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Enciclopedia online
Nella storia del pensiero antico, la dottrina e la tradizione che si
collega a Zenone di Cizio e alla sua scuola, così chiamata perché
Zenone e i suoi successori usavano adunarsi nella Stoà Poikìle.
Storicamente nella scuola stoica si possono distinguere tre grandi periodi. Il primo, detto anche dell’antica stoa, va dagli inizi del 3° sec. e si estende fino al 2° sec. a.C. inoltrato ed è rappresentato dal fondatore Zenone di Cizio, da Cleante di Asso e da Crisippo di Soli. A essi si deve l’elaborazione dei motivi fondamentali della dottrina stoica. Già a partire dal 2° sec. si afferma però la tendenza a fondere ecletticamente con le concezioni stoiche motivi platonici e aristotelici, aprendo così una seconda fase che si protrae dal 2° al 1° sec. a.C., periodo noto come media stoa o s. medio, avente come suoi maggiori esponenti Panezio di Rodi, discepolo di Diogene di Seleucia, e il suo scolaro Posidonio di Apamea, importanti entrambi per l’influenza esercitata sulla cultura romana. Il terzo e ultimo periodo della scuola, denominato anche s. tardo o dell’ultima stoa, si estende dal 1° al 3° sec. d.C. e si caratterizza per la sintesi di motivi desunti dalla tradizione cinica e di dottrine della prima stoa. Seneca, Epitteto e l’imperatore romano Marco Aurelio si annoverano fra i massimi esponenti di questa fase. La scuola stoica ebbe grande importanza nel mondo romano, dove l’etica da essa elaborata, esaltando la libertà e la dignità dell’individuo, portò alla creazione di un tipo ideale di stoico, insensibile al male fisico, capace di andare incontro a volontaria morte, quando essa si presenti come l’unico mezzo per sfuggire alle offese provenienti dal mondo esterno.
Considerata nei suoi aspetti più generali e costanti, la filosofia stoica si sviluppa in tre discipline, logica, fisica ed etica, distinte e insieme strettamente connesse fra loro. La logica insegna infatti le condizioni del pensare, cioè i modi con cui conoscere la realtà; la fisica offre la conoscenza della realtà stessa, su cui si fonda l’etica che stabilisce i canoni del comportamento umano in quanto rispondente all’ordine della realtà.
Conoscere significa per lo stoico saper pensare e il pensare significa affermare o negare qualcosa di qualcos’altro, in ultima analisi giudicare, mettendo in rapporto i dati forniti dalle rappresentazioni (fantasie), ‘impressioni’ date da qualcosa che si presenta all’anima, modificandola. Esse non sono né vere né false; verità e falsità nascono dal nostro giudizio sulla rispondenza della rappresentazione alla realtà rappresentata. Si darà l’assenso, e quindi saranno vere, a quelle rappresentazioni che si presentano con forza ed evidenza, portandoci ad affermare la realtà dell’oggetto rappresentato (fantasie catalettiche o comprensive). I dati forniti dai sensi sono poi unificati da una facoltà ordinatrice, la ragione, detta l’egemonico, raccolti e conservati nella memoria. Particolare importanza assumono nel contesto della logica stoica le anticipazioni (prolessi) o nozioni comuni, che sono idee generali comuni a tutti gli uomini. Esse hanno una origine naturale e spontanea e svolgono la funzione di preparare le esperienze future. Per ciò che concerne la dialettica o arte del ben ragionare, tutti i ragionamenti devono basarsi su premesse evidenti di per sé da cui ricavare conclusioni altrettanto evidenti.
La dottrina fisica contempla l’esistenza di un principio attivo (ragione o λόγος) e uno passivo, la materia: il primo è principio di ordine e di vita (soffio vitale, fuoco artefice, anima del mondo) ripieno delle ragioni seminali, principi vitali e razionali, da cui si originano le cose. Tutto l’accadere, in questa prospettiva, si presenta come una manifestazione di questa universale ragione che è insieme provvidenza e fato. Il λόγος-fuoco è alla base del nascere, crescere, perire e rinascere dei mondi, responsabile della vita del cosmo che al compimento del grande anno (circa ogni 36.000 anni solari) si risolve in una conflagrazione (ἐκπύρωσις) universale, per ricominciare con un nuovo ciclo, identico al precedente, nel quale riappariranno uomini e cose, in una vicenda di eterno ritorno dell’identico. La concezione fisica degli stoici si risolve dunque in una sorta di ferreo determinismo, che, nella loro prospettiva religiosa, si identifica in ultima analisi con l’azione provvidenziale dell’immanente divinità.
