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Argomento, tema oppure la persona o la cosa che viene presa in
considerazione per determinati motivi. filosofia
Come termine filosofico, s. ha assunto un significato che per certi
aspetti è esattamente antitetico a quello che esso aveva in origine.
Il latino subiectum, che traduce il greco ὑποκείμενον, designa, per
es., in Aristotele tanto la materia, come sostrato su cui s’imprime
la forma individuante, quanto la stessa sostanza individuata, in
quanto sorregge gli attributi, o ‘accidenti’, che a essa ineriscono.
E siccome il rapporto reale che connette l’attributo alla sostanza
si rispecchia in quello logico che collega i due termini del
giudizio, così s’intende come il termine designante il ‘sostrato’
delle affezioni venga insieme a indicare il ‘soggetto’ a cui è
attribuito, affermativamente o negativamente, il predicato. Quindi,
nella terminologia logica latina, subiectum e subiectivus si
riferiscono al carattere di realtà sostanziale delle cose; e per la
filosofia scolastica esse subiective significa l’esistenza reale,
mentre esse obiective designa la sussistenza soltanto nel pensiero.
Tale uso è mantenuto ancora da Descartes; ma già T. Hobbes e G.W. Leibniz adoperano il termine per designare il s. dell’attività senziente. Il passaggio terminologico è reso possibile dal fatto che l’attività senziente viene concepita inizialmente come attributo del s. corporeo a cui inerisce. Di qui poi l’uso del termine per designare, in genere, la coscienza e il pensiero, e quello di ‘oggetto’ per designare la realtà per sé esistente. È Kant, soprattutto, che, attraverso la formulazione del concetto dell’‘io penso’, vede il s. come coscienza o autocoscienza, come attività di sintesi, spontaneità, principio fondante di tutta la conoscenza. Questa concezione è stata ulteriormente elaborata e sviluppata nella speculazione postkantiana, in particolare da J.G. Fichte, F.W.J. Schelling e G.W.F. Hegel. L’identificazione del s. con l’autonoma attività pensante è invece messa in discussione sia in F. Nietzsche sia nella psicanalisi di S. Freud, per la quale il s. non è che la manifestazione di forze e impulsi al di là del controllo razionale, mentre nello stesso empirismo (per es., in E. Mach e R. Carnap) l’attività conoscitiva tradizionalmente identificata con il s.-sostanza si riduce a un insieme di percezioni prive di un sostrato metafisico. linguistica La persona o la cosa, concreta o astratta, che nella proposizione fa l’azione o si trova nella condizione espressa dal verbo. S. logico Quello che, pur non essendo sintatticamente il s. della proposizione (s. grammaticale), indica tuttavia la persona che compie l’azione; un s. logico è, per es., il complemento d’agente («gli alunni furono rimproverati dal maestro» equivale a «il maestro rimproverò gli alunni»). musica Il tema che viene svolto in composizioni di stile prettamente contrappuntistico, come la fuga. teatro Commedia a s. Commedia dell’arte e delle maschere in cui era scritta soltanto la trama essenziale mentre lo sviluppo dell’azione e del dialogo era affidato all’improvvisazione di attori di professione.
