione dell'usura. Ma Ricardo e Malthus avevano delineato
soprattutto le minacce che insidiavano il libero sviluppo delle
attività economiche, e Mill aveva mostrato interesse per dottrine
positiviste e socialiste, che pretendevano di intervenire
pesantemente nel mondo economico. Formulato dapprima come una teoria
della giustizia legale, l'utilitarismo aveva presto incontrato il
problema della giustizia come distribuzione di ricchezza. Già
Bentham, proprio per il principio della trasferibilità dei benefici,
aveva ammesso che si potesse prendere un po' ai ricchi, che non ne
avrebbero sofferto molto, per darlo ai poveri, che ne avrebbero
tratto un giovamento significativo. Mill osservava che la giustizia
ha che fare con la divisione in ricchi e poveri o con la
distribuzione degli oneri collettivi attraverso le tasse, una
distribuzione che poteva rispettare l'assoluta libertà economica o
ispirarsi a criteri di uguaglianza, e di uguaglianza stretta oppure
di proporzionalità. E Sidgwick rilevava come una teoria
utilitaristica della giustizia potesse suggerire limitazioni alla
libera concorrenza e alla libertà economica individuale.
7. Utilitarismo ed economia
I dubbi di Sidgwick sulla possibilità di giustificare con una
filosofia edonistica di tipo 'egoistico' la promozione
dell'interesse generale, ammessa dall'utilitarismo, erano ripresi da
F. Y. Edgeworth. Questi riteneva che "il linguaggio ambiguo di Mill,
e forse di Bentham" avesse creato l'"illusione" di poter far
coincidere interesse individuale e interesse generale (Mathematical
psychics. An essay on the application of mathematics to the moral
sciences, London 1881, p. 52). Tuttavia anche Sidgwick era stato
vittima dei miraggi utilitaristici quando aveva associato
un'assegnazione diseguale, ma efficiente, dei mezzi di felicità a
una distribuzione uguale di felicità, da perseguire in nome della
giustizia intesa come uguaglianza.
Sidgwick usava ancora il vecchio linguaggio filosofico degli
utilitaristi alla Bentham e alla Mill e si riferiva a un semplice
calcolo algebrico dei piaceri e dei dolori. Edgeworth applicava
sistematicamente il principio della diminuzione marginale del
piacere (e dell'utilità) e si serviva del calcolo infinitesimale,
usando anche modelli fisici per raffigurare fenomeni economici: così
poteva esprimere l'utilità con una funzione, e non con una somma, e
riprendere il concetto utilitaristico di un massimo di utilità. Ma
soltanto in un mercato perfetto "l'utilità totale del sistema è un
massimo relativo in qualsiasi punto sulla curva pura del contratto"
(ibid., p. 25), mentre nei mercati reali, che hanno limiti nella
libera contrattabilità e nel libero accesso alla contrattazione, il
massimo di utilità collettiva può essere raggiunto solo attraverso
un arbitrato, in grado di allocare le risorse nel modo più
efficiente. Qui può trovare posto una concezione utilitaristica
della giustizia che cerchi di conciliare uguaglianza ed efficienza,
evitando che per favorire il progresso generale della società i più
progrediti progrediscano più degli altri. Non quando la felicità di
tutti cresce indefinitamente, ma solo quando i membri della società
si muovono lungo curve di indifferenza, cioè non hanno interesse a
passare da un livello all'altro del sistema economico, l'utilità
collettiva raggiunge un massimo compatibile con la soddisfazione
degli individui.
Questa impostazione dava una singolare configurazione ai tentativi
di Mill e di Sidgwick di introdurre nell'utilitarismo motivi
altruistici. La giustizia utilitaristica avrebbe sancito le più dure
differenze sociali per garantire il progresso in generale,
trascurando la felicità individuale in nome dell'utilità collettiva
e il benessere delle generazioni presenti in nome del benessere
delle generazioni future; in particolare sul terreno politico essa
rischiava di compromettere i tentativi, perseguiti dagli
utilitaristi, di assorbire le concezioni della giustizia intesa come
uguaglianza. Sulla strada aperta da Edgeworth si sarebbe giunti ad
affermare che le differenze tra i gruppi sociali si sarebbero potute
spostare solo aumentando il prodotto globale rispetto alla
popolazione, anche se la forma delle differenze sarebbe rimasta
costante. Perciò solo una legislazione che avesse incoraggiato la
produzione avrebbe potuto condurre a un miglioramento assoluto della
società e anche a un miglioramento relativo dei più svantaggiati.