La dottrina etica pone al suo centro un concetto di virtù intesa come esercizio di ragione, e di vizio come passione, cioè come incapacità di pensare e ragionare. L’uomo virtuoso è colui che vive in modo razionale, comprendendo la ragione del tutto, e quindi anche secondo natura, essendo la natura espressione della ragione universale che pervade e governa il mondo. L’impegno del saggio sta quindi nell’adeguarsi al corso fatale e necessario delle cose, persuaso dell’intrinseca razionalità degli eventi, realizzando una sorta di indifferenza (adiaforia) verso i singoli aspetti della realtà. Quando gli sia impedito di seguire questi principi di comportamento, egli saprà scegliere di uscire dalla vita (suicidio) piuttosto che vivere in modo irrazionale. La libertà si realizza così nel saper pensare, adeguandosi a ciò che accade e instaurando un rapporto di simpatia con gli altri uomini e col tutto.
Nella comune patria costituita dal cosmo, tutti gli uomini sono uguali nella loro capacità di essere razionali, e quindi anche tutti i cittadini di uno stesso Stato o di una stessa città: questa è la radice del cosmopolitismo e del giusnaturalismo stoici per i quali appunto giustizia e diritto non sono frutto di una convenzione, ma hanno il loro fondamento nella stessa natura (o ragione) che fissa appunto le regole del giusto e dell’ingiusto.
La periodizzazione. La scuola stoica si distingue in tre grandi periodi. Il primo, che dagli inizi del 3° sec. a.C. si estende fino al 2° sec. a.C. inoltrato, è quello detto dell’antica stoa) principalmente rappresentato, nella sua prima fase, dal fondatore Zenone di Cizio, da Cleante di Asso e da Crisippo di Soli. È questo il periodo classico dello s., quello in cui, specialmente per opera del fondatore Zenone e del grande sistematico Crisippo, le sue dottrine si determinano nella loro più schietta formulazione. Ma già nel 2° sec. a.C. si comincia ad affermare, accanto alla declinante tradizione dello s. antico, la tendenza a fondere ecletticamente concezioni stoiche con idee platoniche e aristoteliche. È questa la caratteristica dominante del cosiddetto s. medio, o media stoa, fiorente tra il 2° e il 1° sec. a.C. e principalmente rappresentato da Panezio di Rodi, allievo di Diogene di Seleucia e massimo autore della sintesi del pensiero stoico con la cultura romana, e dal suo discepolo Posidonio di Apamea, erudito e teorico di attività e capacità enciclopediche, che esercitò influsso grandissimo su tutto il pensiero posteriore. Il terzo periodo infine, che si dice dello s. tardo o dell’ultima stoa e si estende dal 1° al 3° sec. d.C., è caratterizzato da un ritorno all’ortodossia stoica, spinto anzi fino alle originarie concezioni ciniche e determinante quindi una sintesi di cinismo e s. particolarmente notevole per la maniera in cui vi si manifesta tanto l’affinità quanto il contrasto di quelle due correnti ideali. Principali rappresentanti di questa terza età dello s. sono Seneca, in cui non manca peraltro qualche tratto del precedente eclettismo, Epitteto, che fra tutti è la personalità speculativamente più energica, e Marco Aurelio, l’imperatore romano autore di malinconiche riflessioni morali in senso cinico-stoico.
I tratti essenziali del pensiero stoico.
Considerato nei suoi aspetti più generali e costanti, il sistema
stoico si compone di una teoria della conoscenza «logica», di una
fisica e di un’etica, subordinate l’una all’altra nella
progressione gerarchica caratteristica di tutti i sistemi
postaristotelici. La logica stoica è essenzialmente una dottrina
della verità come rispondenza al reale, posseduta dal pensiero in
quanto esso si adegua pienamente all’oggetto. Qualsiasi contenuto
di pensiero, osserva questa dottrina stoica, può essere vero o
falso a seconda della sua coincidenza con la realtà oggettiva: il
vero, cioè, è tale in quanto identico al reale, secondo l’idea più
tardi consacrata anche nella formula veritas est adaequatio
intellectus et rei. L’atto con cui il pensiero riconosce,
ad alcuni tra i suoi contenuti, questo carattere di rispondenza
all’oggetto e quindi di verità, è l’«assenso» (συγκατάϑεσις), una
specie di dichiarazione di fiducia nel loro valore, autorizzato
dalla «fantasia catalettica» (φανασία καταληπτική) o
«rappresentazione comprensiva», cioè – secondo la più probabile
interpretazione di questo termine – il contenuto di pensiero che
mostra di «comprendere», di «afferrare» in sé la realtà,
attingendola e rappresentandola pienamente. La fisica dello s.
