Tommaso d'Aquino, santo
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Filosofo e teologo (Roccasecca 1225 o 1226 - Fossanova 1274).
Fanciullo, oblato nel monastero di Montecassino, studiò poi a Napoli
ove ebbe maestri (la notizia è di G. Tocco) Martino di Dacia e
Pietro d'Irlanda. Entrato tra i domenicani, ricevette l'abito
religioso nel 1243-44. Sembra certo che abbia proseguito gli studî
universitarî (1245-48) a Parigi, quindi a Colonia, ove fu discepolo
di Alberto Magno. Tornato a Parigi, vi insegnò tra il 1252 e il 1255
come baccalarius biblicus e sententiarum; ottenne la licentia
docendi nel 1256, e nel 1257 fu nell'albo dei professori per la
teologia.
A questo periodo parigino risalgono il Commento alle Sentenze
(1254-56) e ad alcuni libri della Bibbia, le Quaestiones de
veritate, alcuni Quodlibeta, i commenti a Boezio
(tra il 1255 e il 1261).
Tornato in Italia (1259), creato lector Curiae da Urbano IV (1261),
svolse larga attività: terminò la Summa contra Gentiles,
scrisse le Quaestiones disputatae: De potentia, De spiritualibus
creaturis, il commento al De divinis nominibus dello
Pseudo-Dionigi; altri Quodlibeta, il commento all'Etica
di Aristotele e iniziò quello alla Metafisica;
cominciò la Summa theologica e il De regimin principum.
In questo periodo strinse amicizia con Guglielmo di Moerbeke, che
per lui tradusse opere di filosofi greci, in particolare di
Aristotele, o rivide sui testi greci le traduzioni già esistenti.
Nel 1269 fu a Parigi e nel 1270 si impegnò nella polemica
antiaverroistica con il De unitate intellectus contra
Averroistas, mentre si difese contro i maestri agostiniani,
che diffidavano del suo aristotelismo.
Continuò a lavorare alla Summa theologica, scrisse altre Quaestiones
disputatae (De anima, De virtutibus), commentò scritti
aristotelici (Metafisica, Fisica; il commento alla Politica è
incompiuto); iniziò, ma non condusse a termine, i commenti (perduti)
al Timeo di Platone e al commento di Simplicio al De caelo di
Aristotele.
Lasciata Parigi, tornò in Italia e insegnò teologia nello studio di
Napoli (1272-74); condusse innanzi la Summa theologica (fino
alla quaestio 90 della III parte; il Supplementum è di Reginaldo da
Piperno che utilizzò il Commento alle Sentenze del maestro), scrisse
il Compendium theologiae (incompiuto); chiamato nel 1274 al
Concilio di Lione, morì durante il viaggio.
Se è erronea prospettiva storica considerare la filosofia di T. come
una semplice ripresa della filosofia aristotelica nell'ambito di una
concezione cristiana del mondo (influiscono e convergono nella sua
posizione l'aristotelismo arabo e certe tesi del neoplatonismo
filtrate attraverso Agostino, Boezio, Dionigi, il Liber de causis e
Avicenna), è tuttavia evidente che l'aristotelismo costituisce il
punto di partenza del pensiero di Tommaso. Da questo punto di vista
è fondamentale l'accoglimento della metafisica di Aristotele con la
sua concezione dell'essere, la dottrina della causalità, la
distinzione tra potenza e atto, sostanza e accidente.
La composizione di atto e potenza è propria di tutti gli esseri
finiti, anche delle nature puramente spirituali. La potenza, ossia
l'essere della possibilità, non rappresenta una mera possibilità
logica nel senso di una mancanza di contraddizione intrinseca, bensì
alcunché di reale nel senso d'un essere incompleto, che può
diventare un determinato ente, pur non essendo ancora tale. Ciò che
è in potenza, non si può realizzare da sé stesso ma presuppone un
essere in atto dalla cui causalità viene attuato.
Su questa dottrina di atto e di potenza si basa anche la concezione
di T. della reale distinzione fra essenza ed esistenza nelle cose
create e finite. Questa distinzione, già chiara nei primi scritti di
T., è sviluppata attraverso la ripresa di un tema proprio della
metafisica di Avicenna, inserito su una concezione del concreto che
prende le mosse da un ripensamento originale di Boezio: le creature
sono esseri per partecipazione la cui essenza non coincide con
l'esistenza (l'essenza partecipa all'essere per esistere) e questa
struttura composita del concreto ne segna la caratteristica,
distinguendo radicalmente le creature dal creatore, perfezione pura
in cui essenza ed esistenza coincidono.