Ogni altro tentativo di modificare la distribuzione delle risorse
tra i gruppi sociali, indipendentemente dalla loro posizione nel
processo economico, avrebbe provocato delle oscillazioni, alla fine
delle quali si sarebbe riprodotta la situazione originaria, ma dopo
gravosi sprechi. Perciò la struttura della società sarebbe rimasta
fissa e, a meno di variazioni della ricchezza totale che avrebbero
coinvolto le quote assegnate ai diversi livelli sociali, ma non
l'esistenza dei livelli stessi, si sarebbero registrati solo
passaggi individuali da un livello all'altro. Questa era l'unica
forma possibile di equilibrio tra il perseguimento dell'interesse
generale e il rispetto per gli interessi individuali.
L'utilitarismo originario non aveva mai cercato un fondamento
teorico della compatibilità tra aspetti individualistici e aspetti
universalistici della propria dottrina in presunte armonie
economiche naturali, e aveva difeso insieme liberismo e interventi
nel campo economico. Collocandosi in una prospettiva prevalentemente
legislativa, gli utilitaristi avevano sostenuto l'inutilità di leggi
inefficaci per disciplinare fenomeni economici, come di altro tipo,
e la possibilità di correggere con interventi semplici i processi
economici: era inutile vietare l'usura, ma era auspicabile
promuovere riforme sociali con la tassazione. Ora le cose cambiavano
nella teoria economica: in un mercato perfetto diventava inutile
qualsiasi intervento, indipendentemente da considerazioni di
carattere legislativo. Ma neppure nei mercati imperfetti era
possibile intervenire con misure che cambiassero la "forma della
società", come avrebbe detto Vilfredo Pareto, che permettessero di
togliere ai ricchi per dare ai poveri il minimo che facesse soffrire
poco i ricchi, accontentasse assai i poveri e aumentasse il
benessere collettivo, come proponevano Bentham e Mill. Via via che
emergevano le differenze tra il mercato perfetto e i mercati reali
la convergenza tra interessi individuali e benessere collettivo
appariva più difficile.
8. L'economia del benessere
La vena riformatrice dell'utilitarismo sopravvisse alla crisi
dell'economia classica e anzi trovò una nuova formulazione. Se fosse
stato possibile misurare esattamente lo scostamento dei mercati
reali dal mercato perfetto si sarebbe potuto intervenire per
riavvicinare i primi alle condizioni del secondo. Nel mercato reale
i poveri sono svantaggiati perché non hanno le conoscenze, il tempo
e la mobilità necessari per vendere al meglio la propria merce, cioè
il lavoro. Ma differenze dei salari dipendenti da distribuzione,
prezzo del lavoro e salari lontani dalla condizione di uguaglianza,
a parità di livello, tra luoghi e occupazioni, danneggiano la stessa
ricchezza nazionale. Colmando i divari tra il prodotto sociale
marginale netto e il prodotto commerciale marginale netto, o il
prodotto sociale marginale netto e il prodotto individuale marginale
netto con premi e tasse, si potrebbero migliorare contemporaneamente
i livelli più bassi di benessere individuale e il benessere
collettivo.
Assumendo che il mercato perfetto sia una condizione che nessun
intervento può migliorare, si potrebbe dire che le correzioni delle
situazioni reali approssimano il mercato perfetto se producono un
benessere collettivo massimo, tale cioè che nessun aggiustamento
normativo possa ulteriormente migliorarlo. Furono tentate diverse
strade per identificare una condizione di questo genere: si pensò a
quella in cui, a parità di condizioni, lo spostamento di un fattore
di produzione, eccetto il lavoro, da una produzione all'altra è
indifferente; oppure a quella in cui, a distribuzione di risorse e
tipi di lavoro costante per tutti gli individui, c'è un individuo
per il quale le diverse combinazioni di risorse e lavoro sono
indifferenti; oppure ancora a quella in cui, a partecipazioni
identiche degli individui e a prezzi e salari costanti, il
trasferimento di una piccola quota di partecipazione da un individuo
all'altro lascerebbe il benessere inalterato.