riprende, nella sostanza, la concezione eraclitea del mondo. A
base di questa è l’idea del logos, della perfetta e
immutabile legge razionale che, sovrastando al divenire delle
cose, lo fa procedere conformemente a sé medesima. Principio
supremo del mondo, esso è la divinità medesima, la quale non è
dunque trascendente bensì immanente alle cose, compenetrando
l’Universo del suo spirito o soffio vivificante (πνεῦμα)
altrimenti identificato col fuoco. In tal senso, tutte le cose
derivano dal fuoco, e nel fuoco ritornano quando si sia compiuto
il ciclo del loro sviluppo: come accade al termine di ogni anno
cosmico, quando la «conflagrazione» (ἐκπύρωσις) universale
riassorbe nel fuoco originario tutto ciò che da esso si era
generato e che da esso dovrà nuovamente generarsi. A fondamento di
questa dottrina è infatti l’antica idea dell’eterno ritorno, onde
l’accadere del mondo, governato dall’immutabile perfezione della
legge, si ripete a regolari intervalli in forme assolutamente
identiche l’una all’altra. Questa concezione del mondo dà quindi
la più decisa formulazione razionalistica a quell’idea del destino
o del fato, che già la più ingenua esperienza religiosa dei Greci
sentiva come suprema forza dominante nel mondo, subordinando a
essa la stessa volontà e potenza degli dei. Impera su tutto una
necessità razionale (εἱμαρμένη o πεπρωμένη, letteralmente «la
parte che è stata stabilita dal destino») alla quale nulla sfugge
e nulla può contrastare. Tale necessità è d’altronde la
conseguenza diretta dell’immutabile saggezza divina governante il
mondo: in esso tutto è voluto da Dio, e quindi tutto è buono, la
volontà divina essendo per definizione tale e la sua onnipotenza
escludendo la possibilità di una realizzazione imperfetta della
sua perfetta intenzione. Data una simile concezione dell’Universo,
è facile scorgere quale etica debba derivarne. Convintosi della
verità di tale considerazione delle cose, l’uomo contempla il
mondo con lo stesso sguardo reverente con cui adorerebbe una
divinità che gli apparisse innanzi, non in immagine ma in persona.
Quel che gli resta da fare è semplicemente accettare il corso
delle cose, adeguarsi a esso, facendo così collimare la sua
volontà con la volontà divina che in quello si realizza e
manifesta. Fine supremo dell’uomo è così, per lo s., quello di
«vivere conformemente alla natura». Esso riprende in tal modo
l’antica regola cinica della «vita di natura», ma riempiendola di
un significato del tutto nuovo, giacché la «natura» stoica non è
più la semplice forma di vita naturale e animale che al cinico
appare preferibile alle raffinatezze della civiltà per il suo
maggiore grado d’indipendenza dai bisogni, bensì la natura
razionale e divina dell’Universo, teorizzata appunto dalla
«fisica». Adeguandosi alla natura, lo stoico mostra insieme di
conoscere la realtà delle cose e di comportarsi nel miglior modo
possibile: è perciò nello stesso tempo in possesso della saggezza
e della virtù. Persuaso della provvida razionalità di ogni evento,
non ha mai ragione di dolersene, avendo appreso a sentire come
buono anche ciò che alla comune considerazione sembrebbe cattivo,
e si trova quindi in uno stato di sostanziale indifferenza o
ἀδιαφορία rispetto ai singoli aspetti della realtà. Anche quando
ammette che, nel complesso sostanzialmente adiaforo delle cose, ve
ne siano alcune meno indifferenti, e quindi ragionevolmente
«preferibili» alle altre, come, per es., la salute, considera tale
preferibilità a sua volta come «naturale», cioè come rispondente
all’ordine cosmico per il quale esse appaiono più immediatamente
necessarie all’esistenza dell’uomo. In virtù di tale ἀδιαφορία
egli gode, d’altronde, di una libertà, che non è la moderna
libertà dell’azione, ma la classica libertà dall’azione propria di
colui che, non avendo nulla da desiderare, basta nella sua
perfezione a sé medesimo. Nella partecipazione di tutti
all’universale natura razionale che è il logos trova il
suo fondamento l’eguaglianza tra gli uomini che è un elemento
centrale del sentire stoico; ogni individuo, anche coloro che
