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Enciclopedia online
Nel senso storicamente più vasto, ogni dottrina, teoria o ideologia
che postuli una riorganizzazione della società su basi
collettivistiche e secondo principi di uguaglianza sostanziale,
contrapponendosi alle concezioni individualistiche della vita umana.
In senso più stretto, e in epoca moderna, sistema generalizzato di
idee, valori e credenze, finalizzato a guidare i comportamenti
collettivi – e i movimenti, i gruppi, i partiti che li organizzano –
verso l’obiettivo di un nuovo ordine politico in grado di eliminare
o almeno ridurre le disuguaglianze sociali attraverso una qualche
forma di socializzazione dei mezzi di produzione e correttivi
applicati al meccanismo di distribuzione delle risorse economiche.
1. Origini del termine
Nonostante quella del s. sia una concezione assai antica (si parla
infatti di s. anche con riferimento alla Repubblica di Platone), che
specialmente nel Medioevo cristiano trova le sue prime concrete
manifestazioni in sette ereticali che predicavano l’uguaglianza
totale nella comunione dei beni (e che per questo si definivano
piuttosto comunioniste), è soltanto nel 19° sec., con l’avvento
della società industriale, che la parola e il fenomeno s. assumono i
contenuti propri che comunemente gli si attribuiscono. In Francia il
termine s. sembra sia stato coniato da P. Leroux dopo la rivoluzione
del 1830, mentre in Inghilterra pare circolasse già qualche anno
prima nel gruppo di R. Owen. Ma quel che più conta notare è la
diversità dei significati che l’etichetta includeva all’atto stesso
della sua invenzione: se per Leroux era una specie di dichiarazione
di guerra contro il liberalismo, e una risoluta rivendicazione della
priorità dello Stato sull’individuo, per Owen rivestiva contenuti
più economici e sociali che politici, ponendo al centro dei suoi
interessi la questione operaia.
2. Il s. utopistico
La prima fase del pensiero socialista è solitamente identificata,
sulla scorta di una definizione di K. Marx, nel s. utopistico. È
questa, in realtà, una definizione sommaria che serve ad abbracciare
diverse tendenze sviluppatesi fra il 1820 e la fine del 19° secolo.
È in particolare in Francia che trovano espressione le teorie
originarie del movimento socialista, dalle quali traggono alimento
in qualche misura le formulazioni posteriori e contemporanee. Gli
esponenti più significativi del s. utopistico furono tutti dei
militanti, coinvolti più o meno intensamente nella vita politica del
loro tempo e del loro paese, con l’intento di modificare l’ordine
esistente attraverso la forza della teoria e la coerenza dell’azione
pratica. All’interno di questo movimento si possono tuttavia
distinguere due diverse interpretazioni del cruciale rapporto fra
teoria e prassi: quella di coloro che privilegiarono il momento
dell’analisi della realtà sociale, e quella di coloro che
considerarono invece prioritario il momento dell’azione, facendone
oggetto esclusivo dei loro sforzi intellettuali.
Il comune riferimento è per tutti costituito dalla rivoluzione del
1789, la differente valutazione della quale, in particolare della
sua fase giacobina, si può dire che determini l’appartenenza all’uno
o all’altro dei due filoni. Troviamo così da una parte la posizione
di pensatori – quali C.-H. de Saint-Simon, F.-M.-C. Fourier, R.
Owen, J.-J.-C.-L. Blanc, E. Cabet, P.-J. Proudhon – che sono portati
a derivare dalle numerose trasformazioni avvenute nel corso della
rivoluzione, considerate inadeguate a risolvere i mali della
società, un profondo scetticismo nei confronti della politica e dei
suoi strumenti di violenza. Nelle loro dottrine prevalgono dunque il
rifiuto dell’esperienza rivoluzionaria, la fiducia nel progresso
dell’umanità, l’esaltazione della scienza positiva come unico metodo
per risolvere efficacemente i problemi sociali. Le loro analisi si
svolgono in termini prevalentemente economici; sul piano politico e
giuridico-costituzionale, il problema fondamentale non è quello
della migliore forma di governo, bensì quello del miglior sistema di
organizzazione sociale, informato ai criteri di rappresentanza
meritocratica e ai principi dell’autonomia. Da un’altra parte
troviamo invece l’ala radicale del s. utopistico. Il fallimento
della Rivoluzione francese è imputato, dagli autori che si
riconoscono in questa seconda corrente di pensiero (L.-A. Blanqui,
F. Buonarroti, F.-N. Babeuf), a una inadeguata preparazione
organizzativa. Il principio egualitario e il ‘comunismo’ dei beni,
che costituiscono le finalità supreme dell’azione rivoluzionaria,
presuppongono la conquista del potere politico; il momento teorico
viene così fortemente semplificato a vantaggio di quello
organizzativo, cospiratorio e insurrezionale, nell’ambito di una
strategia tutta tesa al rovesciamento dell’ordine politico. Di qui
un’esaltazione quasi mistica dell’azione rivoluzionaria quale
strumento della palingenesi storica.
C’è dunque fin dalle origini, nel movimento socialista, una
duplicità costitutiva mai risolta: un’anima laica, pluralista e
moderata; un’altra gnostica, dispotica e radicale, che già da allora
si riconosce più nell’etichetta del comunismo che del s. (e
comuniste venivano infatti dette le società segrete attive in
Francia fra il 1835 e il 1840, ispiratrici della linea
Babeuf-Buonarroti, le quali non a caso diffusero l’espressione
dittatura comunista per qualificare l’obiettivo della loro
rivoluzione).
3. Il s. pragmatico
Parallelamente al movimento francese si sviluppò in Gran Bretagna,
soprattutto a opera di R. Owen, una dottrina che vi si accostava per
molti aspetti, pur radicandosi in un contesto storico diverso e su
problemi diversi di ordine economico-sociale. Le idee maturate in
questo ambito si posero alla base di tendenze che riprendevano dalla
tradizione filosofica dell’empirismo inglese il carattere della
duttilità politica e del pragmatismo. Il ragionamento di Owen era
molto semplice: era inutile arrestare il progresso industriale e
prendersela con le macchine; tuttavia era rischioso lasciare la
regolazione del modo di produzione industriale, nel quale i
lavoratori erano immiseriti e resi schiavi, al libero gioco del
laissez faire. Occorreva invece una pianificazione ponderata che si
occupasse di tutti gli aspetti – dalle condizioni di lavoro alle
condizioni di vita – della classe operaia, mediante metodi educativi
e filantropici. Il cartismo e il movimento sindacale organizzato in
Inghilterra si svolsero in rapporto all’influenza di Owen,
accentuandone via via i tratti più o meno inconsapevoli del
riformismo pragmatico e respingendone invece quelli che lo
iscrivevano nel quadro del s. utopistico. Di Owen si accettò in
particolare l’assunto secondo il quale occorreva porre un argine
alla discesa dei salari ai livelli minimi di sussistenza, attraverso
le trade unions, libere associazioni fra lavoratori.
4. Il s. scientifico
Con K. Marx e F. Engels il s. raggiunse la piena maturità
intellettuale e politica. Nel Manifesto del partito comunista,
scritto su incarico della Lega dei comunisti durante i moti del 1848
in Germania, Marx ed Engels distinguevano il loro s. dalle altre
versioni, tracciando le linee portanti del s. scientifico, in quanto
solo un’analisi scientifica dei rapporti economici poteva consentire
di elaborare un programma di azione rivoluzionaria del proletariato
in lotta con la borghesia per l’attuazione del socialismo. La
riflessione del marxismo procedette lungo due direzioni specifiche
per la definizione del programma socialista. Da un lato, la non
compiutezza delle condizioni oggettive per la rivoluzione pose il
problema di approfondire l’analisi critica dell’economia
capitalistica. Dall’altro, dopo il 1860, fu in primo piano il
problema dell’organizzazione e della direzione del movimento operaio
e socialista. Sulla soluzione di questo problema influirono, in
particolare, tre eventi: la nascita del Partito socialdemocratico
tedesco, la Prima Internazionale e la Comune di Parigi. La Prima
Internazionale segnò l’incontro fra il marxismo e il movimento
operaio dei diversi paesi europei, che cominciava a liberarsi dal
democraticismo, dall’anarchismo e dal romanticismo propri del primo
socialismo. Il problema di fondo era quello di indirizzare lo
sviluppo delle organizzazioni proletarie, attraverso un centro di
coordinamento internazionale, verso obiettivi di unità, di
autonomia, di solidarietà. C’era anche il riconoscimento
dell’importanza tattica del riformismo democratico e il primo
riconoscimento delle vie nazionali al s.: rivoluzionarie quasi
ovunque, ma anche pacifiche nei paesi a tradizione
liberal-democratica.
Marx escluse che nell’esperienza della Comune parigina del 1871,
diretta da blanquisti, proudhoniani e giacobini, vi fossero le
condizioni oggettive per un’insurrezione, e per questo preferì agire
in difesa delle istituzioni e in vista dell’organizzazione politica
del proletariato nelle file della socialdemocrazia tedesca. La
lezione che Marx traeva dalle vicende parigine lo portò a
riconcettualizzare il s. come quella fase transitoria del processo
rivoluzionario nella quale la classe operaia si appropriava dello
Stato e del potere legale per instaurare la dittatura del
proletariato, momento propedeutico all’avvento della società
comunista (Kritik des Gothaer Programms, 1875): troviamo qui una
divaricazione sistematica dei due termini di s. e comunismo, di
rilievo fondamentale per quelle che saranno le loro applicazioni
storiche successive.
5. La varietà dei socialismi
Con la Seconda Internazionale (1889-1917) la guida del movimento
operaio fu assunta dalla socialdemocrazia tedesca, il cui ideologo
principale era K. Kautsky. In questo ambito la dottrina marxista fu
sottoposta a una serie di revisioni critiche, in senso ‘riformista’
o ‘rivoluzionario’, che segnarono in modo indelebile lo sviluppo e i
conflitti del movimento socialista nelle diverse realtà storiche.
Dal punto di vista politico, il congresso di Londra del 1896 decretò
l’espulsione degli anarchici e la condanna del revisionismo,
affrontando una serie di altri problemi cruciali per le sorti del
movimento. Negli anni successivi e precedenti alla Prima guerra
mondiale, le questioni dello sciopero generale, del militarismo, del
colonialismo, e soprattutto della posizione da assumere nei
confronti degli eventi bellici, dimostrarono l’incapacità dei
partiti socialisti, nella loro maggioranza neutrali o favorevoli al
conflitto, di porre la solidarietà di classe al di sopra degli
interessi nazionali.
Nella prospettiva della storia delle idee, la Seconda Internazionale
presentò una rilettura del marxismo in chiave di revisionismi ‘di
sinistra’, attraverso una rivalutazione della dialettica hegeliana,
e ‘di destra’, attraverso gli strumenti concettuali
dell’evoluzionismo positivistico o del neokantismo. Si ebbero così,
da una parte, le posizioni a difesa dell’‘ortodossia’ marxista di K.
Kautsky e R. Luxemburg; dall’altra parte, le posizioni fortemente
critiche nei confronti della teoria marxista, come quelle di E.
Bernstein, di M. Adler e degli altri esponenti del cosiddetto
austromarxismo, che recuperavano le ragioni etiche del s. e ne
rigettavano le basi scientifiche. Le estreme conseguenze, anche
scissionistiche, di questa controversia si ebbero con l’istituzione,
nel 1919, della Terza Internazionale, non più socialista ma ormai
già comunista, dato che ebbe come partito-guida quello bolscevico e
come modello quello della rivoluzione sovietica condotta al successo
in Russia appena due anni prima.
Secondo Lenin, il cui pensiero divenne il credo ideologico dei nuovi
partiti rivoluzionari in Europa, il comunismo si differenzia dal s.
revisionista, definito spregiativamente come «opportunistico,
eclettico e senza principi», come pure dallo spontaneismo
insurrezionale, perché non assume la coscienza di classe come un
prodotto spontaneo dello sviluppo capitalistico, nel modo in cui
portava a credere una «grossolana deformazione» della teoria
marxista. Solo gli intellettuali borghesi che ne sono gli
interpreti, e il partito come «avanguardia armata del proletariato»,
possono trasmettere la consapevolezza del fine supremo cui tende la
storia dell’umanità, cioè la società comunista. Questa ideologia,
«onnipotente perché giusta», divenne la dottrina ufficiale del
partito rivoluzionario e dello Stato socialista con il quale si
identificava.
6. S. e welfare state
La storia delle idee e delle esperienze politiche del s. nel secondo
dopoguerra si intreccia e quasi si fonde con la trasformazione dei
sistemi democratici nella struttura del welfare state. Lo Stato
sociale non fu invero una invenzione socialista: fu piuttosto la
risposta in senso compatibile ad alcuni principi-cardine del s. che
i sistemi a capitalismo maturo fornivano alle tensioni e alle sfide
cui erano sottoposti i propri equilibri sociali ed economici dai
processi di produzione e redistribuzione del reddito. Non a caso il
prototipo moderno dello Stato sociale si realizzò, dopo la crisi del
1929, negli Stati Uniti con l’esperimento del New deal rooseveltiano
e, nel secondo dopoguerra, con l’impostazione teorica e legislativa
data al problema dei rapporti fra Stato e mercato da W.H. Beveridge
in Gran Bretagna, sotto l’influenza della macroeconomia di J.M.
Keynes, e in particolare dei suoi enunciati teorici relativi
all’espansione dell’offerta pubblica e delle politiche di spesa
finanziate attraverso il bilancio statale e la contribuzione
fiscale. In sostanza, il modello del welfare state scaturiva da un
compromesso politico fra i principi del mercato e le esigenze di
giustizia sociale avanzate dal movimento operaio.