In quest'ultimo caso si sarebbero potute trasferire quote di beni da
un individuo all'altro, come aveva pensato Bentham; ma ora risultava
chiaro che ci doveva essere una scala per misurare il benessere
delle singole persone interessate e un'unità di misura. Invece negli
altri casi si identificavano situazioni di indifferenza, rispetto
alle quali non c'è nessun'altra posizione nella quale il benessere
di un individuo sia maggiore senza che quella di un altro sia
minore, senza asserire che non c'è un'altra situazione nella quale
il benessere totale sia maggiore. Non si escludeva cioè che in certi
casi si sarebbe potuto aumentare il benessere collettivo, ma
migliorando la posizione di alcuni e peggiorando quella di altri. A
maggior ragione, se tutti avessero mantenuto le proprie posizioni e
quella di uno solo fosse migliorata, il benessere totale sarebbe
migliorato.
Riformulati a questo modo, i contenuti dell'utilitarismo diventavano
di nuovo problematici. Per costruire una scala di misura del
benessere individuale con un'unità di misura bisognava presumere di
sapere che cosa e a quali prezzi tutti avrebbero acquistato in un
mercato perfetto, dando delle misure cardinali ai desideri di
ciascuno. Tornava cioè il semplice calcolo dei piaceri e dei dolori,
dal quale era partito Bentham. Ma in mancanza di uno strumento di
misura di questo genere, ci si doveva affidare non alla misura
assoluta del piacere e del dolore, ma all'ordine in cui gli
individui mettono le proprie preferenze. E altro è parlare
dell'intensità assoluta di un desiderio e della sua soddisfazione,
altro è dire che si desidera una cosa più di un'altra. Soprattutto
diventava difficile stabilire quando si può dire che un ordinamento
sociale sia preferibile a un altro. Se fossero possibili misure
cardinali si potrebbero ordinare gli stati sociali complessivi
sommando i valori dei loro componenti, mentre è difficile ordinare
gli stati sociali esponendoli direttamente alla scelta degli
individui. Ciò che si può dire in questo caso è molto poco: che uno
stato complessivo della società è preferibile a un altro se in esso
nessuno sta peggio di prima e c'è almeno uno che sta meglio. Una
condizione, chiamata di 'ottimalità paretiana', che limita
fortemente interventi volti a correggere gli assetti fondamentali di
una società. Tuttavia la possibilità di mettere direttamente a
confronto gli assetti complessivi di una società, senza passare
dall'assegnazione di fini agli individui, avrebbe potuto evitare i
dubbi sulla possibilità di assegnare a tutti gli individui gli
stessi fini, di ricavare da essi i fini comuni della società e di
rimodellare la società a partire di qui. In base al criterio
dell'ottimalità paretiana si poteva supporre che in una votazione
con la quale si dovesse scegliere tra l'assetto A e l'assetto B,
differente da A soltanto perché l'individuo I sta meglio in B che in
A, tutti, meno I, sarebbero indifferenti tra A e B (cioè non
voterebbero, darebbero scheda bianca o si dividerebbero a metà) e
soltanto I voterebbe per B, che sarebbe preferito ad A. A questo
modo si potrebbero ordinare gli assetti di una società
indipendentemente dal loro contenuto e senza assegnare a essi un
indice costituito da un numero cardinale.
9. L'utilitarismo della regola
Nel momento in cui diventava difficile confrontare
comportamenti dando a essi un numero, e soprattutto sistemi di
comportamento valutati con la somma di quei numeri, erano ancora gli
economisti a proporre una nuova formulazione dell'utilitarismo. In
Utilitarianism revised, pubblicato nel 1936 sul volume XLV di
"Mind", R. F. Harrod sosteneva che l'utilitarismo classico aveva
preteso di delineare situazioni desiderabili da tutti e fini che
tutti perseguirebbero, applicando il termine 'buono' a situazioni, e
non solo a comportamenti, a fini, e non solo a mezzi. Inoltre gli
utilitaristi avevano guardato con sospetto alle obbligazioni, che
sembravano prodotti spuri del linguaggio giuridico, riducibili a
nessi causali. Invece Harrod, richiamandosi a W. D. Ross (The right
and the good, Oxford 1930), per il quale le obbligazioni erano un
aspetto primario e indipendente della condotta umana, introduceva
obbligazioni anche nel campo economico: nei settori a rendimenti
crescenti a parità di investimenti, per impedire che qualcuno tragga
profitti indebiti, bisogna passare dal libero corso dei rapporti
economici alla pianificazione, e le norme di pianificazione sono
appunto obbligazioni. In generale le obbligazioni nascono quando le
conseguenze di un atto vanno al di là dell'atto stesso: per esempio
a volte mentire potrebbe determinare mali minori che dire la verità,
e tuttavia c'è un obbligo di dire la verità, perché la menzogna
produce un effetto ulteriore rispetto al beneficio che procura,
minando la credibilità anche nei casi nei quali si dice la verità.