tradizionalmente erano considerati esseri inferiori (come gli
schiavi), viene così a far parte di un unico Stato, un’unica
città, che è il ‘cosmo’ stesso. In questo senso si è parlato di
cosmopolitismo stoico e parallelamente di giusnaturalismo:
principi quali quello di giustizia e di diritto non hanno un
fondamento nella convenzione ma si originano piuttosto dalla
ragione (che è logos e natura), regola sovrana del
giusto e dell’ingiusto e come tale si impone all’individuo,
comandando e proibendo: «La costituzione dei vari popoli è
un’estensione della natura che è rivestita da un’autorità
universale. Questo mondo è infatti una grande città retta da una
sola costituzione e da una sola legge. È il logos della
natura quello che comanda le azioni che devono essere compiute e
vieta quelle che vanno evitate». Il diritto di natura è concepito
quindi come perfettamente razionale e indicato come principio sia
dell’azione morale sia dell’ordinamento politico. Già Zenone,
forte del fatto che negli uomini è presente lo stesso logos,
aveva sostenuto che lo Stato ideale deve poter abbracciare tutto
il mondo perché tutti gli uomini devono essere considerati
connazionali e concittadini (I frammenti degli stoici antichi,
I, framm. 262); egli non identificava lo Stato con nessuna πόλις
esistente, ma credeva in un concetto di patria esteso a tutto il
mondo dei saggi. Questa posizione, che verrà variamente riproposta
dagli stoici successivi con qualche lieve sfumatura, è stata
avvicinata a quella dei cinici già nell’antichità.
Enciclopedia Italiana (1936)
di Guido Calogero
Termine designante, nella storia del pensiero antico, una dottrina e una tradizione fra le più importanti. Etimologicamente esso deriva dal greco στοά "portico" giacché sotto l'ateniese Στοὰ ποικίλη, cioè sotto il "Portico adorno" delle pitture di Polignoto, cominciò a insegnare, sul principio del sec. III a. C., l'iniziatore di tale scuola filosofica, Zenone di Cizio: στωϊκοί "stoici" cioè letteralmente "quelli del Portico" (e il semplice nome di Stoa, o di Portico, servì anche, da allora in poi, a designare senz'altro quell'indirizzo speculativo) furono detti, di conseguenza, i suoi seguaci.
L'evoluzione dello stoicismo. - Storicamente, la scuola stoica si ricollega al cinismo. cioè all'interpretazione che della dottrina socratica avevano data i cinici, così come all'interpretazione che ne avevano data i Cirenaici si riconnette la contemporanea scuola epicurea; e si distingue in tre grandi periodi. Il primo, che dagli inizî del sec. III si estende fin verso la fine del sec. II a. C., è quello cosiddetto dell'"antica Stoa", principalmente rappresentato, oltre che dal fondatore Zenone di Cizio, da Cleante di Asso e da Crisippo di Soli. Altri minori stoici di questa età sono Aristone di Chio, Erillo di Cartagine, Dionisio d'Eraclea, Perseo di Cizio, scolari di Zenone; Sfero del Bosforo, scolaro di Cleante; Zenone di Tarso e Diogene di Seleucia, successori di Crisippo; Antipatro di Tarso, Boeto di Sidone, Apollodoro di Seleucia, Archedemo di Tarso. È questo il periodo classico dello stoicismo, quello in cui, sopra tutto per opera del fondatore Zenone e del grande sistematico Crisippo, le sue dottrine si determinano nella loro più schietta formulazione. Ma già nel sec. II a. C. si comincia ad affermare, accanto alla declinante tradizione dello stoicismo antico, la tendenza a fondere ecletticamente concezioni stoiche con idee platoniche e aristoteliche. È questa la caratteristica dominante del cosiddetto "stoicismo medio", o "media Stoa", fiorente tra il sec. II e il I a. C. e principalmente rappresentato da Panezio di Rodi, scolaro di Diogene di Seleucia e massimo autore della sintesi del pensiero stoico con la cultura romana, e dal suo scolaro Posidonio di Apamea, erudito e teorico di attività e capacità enciclopediche, che eśercitò influsso grandissimo su tutto il pensiero posteriore. Altri stoici di questo periodo sono Ecatone di Rodi, Dionisio di Cirene, Mnesarco di Atene, scolari di Panezio; Asclepiodoto, Gemino, Fenia, Giasone di Nisa, scolari di Posidonio. Il terzo periodo, infine, che si dice dello "stoicismo tardo" o dell'"ultima Stoa" e si estende dal sec. I a. C. al sec. III d. C., è caratterizzato da un ritorno all'ortodossia stoica, spinto anzi fino alle originarie concezioni ciniche e determinante quindi una sintesi di cinismo e stoicismo particolarmente notevole per la maniera in cui vi si manifesta tanto l'affinità quanto il contrasto di quelle due correnti ideali. Principali rappresentanti di questa terza età dello stoicismo sono Seneca, in cui non manca peraltro qualche tratto del precedente eclettismo, Epitteto, che tra tutti è la personalità speculativamente più energica, e Marco Aurelio, imperatore romano e autore di malinconiche riflessioni morali in senso cinico-stoico. Tra gli altri rappresentanti (tra cui pure non mancano personalità notevoli) sono da ricordare Atenodoro di Tarso, Antipatro di Tiro, Apollonide, Diodoto, Apollonio di Tiro, Atenodoro figlio di Sandone, Ario Didimo, Eraclito, Attalo, Cheremone, Cornuto, Musonio, Arriano, Ieracle. L'influsso stoico si esercita poi, in questa età, anche su personalità non specificamente dedite alla speculazione: così, nel campo di altre attività culturali, sui poeti Persio e Lucano, sul retore Teone di Alessandria, sugli astronomi Manilio, Germanico, Cleomede, sul geografo Strabone; e, nel campo dell'attività pratica e politica, su Catone Uticense, Peto Trasea, Elvidio Prisco. Più tardi, se la vera e propria tradizione stoica viene menti, molte dottrine dello stoicismo sopravvivono specialmente per quel che concerne le concezioni "fisiche" (cioè riferentisi alla natura del cosmo) in seno alla sistemazione neoplatonica. E la tradizione stoica risorge, sia pure in forma passeggera, nel Rinascimento, accanto alle altre tendenze rinnovatrici di concezioni della filosofia classica: specialmente da ricordare a questo proposito sono i nomi di Giusto Lipsio e di Caspar Schoppe.
Il sistema stoico. - Considerato nei suoi tratti fondamentali, il sistema stoico assume una fisionomia ben definita, la quale, se risponde in generale alla forma che le concezioni della Stoa assunsero nella più antica e feconda delle sue fasi evolutive, non può d'altronde esser fatta dipendere dall'opera esclusiva di alcuno dei suoi primi maestri, risultando piuttosto dalla loro colldborazione; ed esige quindi una trattazione complessiva, se anche limitata ai problemi fondamentali. Al pari del sistema epicureo (che invece se ne distingue in quanto si risolve quasi completamente nell'opera del suo primo teorico, Epicuro), il sistema stoico si compone di una teoria della conoscenza (da esso però chiamata non "canonica" ma "logica"), di una fisica e di un'etica, subordinate l'una all'altra nella progressione gerarchica caratteristica di tutti i sistemi postaristotelici. Ma, a differenza della canonica epicurea, la logica stoica non rigetta il grande complesso di dottrine che Aristotele aveva elaborato negli scritti poi compresi sotto il titolo di Organo, e anzi le riprende e approfondisce con innovazioni originali, contribuendo così alla definitiva vittoria del termine di "logica" per la designazione generale di tali dottrine. Anche in tali innovazioni lo spirito informatore è tuttavia quello che contraddistingue universalmente le dottrine postaristoteliche del conoscere. Nella logica platonica e aristotelica quel che importa è soprattutto l'interiore coerenza ed esattezza del pensiero, che raggiunge la verità in quanto non erra nelle sue argomentazioni e deduzioni: e che tale verità non possa poi effettivamente esser raggiunta senza l'iniziale verità delle premesse è problema lasciato relativamente in ombra, perché senz'altro ammessa, quasi come postulato indiscusso, e da Platone la sostanziale verità dell'intuizione delle idee e da Aristotele quella della contemplazione noetica, fornente i primi elementi immediati alla mediazione dianoetica. Per essa è problema, cioè, la verità come esattezza formale, derivante dal giusto processo delle argomentazioni, mentre non è (o è assai meno) problema la verità come rispondenza al reale, posseduta dal pensiero in quanto esso si adegua pienamente al suo oggetto.