A questa dottrina si ricollega quella dell'analogia dell'essere:
l'essere non è un concetto di specie, univoco, bensì analogo e si
estende dai limiti del più tenue esistere partecipato fino a Dio,
essere assoluto. La metafisica aristotelica viene così approfondita
e in più punti coerentemente sviluppata: di particolare importanza
da questo punto di vista è la teoria dell'unità della forma
sostanziale con cui, eliminando ogni tipo di dualismo
platonico-agostiniano, T. giunge fino all'affermazione che anche
nell'uomo unico è il principio formale per cui egli vive, sente e
intende, e questo principio (l'anima) si unisce immediatamente al
corpo come sua forma, senza intermediarî. È lo sviluppo coerente del
concetto di sinolo e la più rigorosa difesa dell'unità sostanziale
dell'uomo.
Attorno a questa dottrina dell'unità della forma sostanziale,
combattuta dai francescani, si accesero vaste polemiche: ed essa fu
condannata (con altre tesi in prevalenza averroistiche) dal vescovo
di Parigi Étienne Tempier (1277), dagli arcivescovi di Oxford
Roberto di Kilwardby (1277) e J. Peckham (1284).
La metafisica si corona nella dottrina di Dio.
L'esistenza di Dio non è dimostrabile a priori (con l'argomento di
s. Anselmo, detto poi ontologico) perché tale argomento
comporterebbe un illecito passaggio dall'ordine del pensiero
all'ordine dell'essere. L'esistenza di Dio si dimostra, per T., a
posteriori, attraverso cinque vie: la prima via procede dalla
considerazione che ogni mosso richiede un motore, e che nella catena
dei mossi si deve giungere a un primo motore immobile perché non si
può andare all'infinito; la seconda via procede dalla connessione
delle cause efficienti disposte verticalmente: anche qui si deve
arrivare a una prima causa perché è impossibile un processo
all'infinito; la terza via è dalla distinzione del possibile e del
necessario: ciò che è possibile (cioè che può essere e non essere,
che è contingente) presuppone un necessario, e così via via fino a
un necessario assoluto, libero da potenza e che ha in sé la ragione
della sua necessità, puro atto; la quarta via è dalla gradualità
delle perfezioni (bene, buono, ecc.): questa gradualità presuppone
un valore assoluto di cui i varî gradi partecipano; la quinta via è
dall'ordine e finalità dell'universo che rinvia a un principio di
questo ordine e di questa finalità.
Dio è creatore in quanto trae dal nulla tutti gli esseri, formandoli
secondo le idee che sono in lui (esemplarismo platonico-agostiniano
da tempo definitivamente acquisito nella teologia cristiana); ma gli
esseri creati, sospesi all'atto della libera volontà creatrice
(creazione continua), costituiscono un ordine naturale retto dalle
leggi della causalità. T. respinge decisamente la dottrina di coloro
che negano azioni proprie agli esseri naturali togliendo ogni
autonomia alle cause seconde (la polemica è condotta in particolare
contro i "loquentes in lege Maurorum", cioè i teologi musulmani; ma
anche contro Avicebron e Avicenna); e l'accettazione della dottrina
aristotelica lo sorregge nella difesa di un ordine naturale che non
può essere semplice epifania del divino: anzi proprio nell'esser
dotato di una reale capacità causativa esso manifesta la potenza e
la carità di Dio che quella capacità ha concesso agli esseri creati.
Tale difesa del concetto di natura, della sua attività e iniziativa,
è di grande importanza anche in tutti i problemi in cui si discute
del rapporto tra ordine naturale e ordine soprannaturale, come nel
problema della libertà e della grazia. Con T., un'idea di natura
schiettamente aristotelica si sostituisce all'idea di natura
platonico-agostiniana tutta permeata di Dio.
Gli enti creati o sono composti di materia e forma, o sono forme
pure (puri spiriti): nei primi il principio d'individuazione è la
materia (materia quantitate signata); gli esseri spirituali invece
costituiscono ciascuno una specie (anche la dottrina tomista
dell'individualismo, combattuta dai francescani, è condannata da
Étienne Tempier nel 1277).
Coerente con la fisica e la metafisica è la psicologia; abbiamo
accennato alla tesi dell'unità della forma sostanziale; dobbiamo qui
ricordare la polemica sull'unità dell'intelletto sostenuta contro
gli averroisti. Il processo della conoscenza in T., come in
Aristotele, rientra sotto le generali leggi del movimento, ed è
quindi inteso come passaggio dalla potenza all'atto; così nella
sensazione l'organo di senso (in potenza a sentire) è attuato dal
sensibile esterno; le sensazioni unificate dal senso interno passano
nella fantasia e formano l'immagine sensibile dell'oggetto: questo
contiene, in potenza (perché limitato dalle caratteristiche
particolari della sensibilità), l'intelligibile, che,
smaterializzato e universalizzato cioè "astratto" dalle condizioni
individuanti per opera dell'intelletto agente, diviene intelligibile
in atto e come tale capace di attuare l'intelletto in potenza
(l'intelletto coglie direttamente solo gli universali). Ma è appunto
attorno all'intelletto in potenza che si apre la polemica con gli
averroisti: questi accettavano l'interpretazione del commentatore di
Cordova per cui l'intelletto possibile è una sostanza separata unica
per tutta la specie umana.