Così, dopo quello con la democrazia, l’incontro fra s. e
liberalismo, che nel 19° sec. sembrava impossibile, riscattò del
tutto la gran parte dei partiti socialisti europei dalla matrice
dell’ortodossia marxista e dell’ideologia rivoluzionaria per
adattarli a un ruolo di pragmatismo politico. In altri termini, lo
Stato sociale poteva essere visto come una vera e propria
rivoluzione culturale, ovvero l’esito, fra l’altro, di un profondo
cambiamento degli atteggiamenti e degli orientamenti etico-politici
di un largo settore di opinione pubblica socialista, che mirava a
obiettivi di socializzazione del mercato attraverso la
programmazione economica, sostenendo nel contempo la
istituzionalizzazione delle forme di economia mista, diffuse ormai
in quasi tutti i sistemi politici dell’Europa occidentale.
È in questo contesto che i partiti socialisti, diventati a tutti gli
effetti – compresi quelli della legittimazione e dell’accettazione
delle regole della democrazia politica ed economica – partiti
socialdemocratici, assunsero responsabilità di governo, rompendo
definitivamente i legami con le forze, per lo più minoritarie, del
s. (e comunismo) rivoluzionario. Sono emblematici, in questo senso,
alcuni episodi maturati durante gli anni 1950: la rottura del patto
fra Partito socialista italiano e Partito comunista italiano dopo i
fatti di Ungheria del 1956, la svolta di Bad Godes;berg attuata
nella Germania Federale dall’SPD di W. Brandt, l’allontanamento dei
socialisti francesi dall’orbita di influenza del Partito comunista.
Senza contare la collaudata lealtà democratica del Partito laburista
in Gran Bretagna e delle socialdemocrazie scandinave e dell’Europa
continentale, ormai da tempo, a pieno titolo, forze della sinistra
governativa nei rispettivi paesi.
Naturalmente, sul piano delle idee e delle analisi teoriche, non c’è
pieno accordo sulle valutazioni del welfare state e sulla stessa
praticabilità storica del s. democratico e liberale. A fronte di
coloro che hanno sostenuto e in qualche modo teorizzato questo
modello, si contrappongono, da un lato, alcune posizioni di sinistra
rivoluzionaria, per cui le politiche di welfare non sono che una
razionalizzazione del sistema capitalistico in crisi e un modo
mascherato per consolidare il dominio della borghesia e, dall’altro,
quelle radicalmente liberiste, secondo le quali lo Stato
assistenziale corrode alle radici le strutture e i valori della
‘società aperta’, perché esalta la tendenza alla burocratizzazione e
al collettivismo che sono i prodromi del totalitarismo, vizio
congenito e inestirpabile di qualsiasi ‘illusione’ socialista.
D’altra parte, quando, a partire dalla crisi mondiale dell’economia
negli anni 1970, si ruppe il nesso fra benessere e sviluppo, fra
accumulazione capitalistica ed equità sociale, che era stato alla
base del modello di welfare state; quando la struttura della società
impostata sulla tradizionale divisione in classi cominciò a
sgretolarsi; quando, alla fine degli anni 1980, crollò anche
l’ultimo baluardo di potenza socialista nell’Unione Sovietica e
negli Stati satelliti dell’Europa orientale, anche il s. come
programma politico e come progetto di società alternativa iniziò a
perdere credibilità e consenso fra le masse. Ma può pure darsi, come
sostiene M. Duverger, che il s., dopo aver provato a entrarci,
uscirà di nuovo dal seno del capitalismo attraverso un processo
storico lungo e faticoso per promuovere nuove imprese
rivoluzionarie. Come può darsi, secondo quanto afferma N. Bobbio,
che il suo destino sia ancora tutto da giocarsi nella prospettiva di
una meta, quella del contemperamento fra i principi di libertà e di
uguaglianza, tutt’altro che conseguita nella storia dell’umanità.
7. Partiti socialisti italiani
La formazione di un partito socialista inteso quale espressione
politica del proletariato risale in Italia al 1892, con la nascita,
a Genova, del Partito dei lavoratori italiani. Federazione di
organizzazioni operaie, il nuovo partito adottò una piattaforma
programmatica di ispirazione marxista e teorizzò la necessità della
lotta politica per la conquista dei pubblici poteri, distaccandosi
definitivamente dalla dottrina sociale mazziniana e dalle posizioni
anarchiche e operaiste. Divenuto nel 1893 Partito socialista dei
lavoratori italiani, nel 1895 assunse il nome di Partito socialista
italiano (PSI). In questi anni a guidare il partito fu la
maggioranza riformista, che aveva in F. Turati il suo principale
esponente; convinti della possibilità di una instaurazione pacifica
e graduale del s., nel quadro di un generale progresso economico, i
riformisti sostennero la svolta liberale di G. Giolitti e
privilegiarono l’attività parlamentare, volta al conseguimento di
una legislazione sociale più avanzata. L’egemonia riformista fu
contrastata dai sindacalisti rivoluzionari, facenti capo ad A.
Labriola ed E. Leone, che esaltavano l’azione diretta del
proletariato e respingevano ogni forma di collaborazione con la
borghesia. Impostisi al congresso di Bologna del 1904, i
sindacalisti rivoluzionari diressero, nello stesso anno, il primo
sciopero generale nazionale, ma negli anni successivi subirono un
progressivo declino, fino alla loro uscita dal partito nel 1907. La
maggioranza riformista entrò in crisi con l’impresa libica (1911):
alla linea di Turati, contrario alla guerra, si oppose la componente
di destra facente capo a I. Bonomi e L. Bissolati, sostenitrice
dell’intervento. Nel congresso di Reggio nell’Emilia (1912), che
vide la vittoria della sinistra intransigente rivoluzionaria e
l’ascesa di B. Mussolini, questo gruppo fu espulso dal partito.
Scoppiata la Prima guerra mondiale, il PSI cercò di rimanere fedele
alla propria tradizione pacifista e internazionalista.
Le tensioni sociali del dopoguerra favorirono la crescita del PSI,
che nel 1919 triplicò la propria rappresentanza parlamentare; nello
stesso anno, al congresso di Bologna, si affermò una maggioranza
‘massimalista’, guidata da G.M. Serrati, sostenitrice della
conquista rivoluzionaria del potere e dell’instaurazione della
dittatura del proletariato. Tale maggioranza entrò in crisi in
seguito ai contrasti emersi a proposito dell’occupazione delle
fabbriche (1920) e dei rapporti con la Terza Internazionale, cui il
PSI aveva aderito. Nel congresso di Livorno del gennaio 1921 il
gruppo dirigente respinse le condizioni poste da Mosca, rifiutando
di cambiare la denominazione del partito in comunista e di
allontanare i riformisti; in seguito a ciò, la corrente facente capo
ad A. Bordiga e il gruppo dell’Ordine nuovo di A. Gramsci
abbandonarono il PSI e fondarono il Partito comunista d’Italia.
L’anno successivo, la componente riformista, favorevole alla
collaborazione con i governi borghesi, diede vita al Partito
socialista unitario (PSU), guidato da G. Matteotti.
Il clima repressivo instaurato dal fascismo ridusse drasticamente i
margini di azione politica del PSI, che dopo aver partecipato alla
secessione aventiniana fu sciolto (1926). Trasferita la propria
organizzazione in Francia, il PSI nel 1930 si riunificò con i
riformisti del PSU (che dal 1926 aveva assunto il nome di Partito
socialista dei lavoratori italiani); nel 1934, infine, fu siglato un
patto d’unità d’azione con i comunisti volto a combattere il
fascismo. Ricostituito in Italia nel 1942 a opera di O. Lizzadri e
G. Romita, il PSI assunse l’anno successivo il nome di Partito
Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP), in seguito alla
confluenza in esso del Movimento di unità proletaria, fondato nello
stesso anno da L. Basso. Nel 1943 era sorto anche, per iniziativa di
M. Ruini e M. Cevolotto, il Partito democratico del lavoro, di
ispirazione riformista, che rimase in vita fino al 1947.
Caduto il fascismo, i socialisti fecero parte, con l’eccezione del
secondo governo Bonomi (1944-45), dei governi di unità nazionale che
avviarono la ricostruzione del paese. Negli anni successivi la
rottura del fronte internazionale antifascista e l’inizio della
guerra fredda suscitarono nuovi contrasti interni, in particolare a
proposito dei rapporti con il PCI. Alla componente di sinistra,
favorevole a una stretta unità d’azione con i comunisti e a una
accentuazione della connotazione classista del partito, si
contrappose l’ala guidata da G. Saragat, che nel 1947 diede vita al
Partito socialista dei lavoratori italiani. Nello stesso anno il
PSIUP riprese la denominazione di PSI e accolse al suo interno la
maggioranza del Partito d’azione; nel 1949 un altro gruppo uscì dal
PSI dando vita al Partito socialista unificato, che nel 1951 si fuse
con il Partito socialista dei lavoratori italiani nel Partito
socialista democratico italiano (PSDI). Il PSI rimase
all’opposizione sino alla fine degli anni 1950.
La denuncia dello stalinismo operata dal XX congresso del PCUS e
l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956) portarono alla rottura
del patto di unità d’azione fra PSI e PCI e a un riavvicinamento
delle diverse componenti del s. italiano. Nel 1963 i socialisti
entrarono a far parte del gabinetto presieduto da A. Moro,
inaugurando la stagione del centrosinistra. Dopo la scissione della
sinistra del PSI, che nel 1964 diede vita al Partito socialista
italiano di unità proletaria (PSIUP), il processo di avvicinamento
tra PSI e PSDI culminò nel 1966 nella nascita del Partito socialista
unificato, che però ebbe vita breve, in quanto nel 1969 si
ricostituirono le due formazioni originarie. Il PSIUP, dopo un
iniziale successo elettorale, perse progressivamente consensi e nel
1972 si sciolse.
Nella nuova situazione determinata dalla crescita della
conflittualità sociale e dalla progressiva crisi del centrosinistra,
la politica del PSI registrò un cauto spostamento a sinistra e un
riavvicinamento al PCI. Gli insoddisfacenti risultati elettorali
conseguiti nel 1972 e nel 1976, la crescente polarizzazione del
sistema politico italiano fra DC e PCI, la linea del ‘compromesso
storico’ perseguita da quest’ultimo, favorirono l’emergere di una
nuova leadership facente capo a B. Craxi (segretario del PSI dal
1976). Negli anni successivi il PSI avviò una politica volta a
riequilibrare i rapporti di forza con il PCI, ad affermare la
propria autonomia (accentuando, anche sul piano ideologico, il
distacco dalla tradizione marxista) e ad accrescere il proprio
ruolo, esercitando un potere condizionante sulla formazione delle
maggioranze di governo. Nel 1983 Craxi formò il primo esecutivo a
presidenza socialista, mantenendo la carica di primo ministro fino
al 1987. Sul piano elettorale il PSI vide un incremento dei
consensi, mentre all’aumento del suo peso politico si accompagnava
un crescente coinvolgimento nei processi degenerativi del sistema
dei partiti che si sviluppavano in quegli anni. Tale coinvolgimento
contribuì in modo rilevante alla crisi verificatasi nei primi anni
1990: l’implicazione del gruppo dirigente socialista negli scandali
di tangentopoli portò nel 1993 alle dimissioni di Craxi, mentre il
PSI subiva un rapido declino. Dopo la scissione di un gruppo facente
capo a V. Spini, che fondò la Federazione laburista, nel 1994 il
congresso di Roma stabilì di sciogliere il PSI. La diaspora dei suoi
membri ha dato luogo negli anni successivi a numerose formazioni.
Anche il PSDI, rimasto costantemente nell’area di governo, negli
anni 1990 fu coinvolto nella crisi legata a tangentopoli, subendo un
progressivo declino. Confluito (1998) nel partito dei Socialisti
democratici italiani, nel 2004 si è ricostituito come PSDI, con G.
Carta come segretario (al quale è succeduto nel 2007 M. Magistro).
Nelle elezioni politiche del 2006 il PSDI si è schierato con il
centro-sinistra, mentre in quelle del 2008, assieme all'UDC e alla
Rosa per l'Italia, ha aderito alla Costituente di centro.
S. della cattedra Espressione polemica, formulata dal liberista
tedesco H.B. Oppenheim nel libro Der Kathedersozialismus (1872),
rivolta a definire quel gruppo di professori e di studiosi, che,
fino all’inizio del 20° sec., svolsero in Germania una polemica
dottrinaria contro il liberalismo e le dure conseguenze
etico-sociali di esso, ponendo tra i doveri propri dello Stato
moderno l’attuazione di una politica sociale a favore dei ceti meno
abbienti. Nonostante il suo significato soprattutto teorico, il s.
della cattedra, attraverso il Verein für Sozialpolitik (1872),
contribuì allo sviluppo della legislazione sociale in Germania. Fra
i suoi rappresentanti più in vista G. von Schmoller, A.H.G. Wagner,
L.J. Brentano, K. Bücher, H. Herkner.