Nell'interpretazione di Harrod la morale non consisteva nel
perseguimento di beni uniformi, apprezzati da tutti gli individui e
la somma dei quali costituisse il bene collettivo, né da situazioni
nelle quali si potesse presumere che i singoli avrebbero voluto
trovarsi. Ciascuno determina da sé i propri fini e ci possono essere
conflitti sui fini, anche se alcun fini rilevanti sono largamente
condivisi. Buoni sono i mezzi che permettono di realizzare fini
buoni, e sono moralmente buoni i mezzi che permettono di realizzare
fini largamente condivisi o fini apprezzati dagli altri. Talvolta il
rapporto di conseguenza tra mezzi e fini è diretto, ma non quando si
tratta di atti con conseguenze non lineari: allora si devono
stabilire regole generali, e si valutano le conseguenze delle
regole, non degli atti. Questa forma di utilitarismo, chiamata
'utilitarismo della regola' per distinguerlo dall''utilitarismo
dell'atto' (anche se Harrod non usò questi termini, introdotti da R.
B. Brandt in Ethical theory. The problems of normative and critical
ethics, Englewood Cliffs, N.J., 1959), ebbe una grande fortuna. Il
riferimento alle regole e alle obbligazioni permetteva infatti di
riformulare l'utilitarismo come una teoria morale che valuta le
norme in base alle loro conseguenze. Dell'utilitarismo si ricuperava
perciò quello che nel gergo dei moralisti veniva chiamato
'conseguenzialismo', ma nello stesso tempo si poteva introdurre
l'utilitarismo nelle teorie metaetiche che interpretavano il
discorso morale come un sistema di norme.
10. Il ritorno dell'economia
L'utilitarismo della regola si presentò come un mezzo per
salvare da un nuovo naufragio anche la versione debole
dell'utilitarismo, che si limitava a un'assegnazione di numeri
ordinali alle preferenze e accettava il vincolo dell'ottimalità
paretiana. Infatti anche questa versione presentava difficoltà
perché, se era possibile fare supposizioni considerando le
preferenze di due persone su due oggetti, bastava considerare le
preferenze di tre persone su tre oggetti, ancorché presi a due a
due, per ottenere risultati non univoci e rendere impossibile
qualsiasi passaggio dalle preferenze degli individui alla
preferibilità di un assetto globale. Sembrava che l'utilitarismo,
per la sua impostazione fondamentale, non fosse in grado di
affrontare i problemi posti dall'interazione di individui, ciascuno
con le proprie preferenze: presupponeva quella che fu chiamata
l''economia di Robinson Crusoe', nella quale ogni persona è sola,
appunto come Robinson Crusoe, e il suo problema è solo quello di
determinare il massimo di una funzione, in situazioni di certezza o
di rischio, utilizzando probabilità oggettive associate con
frequenze note. Ma risultava difficile passare dalla funzione di
utilità individuale di tanti Robinson Crusoe a una funzione di
utilità collettiva, anche perché l'utilità di un attore economico
che tenga conto di altri individui sarebbe rappresentata dal massimo
di una funzione della quale non controlla tutte le variabili. Era
stata proprio l'indebita riduzione dell'utilità di individui in
interazione reciproca all'utilità di Robinson Crusoe quella che
aveva dato origine alla formula utilitaristica del 'maggior
benessere possibile per il maggior numero possibile', che
presupponeva la massimizzazione di due funzioni insieme. Per
interpretare l'interazione di più individui, ciascuno dei quali
persegue il proprio interesse individuale tenendo conto del
comportamento degli altri, J. von Neumann e O. Morgenstern (Theory
of games and economic behavior, Princeton, N.J., 1944) proposero di
utilizzare la teoria dei giochi. Riprendendo quella proposta, J. C.