Quest'ultimo problema è quello stesso che il sistema epicureo prospetta come questione del criterio di verita della percezione Sensibile, e risolve con la semplice idea dell'"evidenza" o "chiarezza", propria delle percezioni rispondenti a una realtà oggettiva. Ma che impedisce alla percezione fantastica di risultare tanto chiara quanto quella propriamente sensibile? Assai più complessa è perciò l'idea del criterio della verità avanzata dallo stoicismo, che anche nelle sue rielaborazioni della logica formale aristotelica mostra l'intento di sostituire alle pure relazioni concettuali, di verità o falsità intrinseca del tutto indipendente dalla verità o falsità oggettiva delle loro premesse, rapporti in cui sia tenuto conto anche di tale ultimo carattere di verità o falsità (elaborando p. es. sillogismi di questa sorta: "se è vero A, è vero B; ma A è vero: dunque è vero B"). Qualsiasi contenuto di pensiero, osserva questa dottrina stoica, può essere vero o falso a seconda della sua coincidenza con la realtà oggettiva: il vero, cioè, è tale in quanto identico al reale, secondo l'idea più tardi consacrata anche nella formula veritas est adaequatio intellectus et rei. L'atto con cui il pensiero riconosce, ad alcuni tra i suoi contenuti, questo carattere di rispondenza all'oggetto e quindi di verità, è l'"assenso" (συγκατάϑεσις): specie di dichiarazione di fiducia nel loro valore. Ma che autorizza a tale assenso? La logica stoica risponde che è la "fantasia catalettica" (ϕαντασία καταληπτική), o "rappresentazione comprensiva": cioè - secondo la più probabile interpretazione di questo termine - il contenuto di pensiero che mostra di "comprendere", di "afferrare" in sé la realtà attingendola e rappresentandola pienamente. Come questa "catalessi" o "comprensione" sia possibile, e soprattutto come si riconosca con certezza quando essa abbia avuto luogo, non è veramente chiarito dalla logica stoica, o almeno non risulta come lo sia stato, data la povertà dei documenti superstiti. A giudicarne da quel che appare, sembra che la distinzione della rappresentazione comprensiva da quella non comprensiva risalga in ultima analisi a un giudizio interiore, non molto dissimile da quello decidente, nella canonica epicurea, dell'evidenza o della non evidenza della sensazione. Ma resta in ogni modo alla logica stoica il merito di aver posto chiaramente il problema del criterio della verità come constatazione della congruenza della rappresentazione col suo oggetto, del "vero" col "reale".
La fisica dello stoicismo riprende nella sostanza, come si è già accennato, la concezione eraclitea del mondo. A base di questa è l'idea del logos, della perfetta e immutabile legge razionale che, sovrastando al divenire delle cose, lo fa procedere conformemente a sé medesima. Lo stoicismo rinnova tale concetto, e stringe in più serrata unità il principio razionale e il mondo in cui esso manifesta il suo potere. Quel principio non è che la forma e l'energia della materia e passività cosmica, ad essa inseparabilmente connaturato così come la forma è legata alla materia nella realtà individuale teorizzata da Aristotele. Principio supremo del mondo, esso è la divinità medesima, la quale non è dunque trascendente ma bensì immanente alle cose, tutto compenetrando del suo spirito o soffio vivificante (πνεῦμα). Anima universale, essa permea il grande corpo del mondo e ne determina la vita, nello stesso modo in cui l'anima individuale causa la vita e l'attività del corpo umano. La fisica stoica è con ciò nello stesso tempo una religione e una teologia panteistica, che in oeni aspetto del reale scorge la manifestazione vivente della potenza divina. D'altra parte, se la concezione eraclitea vede l'eterna legge del divenire tipicamente espressa dall'elemento che per eecellenza trasforma e si trasforma, il fuoco, la fisica stoica identifica più nettamente con esso la divina ragione cosmica, e considera quindi la sua manifestazione nel divenire del mondo anche come trasformazione materiale del fuoco negli altri elementi e aspetti del reale. Tutte le cose, cioè, derivano dal fuoco, e nel fuoco ritornano quando si sia compiuto il ciclo del loro sviluppo: come accade al termine di ogni anno cosmico, quando la conflagrazione (ἐκπύρωσις) universale riassorbe nel fuoco originario tutto ciò che da esso si era generato e che da esso dovrà nuovamente generarsi. A fondamento di questa dottrina è infatti l'antica idea dell'eterno ritorno, onde l'accadere del mondo, governato dall'immutabile perfezione della legge, si ripete a regolari intervalli in forme assolutamente identiche l'una all'altra.