Dizionario di Filosofia (2009)
Il termine compare per la prima volta nel 18° sec., per designare la
corrente antihobbesiana del giusnaturalismo moderno, ossia
quei contrattualisti che ponevano all’origine della società non la
natura egoista e ferina dell’uomo, ma la sua tendenza alla
socialitas (da cui la definizione di «socialisti»). Questo
significato rimarrà tuttavia di uso assai ristretto e il termine
acquisirà il suo significato moderno, destinato a uno straordinario
successo, soltanto negli anni Trenta dell’Ottocento, quando – a
seguito dei problemi sociali sollevati in Inghilterra e in Francia
dallo sviluppo industriale – verrà usato per designare le dottrine
politiche (owenismo, sansimonismo, fourierismo) che propugnavano la
costruzione di un sistema sociale alternativo a quello
capitalistico, caratterizzato dalla scomparsa o dalla forte
limitazione della proprietà privata, dalla cooperazione collettiva
(in luogo della competizione individualistica), dall’eguaglianza
sociale ed economica (e non soltanto giuridica e politica).
Da allora in avanti l’idea socialista verrà declinata in modi molto
diversi, che possono essere classificati, con una qualche
semplificazione, attraverso il riferimento a due temi di cruciale
importanza: la natura del fine e la scelta dei mezzi per
raggiungerlo. Quanto alla natura del fine, le questioni dirimenti
sono l’atteggiamento verso la proprietà privata, il mercato e la
democrazia liberale. Per la tradizione socialista che si rifà, in
vario modo, alle teorie di Marx (e che sarà largamente maggioritaria
sino alla prima metà del Novecento), la proprietà privata dovrà
essere abolita e sostituita da un’integrale socializzazione dei
mezzi di produzione, con la conseguente scomparsa del mercato e la
radicale trasformazione dell’assetto istituzionale (lo Stato
liberal-democratico, che è soltanto lo strumento del dominio
borghese, verrà distrutto e sostituito da uno Stato proletario che,
dopo una fase transitoria di ‘dittatura rivoluzionaria’, si
estinguerà, lasciando il posto a una società di liberi produttori
che si autogovernano).
Per la tradizione che si rifà alle teorie di Proudhon (il s.
libertario o mutualistico, che rimarrà minoritario), la proprietà di
tipo capitalistico va abolita, ma non bisogna procedere alla sua
collettivizzazione, bensì alla sua diffusione tra i lavoratori,
dando vita a una società di piccoli produttori organizzati in libere
associazioni autogestite, ispirate ai principi della cooperazione e
legate tra loro da rapporti di tipo federale (con conseguente
abolizione dello Stato).
Infine, per la tradizione del s. democratico e riformista (il cui
primo esponente fu Bernstein), la proprietà privata e il mercato non
vanno aboliti, ma affiancati da una serie di interventi pubblici,
più o meno estesi, il cui scopo è correggere gli eccessi e le
storture del mercato e integrare i diritti civili e politici della
democrazia liberale con una serie di diritti e servizi sociali
(Stato sociale o Welfare State).
Quanto alla scelta dei mezzi, la grande alternativa è quella tra
rivoluzione e riforme: la scelta rivoluzionaria, tipica delle forme
di s. miranti a una radicale trasformazione dell’assetto sociale, si
accompagna a una teoria del soggetto rivoluzionario, che per la
tradizione marxista è la classe operaia (inquadrata nel partito di
massa, per il marxismo ortodosso; guidata dal partito-avanguardia,
per Lenin; incitata all’azione diretta e all’auto-organizzazione nei
consigli, per R. Luxemburg; guidata dal sindacato rivoluzionario,
per Sorel), mentre per la tradizione anarchica è costituita dagli
strati più emarginati (contadini, studenti, intellettuali) delle
società arretrate.
La scelta riformista, invece, implica una serie di cambiamenti
graduali dell’assetto sociale: al suo interno occorre tuttavia
distinguere nettamente tra il riformismo ‘tattico’ di ispirazione
marxista (il cui scopo era quello di servirsi degli strumenti della
democrazia ‘borghese’ sino a quando non fossero maturate le
condizioni per la trasformazione rivoluzionaria) e il riformismo
‘strategico’ di ispirazione democratico-liberale (che fa del
gradualismo una scelta di principio, accetta le istituzioni della
società liberal-democratica e sviluppa nel loro quadro un’azione
volta a tutelare e promuovere un certo grado di eguaglianza
sociale).
Socialismo e comunismo.
Tra i primi a usare il termine s. nel suo significato moderno vi
furono i seguaci di Saint-Simon (P. Leroux, in un articolo apparso
nel 1833 sulla Revue enciclopédique, ne tentò una prima definizione,
contrapponendo il s. all’individualismo) e quelli di Owen (la cui
rivista, The new moral world, assunse nel 1836 la dizione di «organ
of socialism»). Lo stesso Owen, nel 1841, pubblicò un opuscolo
intitolato Che cos’è il socialismo?, mentre il termine – insieme a
quello di comunismo, ripreso dai seguaci di Cabet – si andava
diffondendo anche in Germania grazie all’opera di L. von Stein
(Socialismo e comunismo nella Francia d’oggi, 1842). Negli anni
Quaranta tra s. e comunismo non vi erano nette differenze: essi
indicavano varianti del medesimo movimento – in larga parte
intellettuale – che denunciava la condizione dei lavoratori nella
società capitalistica e proponeva il superamento di quest’ultima in
direzione di una società egualitaria.
Una prima netta differenziazione si ha nel 1848, quando Marx ed
Engels scelgono il termine comunista per titolare il Manifesto. Tale
scelta nasce da una netta opzione classista e rivoluzionaria: nel
1847, spiegherà Engels nella prefazione all’edizione inglese del
Manifesto del 1888, tutti coloro che si definivano socialisti
(owenisti, sansimoniani, ecc.) erano «al di fuori del movimento
operaio» e miravano a ottenere «l’appoggio delle classi ‘istruite’»;
viceversa, si definivano comunisti quei gruppi della classe operaia
che si erano convinti della «necessità di una trasformazione
generale della società» e quindi dell’insufficienza di rivoluzioni
soltanto politiche. La conclusione di Engels era che nel 1847 «il s.
era un movimento borghese, il comunismo un movimento
rivoluzionario».
Con la sconfitta dei movimenti rivoluzionari del ’48 la distinzione
tra s. e comunismo perse rilevanza, come dimostra anche il fatto che
i partiti ispirati alla dottrina di Marx, sorti nell’ultimo quarto
dell’Ottocento, presero il nome di ‘socialdemocratici’,
‘socialisti’, ‘operai’ o ‘laburisti’.
In questa fase, che si protrae sino alla Prima guerra mondiale, per
s. si intende sia la dottrina marxista nel suo complesso (il
cosiddetto s. scientifico), sia – sulla scorta di quanto aveva
scritto lo stesso Marx nella Critica al programma di Gotha (1875) –
la prima fase della società che nascerà dalla rivoluzione proletaria
(quella in cui a ciascuno verrà dato secondo il lavoro svolto),
distinta dalla fase finale, detta comunista (in cui a ciascuno verrà
dato secondo i suoi bisogni).
Sarà Lenin, leader della corrente bolscevica del partito
socialdemocratico russo, a riattualizzare la contrapposizione tra
comunismo e s.: il leader bolscevico restituirà infatti al suo
partito, nel 1918, l’antica denominazione di comunista, ancora una
volta per rimarcare la distanza che separava i ‘veri rivoluzionari’
da quelli ‘falsi’ (ossia dai partiti socialisti europei, che per
Lenin si erano «imborghesiti»). Da allora in avanti s. e comunismo
rappresentarono due culture politiche distinte e spesso in rapporti
ostili, anche se tra i partiti socialisti di ispirazione marxista e
i partiti comunisti rimarrà comune l’idea di un ordinamento sociale
radicalmente alternativo (sotto il profilo economico e politico) a
quello della democrazia liberale.
Le prime forme di socialismo.
Le prime forme di s. si caratterizzano per il richiamo alla scienza
e alla sperimentazione sociale, nella convinzione che il passaggio
alla nuova società debba realizzarsi grazie alla forza della
convinzione e dell’esempio. Saint-Simon era convinto che la
soluzione del problema sociale non sarebbe venuta dalla politica, ma
dall’alleanza tra scienza e industria. Nella società del futuro al
dominio dei ceti oziosi (aristocratici, militari e redditieri) si
sarebbe sostituito quello dei savants («scienziati») e degli
industriels (imprenditori e operai), i quali avrebbero garantito uno
sviluppo armonico a tutto vantaggio della classe più numerosa e più
povera. I sansimoniani collocheranno le argomentazioni del
maestro in uno schema fondato sul contrasto tra proprietà privata e
funzionamento ottimale del sistema industriale, mostrando come
l’organizzazione sociale di tipo capitalistico concentri gli enormi
vantaggi resi possibili dall’industrializzazione nelle mani di pochi
e conduca allo «sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo» (di qui
la proposta di trasferire allo Stato, trasformato in associazione
dei lavoratori, la proprietà di terre e capitali).
Il s. di Owen e di Fourier si caratterizza invece per l’ideazione di
«comunità-modello». Fourier teorizza lo sviluppo di comunità
autosufficienti (dette falansteri), nelle quali gli individui
eseguono ogni lavoro in comune, avendo anche la possibilità di
cambiare periodicamente funzione. Owen, dal canto suo, progetta dei
«villaggi cooperativi», ossia delle comunità in cui ai principi
dell’individualismo competitivo, propri dell’economia capitalistica,
si sostituiscono i principi della cooperazione: tali villaggi sono
fondamentalmente agricoli, anche se Owen non esclude determinate
attività industriali; a differenza dei falansteri, essi producono
non solo per il consumo, ma anche per lo scambio tra comuni. Anche
se i villaggi realizzati da Owen diedero risultati deludenti, i
principi dell’owenismo lasciarono tracce profonde nel s.
anglosassone, che si caratterizzerà per l’attitudine pragmatica e
riformista. Quanto al sansimonismo, esso lascerà in eredità alla
cultura francese lo stretto legame tra s., scienza e progresso.
Socialismo di Stato e socialismo libertario e mutualistico.
Tra le prime formulazioni dell’idea socialista vi è anche quella del
s. di Stato o s. governativo, che da alcuni studiosi è considerato
una sorta di anticipazione del s. democratico, per la connessione
che istituisce tra s. e democrazia politica, nonché tra s. e
intervento dello Stato nella sfera economica. Tanto il francese L.
Blanc (che farà parte del governo provvisorio scaturito dalla
rivoluzione del 1848), quanto il tedesco F. Lassalle (una delle più
eminenti figure del s. tedesco, fondatore nel 1863 dell’Associazione
nazionale degli operai tedeschi, che sarà il primo embrione del
partito socialdemocratico) sono convinti che lo Stato, grazie alla
conquista del suffragio universale, potrà divenire uno strumento per
l’emancipazione dei lavoratori, stimolando l’istituzione di
industrie autogestite da associazioni operaie:
Blanc teorizza gli ateliers sociaux, nella convizione che essi,
liberi dalla logica del profitto, garantiranno il diritto al lavoro,
porteranno a una tendenziale eguaglianza delle retribuzioni e
supereranno, sul piano della produttività, le industrie private,
sconfiggendo il principio capitalistico della concorrenza con le sue
stesse armi. Lassalle pensa a un sistema di cooperative di
produzione e di consumo, sempre sostenute dallo Stato, che spezzi la
«ferrea legge dei salari» (ossia il loro attestarsi al livello
minimo della sussistenza).
Agli antipodi del s. di Stato si colloca il s. libertario o
mutualistico di Proudhon, che si caratterizza per la carica
anti-autoritaria, per la ‘via economica’ (e non politica) al s. e
per la sua avversione al collettivismo comunistico. Per Proudhon la
proprietà privata è un «furto» soltanto nella sua versione
capitalistica, perché si concentra in poche mani, permettendo di
sfruttare il lavoro altrui; ma se la proprietà consiste nel
possesso, da parte dei lavoratori (singoli o associati), degli
strumenti di produzione, allora essa rappresenta la migliore
garanzia di libertà da ogni forma di potere. Per riorganizzare la
società occorre dunque agire sul piano economico, non
collettivizzando la proprietà (perché una comunità proprietaria
unica dei mezzi di produzione finirebbe per schiacciare le libertà
individuali), ma dando a tutti la possibilità – attraverso un
sistema gratuito del credito – di diventare proprietari e di vendere
i prodotti del proprio lavoro al giusto prezzo. A questa riforma
economica si dovrà affiancare una riforma politica, consistente nel
passaggio dall’organizzazione politica della società (fondata sullo
Stato e quindi sull’autorità e sull’accentramento del potere)
all’organizzazione sociale (fondata sui principi della democrazia
economica e del federalismo sociale).
Enciclopedia del Novecento (1982)
di Iring Fetscher
Socialismo
Sommario: 1. Significato del termine. 2. Valori fondamentali del
socialismo democratico. 3. La critica socialista della società
industriale capitalistica. 4. Critica socialista al socialismo di
Stato (capitalismo di Stato, socialismo burocratico). 5. Socialismo
e paesi in via di sviluppo. 6. Forme della transizione pacifica al
socialismo. 7. Necessità di argomenti morali a favore del
socialismo. 8. Socialismo e pace mondiale. 9. Conclusione. □
Bibliografia.
1. Significato del termine
Con ‛socialismo' ci si riferisce oggi, in genere, a due fenomeni
diversi. In primo luogo, il termine caratterizza un ordinamento
sociale in cui i mezzi di produzione essenziali appartengano alla
comunità (allo Stato o alle cooperative dei produttori), e in cui
valga il principio ‟da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno
secondo il suo lavoro": un ordinamento sociale, cioè, in cui le
opportunità di consumo di ognuno siano proporzionate alle
prestazioni lavorative effettuate per la comunità. In secondo luogo,
s'intende con ‛socialismo' una tendenza politica mirante a riforme
di vasta portata, o anche a un mutamento rivoluzionario della
società capitalistica, nonché l'organizzazione a essa
corrispondente. Sotto questa seconda accezione è possibile, in
verità, raccogliere un numero straordinariamente grande di
organizzazioni e di movimenti, i quali tutti - più o meno a buon
diritto - pretendono per sé la qualifica di socialista.