Contro questa interpretazione T. polemizza nel corso di varie opere
e scritti, e infine nel De unitate intellectus contra Averroistas
indirizzato, sembra certo, contro Sigieri di Brabante: la tesi
centrale dell'Aquinate, che vuole salvare l'individualità dell'atto
dell'intendere, è che se l'intelletto fosse uno non si potrebbe
spiegare come "questo uomo" (hic homo) intenda, e tutti verrebbero a
coincidere nell'identico atto dell'intendere; anzi, se l'unità e
universalità dell'oggetto inteso richiedesse, come diceva Averroè,
l'unità dell'intelletto, unico dovrebbe essere l'intelletto per
tutti gli esseri intelligenti in tutto l'universo. A garantire
l'individualità del conoscere interviene poi (oltre la teoria della
sensazione) la dottrina tomista dell'intelletto agente, inteso come
facoltà dell'anima che è forma del corpo (non quindi unico, come,
sia pure secondo diverse prospettive, si sosteneva dagli
avicennisti-agostiniani): all'intelletto agente spetta la funzione
di smaterializzare la specie intelligibile presente nell'immagine
della fantasia perché, resa intelligibile in atto, si imprima
nell'intelletto in potenza. Ed è l'intelletto agente, luce divina
impressa nell'anima, secondo una similitudine cara alla tradizione
agostiniana, che contiene i principî primi del conoscere, evidenti
per sé stessi.
Dalla metafisica discende anche l'etica tomista: Dio, fine ultimo
dell'uomo, è il termine della beatitudine che si risolve nella
visione di Dio concessa ai beati. Dio come bonum universale muove la
volontà necessariamente, ma nella vita terrena non si è innanzi a
questo bene assoluto, bensì a una molteplicità di beni, e la libertà
del volere si fonda sulla possibilità di scelta tra questi beni
relativi, ed è strettamente connessa alla loro affermazione
intellettuale: vi è una valutazione oggettiva dei beni che diviene
misura della bontà degli atti morali. Ma la moralità presuppone
anche la presenza nel soggetto di "abiti" delle virtù naturali e
soprannaturali, e, fuori di lui, di una legge divina. Un'impronta di
questa legge è però anche nell'uomo (morale naturale), che conosce,
se ha l'uso di ragione, i principî fondamentali della legge morale:
l'abito della ragione che permette la scoperta dei principî
dell'agire morale è chiamato synteresis. L'etica naturale si corona
poi nell'etica cristiana ispirata al principio dell'amore di Dio.
La politica di T., elaborata muovendo dalla Politica di Aristotele
che egli è il primo a commentare, si fonda nella naturale
socievolezza della natura umana, che conduce gli uomini a costituire
gli stati; il potere politico ha la competenza nell'ordine temporale
e come tale è distinto dal potere della Chiesa, di ordine
spirituale, ma poiché anche le cose temporali interessano al fine
ultimo dell'uomo e dello stato, che è la vita eterna, lo stato è in
questo subordinato alla Chiesa.
La ripresa dell'aristotelismo da parte di T. non si limita
all'ambito della filosofia naturale e della metafisica: essa ispira
anche il metodo teologico e la sua opera rappresenta una tappa
fondamentale nella teorizzazione della teologia come scienza.
Proseguendo lo sviluppo che la speculazione teologica aveva avuto
nel sec. 12° (quando, vicino alla semplice lectio divina e alla
meditazione sulla sacra pagina, si era iniziata una teologia
sistematica), T. utilizza in teologia la teoria aristotelica della
scienza e della dimostrazione scientifica. La speculazione teologica
ha per oggetto i dati della Rivelazione (accettati per fede); da
questi dati il discorso teologico muove secondo il metodo della
dimostrazione aristotelica per dedurre dalle premesse rivelate altre
verità che traggono la loro certezza dai principî da cui muovono e
dal rigore del ragionamento apodittico. La teologia è scienza: in
questo il distacco dalla tradizione agostiniana è notevolissimo, ed
è di fondamentale importanza per il successivo sviluppo teologico.
Con la teologia di T., assunta poi nelle scuole cattoliche, una
particolare filosofia (con i suoi fondamentali concetti: sostanza,
accidente, atto, potenza; e i suoi metodi) è inserita all'interno
della teologia cattolica: di qui i complessi problemi per la storia
del dogma e per il valore di formulazioni dogmatiche espresse in
termini di filosofia aristotelica.
Ma resta comunque mirabile la sistematicità del pensiero teologico
di T., la volontà di distinguere ragione filosofica e fede (quindi
anche natura e soprannatura), come pure la massima utilizzazione
della filosofia e delle sue tecniche nell'elaborazione delle formule
dogmatiche e nella dimostrazione dei praeambula fidei che rientrano
completamente nel dominio della ragione.