Harsanyi ha suggerito (a partire da Cardinal utility in welfare
economics and in the theory of risk-taking, in "Journal of political
economy", 1953, LXI) che nelle situazioni di incertezza le
probabilità oggettive devono essere sostituite dalle probabilità
soggettive, cioè dalle stime di probabilità, che costituiscono la
misura delle preferenze. Gli individui possono cercare di rendere
massima la propria utilità facendo leva sulle certezze sulle quali
possono contare, sulle previsioni oggettive di rischio, e mettendo
in gioco le cose che stanno loro a cuore in situazioni di
incertezza, nelle quali le probabilità soggettive sono gli indici
del valore che essi danno a esse. Ma altro è il comportamento che
mira alla massimizzazione dell'utilità individuale, altro quello che
ha di mira l'utilità collettiva. Per formulare un giudizio morale,
cioè un giudizio che tenga nel medesimo conto gli interessi di
tutti, si dovrà rinunciare a utilizzare le conoscenze che servono a
massimizzare l'utilità individuale, e che riguardano soprattutto la
posizione che un individuo occupa nella società. Ciò si può ottenere
delineando la posizione tipica di n membri individuali della
società, dall'individuo nella posizione sociale migliore a quello
nella posizione peggiore, e cercando quale possa essere l'utilità
massima per un individuo che abbia la medesima probabilità di ogni
altro di esser collocato nel posto di uno qualsiasi tra gli n membri
della società. Il giudizio morale valuterebbe ciascun assetto
sociale possibile in termini di livello medio di utilità, e sarebbe
quello che potrebbe formulare un osservatore simpatetico ma
imparziale, che abbia interesse per il benessere di ciascun
partecipante, ma non abbia nessuna parzialità in favore di uno di
essi. Un giudizio di questo genere non impone nulla alle preferenze
degli attori sociali e parte dalle loro preferenze effettive, ma
deve tener conto non tanto delle preferenze personali reali, quanto
delle preferenze estese. Bisogna cioè che si attribuiscano agli
individui collocati a ciascun livello dell'assetto sociale non solo
le preferenze che avrebbe chi giudica, se occupasse quella
posizione, ma anche le preferenze attribuibili ad altri. Inoltre le
preferenze delle quali si deve tener conto devono essere depurate
dagli errori fattuali e devono essere eliminati gli atteggiamenti
antisociali. Infine bisogna adottare l'utilitarismo della regola,
evitando di considerare moralmente corretta un'azione singola che
massimizzi l'utilità collettiva. Perciò bisogna considerare ogni
atto come un obbligo derivante da una regola.
Questa forma di utilitarismo, stabilendo la separazione tra la
ricerca dell'utilità individuale e quella dell'utilità collettiva,
sanciva la crisi della tesi che aveva caratterizzato l'utilitarismo
originario. Allora gli utilitaristi avevano soprattutto contrastato
l'imposizione di restrizioni morali o legali inutili, promosso una
libera ricerca della felicità da parte dei singoli e stimolato la
manifestazione più ricca possibile delle differenze che, secondo
loro, avrebbe giovato ai singoli e alla società nel suo complesso.
Nella versione dell'economia del benessere l'utilitarismo aveva
mantenuto il programma di riforma della società, ma con l'obiettivo
di migliorare la posizione dei più svantaggiati. Anche in questo
caso il miglioramento dei singoli avrebbe prodotto un miglioramento
della collettività, soprattutto perché sul benessere collettivo
pesavano negativamente proprio le posizioni dei meno fortunati. Era
stato tuttavia difficile formulare in modo tecnicamente corretto
questa idea, che pareva semplice e intuitivamente evidente,
immaginare cioè un modo in cui si potesse migliorare la posizione
dei più svantaggiati senza danneggiare nessuno o senza danneggiare
qualcuno in modo tale da non cambiare l'assetto totale della società
o addirittura da peggiorarlo.