La prima di queste due accezioni del termine risale alla critica
rivolta da Marx al programma di Gotha dei socialdemocratici
tedeschi, nella quale si legge: ‟Quella con cui abbiamo da far qui,
è una società comunista, non come si è sviluppata dalla propria
base, ma viceversa come emerge dalla società capitalistica; che
porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale,
spirituale, le macchie della vecchia società dal cui seno è uscita.
Perciò il produttore singolo riceve - dopo le detrazioni [per il
fondo di riproduzione e per gli inabili al lavoro, per scuole,
ospedali, ecc.] - esattamente ciò che dà [...] Domina qui
evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci
in quanto è scambio di cose di valore uguale. Contenuto e forma sono
mutati, perché, cambiate le circostanze, nessuno può dare niente
all'infuori del suo lavoro, e perché d'altra parte niente può
passare in proprietà del singolo all'infuori dei mezzi di consumo
individuali. [...] L'uguale diritto è qui perciò ancora sempre,
secondo il principio, il diritto borghese, benché principio e
pratica non contrastino più. [...] Nonostante questo progresso,
questo ugual diritto reca ancor sempre un limite borghese. Il
diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di
lavoro, l'uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con
una misura uguale, il lavoro. Ma l'uno è fisicamente o moralmente
superiore all'altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più
lavoro, oppure può lavorare per un tempo più lungo; e il lavoro, per
servire come misura, dev'essere determinato secondo la durata e
l'intensità, altrimenti cesserebbe di essere misura. Questo diritto
uguale è un diritto disuguale per lavoro disuguale. Esso non
riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto
operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente la ineguale
attitudine individuale, e quindi la capacità di rendimento, come
privilegi naturali. Esso è perciò, pel suo contenuto, un diritto
della disuguaglianza, come ogni diritto [...]" (v. Marx, 1891; tr.
it., pp. 960-961).
Marx accenna anche alle disuguali condizioni di vita, le quali
rendono disuguale, di fatto, l'uguale retribuzione per l'uguale
lavoro (la situazione del padre di famiglia è diversa da quella, per
es., del celibe, ecc.), e conclude: ‟Ma questi inconvenienti sono
inevitabili nella prima fase della società comunista, qual è uscita,
dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica. Il
diritto non può essere mai più elevato della configurazione
economica e dello sviluppo culturale, da essa condizionato, della
società" (ibid.). Più oltre, questa ‟prima fase della società
comunista" viene designata comprensivamente come ‟socialismo" e
distinta dalla ‟seconda" o ‟più elevata fase", definita ‟comunismo",
quella in cui la ripartizione dei beni di consumo e dei servizi può
essere effettuata secondo il principio ‟a ognuno secondo i suoi
bisogni", cosicché viene superata ogni ingiustizia derivante
dall'uguale trattamento di individui di fatto disuguali. Circa
questa ‟fase più elevata", Marx osserva che in essa ‟la
subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del
lavoro" e quindi anche il ‟contrasto tra lavoro intellettuale e
manuale" sono destinati a scomparire, e che il lavoro cesserà di
essere ‟soltanto mezzo di vita" per diventare il ‟primo bisogno
della vita".
Non possiamo proporci qui il compito di discutere la problematica di
questa ‟più elevata fase della società comunista". Ci limitiamo a
osservare che, se nelle società capitalistiche industrialmente
avanzate si compiono già oggi molteplici tentativi di eliminare
(attraverso assegni familiari, sussidi per la casa, gratuità
dell'istruzione, refezioni scolastiche, ecc.) quelle disuguaglianze
che Marx riteneva inevitabili ancora nel ‛socialismo', esse
permangono tuttavia in larga misura; e soprattutto esiste ancora in
tutte le società capitalistiche una parte (più o meno grande) della
popolazione che non vive della retribuzione del proprio lavoro, ma
dei profitti, interessi o rendite derivanti dalle sue proprietà
private (siano esse sotto forma di capitali, possessi fondiari,
ecc.).
Al pari della prima, anche la seconda accezione del termine
‛socialismo' deriva i propri tratti distintivi dalla
contrapposizione al comunismo. Da quando il Partito operaio
socialdemocratico russo (bolscevico) abbandonò nel 1918 la sua
vecchia denominazione per assumere quella di ‛partito comunista', in
tutti i paesi frazioni dei partiti socialisti allora esistenti
seguirono il suo esempio e si rifondarono sotto la medesima
denominazione. I termini ‛socialismo', ‛socialista' e
‛socialdemocratico' acquistarono in tal modo, per così dire
automaticamente, un significato critico - e di delimitazione - nei
confronti del comunismo leninista. Questa delimitazione, che nei
partiti europei andò facendosi sempre più netta col passare del
tempo per raggiungere la massima asprezza durante l'era staliniana e
la guerra fredda, era voluta espressamente da entrambe le parti. Al
secondo congresso del Komintern (Pietrogrado-Mosca, 19/7-7/8/1920)
Lenin formulò le ‛condizioni di ammissione' per ogni partito che
volesse aderire all'Internazionale, condizioni che rendevano
impossibile, di fatto, l'ingresso di partiti socialdemocratici e
laburisti.
Molte di queste richieste sono di tale natura che oggi (1975)
neppure tutti i partiti comunisti potrebbero soddisfarle
interamente. Menzioneremo i punti più importanti. Il primo
stabilisce che la propaganda del partito ‟deve avere un carattere
realmente comunista" e ‟tutti gli organi di stampa che si trovano
nelle mani del partito devono essere diretti da comunisti fidati".
Questa richiesta viene poi rafforzata dal punto 12, che esige la
‟completa subordinazione" di tutta la stampa periodica e non
periodica del partito al Comitato centrale. Il sesto punto esige la
rottura radicale con il ‟socialpatriottismo e socialpacifismo" sia
manifesti che occulti; il settimo un allontanamento di tutti i
‛riformisti' e ‛centristi'; l'ottavo una politica decisamente
anticoloniale (soprattutto negli Stati che ancora possiedono
colonie); l'undicesimo una ‛verifica' della ‟composizione dei gruppi
parlamentari"; il tredicesimo l'introduzione del principio del
‛centralismo democratico' e una ‟disciplina ferrea, confinante con
la disciplina militare"; il quattordicesimo ‟epurazioni periodiche
degli iscritti alle organizzazioni del partito (nuova
registrazione)"; il quindicesimo ‟l'appoggio alla lotta dell'Unione
Sovietica contro le forze controrivoluzionarie"; il sedicesimo la
revisione dei programmi e il loro adattamento alle deliberazioni
dell'Internazionale; il diciassettesimo la subordinazione dei
partiti nazionali ‟alle deliberazioni dei congressi
dell'Internazionale comunista nonché a quelle del suo Comitato
esecutivo"; e infine il diciottesimo esige che ‟i partiti mutino la
propria denominazione in quella di Partito comunista (del tale
paese), Sezione della Terza Internazionale Comunista" (v. Lenin,
1967, pp. 195-200).
Per i capi della maggioranza dei partiti socialisti tali richieste
erano semplicemente inaccettabili. In particolare, non era possibile
pensare a un'esclusione dei ‛riformisti' e dei ‛centristi', i quali
costituivano la grande maggioranza dei gruppi dirigenti della SPD e
degli altri partiti socialisti nell'Europa occidentale.
In seguito a questa spaccatura, il movimento socialista fuori della
Russia si sviluppò sotto il segno della distinzione, e spesso del
contrasto, nei confronti del partito russo (ribattezzato ‛Partito
comunista') e dei suoi partiti fratelli nell'Europa occidentale e
centrale. La completa vittoria del riformismo all'interno dei
partiti rimasti fuori del Komintern (specialmente nella SPD e nella
SF10) dipese tra l'altro dal fatto che i marxisti rivoluzionari
avevano in grandissima parte abbandonato i partiti socialisti per
aderire ai partiti comunisti di nuova fondazione.
Numerosi tratti peculiari del movimento socialista risalgono a
questa rottura - causata dalla preminenza del leninismo all'interno
della neonata Terza Internazionale - con l'ala rivoluzionaria del
movimento operaio. E precisamente: 1) a differenza dei partiti
comunisti, da allora in poi i partiti socialisti sottolineano il
‛carattere democratico' non solo del futuro ordinamento sociale (ciò
che avevano già fatto espressamente Marx ed Engels), ma anche della
‛transizione' dalla società capitalistica alla società socialista;
2) a differenza di quelli comunisti, i partiti socialisti (almeno
nella maggioranza dei casi) ritenevano - e ritengono - possibile una
‛transizione graduale' dal capitalismo al socialismo (riformismo).
Per un certo periodo accadde persino che taluni partiti socialisti
rinunciassero interamente all'obiettivo di una ‛società socialista'
(nel senso marxiano) e si limitassero a correzioni - mediante
riforme sociali - del capitalismo, il quale dal canto suo, sulla
scia della ‛rivoluzione keynesiana', andava facendosi sempre più
dipendente dagli interventi dello Stato in materia finanziaria ed
economica. A rigor di termini, partiti come quello laburista inglese
non sono neppure ‛riformisti', in quanto - anche se un programma di
statizzazione generale è stato mantenuto a parole per decenni - essi
non sono affatto interessati a una completa trasformazione della
società in senso socialista; 3) a differenza di quelli comunisti, i
partiti socialisti sono in pratica sempre pronti a formare
coalizioni, mentre i comunisti sono disposti a entrare in coalizioni
di sinistra soltanto sotto la minaccia di un ‛pericolo fascista', e
spesso soltanto a condizioni inaccettabili dai loro partners. (Il
governo di fronte popolare in Francia sotto Léon Blum rappresenta
una rara eccezione, anche se al giorno d'oggi, in verità, tanto il
Partito comunista italiano che quello francese sono disposti a
formare coalizioni con partiti non comunisti). I partiti socialisti
hanno perciò sostenuto governi la cui politica a stento mostrava
ancora un qualche rapporto con le rivendicazioni e gli ideali del
socialismo (si pensi al national government di MacDonald, alle varie
coalizioni SPD-Centro nella Repubblica di Weimar e alle coalizioni
della SFIO in Francia dopo la seconda guerra mondiale); 4) in
continuazione della ‛svolta nazionalistica' dell'estate 1914, la
maggioranza dei partiti socialisti - soprattutto nel periodo tra le
due guerre mondiali - si sono sempre più saldamente attestati su
posizioni nazionalistiche. A ciò ha contribuito anche il
pervertimento dell'internazionalismo proletario dovuto alla
subordinazione della Terza Internazionale agli interessi dell'Unione
Sovietica. Soltanto la seconda guerra mondiale e la coalizione
antifascista hanno nuovamente indebolito queste tendenze
nazionalistiche. Ma ricordiamo che ancora dopo il 1945 la SFIO, e
persino la ricostituita SPD, erano orientate in senso
nazionalistico.
D'altro canto, dei termini ‛socialismo' e ‛socialista' abusarono
anche partiti che avevano completamente rotto con la tradizione
socialista delle riforme e della rivoluzione sociale. Il partito
fascista tedesco si qualificava come Partito tedesco
‛nazionalsocialista dei lavoratori' (Nationalsozialistische deutsche
Arbeiterpartei) e cercava in tal modo di sfruttare a proprio
vantaggio il valore propagandistico di tale etichetta. A parte un
paio di punti programmatici riguardanti le riforme sociali e in
seguito completamente dimenticati (come la municipalizzazione dei
grandi magazzini e la statalizzazione dei trusts), l'ostentata
natura ‛socialista' e ‛filooperaia' del nazismo si limitò a parole
d'ordine come ‟onore al lavoro", ‟bellezza del lavoro", ‟unità dei
lavoratori del braccio e della mente", e alla propaganda di
un'armonia sociale sotto il segno della ‛comunità popolare' e della
‛comunità aziendale'. Nel ‛Fronte dei lavoratori' - che aveva
sostituito i disciolti sindacati - erano raccolti insieme
imprenditori e operai. Il piccolo-borghese declassato Adolf Hitler
amava presentarsi come ‛ex operaio'. Anche il valore simbolico della
rivoluzionaria bandiera rossa fu ripreso dai fascisti tedeschi (così
come i fascisti italiani avevano ripreso il nero dalle bandiere
degli anarchici).
Un analogo abuso del termine ‛socialismo' è rintracciabile in una
quantità di partiti che detengono il monopolio del potere statale
nei paesi ex coloniali. Anche qui la parola è destinata a comunicare
l'illusione della giustizia sociale e dell'armonia tra le classi, ma
solo per consolidare in tal modo la compattezza e la forza
combattiva della nazione.
2. Valori fondamentali del socialismo democratico
Per grande che continui a essere, per il socialismo del sec. XX,
l'importanza del marxismo, mi sembra ragionevole cominciare un
panorama dei problemi e dei compiti odierni del socialismo non con
una ricapitolazione (o ricostruzione) della teoria marxiana
dell'evoluzione della società capitalistica, ma con una rassegna dei
valori fondamentali del socialismo democratico, così come essi si
sono delineati anzitutto negli anni successivi alla seconda guerra
mondiale.