Dizionario di Filosofia (2009)Antichità e Medioevo. Il latino subiectum traduce il greco ὑποκείμενον, e questo, secondo la sua stessa etimologia, significa in generale, tutto ciò che «soggiace» o «sottostà». In Aristotele, il s. designa tanto la materia, come sostrato su cui s’imprime la forma individuante, quanto la stessa sostanza individuata dal sorreggere gli attributi, o «accidenti», che le ineriscono. Il termine latino substantia è etimologicamente analogo a subiectum e corrisponde al greco ὑπόστασις «ipostasi», che contiene l’idea di ‘sostrato’, mentre il termine impiegato per rendere l’accezione principale nell’uso aristotelico del termine οὐσία (‘forma’ o ‘natura’), è propriamente essentia. Tuttavia già in Aristotele il sostrato è non solo la materia, ma anche il ‘sinolo’ di materia e forma: «Questo primo sostrato suole essere identificato in primo luogo con la materia, in secondo luogo con la forma e in terzo luogo con il composto di entrambe» (Metafisica, VII, 1029a 2-5). Poiché il rapporto reale che connette l’attributo alla sostanza si rispecchia in quello logico che collega i due termini del giudizio, s’intende come il termine che designa il «sostrato» delle affezioni venga insieme a indicare il s. cui è attribuito, affermativamente o negativamente, il predicato. A questo significato logico (ancora valido nella sua sfera) del subiectum si accompagna così quello per cui esso, al pari dei corrispondenti termini di «sostanza» e «ipostasi», serve a designare la realtà in ciò che ha di più reale e in sé consistente, dato che per il pensiero classico il sospetto di relatività al senziente può tutt’al più colpire le affezioni o «qualità» (come, per es., quelle avvertite dai sensi particolari, colori, suoni, sapori, ecc., già condannate da Democrito come «convenzionali», ossia relative alla natura e situazione dell’organo percipiente), ma non mai il sostrato, comunque esistente, che quelle qualità sorregge. Di conseguenza, nella terminologia logica latina, fin dal tempo di Apuleio e di Boezio, subiectum e subiectivus si riferiscono al carattere di realtà sostanziale delle cose: e così per la filosofia scolastica esse subiective significa l’esistenza reale, mentre esse obiective designa la sussistenza soltanto nel pensiero, con antitesi di valori esattamente contraria a quella che i termini di soggetto e oggetto vengono invece ad assumere nel pensiero moderno. Parallelamente, la tradizione agostiniana, con il suo incentrarsi verso l’interiorità del pensiero, costituisce uno degli ambiti di riflessione nei quali si elabora, dapprima in prospettiva religiosa e poi via via più propriamente filosofica, la centralità della coscienza come campo della soggettività, centrale in pensatori quali Pascal, Arnauld o Malebranche, e potenziato anche dall’impulso impresso, durante la Riforma, dalla teologia luterana.
Età moderna. Il capovolgimento del significato di subiectum e dei suoi derivati, che naturalmente porta con sé il capovolgimento analogo di quello del suo opposto, si compie a partire dal sec. 17°. Des-cartes – che pure con la sua riflessione sulla spiritualità della sostanza pensante costituisce il punto decisivo di svolta verso la coscienza intesa come autocoscienza e come ‘io’ che evolverà fino a culminare nell’idealismo – mantiene ancora l’uso scolastico del termine. Già Hobbes e Leibniz, tuttavia, parlano di s. per designare il referente dell’attività senziente (Hobbes definisce: «subiectum sensionis ipsum est sentiens, nimirum animal», De corpore, 25, 3). Il passaggio terminologico è reso possibile dal fatto che l’attività senziente viene concepita inizialmente come attributo del s. corporeo cui inerisce. S’inaugura così la tradizione per la quale il termine s. è adoperato per designare, in genere, la coscienza e il pensiero, mentre il suo opposto passa a indicare la realtà che esiste in sé e che quindi è il termine cui il pensiero deve adeguarsi. Di conseguenza, nella stessa realtà si presenta come s. ciò che non si può pensare esistente se non in funzione del pensiero, e come oggettivo ciò che invece sussiste in sé indipendentemente dal suo essere conosciuto. Questo nuovo significato si afferma in maniera decisiva con Kant e con l’idealismo tedesco dell’Ottocento, restando quindi acquisito in tutta la gnoseologia posteriore. Kant tuttavia presenta una riflessione assai densa che raccoglie e ingloba sia l’eredità della riflessione cartesiana, leibniziana e wolffiana della coscienza come attività spirituale del s., sia il precipitato delle tesi dell’empirismo circa la conoscenza delle sostanze condensate nella critica humiana alla sostanzialità dell’io. Vi convergono i due filoni principali della riflessione intorno al s. inteso come sostrato materiale, che evolve verso la teoria della ‘cosa in sé’ o noumeno, e la riflessione intorno all’unità sintetica di appercezione trascendentale o ‘Io penso’. Nei Prolegomeni, Kant intende infatti il s., nel primo senso, come «ciò che rimane tolti gli accidenti (come predicati)», ossia come «il vero elemento sostanziale» che resta «ignoto» (§ 46). Nella