Questa concezione del mondo dà quindi la più decisa formulazione razionalistica a quell'idea del destino o del fato, che già la più ingenua esperienza religiosa dei Greci sentiva come suprema forza dominante nel mondo, subordinando ad essa la stessa volontà e potenza degli dei. Impera su tutto una necessità razionale (εἱμαρμένη o πεπρωμένη, letteralmente "che è stata stabilita dal destino"), alla quale nulla sfugge e nulla può contrastare. Tale necessità è d'altronde la conseguenza diretta dell'immutabile saggezza divina governante il mondo: essa non appare quindi ostile o indifferente all'uomo, come appariva spesso il fato nella sua più comune raffigurazione religiosa, ma anzi come provvidente nel miglior modo al corso del mondo e di conseguenza anche alla sorte dell'umanità. Non è soltanto fato (che potrebb'essere necessità cieca, come p. es. quella del moto atomico democriteo, perciò nello stesso tempo amata e temuta da Epicuro), ma intelligente previdenza e provvidenza (πρόνοια); la prestabilita necessità del mondo non è anzi altro che il riflesso di questa saggezza previdente e preordinante le cose in vista del loro fine migliore. Nel mondo stoico non s'incontra perciò il difetto, l'errore, il male, che non ha in genere ragion d'essere in qualsiasi concezione panteistica, deducente la totalità dell'accadere dalla diretta azione del principio divino. In esso tutto è voluto da Dio, e quindi tutto è buono, la volontà divina essendo per definizione tale e la sua onnipotenza escludendo la possibilità di una realizzazione imperfetta della sua perfetta intenzione.
Data una simile concezione dell'universo, facile è scorgere quale morale debba derivarne. Convintosi della verità di tale considerazione delle cose, l'uomo contempla il mondo con lo stesso sguardo reverente con cui adorerebbe una divinità che gli apparisse innanzi, non in immagine ma in persona. Finché non sa, può lodare e biasimare gli eventi, distinguerli in buoni e cattivi, e reagire a questi ultimi cercando di modificarli nel senso che ritiene migliore; ma quando, raggiunto lo stadio della saggezza stoica, ha riconosciuto l'universale ragione che sta loro a fondamento, non ha più motivo né di lamentarsi né di reagire. Quel che gli resta da fare è solo accettare il corso delle cose, adeguarsi ad esso, facendo così collimare la sua volontà con la volontà divina che in quello si realizza e manifesta. Certo, la più grave difficoltà, per l'interiore coerenza del sistema stoico, è quella d'intendere a questo punto come tale accettazione e adeguazione possa presentarsi quale azione libera, realizzabile o meno, e perciò dotata di responsabilità e degna della qualifica di virtù morale: giacché, se il fato razionale e provvidenziale estende veramente la sua azione a tutto l'universo, come potrà sfuggirgli l'attività umana? Anche questa sarà governata dalla stessa necessità inevitabile e si attuerà con la medesima perfezione, senza peraltro averne più merito di quanto ne abbia la pietra che perfettamente cade secondo la verticale: e il problema morale non avrà la più lontana ragion d'essere, giacché in un mondo in cui tutto è naturalmente buono, nulla è moralmente buono, non sussistendo la possibilità del male e quindi neppure il merito del bene. A tale difficoltà, che in un panteismo assolutamente inteso è a rigore insolubile, lo stoicismo (specialmente per opera di Crisippo) cerca di ovviare ammettendo, entro certi limiti, una libertà dell'uomo, non totalmente determinato dalla necessità cosmica nella realizzazione della sua attività e quindi capace, sempre entro quei ristretti limiti, di reluttare ad essa o di adeguarlesi pienamente. S'intende con ciò che tale libertà ha carattere soltanto negativo, la virtù consistendo proprio nella rinuncia ad essa e nella sottomissione completa al destino cosmico.