Al vertice di tali valori fondamentali del socialismo democratico
stanno, con pari dignità, la ‛libertà' e la ‛giustizia sociale'. I
socialisti non rifuggono dall'ammettere che le proprie finalità
politiche si riallacciano a valori morali (e anche a convinzioni
religiose). Il programma di Godesberg della SPD ha espressamente
riconosciuto una pluralità di ‛fondazioni' egualmente valide della
lotta per il socialismo. Del resto, non soltanto gli utopisti
premarxisti, ma anche lo stesso Marx - e così Engels - rivelavano in
ultima analisi una motivazione etica quando si schieravano a favore
dell'avvento di un nuovo ordinamento sociale. Se questa circostanza
è stata trascurata - anche all'interno della socialdemocrazia
tedesca avanti la prima guerra mondiale - ciò è dovuto soltanto alla
preponderanza che nel marxismo ha l'interesse per l'economia e per
la teoria della storia. M. Horkheimer ha osservato una volta, con
ragione, come la dimostrazione che un determinato sviluppo è
destinato a verificarsi con ‟la necessità di una legge naturale" non
sia ancora, per il singolo, un motivo per accelerarne il corso con
il proprio intervento. Solo in quanto era convinto - sulla base
delle contraddizioni della società capitalistica - dell'inevitabile
avvento di un'‟associazione dei liberi produttori", nella quale ‟il
libero sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di
tutti", in Marx venivano a coincidere la visione scientifica del
corso necessario dell'evoluzione e l'adesione eticamente motivata a
esso. La dimensione etica era per Marx ovvia, giacché era egli
stesso un tipico erede della borghesia liberale e delle sue migliori
tradizioni.
Il socialismo democratico si rifiuta di attribuire un predominio
esclusivo a uno solo dei due valori fondamentali: la libertà e la
giustizia sociale. Dipende soprattutto dalle concrete condizioni di
un paese quale dei due valori debba essere sostenuto con maggiore
energia (senza però che sia mai possibile perdere l'altro
interamente di vista).
Con ‛libertà' il socialismo intende anzitutto il libero
dispiegamento di ciascuno dei diversi talenti individuali, e in
secondo luogo un'organizzazione della società che consenta a
ciascuno dei suoi membri adulti di collaborare attivamente al
disbrigo degli affari comuni. Questa seconda specie di libertà - la
libertà democratica - può essere considerata come una forma della
prima; essa ha però, oltre a ciò, anche un'importante ‛funzione
strumentale'. Da un lato favorisce il dispiegamento e l'attivazione
delle capacità individuali nel processo collettivo di discussione e
decisione politica, dall'altro serve a controllare i governanti (i
quali, nell'attuale ordinamento basato sulla divisione del lavoro,
sfruttano le loro importanti funzioni), e a proteggere i singoli
contro il loro potere.
La giustizia sociale è volta all'instaurazione graduale di una
completa ‛uguaglianza di opportunità' (diretta a consentire il
dispiegamento delle molteplici capacità individuali). È possibile
fare alcuni passi su questa strada anche nel quadro di una società
basata sulla proprietà privata; o, in ogni caso, è possibile quando
tale società abbia raggiunto un alto grado di industrializzazione.
Così, per esempio, la gratuità dell'istruzione - anche per i giovani
che vogliono proseguire gli studi medi e universitari -, come pure
la concessione di borse di studio agli studenti capaci, sono
obiettivi realizzabili anche senza il superamento dell'ordinamento
basato sulla proprietà privata. In verità, è facile immaginare che i
giovani dei ceti abbienti, privati in tal modo di una (piccola)
parte dei propri privilegi, cercheranno delle scappatoie per
sfuggire all'‛effetto livellante' di una uguaglianza di opportunità
nel campo dell'istruzione.
Ma, anche se si raggiungesse l'obiettivo di un'uguaglianza di
opportunità formalmente completa in materia di accesso alla scuola
media e all'università, rimarrebbero tuttavia, per i giovani delle
famiglie operaie, evidenti situazioni di svantaggio: l'ambiente
linguistico familiare ostacola lo sviluppo delle doti naturali
legate al linguaggio, tanto che i figli di operai ottengono nei test
attitudinali (non matematici) risultati inferiori a quelli che
corrisponderebbero alle loro doti ‛innate'. La volontà di
procurarsi, attraverso l'apprendimento, i presupposti per l'accesso
a occupazioni professionali più interessanti è, nelle famiglie
operaie, assai meno diffusa che in quelle borghesi e
piccolo-borghesi. L'ambiente sociale esercita istintivamente,
nell'interesse del mantenimento della solidarietà di classe,
un'azione frenante nei confronti degli individui che vogliono
emergere. Solo se ci fosse la garanzia che al successo professionale
non si associasse necessariamente il passaggio in un'altra classe -
ovvero, se la propria occupazione implicasse comunque un effettivo
collegamento con la classe d'origine -, questa influenza inibente
potrebbe essere interamente eliminata. In alcuni strati discriminati
(come i Negri nordamericani o gli Algerini in Francia, i Turchi o
altri lavoratori stranieri nella Germania Federale) si aggiunge
inoltre una - reale o presunta - mancanza di prospettive di
raggiungere una posizione professionale legata a un'istruzione
superiore. L'offuscamento dell'orizzonte futuro scoraggia gli sforzi
e blocca lo sviluppo intellettuale (e affettivo).
Se si porta la discussione su di un piano concreto, l'obiettivo
della giustizia sociale - nel senso di una realizzata uguaglianza
delle opportunità - appare straordinariamente difficile e come una
meta ancora assai lontana. Su questa strada, l'ordinamento basato
sulla proprietà privata non costituisce affatto l'unico ostacolo
(anche se è forse il più potente). Che la sua eliminazione non
comporti quindi, di per sé, l'instaurazione della giustizia sociale
e dell'uguaglianza delle opportunità, è cosa che risulta chiaramente
da indagini compiute in paesi a socialismo burocratico sui desideri
e sulle opportunità, in materia di scelta professionale, dei giovani
di famiglie operaie, i quali - in una percentuale che si aggira
spesso sull'80-90% - finiscono per fare gli operai come i loro padri
(da ricerche sociologiche condotte in Ungheria). In questo caso, è
ben possibile che svolga un ruolo importante, nei confronti di
quelli che vogliono emergere, il motivo della solidarietà di classe
e dell'influenza ambientale (motivo caldeggiato dagli strati
burocratici privilegiati).
Verosimilmente, una completa uguaglianza delle opportunità sarebbe
raggiungibile soltanto se scomparissero interamente le forti
differenze - nello stile di vita e nel reddito - tra gli elementi
altamente qualificati (tecnici, burocrati, funzionari, artisti) da
un lato e i semplici lavoratori manuali dall'altro. Per il momento,
di una siffatta evoluzione non c'è ancora traccia nei paesi a
socialismo burocratico (a differenza di quanto avviene nella Cina
Popolare). Nei paesi industrialmente avanzati e orientati verso le
riforme sociali (come la Svezia) esiste invece una tendenza verso
l'instaurazione di livelli salariali compensativi. Ciò vuol dire che
i salari tendono a essere tanto più alti quanto minore è la
soddisfazione ricavabile da una data occupazione. A favore della
rigorosa attuazione di questo principio gioca anche un incentivo
economico addizionale, quello cioè di sostituire in misura sempre
maggiore le mansioni superpagate con processi automatici. È, questa,
una tendenza che in molti paesi industrialmente avanzati viene
frenata da un afflusso di manodopera priva di istruzione (e più
economica), la quale non richiede ancora livelli salariali
compensativi.
Nella rassegna dei valori fondamentali del socialismo democratico il
terzo posto è occupato dalla ‛pace'. Con ciò s'intende, in primo
luogo, l'istituzione di un regime di pace tra gli Stati (ancora
relativamente) sovrani; quasi sempre vi si associa, però,
l'inclinazione ad attribuire grande valore alla ‛pace sociale'. Si
constata ancora, è vero, l'esistenza di contrasti tra le classi, ma
si assume che: 1) possano essere risolti nella forma di una
composizione dei conflitti istituzionalmente regolata (contratti
collettivi, scioperi, procedure di arbitrato, ecc.); e che 2)
nell'interesse di un progresso pacifico si debba impedire il più
possibile lo ‛scoppio di lotte aperte'.
Le due specie di pace, però, non debbono essere necessariamente
associate l'una all'altra. Al contrario, conflitti di classe sul
piano interno possono anche diventare il presupposto di una pace
duratura, quando abbiano lo scopo di strappare il potere a uno
strato imperialistico e guerrafondaio della propria società e di
condurre lo Stato sotto un controllo realmente democratico.
L'orientamento dei partiti socialisti e laburisti europei verso una
politica di pace, anzi una politica pacifista, ha sortito dopo il
1945 grossi successi, ai quali non sono mancati riconoscimenti
internazionali. Nel 1975 J. K. Galbraith ha definito i successi
delle coalizioni e dei governi socialisti in politica estera come il
vero titolo di merito del socialismo nella nostra epoca:
‟Nell'ultimo trentennio la sinistra democratica nei paesi
industriali si è dimostrata capace di liquidare l'impegno oltremare
(nelle sue forme coloniali e non coloniali). La sinistra francese ha
accelerato la ritirata militare dall'Indocina e dal Nordafrica; in
altri paesi le sinistre hanno in parte condotto a termine ciò che
avevano cominciato. I socialdemocratici tedeschi hanno posto nella
sua giusta prospettiva il problema dei territori orientali. La
sinistra americana si è messa alla testa di un movimento che ha
condotto alla fine dell'intervento in Vietnam" (‟Le nouvel
observateur, spécial économie", luglio 1975, p. 70). A questo titolo
di merito corrisponde però, secondo Galbraith, un relativo
fallimento riguardo al compito di una trasformazione della società
capitalistica. Paradossalmente, i successi di uomini politici come
W. Brandt, B. Kreisky ecc., si sono avuti proprio nei settori
tradizionalmente considerati come tipici dei conservatori. Galbraith
fa risalire tale fallimento soprattutto alla mancanza di specialisti
abbastanza competenti da guidare un'economia moderna - in conformità
a un piano - in modo tale che risultino garantite al contempo la
stabilità della moneta e la piena occupazione. Ci si deve chiedere
però se - anche nel caso di un migliore sfruttamento degli strumenti
esistenti - una guida siffatta sia possibile continuando a mantenere
la libertà decisionale in materia di investimenti, sia per le
imprese autonome sia per il settore controllato da trusts
internazionali.
A questo proposito, i socialisti e i socialdemocratici (per es.
svedesi) si differenziano dai comunisti (marxisti-leninisti
dogmatici) soprattutto per un maggiore ‛pragmatismo'. Le
socializzazioni vengono bensì prese in considerazione in quanto
possibile strumento, ma non se ne fa uno scopo assoluto. Se, per
esempio, una crescita dell'economia in direzione della piena
occupazione, della creazione di centri produttivi non nocivi per
l'ambiente e della produzione di beni di consumo durevoli, non è
possibile in altro modo, si procede allora a una socializzazione,
cioè si sopprime la libertà decisionale dei proprietari o dei loro
rappresentanti - in materia di investimenti. E però immaginabile che
una tale operazione possa aver luogo anche nella forma di una
cogestione (Mitbestimmung), e quindi non sempre necessariamente in
quella di una regolare espropriazione.
3. La critica socialista della società industriale capitalistica
Le società capitalistiche contemporanee sono oggetto di critica da
parte non solo dei socialisti, ma anche dei conservatori e dei
comunisti. Ma, per quanto numerosi possano essere i punti di
concordanza, le differenze nelle finalità e nei valori comportano
anche differenze nelle critiche che alla società capitalistica
vengono rivolte. La critica socialista poggia sui valori della
libertà individuale e della giustizia sociale (uguaglianza); valori
che, pur essendo alla base anche dell'ideologia borghese (a partire
dalla Rivoluzione francese), sono però sempre stati disattesi nella
prassi degli Stati borghesi capitalistici. La critica che i
comunisti contemporanei di stampo sovietico rivolgono al capitalismo
prende invece le mosse, in prevalenza, dal valore dell'aumento della
produzione: essa insiste quindi maggiormente sul fatto che il
capitalismo è incapace di sviluppare la produzione (e la
produttività del lavoro) sino al punto da consentire una piena e
onnilaterale soddisfazione dei bisogni di tutti i membri della
società. Questa ristrettezza della prospettiva critica si può
spiegare, storicamente, considerando l'arretratezza storica della
Russia e la sua situazione verso la fine della guerra civile.
Mentre la critica comunista rimprovera al punto di vista socialista
la sua affinità con la tradizione borghese, gli uomini politici
socialisti hanno a che fare, nella prassi delle società
industrialmente avanzate, con una borghesia che si è sempre più
allontanata, di fatto, dai valori fondamentali del proprio passato
umanistico, e anzi, spesso, li rinnega cinicamente. Questo
allontanamento dai valori delle proprie origini è ravvisabile anche
sul piano scientifico.
Un esempio tipico è la teoria della democrazia. Nella sua forma
originaria, la democrazia era l'autodeterminazione del popolo (o
piuttosto della borghesia, che si identificava con il popolo come
totalità). Essa si caratterizzava come ‛dominio del popolo', ovvero
come ‛identità di governanti e governati'. Nella ‛teoria economica
della democrazia', oggi largamente diffusa, troviamo invece
semplicemente un'intesa di élites concorrenziali, le quali, in
elezioni periodicamente organizzate, combattono per il diritto
all'esercizio del potere. L'esistenza di élites al governo (e
all'opposizione), e la possibilità ch'esse si scambino i ruoli in
seguito a consultazioni elettorali, è ritenuta un presupposto
pienamente bastevole per una democrazia efficiente. L'atto del voto
(come unica ‛attività' del cittadino) è interpretato in analogia con
l'‛atto di compera' proprio del consumatore. La propaganda delle
élites concorrenziali per guadagnarsi la fiducia degli elettori è
l'analogo della pubblicità dei produttori di merci per procacciarsi
i clienti. L'esistenza di oligopoli, che in campo economico è spesso
ancora oggetto di critica, in campo politico da lungo tempo non
appare più come uno svantaggio. L'esistenza anche solo di due
concorrenti è giudicata sufficiente.
