Socrate (gr. Σωκράτης, lat. Socrátes)
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Dizionario di filosofia (2009)
La vita.
Era figlio di uno scultore, Sofronisco, e di una levatrice,
Fenarete. Il padre dovette lasciargli tanto da permettergli di
vivere, sia pure modestamente, e la grande povertà, che gli viene
attribuita da più di una fonte, deve soprattutto riferirsi
all’ultimo periodo della sua vita, quando egli, sposatosi in età
relativamente tarda (poco prima della sua morte il maggiore dei
figli era ancora adolescente), fu costretto a opporre alle nuove
esigenze una sempre maggiore sobrietà di costumi. Pochissimo
d’altronde è noto della sua vita familiare e nelle nebbie
dell’incertezza svanisce anche la figura della moglie Santippe.
Compì il suo servizio militare come oplita: fu allora che, nel
decennio tra il 432 e il 422, egli prese parte alle battaglie di
Potidea, di Delio e di Anfipoli, salvando a Potidea la vita e le
armi al ferito Alcibiade e dando esempio di serena fermezza nella
ritirata ateniese di Delio. Furono le sole volte che S., fedele alla
sua città non meno che alle sue leggi, e più curioso degli uomini
che della natura, abbandonò Atene. Non aspirava alla diretta
partecipazione alla vita dello Stato: non poté tuttavia evitare di
far parte del consiglio (la bulè), ed era fra i pritani quando, nel
406, gli strateghi sconfitti nella battaglia delle Arginuse furono
accusati di non aver provveduto al salvataggio dei naufraghi e ad
adeguate onoranze per i caduti. In tale occasione S. dimostrò
impavida fermezza opponendosi al popolo che pretendeva si seguisse
una procedura illecita; e nulla toglie al significato della sua
opposizione il fatto che essa non bastasse poi a evitare la condanna
di quegli strateghi.
Pari energia e dignità S. mostrò quando, durante il governo dei
Trenta tiranni, si rifiutò di eseguire l’ordine di partecipare alla
cattura di un cittadino ateniese, che doveva esser condotto a morte;
forse avrebbe pagato tale disobbedienza con la morte se il regime
dei Trenta non fosse presto caduto.
Ma ciò che non poté accadere durante l’oligarchia avvenne dopo che
fu restaurata la democrazia. S. fu accusato da Meleto, Anito e
Licone di fronte al popolo ateniese, perché «agiva illecitamente, in
quanto non credeva agli dei a cui credeva la città e introduceva
divinità (δαιμόνια) nuove, e inoltre in quanto corrompeva la
gioventù». Pena richiesta era la morte. Del modo in cui S. rispose
alle accuse dei tre abbiamo un’idea attraverso i discorsi che gli fa
pronunciare l’Apologia di Socrate di Platone. La
serena, e bonariamente ironica, fermezza di S., che si giustificò
minutamente delle accuse ma non volle piegarsi al costume d’invocare
la clemenza dei giudici, dovette irritare i cinquecento Ateniesi
chiamati a decidere: S. fu dichiarato colpevole con soli sessanta
voti di maggioranza. Invitato, secondo la procedura attica, a
opporre alla pena chiesta dall’accusatore quella che egli pensava di
meritare, rispose che, per ciò che aveva fatto alla città, credeva
di dover essere mantenuto a spese pubbliche nel pritaneo.
Fu condannato a morte con una maggioranza di ottanta voti.
L’esecuzione della sentenza fu peraltro ritardata, per motivi
rituali, di circa un mese: S. avrebbe avuto perciò il tempo di
accogliere il progetto di fuga, che il discepolo e amico Critone gli
sottoponeva; ma preferì concludere la sua vita con un ultimo gesto
di ossequio verso quelle leggi che era stato accusato di
trasgredire. In carcere, secondo il celebre quadro che ne offre il Fedone
platonico, circondato dagli amici e dagli scolari, e dopo aver
filosoficamente discusso il problema della morte e dell’aldilà,
bevve serenamente la cicuta.
Il suo ritratto fu ricreato da vari scultori che nobilitarono i
tratti silenici del soggetto creando una immagine caratterizzata,
fisionomica, colma di ethos, come attestano le copie superstiti.
La dottrina.
S. non scrisse nulla; di qui la difficoltà che s’incontra nel
ricostruire i lineamenti storici della sua figura, la quale ci è
nota solo attraverso fonti di diversa natura e di diverso spirito (i
Memorabili di Senofonte, i dialoghi socratici di Platone,
alcuni accenni di Aristotele).