Critica della ragion pura (1781, 2a ed. 1787), sullo sfondo della trattazione dell’‘Io penso’ (in cui Kant riconosce il s., come autocoscienza), il tema sfocia nei paralogismi relativi al ‘s. trascendentale’: «l’unità della coscienza, che è a fondamento delle categorie, vien qui presa per intuizione del s. preso come oggetto, e vi si applica la categoria di sostanza» (Dialettica trascendentale, lib. II, cap. 1). Tuttavia è proprio nell’attività sintetica dell’appercezione trascendentale che l’io si ridefinisce appunto come attività e non più come sostrato, evolvendo verso gli sviluppi ulteriori dell’idealismo, ove il s. s’identifica con l’Io, e al pari di quest’ultimo si distingue in ‘s. trascendentale’, o puro, e in ‘s. empirico’, a seconda che venga concepito come forma universale e assoluta o come realizzazione individuale e relativa dell’attività pensante. In tale prospettiva si collocano le riflessioni di Fichte e successivamente l’elaborazione dell’idealismo trascendentale in Schelling, ove, superato il problema della ‘cosa in sé’, il dissidio fra s. e oggetto si risolve nello spirito come autocoscienza assoluta. Dell’unità di s. e oggetto nell’idea assoluta parla Hegel nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817; § 214), secondo la prospettiva speculativa in cui il concetto di sostanza, superato, viene assorbito in quello di s. e questo a sua volta in quello di spirito. Già nella Fenomenologia dello Spirito (1807) Hegel evidenzia come nella proposizione speculativa il s. sia «il concetto che muove sé stesso e che riprende entro sé le proprie determinazioni» (Prefazione, III), diversamente da quel che avviene nella proposizione ordinaria ove il s. «sostiene passivamente gli accidenti». Tale logica sottende tuttavia il processo dialettico e speculativo dello spirito, ove «tutto dipende dal concepire il vero non tanto come sostanza, bensì propriamente come s.» (Prefazione, I, 2). Il tema viene poi assorbito, nella Scienza della logica (1812-16), entro lo sviluppo dialettico dello spirito soggettivo e oggettivo che conduce alla sintesi unificante dello spirito assoluto.
Dall’idealismo all’età contemporanea. Sull’irrapresentabilità del s. insiste Schopenhauer, riavviando la sua riflessione dalle acquisizioni del kantismo, ma orientandone gli esiti, sullo sfondo dell’approdo alla volontà impersonale, verso la necessità di superare l’illusione della soggettività correlativa a quella dell’esistenza del mondo: il s. «porta con sé il mondo; è l’universale sempre presupposta condizione di ogni fenomeno, di ogni oggetto perché ciò che esiste non esiste che per il soggetto» (Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818, I, § 2). Una diversa considerazione del s., che potenzia la riflessione moderna sulla soggettività, è espressa a livello estremo nella concezione di Nietzsche, secondo la quale tutto «ciò che è», uomo o natura che sia, è espressione di una ‘volontà di potenza’ intesa come determinazione propria di un soggetto. Nell’empiriocriticismo di Mach la concezione dell’io come s. perde di pertinenza risolvendosi la conoscenza in un mero complesso di sensazioni e di elementi conoscitivi non organizzati da una coscienza che li dirige o li determina. Tali riflessioni evolvono ulteriormente nell’empirismo logico e trovano conferma nel rifiuto del s. espresso da Wittgenstein: «il s. che pensa, che ha rappresentazioni, non esiste» (Tractatus logico-philosophicus, 1922, 5.631) Nell’idealismo di Croce e Gentile, la ripresa del s. in quanto spirito torna invece a essere centrale, e significativamente assorbe in Gentile la «realtà spirituale» oggetto del conoscere, la quale è appunto: «puramente e semplicemente spirito come s.» (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916, II, § 3). La riflessione di Husserl si pone come determinazione fenomenologica dei modi di coscienza e del s. trascendentale che viene tematizzata sullo sfondo dell’intenzionalità (➔) della coscienza pura e, nelle Meditazioni cartesiane (1931), viene ricondotta non a una molteplicità irrelata di singoli s. isolati, ma a una intersoggettività originaria (Meditazioni cartesiane, V). Per Heidegger, il principio della soggettività, guadagnato nel pensiero moderno a partire dalla ‘soggettità’ che già operava nelle tesi di Platone, costituisce il portato e l’orientamento unitario del pensiero metafisico occidentale che culmina nel nichilismo e in Nietzsche, e in cui l’uomo è inteso come s. di conoscenza e di azione nei rapporti con il mondo e con gli enti (Nietzsche, 1961, II). Accanto a tale sfondo che costituisce le coordinate entro cui si colloca la riflessione ontologica e fenomenologica dell’esistenza e della percezione, quale si esemplifica nelle opere di Sartre e di Merleau-Ponty, gli indirizzi empirico-logici, come anche i recenti sviluppi in senso cognitivista delle neuroscienze e della riflessione filosofica, prendono in carico il dissolversi del s. e della soggettività, sia dal punto di vista della riflessione epistemologica, sia da quello dello studio ‘oggettivo’ dei processi cognitivi.