A questa concezione ristretta della democrazia viene contrapposta
dai critici di sinistra l'esigenza di una ‛democrazia
partecipativa', che consenta al singolo cittadino di partecipare
direttamente e indirettamente alla formazione delle decisioni
politiche in qualsiasi sede (comunale, regionale, provinciale,
statale). La teoria partecipativa muove dal principio che una
concorrenza di élites non significa libertà democratica, soprattutto
se si considera che di solito vi si associa una crescente
spoliticizzazione della coscienza dei cittadini, declassati a
‛consumatori di politica'. La critica socialista, inoltre, mette in
chiaro che la democrazia delle élites concorrenziali sembra essere
un mezzo per mantenere le masse elettorali dipendenti in una
condizione di amorfa passività, e per stabilizzare quindi lo status
quo socioeconomico (cioè l'esistenza di strati economicamente
privilegiati). In una situazione caratterizzata dalla concorrenza di
élites partitiche è assai difficile che si sviluppi la coscienza
della necessità di radicali riforme di struttura (o di un mutamento
rivoluzionano); e in particolare è difficile quando la
preoccupazione dei due (o più) concorrenti è necessariamente quella
di soddisfare a breve scadenza i desideri della maggioranza degli
elettori, e nessun partito ha, da solo, la possibilità di spuntarla
contro il peso immenso della pubblicità che il sistema economico
mette incessantemente in opera a proprio vantaggio.
Da questa visione delle cose consegue che i partiti socialisti,
nella loro attività d'informazione e di propaganda, non possono
limitarsi ai brevi periodi delle battaglie elettorali e debbono
invece preoccuparsi di innalzare continuamente la coscienza politica
della maggioranza della popolazione mettendola dinanzi alla
necessità di riforme radicali.
Gli apologeti dello status quo economico e politico argomentano
spesso, oggigiorno, che evidentemente la maggioranza della
popolazione è contenta del sistema sociale esistente (si sostiene
che noi ‛votiamo' quando, per es., compriamo al chiosco dei giornali
i prodotti demagogico-reazionari della stampa di massa). Altrimenti
si dice all'incirca - come si potrebbe spiegare il flusso continuo
(sino all'erezione del muro di Berlino) dei profughi dalla Germania
Orientale verso quella Occidentale, e la contemporanea quasi
completa mancanza di un movimento in senso inverso?
L'interpretazione di questo fatto richiede in verità considerazioni
più complesse di quelle fatte comunemente. Bisogna anzitutto
ricordare che nella Repubblica Democratica Tedesca c'è un
capitalismo di Stato amministrato dalla burocrazia (con una
produttività del lavoro inferiore a quella della Germania Federale,
e quindi salari reali inferiori); difficilmente perciò, nonostante
varie incontestabili conquiste nel campo della sanità e
dell'istruzione superiore, essa può presentare attrattive per
lavoratori o impiegati tedesco-occidentali. Ciò non vuol dire
affatto, però, che, in Occidente, alle condizioni esistenti si
accompagni una piena soddisfazione. Indizio di una insoddisfazione
diffusa, e spesso non apertamente ammessa, è ad esempio l'aumento
delle malattie mentali e la fuga - spesso convulsa - nel consumo
(incessantemente stimolato dalla pressione pubblicitaria). Le forme
della felicità - in ogni caso una felicità da soddisfare a breve
scadenza - che una società capitalistica industrialmente avanzata
può offrire ai suoi membri si riducono di nuovo e sempre al consumo,
al consumo di merci e di servizi sotto forma di merci (per es.,
viaggi). Tale consumo, che viene pensato in teoria come aumentabile
all'infinito, soddisfa però, almeno in parte, solo per la sua reale
o presunta ‛esclusività'; una merce, cioè (prescindendo dal suo
materiale valore d'uso), procura una soddisfazione tanto maggiore
quanto minore è il numero di coloro che partecipano al suo
godimento. E poiché la via al godimento di una merce passa per il
pagamento della medesima, ciò significa in pratica che le
opportunità di felicità sono direttamente proporzionali al reddito,
e quindi che - in quanto la piramide dei redditi termina in una
punta sottile - la maggioranza della popolazione deve essere di
necessità scontenta e infelice.
È un'infelicità che, in tempi di congiuntura favorevole, trova una
certa compensazione nella speranza di un futuro accrescimento delle
opportunità di consumo. Ma, non appena le società industrialmente
avanzate entrano in uno stadio di crescita più lenta (o addirittura
di crescita zero), questo malessere, questa frustrazione sono
destinati ad aumentare sino a diventare insopportabili.
Sorge allora il pericolo che le ideologie reazionarie offrano
all'‛aggressività' delle masse frustrate degli ‛oggetti' sui quali
poter rovesciare la propria insoddisfazione. In altre parole, il
passaggio a una ripartizione dei redditi (e delle risorse
patrimonali) che risulti almeno un poco meno ineguale diventa tanto
piu urgente quanto più s'avvicina il momento in cui - anche soltanto
a causa della rarefazione dell'energia e delle materie prime, e
della necessità di conservare la biosfera - bisognerà rallentare il
ritmo della crescita economica. In quel momento, se non prima, lo
sfondo ideologico delle società industrialmente avanzate (training
for consumership, status sociale determinato dalle opportunità di
consumo e anzi dal conspicuous consumption) dovrà trasformarsi. I
termini del conflitto saranno allora i seguenti o si potrà ottenere,
con argomenti razionali e con l'instaurazione di una certa giustizia
sociale (cioè di una maggiore - anche se non completa -
uguaglianza), l'accettazione della crescita zero, oppure
quest'ultima richiamerà alla ribalta, come compensazione, ideologie
reazionarie.
Per quanto riguarda i paesi industriali, la svolta più importante
della critica socialista contemporanea è il ripudio, e anzi
addirittura il ‛rovesciamento', del rimprovero mosso da Marx
all'economia capitalistica, di non essere cioè in grado di
realizzare un aumento della produzione tale da soddisfare
effettivamente i bisogni di tutta la popolazione. Rimane pur sempre
vero che, anche nelle società più ricche, esiste una povertà di
massa; essa non è però la conseguenza di capacità produttive
insufficienti, ma soltanto di un'ingiusta distribuzione. Il modo di
produzione capitalistico si è dimostrato assai più dinamico e vitale
di quanto non presumesse Marx nel 1867. In paesi come gli Stati
Uniti e la Germania Federale il problema di gran lunga più urgente
per il modo di produzione capitalistico è un altro: come cioè
rallentare, ai fini della conservazione dell'ecosfera, la dinamica
in esso insita (e di vitale importanza per la sua conservazione).
Il vero problema non è tanto una dinamica insufficiente (derivante
dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, che ha trovato una
compensazione maggiore di quanto Marx presumesse e che si dimostra
pur sempre sopportabile per le grandi imprese), quanto il
mantenimento di tale dinamica ove rimanga al contempo ‛cieca' la
direzione in cui la produzione incessantemente crescente si muove.
In modo un po' sommario, la situazione si può descrivere nel modo
seguente.
Il capitale può conservarsi solo in quanto (e finché) cresce; e,
poiché continuamente riemerge il pericolo di una saturazione del
mercato, gli sforzi dei produttori capitalistici sono
necessariamente diretti a gettare sempre più rapidamente sul mercato
prodotti smerciabili e a far invecchiare attraverso il rapido
mutamento delle mode prodotti che sarebbero in sé ancora
utilizzabili. L'accorciamento del tempo lavorativo necessario alla
fabbricazione di un prodotto non serve quindi (o in ogni caso non in
primo luogo) ad abbassare il prezzo del prodotto né a investire per
rendere più piacevoli i luoghi di lavoro o potenziare e migliorare
servizi di vitale importanza (assistenza sanitaria, trasporti
pubblici, scuole, giardini, luoghi di ricreazione, ecc.), ma ad
aumentare le vendite dei prodotti (merci). Alla base di una tale
direzione dello sviluppo sta anzitutto il principio che soltanto la
vendita di merci può procurare un profitto, e in secondo luogo che,
nonostante il notevole prelievo operato dal fisco, un'alta quota dei
profitti dev'essere impiegata per l'ampliamento delle capacità
produttive (e per la pubblicità necessaria alla vendita delle merci
così prodotte). Sempre maggiore, perciò, diventa la discrepanza tra
ciò che da lungo tempo è tecnologicamente possibile e ciò che di
fatto avviene: l'accorciamento del tempo di lavoro rimane fortemente
indietro rispetto all'aumento della produttività; l'automazione
(cioè l'eliminazione dei lavori ripetitivi e faticosi) viene
promossa in misura minore di quanto sarebbe possibile (è
specialmente degno di nota che il meccanismo concorrenziale sembra
in questo caso indebolito, e che l'interesse per la sopravvivenza
non costringe affatto le grandi corporations a operare innovazioni
tecnologiche); gli investimenti nel settore pubblico (che non dà
profitti) rimangono indietro rispetto al bisogno reale. In altre
parole, la cosa veramente nefasta non è la carente dinamica del modo
di produzione capitalistico, ma la direzione ‛cieca' - cioè
obbediente agli impulsi immanenti al sistema - della dinamica in
atto.
Già nel 1951 Th. W. Adorno ha anticipato nei Minima moralia questo
mutamento di prospettiva e criticato, nei marxisti, la riduzione
dell'immagine del futuro a quella di un aumento indefinito della
produzione: ‟L'univocità ingenuamente presupposta della tendenza
all'aumento della produzione fa già parte di quello spirito borghese
che ammette lo sviluppo in una sola direzione, perché, concluso in
sé come totalità, e dominato dalla quantificazione, è ostile alla
differenza qualitativa. Se si concepisce la società emancipata
proprio come emancipazione da questa totalità, ecco che appaiono
linee di fuga che hanno poco in comune con l'aumento della
produzione [...]; la società liberata dalle catene potrebbe
comprendere che anche le forze produttive non costituiscono l'ultimo
substrato dell'uomo, ma una figura particolare dell'uomo,
storicamente adeguata alla produzione di merci. Forse la vera
società proverà disgusto dell'espansione e lascerà liberamente
inutilizzate certe possibilità, invece di precipitarsi, sotto un
folle assillo, alla conquista delle stelle [...]. Tra i concetti
astratti, nessuno si avvicina all'utopia realizzata più di quello
della pace eterna" (v. Adorno, 1951; tr. it., p. 154). Nella sua
critica Adorno va anche al di là di quanto sopra accennavo. Non
soltanto il ‟folle assillo" all'incessante aumento della produzione
dei beni di consumo, ma anche la feticizzazione della produzione e
della produttività in quanto tali appaiono ai suoi occhi come un
eredità - che deve essere superata - della mentalità borghese. La
pace in quanto concetto includente il compimento, l'essere - e non
più l'agire e il divenire - sono per lui il simbolo più adeguato
dell'utopia realizzata. Negli anni trascorsi dalla sua formulazione,
tale principio non ha fatto altro che guadagnare in attualità e
importanza.
Al problema di come sia possibile, nelle società industriali
moderne, tutelare (o meglio salvare e reinstaurare) la libertà
individuale, i critici socialisti danno una risposta radicalmente
diversa da quella dei conservatori e dei liberali. Per costoro, la
proprietà privata dei mezzi di produzione e l'autoresponsabilità
economica dell'individuo (anche se da lungo tempo non più pienamente
realizzabili) rimangono però sempre un punto di riferimento. Su tale
base, a un ulteriore potenziamento dello Stato sociale assistenziale
essi contrappongono la promozione della piccola proprietà. I
socialisti partono invece dal riconoscimento che la diffusione della
proprietà, e la sua acquisizione, non reca più con sé la possibilità
di una reale indipendenza. Il possessore di azioni non può, di
regola, neppure utilizzarle per i casi di emergenza: in caso di
depressione congiunturale, infatti, il suo risparmio si svaluterà,
col risultato che egli può essere addirittura danneggiato da questa
forma d'investimento (scarsamente adatta al suo caso), in quanto
deve vendere proprio quando l'abile speculatore rastrella azioni a
buon mercato. Ma, anche lasciando da parte tutto questo, la somma
risparmiata non è mai sufficiente a emancipare dalla necessità del
lavoro salariato, al quale - mantenendo intatta la struttura delle
imprese è associato un alto grado di illibertà. Su tale base, i
socialisti aspirano a un ampliamento (o a una reinstaurazione) della
libertà individuale per la grande maggioranza (salariata) della
popolazione, e ciò anzitutto in due modi: 1) attraverso una
sufficiente sicurezza in materia di disoccupazione, invalidità e
vecchiaia (pensione sociale di tipo svedese); 2) attraverso diritti
di cogestione esercitati da operai e impiegati nella propria azienda
(sul luogo di lavoro, nell'azienda, come anche in sede
sovraziendale).
Le assicurazioni sociali diminuiscono la dipendenza dall'azienda
(insieme con il diritto a cambiare posto di lavoro, diritto che, in
piccole città o in comuni rurali, può naturalmente diventare
relativamente irrilevante); il diritto alla cogestione diminuisce la
dipendenza nell'azienda e - in condizioni ottimali - fa del
dipendente salariato un soggetto che concorre attivamente
all'organizzazione dei propri rapporti di lavoro (e della produzione
in generale).