S. è anzitutto un critico, che vuole rendersi conto delle cose e
perciò discute: il suo ideale è quello dell’ἐξετάζειν,
dell’interrogare le persone per mettere alla prova la loro verità,
cioè per vedere se i principi e i criteri su cui esse si basano nei
loro giudizi e nelle loro azioni siano frutto di convinzione
ragionata o semplice portato di abitudine. Da questo punto di vista,
egli è un fiero nemico della tradizione, non accogliendo alcun
principio che non si giustifichi da sé ma si richiami comunque a
un’autorità; e in ciò è il suo nesso con il grande movimento
sofistico del 5° sec., che gli è in parte contemporaneo e di cui
quindi, in tali limiti, egli può esser considerato partecipe. Per
quanto incerta sia infatti la sua dipendenza da singole personalità
della sofistica, innegabile appare l’affinità di certi atteggiamenti
teorici o metodici.
Queste premesse generiche dell’attività di S. spiegano d’altronde
l’idea sommaria che di lui si fanno i suoi contemporanei, e quindi
anche i motivi della tanto discussa condanna. Della prima sono
testimonianza esemplare le Nuvole di Aristofane,
rappresentate nel 423 e costituenti l’unico documento superstite
circa S. che non sia posteriore alla sua morte: qui egli presenta a
un tempo i tratti del naturalista e quelli, discordanti rispetto ai
primi, di un sofista, nel senso più specifico di questa parola.
Aristofane, uomo del buon tempo antico, nemico di quelle novità che
sente pericolose per i valori tradizionali, non si attarda a
distinguere, e rivolge i suoi strali contro colui che gli sembra il
rappresentante più eminente del razionalismo e dell’illuminismo del
suo secolo.
Tale considerazione di S. nella luce di quella cultura, di cui egli
è sì l’erede ma anche l’acerbo critico, è d’altronde il motivo
determinante della sua condanna. S. è, in questo senso, il martire
di quella stessa sofistica che senza tregua mira a combattere e a
superare. Alla sua condanna possono infatti concorrere anche motivi
personali, così come vi contribuisce il fraintendimento, voluto o
spontaneo, di ciò che egli chiama il δαιμόνιον, cioè il «segno
divino, arcano», che lo trattiene dalle azioni non convenienti:
δαιμόνιον che per lui è soltanto il simbolo del richiamo della
coscienza, mentre i suoi accusatori lo trasformano nelle «nuove
divinità». Di tale natura è il motivo che forse influisce più
immediatamente di ogni altro sull’animo dei borghesi di media
levatura, chiamati a decidere della vita e della morte di S.: il
motivo dell’irritazione per l’implacabile e ironico suo interrogare,
che dimostra agli interlocutori la loro ignoranza nello stesso atto
in cui prova l’inconsistenza di quel sapere, che pure si presenta
come il sacro portato della tradizione.
Questa giustificazione storica dei motivi della condanna di S. non
esclude d’altronde che il contegno dei giudici ateniesi appaia
ingiusto quando venga considerato dal più vasto angolo visuale da
cui S. si presenta nella sua piena fisionomia, non solo di
continuatore ma anzi di oppositore e di superatore del movimento
sofistico: secondo ciò che del resto è avvertito a non molta
distanza di tempo dagli stessi Ateniesi, e che genera, da un lato,
la leggenda delle vendette compiute contro gli accusatori, e,
dall’altro, l’idealizzazione della figura di S., assurta d’allora in
poi a simbolo della virtù.
La critica sofistica, che ha la sua maggiore espressione nel
relativismo protagoreo, è essenzialmente negativa: pone in funzione
della soggettività empirica, particolare, i valori oggettivi e
perviene così a dissolverli, sostituendo al criterio della verità
quello dell’utilità pratica, e all’ideale della dimostrazione
scientifica del reale stato delle cose quello della persuasione
oratoria.
S. invece, pur sapendo di non poter muovere che dall’indagine e dal
controllo soggettivo, è persuaso di dover giungere alla
determinazione obiettiva di quei criteri di valore, che appaiono
presupposti da ogni giudizio e azione. Che cosa è il bello e il
buono, che cosa il giusto? Qual è la «virtù» dell’uomo, cioè
(secondo il significato della greca ἀρετή) la perfetta rispondenza
dell’azione umana alle sue esigenze intrinseche? A tali scoperte
mira l’implacabile interrogare di S., il suo eterno τὶ ἔστιν («che
cos’è?»): per questo egli interpella le persone più diverse, a
cominciare dalle più umili, e studia il maggior numero possibile di
casi singoli, cercando di risalire da essi all’unico concetto e
all’unica definizione.