Per riproporre le riforme della società che l'utilitarismo aveva
sempre promosso bisognava distinguere nettamente tra il modo in cui
si massimizza il benessere individuale da quello in cui si
massimizza il benessere collettivo. Erano modi analoghi - come aveva
detto Harrod - nel senso che in entrambi i casi si procedeva a un
calcolo. Ma nel caso del benessere individuale il calcolo si fa
attribuendo probabilità soggettive agli esiti possibili, mentre
quando si deve calcolare il benessere collettivo si assume
l'equiprobabilità di occupare un livello qualsiasi di un assetto
sociale nel quale agli individui appartenenti a ciascun livello
vengono attribuite preferenze che non sono quelle reali, ma quelle
che si suppone che essi dovrebbero avere, si censurano le preferenze
antisociali, quelle generate da errori di fatto, e soprattutto si
fanno dipendere le preferenze assegnabili ai diversi livelli da
sistemi di regole.
11. Il ritorno dell'utilitarismo
Contro l'utilitarismo della regola D. Lyons (Forms and limits of
utilitarianism, Oxford 1965) ha obiettato che esso pretende di
considerare simili due menzogne che abbiano conseguenze diverse, una
conseguenze benefiche e l'altra dannose, considerandole entrambe
ingiustificate. Invece per l'utilitarismo valgono esclusivamente le
conseguenze degli atti, e perciò atti con conseguenze diverse, dal
punto di vista del danno e del beneficio che arrecano, sono
estensivamente diversi. Considerare menzogne allo stesso titolo atti
che generano conseguenze buone e atti che generano conseguenze
cattive significa far prevalere il riferimento alle norme che
proprio l'utilitarismo aveva voluto evitare. Fin dal 1956 J. J. C.
Smart (Extreme and restricted utilitarism in "Philosophical
quarterly", VI, ripubblicato poi, in versione corretta, in Theories
of ethics, a cura di P. Foot, Oxford 1967) aveva riproposto una
forma radicale di utilitarismo dell'atto, rivalutando l'edonismo,
che gran parte delle riforme dell'utilitarismo avevano cercato di
censurare. Negava che ci potessero essere piaceri intrinsecamente
cattivi e che tra i diversi tipi di piacere ci fosse una differenza
intrinseca, anche se ammetteva l'esistenza di conflitti, che vanno
risolti valutandoli per le loro conseguenze: ci sono piaceri più
fecondi di conseguenze, e di conseguenze rilevanti per tutta
l'umanità, o forse per tutti gli esseri senzienti. Poiché è ispirato
alla preferenza per le situazioni nelle quali la felicità totale è
più alta, l'utilitarismo deve suggerire decisioni assunte tenendo
conto delle loro conseguenze probabili e del modo di ragionare e di
agire della media degli altri. Pertanto il culto della regola va
respinto in ogni sua forma e si devono ammettere eccezioni rispetto
alle regole generali, quando si sa che non recano danno e che altri
le osserveranno.
A partire dagli anni settanta la fortuna dell'utilitarismo è
progressivamente diminuita e si sono moltiplicate le critiche nei
suoi confronti. Si è ritenuto che da un lato esso pretendesse di
stabilire criteri indebitamente uniformi per immaginare ciò che le
persone apprezzano, dall'altro che facesse consistere la felicità
individuale e collettiva con la migliore allocazione delle risorse
in vista della produzione di beni materiali. La difficoltà che
l'utilitarismo aveva incontrato, di dare una forma rigorosa a
programmi di riforma sociale che non si sovrapponessero ai desideri
degli individui, fu intesa come un buon motivo per ritornare alle
teorie etiche che ponevano al proprio centro l'appello ai diritti o
il primato della virtù, dei principî e delle regole. Un'ispirazione
utilitaristica si è conservata invece in alcuni indirizzi di
bioetica, un campo nel quale i filosofi di formazione utilitaristica
hanno sostenuto il primato della qualità della vita sulla sua
sacralità e la necessità di includere nell'ambito dell'etica il
rispetto per tutti gli esseri senzienti. La cura nell'evitare la
sofferenza di tutti gli esseri capaci di provare dolore, e perciò
l'inclusione degli animali nella sfera dei comportamenti etici, era
un tema proprio dell'utilitarismo fin dai tempi di Bentham, che
tuttavia è tornato nella cultura contemporanea e che ha fortemente
contribuito ad attenuare il carattere antropocentrico dell'etica
tradizionale e delle dottrine etiche prevalenti.