Gli avversari del socialismo obiettano a queste due vie: 1) che il
potenziamento dello Stato sociale e assistenziale rende il singolo
sempre più dipendente dalla burocrazia statale, e che la pretesa a
essere assistito paralizza la coscienza della responsabilità
personale; 2) che la cogestione da un lato conduce a scalzare la
libertà imprenditoriale, indispensabile per l'efficienza
dell'economia, e dall'altro mette di fatto il singolo lavoratore
sotto la tutela dei sindacalisti, i quali parlano in suo nome: si
dovrebbe perciò, almeno, escludere la presenza di sindacalisti
estranei all'azienda.
La prima obiezione contiene un elemento di verità, ma lascia in
ombra l'altra faccia della medaglia. Con la garanzia di una pretesa
giuridica alla protezione - una protezione che non può più essere
vista come una ‛grazia' o un'‛elemosina' - è la dignità del
dipendente salariato che viene garantita in caso di disoccupazione,
invalidità ecc. Scompare (o almeno diminuisce) la paura della
disoccupazione e della malattia, e si attenua la dipendenza dagli
accidenti della congiuntura e/o della propria salute. Si attua così
per lui e per la sua famiglia - e in un modo molto reale - la
libertà dal bisogno. La dipendenza dalla burocrazia statale, d'altra
parte, può al contempo essere alleviata e resa sopportabile se il
suo lavoro si svolge in piena luce ed è sottoposto al controllo, per
es., dei sindacati.
Nel peggiore dei casi, comunque, il beneficiano dei servizi sociali
scambia la dipendenza dalle imprese o dalle elemosine private ed
ecclesiastiche con la dipendenza da una burocrazia statale (assai
più efficiente e destinata per legge all'assistenza), che è soggetta
a un continuo controllo.
Per quanto riguarda la cogestione, l'affermazione ch'essa comporta
una limitazione della libertà imprenditoriale è giustificata solo in
quanto il consiglio di amministrazione è effettivamente tenuto a
render conto del proprio operato al consiglio di sorveglianza
(Aufsichtsrat, composto per il 50% da rappresentanti dei
lavoratori). Ma in quanto le sue decisioni siano sollecitate da
necessità economiche evidenti, anche i rappresentanti dei lavoratori
non faranno opposizione e anzi tanto meno si opporranno se saranno
forniti di adeguate conoscenze in materia di economia aziendale
(conoscenze che, di nuovo, potranno essere mediate dai
rappresentanti sindacali). Con ciò si viene anche a dire che
un'efficace cogestione a livello aziendale (al di là della
cogestione sul luogo di lavoro) non è realizzabile senza l'aiuto dei
rappresentanti degli interessi dei lavoratori: i sindacati.
La critica al collettivismo dello Stato assistenziale e
all'onnipotenza dello Stato dei sindacati è un espediente difensivo
mediante il quale si vuole stornare l'attenzione dai veri pericoli e
dai veri privilegi. Essa muove dall'immagine idealizzata di una
società liberale costituita da imprenditori che partecipano al
mercato in condizioni di relativa uguaglianza e autonomia: immagine
che non ha mai corrisposto alla realtà storica e che tanto meno
corrisponde all'odierno capitalismo delle corporations.
Sinora abbiamo parlato della critica che i socialisti rivolgono a
una democrazia spogliata del suo contenuto concreto (e alla teoria
della democrazia che tale realtà rispecchia), al dinamismo cieco
dell'economia capitalistica industrialmente avanzata e alla funzione
difensiva degli argomenti - di vecchio stampo liberale - usati
contro lo Stato assistenziale. Ma il socialismo riformistico, oltre
a ciò, ha anche contribuito alla scoperta di forme occulte di
disuguaglianza, di cui sinora non si era fatta parola e che - in
forma mutata - sono nuovamente riemerse nelle società e negli Stati
a socialismo burocratico.
Se si muove dal presupposto che in una società si può parlare di
uguaglianza solo in termini di uguali opportunità - per tutti, senza
riguardo per l'origine, il sesso, ecc. - di sviluppare le proprie
capacità innate e, attraverso tale sviluppo, di condurre una vita
soddisfacente, allora tutte le società sono oggi assai lontane da
quest'obiettivo.
Difficilmente si potrebbe contestare la manifesta disuguaglianza
delle condizioni di vita degli uomini. Nei paesi che ignorano la
povertà di massa, tale disuguaglianza viene accettata da una parte
considerevole della popolazione, o almeno vista come non
insopportabile. La sua legittimazione, per lo più inconscia e
sottintesa, si fonda sulla diversità delle prestazioni. Ora, un tale
assunto - almeno per quanto riguarda la distribuzione della
proprietà - non regge a una verifica. Continua cioè a sussistere il
fatto che una piccola minoranza della popolazione percepisce
notevoli rendite fondiarie e una parte considerevole dei profitti di
capitale. Nella piramide dei redditi ‛al disotto' della fascia più
alta (che rappresenta meno dell'1% della popolazione) si sottintende
invece come valida un'approssimativa equazione tra prestazione e
reddito. Abilità rare - argomenterà l'economista - avranno un prezzo
corrispondentemente alto, e un direttore generale o una cantante
d'opera di fama mondiale non riceveranno lo stesso ‛salario' di un
fattorino d'autobus. Anche questo argomento difficilmente regge a un
esame più accurato, o almeno abbisogna di specificazioni.
I redditi altissimi di beniamini del pubblico - come calciatori,
pugili, cantanti, ecc. - svolgono in misura considerevole una
funzione di alibi. Il pubblico concede loro alti redditi (che del
resto sono inferiori a quelli dei membri, per es., del consiglio di
amministrazione di un grande magazzino, ecc.) perché da loro ha
ricevuto svago, distrazione, piacere. In questo modo, però, viene al
contempo legittimato, come compenso per la prestazione di
particolari servizi, anche il reddito, per es., di un direttore
generale, i cui emolumenti consistono spesso soltanto in misura
minore di compensi monetari diretti, e in misura maggiore di
prestazioni e di servizi gratuiti forniti dall'azienda (come la
casa, l'aeroplano, l'autista, il giardiniere, ecc.). Tutto ciò
rappresenta il compenso per la prestazione di servizi e, al
contempo, una sorta di ‛subornazione' mirante a garantire
un'identità di interessi con i proprietari (o il proprietario).
Nella misura in cui (in seguito alla loro dispersione e
disinformazione) diventa più difficile il controllo da parte dei
rappresentanti della proprietà, cresce il potere dell'oligarchia di
coloro che occupano i posti chiave nelle grandi banche e nelle
società per azioni e che si cooptano a vicenda.
La capacità di rappresentare con successo gli interessi del capitale
è considerata, in questi circoli, come il decisivo criterio di
qualificazione; ciò che è in giuoco, in realtà, è quindi il possesso
di certe capacità, cui corrisponde quella che si potrebbe chiamare
un'élite di prestazioni. Si potrebbe forse dire che il capitalismo
delle corporations destina al successo qualità e disposizioni d'una
natura affatto peculiare, le quali hanno ormai relativamente poco a
che fare con le qualità imprenditoriali dell'industriale o del
grande commerciante classico, ma piuttosto con quelle
dell'organizzatore e del propagandista. In una società strutturata
in modo diverso altre sarebbero presumibilmente le qualità capaci di
condurre chi le possiede a posizioni dirigenziali.
Ma anche lasciando da parte la problematica della speciale
ricompensa accordata a qualità che servono unicamente alla
conservazione dell'ordine sociale esistente, rimangono tuttavia
ancora numerose competenze e capacità, delle quali anche in una
società postcapitalistica ci sarà un acuto bisogno e che (almeno per
un certo tempo) continueranno a possedere un relativo ‛valore di
rarità'; si pensi, per es., a medici, ingegneri, tecnici, artisti,
scrittori, professori: tutti costoro - nella nostra società
scolarizzata - debbono la propria posizione a una lunga e
(socialmente) costosa formazione. Se lasciamo da parte la
circostanza che (secondo la stessa definizione marxiana) anche in
una società socialista domina - come per l'innanzi - la
disuguaglianza sotto la forma di ‛salario disuguale per lavoro
disuguale', allora l'unica rivendicazione realizzabile di giustizia
sociale viene a essere che almeno ogni bambino riceva proprio quella
formazione che, corrispondendo alle sue disposizioni innate, gli
consenta il pieno sviluppo di se stesso. La giustizia sociale, così,
coinciderebbe con la prima realizzazione generale del ‛principio
della prestazione'. Ognuno sarebbe debitore della sua posizione
nella società esclusivamente a se stesso (e alle sue qualità,
portate al pieno sviluppo con l'aiuto della società).
Naturalmente, oggi nessuno richiederà che questo principio della
prestazione sia applicato in tutto il suo rigore, giacché le leggi
esistenti provvedono, già nel quadro delle società capitalistiche
avanzate, a diminuire la disuguaglianza delle condizioni di vita che
si accompagna alla disuguaglianza delle prestazioni: la
progressività delle imposte provvede ad alleggerire i percettori di
redditi bassi o bassissimi, mentre assegni familiari di vario genere
(Francia e Germania) e analoghe sovvenzioni a carico dell'erario
compensano la disuguaglianza effettiva del carico finanziario delle
famiglie senza riguardo alle prestazioni lavorative dei loro membri
(o meglio, in misura inversamente proporzionale ai redditi
percepiti). La compensazione rimane però di gran lunga
insufficiente, mentre d'altra parte il bisogno di tali meccanismi
diventerà tanto più incalzante proprio se ai riformatori sociali
riuscirà di realizzare sul serio l'uguaglianza di opportunità. In
una società nella quale ciascuno dovrà dire a se stesso di dovere la
propria posizione (e quindi il suo reddito) esclusivamente alle
proprie prestazioni, l'accettazione di una posizione ‛inferiore'
diventerà psicologicamente ancor più insopportabile.
Per il momento, i membri della società possono, in maggioranza,
ancora appellarsi alla circostanza di non avere avuto l'opportunità
di sviluppare le proprie forse latenti - disposizioni in quanto la
casa paterna, l'istruzione insufficiente e la precoce necessità di
guadagnare hanno loro impedito una più adeguata formazione. In una
società nella quale siffatti ostacoli siano invece stati smantellati
e/o ne sia stato corretto l'influsso, questa motivazione perderà la
capacità di alleviare, psicologicamente, il peso delle situazioni
singole. Per questa ragione, la perfetta attuazione della società
della prestazione (‟da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno
secondo il suo lavoro", come suona la vecchia formula socialista)
riuscirà sopportabile per la popolazione soltanto se sarà
accompagnata dall'eliminazione delle maggiori differenze di reddito
(cioè da un ‛livellamento' delle fasce salariali e retributive in
genere), e da una concomitante intensificazione dell'autogestione e
della cogestione da parte di tutti i lavoratori. Soltanto nella
misura in cui siano realizzate tali misure correttive, l'attuazione
- implicita nel socialismo - del principio della prestazione può
risultare sopportabile per i singoli. Per le società industrialmente
avanzate dei nostri giorni, la transizione a un socialismo ‛non
corretto' non è più possibile. Lo stadio socialista deve, sin
dall'inizio, già recare con sé caratteristiche del comunismo, deve
cioè avvicinarsi - anche se agli inizi possa essere ancora
necessario mantenere, in limitata misura, differenze di reddito
basate su differenze di prestazione - al principio ‟da ognuno
secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni".
Nel frattempo, però, noi siamo ancora piuttosto lontani anche dalla
realizzazione dell'uguaglianza delle opportunità di partenza. La
tendenza generale all'accettazione di valori democratico-egualitari
ha comunque avuto l'effetto che soltanto pochi (e piccoli) partiti
ripudiano apertamente questa rivendicazione. Tutt'al più si afferma
che non può essere realizzata interamente. Ciò che nella pratica si
verifica, naturalmente, è un inasprimento della lotta per
l'introduzione e l'applicazione di misure capaci di tradurre tale
esigenza nella realtà.
Su questa strada, il primo passo era la gratuità dell'istruzione,
che in teoria doveva aprire a tutti gli strati della popolazione
l'accesso anche alle scuole superiori (ginnasi, licei, istituti
tecnici). Divenne presto evidente, però, come tale misura non
bastasse ad aprire effettivamente ai giovani delle famiglie operaie
l'accesso alle università. La prospettiva di entrare nella vita
lavorativa, e quindi formare una famiglia, con cinque o più anni di
ritardo trattiene molti giovani della classe lavoratrice
dall'intraprendere la lunga strada degli studi superiori e
universitari. A ciò si aggiunga che l'ambiente d'origine: genitori,
amici e conoscenti, vede istintivamente, nell'‛ascesa individuale',
un tradimento della solidarietà con la classe d'origine e quindi,
anche se il giudizio rimane inespresso, ne fa oggetto di condanna
morale. Timori siffatti possono essere eliminati con successo (e in
modo non illusorio) solo se la scuola si trasforma da istituzione
della società divisa in classi in scuola per tutto il popolo: in
altre parole, se la vecchia scuola superiore cede il posto a una
scuola globale, come, per es., accade da lungo tempo in Svezia. Ciò
vuol dire che la totalità dei giovani frequenta per nove (o dieci
anni) la stessa scuola, nella quale - senza riguardo per l'origine
sociale - vengono stimolate nel modo migliore tutte le doti
individuali. In tal modo si sottrae ai genitori dei ragazzi di dieci
anni la decisione: scuola superiore o prosecuzione della scuola
elementare? Quando poi avranno quindici anni - si suppone - i
ragazzi saranno in grado, con l'aiuto dei consigli del proprio
insegnante, di decidere da soli.