Fine supremo dell'uomo è così, per lo stoicismo, quello di "vivere conformemente alla natura". Esso riprende in tal modo l'antica regola cinica della "vita di natura", ma riempiendola di un significato del tutto nuovo, giacché la "natura" stoica non è più la semplice forma di vita naturale e animale che al cinico appare preferibile alle raffinatezze della civiltà per il suo maggior grado d'indipendenza dai bisogni, ma bensì la natura razionale e divina dell'universo, teorizzata appunto dalla "fisica". Adeguandosi alla natura, lo stoico mostra insieme di conoscere la realtà delle cose e di comportarsi nel miglior modo possibile: è perciò nello stesso tempo in possesso della saggezza e della virtù. Persuaso della provvida razionalità di ogni evento, non ha mai ragione di dolersene, avendo appreso a sentir come buono anche ciò che alla comune considerazione parrebbe cattivo: e si trova quindi nello stato di sostanziale indifferenza o adiaforia rispetto ai singoli aspetti della realtà, giacché non ne ama o aborre nessuno in particolare, attribuendo interesse soltanto alla propria virtù, che come totale consenso con l'universo eslcude per ciò stesso ogni affezione o ripugnanza singola. E anche quando ammette che, nel complesso sostanzialmente adiaforo delle cose, ve ne siano alcune meno indifferenti, e quindi ragionevolmente "preferibili" alle altre, quale p. es. la salute, considera tale preferibilità a sua volta come "naturale", cioè come rispondente all'ordine cosmico ond'esse appaiono più immediatamente necessarie all'esistenza dell'uomo. Mercé tale adiaforia egli gode d'altronde di una libertà, che è ben diversa da quella, problematica e negativa, presupposta in lui per la stessa possibilità dell'adeguazione morale. Non è infatti la moderna libertà dell'azione, ma la classica libertà dall'azione, propria di colui che, non avendo nulla da desiderare, basta nella sua perfezione a sé medesimo. Pienamente apatico, nella sua immumiità da ogni passione, egli è assoluto e superbo signore di sé e della sua vita, tanto scevra di movimento e di attività da potersi logicamente concludere (come spesso si concluse) nel suicidio.
Si vede quindi come l'etica stoica risponda anch'essa al supremo ideale ellenico dell'indifferente e autosufficiente superiorità al volere e all'azione, rinnovando e approfondendo in particolare, in ogni suo aspetto, l'atteggiamento morale del cinismo. Negazione del desiderio e del piacere, lode dell'apatica, adiafora e autarchica libertà, son tratti comuni a entrambe le concezioni. Ma al di sotto di tali pratiche coincidenze resta l'irriducibile antitesi delle due visioni del mondo. Per il cinismo ogni valore o disvalore delle cose dipende solo dall'approvazione o disapprovazione soggettiva, perfetto essendo, di conseguenza, colui che bastando a sé medesimo nega al mondo ogni pregio e interesse; per lo stoicismo il valore è universalmente intrinseco alle cose, e saggio è chi tale valore riconosce e riverisce nella sua divina totalità. Il cinico svaluta assolutamente il mondo, lo stoico gli attribuisce un valore assoluto; l'uno non vede altra divinità all'infuori dì sé medesimo l'altro s'inchina alla divinità che scorge dovunque manifesta nello spettacolo cosmico. Sul piano delle conseguenze pratiche, certo, l'apatia, adiaforia e inattività dell'uno riesce identica a quella dell'altro, perché in un mondo del tutto pieno di valore c'è tanto poco da fare quanto in un mondo che di valore sia affatto privo: ma l'analogia dei conclusivi atteggiamenti morali non toglie la fondamentale antiteticità dello spirito che li permea. Per esempio, tanto il cinismo quanto lo stoicismo asseriscono l'importanza relativa delle distinzioni statali: ma laddove il primo nega lo stato in nome dell'anarchica libertà dell'individuo, l'altro lo risolve nella più vasta idea della civitas mundi, di cui tutti gli uomini sono cittadini a egual diritto sotto il perfetto governo della legge cosmica. L'analogia degli atteggiamenti pratici spiega bensì come la fede stoica possa in certi momenti fondersi con quella cinica: come per esempio accade nel periodo dell'ultimo stoicismo (e particolarmente nel suo massimo rappresentante, Epitteto), spinto da un desiderio di ortodossia stoica, e di reazione al precedente eclettismo, a risalire fino alle più remote origini ciniche. Ma nell'intrinseco contrasto, che così si determina fra gli elementi delle due opposte visioni del mondo, è appunto la crisi conclusiva della tradizione morale cinico-stoica.