Solo in questo senso S. è l’inventore del concetto, dell’induzione e
della definizione: e non già in quello che egli, in sede di teoria
della logica, determini il concetto del concetto e definisca
l’induzione e la definizione, se è vero che tale compito non viene a
rigore assolto neppure dal suo maggiore allievo, ma soltanto da
Aristotele. Questi concetti, che sono principalmente i criteri etici
dell’azione, le categorie della prassi, non sono posseduti da S.,
che appunto perciò ne va in cerca: donde il suo continuo domandare
per le strade e per le piazze, a chiunque con la sua attività faccia
presupporre di averne nozione o addirittura presuma di conoscerli, e
quindi in primo luogo ai sofisti, che affermano non solo di
possedere la «virtù» ma anche di saperla, dietro ricompensa,
insegnare agli altri. Il risultato di queste interrogazioni è
negativo, e S. può constatare che coloro che credono di sapere non
ne sanno di più di lui che non sa: da qui la sua «ironia», bonaria
simulazione di inferiorità, e la sua interpretazione del responso
dell’oracolo delfico (interrogato dall’amico Cherefonte), secondo il
quale egli è il più sapiente di tutti i Greci, nel solo senso che
egli sa di non sapere, mentre gli altri non sanno e si illudono di
sapere.
All’antica sapienza delfica egli del resto si richiama (e non è
escluso che da ciò dipenda la stessa consacrazione che l’oracolo fa
della sua sapienza) in quanto assume a motto della sua ricerca
l’esortazione γνῶϑι σαυτόν («conosci te stesso»), che, d’accordo con
tutta l’intonazione della morale delfica, è un invito all’umile
riconoscimento della pochezza umana di fronte alla divinità, e che
certo anche S. intende nel senso dell’avvertimento della propria
ignoranza, per quanto poi esso passi a significare quella stessa
ricerca interiore che di tale avvertimento è il mezzo. Questa ironia
e questa modestia non è, d’altronde, esclusivamente negativa. Pur
conoscendo la virtù purificatrice dell’incertezza e del dubbio, che
libera dalle opinioni fallaci, è sempre animato dalla sincera
speranza che gli altri sappiano «che cosa è» il buono e il bello, o
che ciò, almeno, possa risultare dall’indagine comune.
Sotto questo aspetto, il metodo di S., figlio della levatrice
Fenarete, è quello della «maieutica», o «ostetricia» spirituale:
egli non sa ‘generare’ la verità, ma sa aiutare gli altri a metterla
alla luce, con l’esercizio dialettico della domanda e della
risposta. Per quanto questa immaginosa idea del metodo maieutico
convenga, più ancora che all’essenza del pensiero socratico, a
quella della filosofia platonica e alla sua concezione delle idee
come innate nell’anima, la quale deve riportarle dall’oblio alla
consapevolezza, essa riflette certo un momento intrinseco anche
all’eterno interrogare socratico, inconcepibile senza una sincera
fede nell’altrui capacità a generare il vero.
In tale fede è d’altronde ancorata tutta la morale di S., la quale
può sembrare priva di contenuto quando si constati che la sua
ricerca non approda (o approda solo in qualche caso, e in forme che
la discordanza delle fonti rende non troppo certe) a stabili
determinazioni di concetti e definizioni di virtù, ma che di fatto
ha un nucleo ben saldo in quella stessa concezione della dipendenza
della virtù dal sapere, la quale ne costituisce, secondo ciò che
risulta concordemente dalle fonti, la più evidente caratteristica.
S. non crede che l’uomo possa fare il bene se non lo conosce, cioè
se non ne possiede il criterio, il concetto. E neanche crede che
l’uomo, conosciuto il buono, il giusto, il bello, debba poi
possedere e coltivare una diversa capacità per realizzarlo nella
pratica. Non che si contenti della contemplazione teoretica, e neghi
perciò la vita attiva; bensì non crede che quei valori possano
scoprirsi alla consapevolezza dell’uomo senza che questi non se ne
‘innamori’ e sia senz’altro spinto a tradurli nella realtà della
vita.
Chi non fa il bene, non lo fa perché non conosce ciò che è bene, e
fa quel che crede che sia bene: perché se veramente lo conoscesse,
non potrebbe preferirgli mai il bene minore, meno universale e vero.
Questo significa la famosa frase socratica che «nessuno sbaglia di
propria spontanea volontà» (οὐδεὶς ἑκὼν ἐξαμαρτάνει): la quale non è
da intendere nel senso di un maligno destino che impacci la libera
volontà dell’uomo, ma in quello di un’irresistibile energia
attrattiva, onde il bene appare come suprema realtà desiderabile e
non può quindi essere posposto, se conosciuto, ad alcun altro
oggetto della volontà.
Comunque si voglia, non si può non volere ciò che appare bene, e il
massimo bene: ma soltanto chi conosce quel massimo bene che non
semplicemente appare, ma veramente è, può tendere a esso.