Ma queste misure non sono sufficienti a superare le forme di
disuguaglianza che impediscono a molti ragazzi di sviluppare le
proprie disposizioni. Le misurazioni del quoziente d'intelligenza
(in base a test sia verbali che non verbali) hanno mostrato che, nei
bambini di famiglie operaie, il Q.I. verbale rimane notevolmente
indietro rispetto a quello non verbale, mentre negli altri bambini i
due valori vanno all'incirca di pari passo. Ciò ha fatto riconoscere
che, nelle case proletarie, la socializzazione pregiudica lo
sviluppo e la differenziazione delle capacità linguistiche, il che
danneggerà in seguito i bambini. Si rende perciò necessario, onde
controbilanciare questo svantaggio di partenza, un insegnamento
linguistico compensativo per i bambini delle classi inferiori.
Sennonché numerosi pedagogisti progressisti hanno rifiutato
l'adozione di provvedimenti del genere in quanto essi
discriminerebbero i bambini provenienti da un ambiente linguistico
proletario e conferirebbero una validità generale alla norma
linguistica ‛borghese'. Bisognerebbe piuttosto riorientare la
scuola, nel senso di indurla ad ammettere con pari diritti, accanto
alla lingua letteraria, la lingua colloquiale usata dagli strati
proletari (con le sue abbreviazioni e semplificazioni, e con tutta
la sua rozzezza e carenza di differenziazione). Per comprensibile
che sia il movente d'una simile rivendicazione, nella pratica essa
si risolverebbe in una stabilizzazione della disuguaglianza, giacché
sarà assai più facile per i bambini di estrazione borghese e
piccolo-borghese l'‛apprendimento addizionale' del codice ridotto
(Basil Bernstein) che non l'inverso (e d'altra parte ogni sforzo
diretto a compensare questo deficit viene energicamente riprovato).
Siamo dunque dinanzi al dilemma: o la lingua colloquiale delle
famiglie proletarie viene discriminata attraverso l'insegnamento
linguistico compensativo, e il bambino viene allora potenzialmente
estraniato dal suo ambiente d'origine; 0vvero si tralascia
l'insegnamento compensativo, ma allora al bambino rimangono precluse
certe possibilità di differenziare e articolare i suoi sentimenti,
di sviluppare la propria individualità o di raggiungere un'adeguata
comprensione della letteratura. Anche se Adorno aveva qualche
ragione a beffarsi di un certo primitivismo osservabile
nell'‛appropriazione dei beni culturali' da parte dei
socialdemocratici (avanti la prima guerra mondiale), è pur vero che
non si può negare l'importanza, ai fini di un pieno dispiegamento
della propria sensibilità spirituale, di un aiuto che favorisca
l'acquisizione di capacità linguistiche adeguatamente differenziate.
In definitiva, la padronanza della lingua letteraria, con le sue
molteplici possibilità espressive, significa anche ‛potere',
capacità di convincere, capacità di operare al di là della cerchia,
geograficamente - e, nella maggior parte dei casi, linguisticamente
- condizionata del proprio ambiente di classe. Ciò che sinora è
riuscito, mercé sforzi appositi e contro notevoli resistenze
esterne, solo a singoli membri delle classi inferiori, deve essere
reso possibile alle cerchie più vaste.
L'ottimizzazione del sistema scolastico in quanto premessa dello
sviluppo delle - diverse - capacità individuali costituisce poi la
premessa di analoghi effetti positivi anche all'interno del processo
produttivo basato sulla divisione del lavoro. Idealmente il suo
risultato sarebbe questo, che ognuno finirebbe con l'occupare il
posto nel quale può meglio realizzare se stesso e, quindi, meglio
riuscire utile alla società. Sennonchè, nessuno vorrà dare per
scontato che esistano sempre ed esattamente tante disposizioni
naturali quante sono le funzioni che possono essere assegnate. Non è
possibile supporre una siffatta armonia prestabilita. Bisogna
piuttosto ammettere che esiste un numero di talenti naturali
considerevolmente maggiore di quanti ne vengano adoperati - nel
quadro di una società basata sulla divisione del lavoro - per
l'espletamento di funzioni di alto livello. Ora, nel caso che questi
talenti siano tutti sviluppati, sorge il problema seguente: chi, fra
tutte le persone (egualmente) fornite di una data capacità, assumerà
le relative funzioni (professioni)?
A questo riguardo la società socialista, com'è realizzabile oggi
nell'ambito dei paesi industrialmente avanzati, si spinge nuovamente
oltre i propri confini tradizionalmente concepiti: la
sovrapproduzione di elementi qualificati non conduce a un'ulteriore
frustrazione soltanto se viene completata dal superamento
dell'asservimento dei singoli, vita natural durante, alla divisione
del lavoro. La maggior parte dei vecchi marxisti ha sottolineato
questo punto soprattutto per quanto riguarda la sfera politica: una
sovrapproduzione, per es., di amministratori competenti spezzerebbe
il monopolio della burocrazia, e una rotazione dei funzionari
potrebbe avere l'effetto di impedire che i detentori di cariche si
isolino dai concreti interessi della popolazione, consolidando e
perpetuando il proprio potere. Ma qualcosa di simile si potrebbe
sostenere riguardo a tutti gli altri campi. Con l'eccezione di poche
funzioni, che a coloro stessi che le esercitano e alla società
sembrano ‛non trasferibili' (arte? scienza?), tutte le altre
attività dovrebbero essere intercambiabili. Che poi ci si debba
rappresentare tale avvicendamento al modo dell'utopia di Fourier
(cioè, come un avvicendamento continuo nell'ambito stesso della
giornata lavorativa), ovvero, più realisticamente, che uno muti la
sua attività principale una o due volte nella vita, non ha grande
importanza. L'essenziale è che gli elementi altamente qualificati
non rimangano sterilmente inattivi, e non sorgano quindi nuove
frustrazioni.
Accanto alla rotazione delle attività (superamento dell'asservimento
alla divisione del lavoro, il che però non esclude la sopravvivenza
di funzioni diverse) la possibilità di una compartecipazione al
processo decisionale nello Stato e nella società (nell'azienda,
ecc.) permetterebbe poi la pratica applicazione di una parte delle
capacità che si saranno così sviluppate. Bisognerebbe, infine, anche
provvedere che il cosiddetto tempo libero possa essere adoperato
come tempo dedicato all'esercizio delle facoltà acquisite: esso
dovrebbe quindi, rispetto a oggi, mutare radicalmente la propria
natura. Il tempo libero cesserebbe allora di essere semplicemente il
tempo della riproduzione della capacità lavorativa e di essere
dissipato nel consumo passivo di merci e servizi, per diventare il
tempo della libera spontaneità e realizzazione di sé, che ha in se
stesso il proprio fine.
Anche il problema di procurare ai membri della società capacità e
possibilità che consentano loro un uso produttivo (per se medesimi)
del tempo libero è stato preso in considerazione da alcuni governi
socialisti (specialmente in Danimarca e Svezia). La sua importanza è
destinata a crescere ulteriormente con l'accorciamento del tempo di
lavoro.
4. Critica socialista al socialismo di Stato (capitalismo di Stato,
socialismo burocratico)
Come abbiamo visto, il fatto di prendere le distanze dal comunismo
sovietico (e la sua critica) ha contribuito in modo essenziale alla
separazione del movimento operaio socialista dalla sua ala
estremista, comunista. Una tale separazione, naturalmente, è stata
sempre ignorata da coloro che avversano le riforme sociali e la
rivoluzione in tutte le loro forme. I fascisti, quando parlavano di
‛bolscevismo', intendevano riferirsi sempre anche ai socialisti e ai
socialdemocratici, e i clerico-autoritari austriaci combattevano con
la violenza delle armi sia gli uni che gli altri. Talvolta,
socialisti e comunisti sono anche arrivati - soprattutto nei periodi
di persecuzione - a concordare azioni comuni. Il ristagno della vita
politica dovuto alla sistematica esclusione dei partiti comunisti,
che in certi casi hanno saputo guadagnarsi sino a un terzo
dell'elettorato, ha condotto in Francia a un'alleanza dei socialisti
con i comunisti. Ma perché queste alleanze possano risultare davvero
solide, i socialisti devono riuscire a impegnare il partner
all'osservanza delle norme di una costituzione democratica, la quale
preveda la protezione delle minoranze, il pluralismo dei partiti,
l'indipendenza dell'amministrazione della giustizia e la libertà di
stampa.
È in generale vero - almeno fintantoché il socialismo non sia
semplicemente un richiamo da sfruttare per un'estrema linea di
difesa contro una rivoluzione più radicale - che i socialisti
criticano il comunismo non già perché vuol mutare l'assetto
capitalistico della proprietà, ma perché, di fatto, esso ha condotto
a porre l'intera popolazione (compresa la classe operaia) sotto la
tutela di una casta privilegiata di burocrati, la quale presume, né
più né meno, di realizzare la volontà di tutti quanti i lavoratori.
Non si può in verità negare che questa critica socialista al
comunismo è spesso tornata assai comoda ai conservatori, che
potevano così stornare l'attenzione dai propri motivi di
opposizione. Essi hanno sfruttato persino le critiche di un Kautsky
o di una Rosa Luxemburg, traendone immediatamente pretesto per
denunciare anche i socialisti democratici come illusi lontani dal
mondo, dimentichi del fatto che il socialismo deve di necessità
condurre a un burocraticismo di tipo sovietico. Accade così che sia
i reazionari sia gli apologeti dell'Unione Sovietica concordino
nella stessa tesi: tale è necessariamente il volto del socialismo!
La critica dei socialisti al socialismo di Stato, perciò, ha sempre
due aspetti: se da un lato combatte l'autoritarismo burocratico di
una élite di partito, dall'altro vuol distinguere tra il socialismo
e la sua caricatura.
In una forma un po' diversa i socialisti democratici potrebbero ben
riprendere le parole di K. Kraus, il quale, rispondendo
polemicamente alla lettera di un'anonima dama della nobiltà
ungherese, nel 1920 così si esprimeva: ‟Il comunismo in quanto
realtà non è se non il contraltare della sua [cioè delle classi
dominanti] ideologia che insulta la vita - facendo però grazia al
comunismo di una più pura origine ideale. [...] Il diavolo si porti
la sua prassi, ma Iddio ce lo conservi come una costante minaccia
sulla testa. di coloro che posseggono terre e che, con la
consolazione che la proprietà non è il valore supremo, vorrebbero
cacciare tutti gli altri verso il fronte della fame e dell'onore
della patria. Iddio ce lo conservi, affinché questi gaglioffi, la
cui insolenza già ora non sa più dove rivolgersi, non diventino
ancora più insolenti; affinché la società degli aventi l'esclusiva
del piacere, la quale ritiene che l'umanità a essa sottomessa riceva
abbastanza amore quando si prende da loro la sifilide, vada almeno a
letto con un incubo; affinché, almeno, le passi la voglia di fare la
morale alle proprie vittime, e il buon umore per scherzarci sopra!"
(v. Kraus, 1962, pp. 33-34).
Un tale grido d'indignazione morale, come anche il saluto rivolto da
Kraus al comunismo in quanto costante minaccia sospesa sul capo
degli oppressori e degli sfruttatori possono suonare troppo
retorici, anche se in verità sentimenti analoghi agitavano
probabilmente parecchi socialisti. In effetti, i successi che i
partiti socialisti hanno potuto conseguire in Occidente in materia
di riforme sociali e di miglioramento delle condizioni di vita della
classe operaia possono in parte essere messi sul conto della paura
che le classi dominanti hanno avuto del comunismo; o comunque è
accaduto che, là dove la situazione economica generale lo permetteva
senza mettere in pericolo la base della propria esistenza, la classe
dominante si è mostrata condiscendente. Quando, invece, il margine
per soluzioni di compromesso si era fatto troppo angusto (come negli
anni 1932-1933 in Germania), la classe dominante ha naturalmente
fatto ricorso senza scrupoli ai movimenti reazionari di massa e al
terrore fisico (nonché alla liquidazione delle istituzioni
democratico-liberali e dello Stato di diritto).
La critica socialista al capitalismo di Stato sovietico si distingue
dalla critica liberale per il suo proposito di dimostrare che - se
non prima, con la proibizione di una pluralità di piattaforme
all'interno del partito unico - ciò che è andato perduto nell'Unione
Sovietica non è soltanto la libertà degli individui, ma anche la
garanzia del rispetto degli interessi dei lavoratori. Il partito
monolitico guidato con mano di ferro da Lenin (partito che, di
fatto, nel 1917 non era da lungo tempo così unitario come la teoria
avrebbe richiesto), se poteva rendere buoni servigi nella lotta
politica per il potere, una volta diventato la spina dorsale di una
società e della sua amministrazione - e dopo la proibizione di tutti
gli altri partiti operai e contadini - non poteva che degenerare
necessariamente ad apparato burocratico-dittatoriale. Se, almeno
agli inizi, il dualismo di apparato di partito e apparato statale
garantiva al cittadino sovietico (e al lavoratore) un certo margine
di libertà e una certa protezione dall'oppressione, con la totale
fusione degli apparati anche questi margini dovevano purtroppo
scomparire del tutto.
Il potere statale, che di necessità cresceva enormemente con la
statizzazione dei più importanti mezzi di produzione, avrebbe
richiesto, come contrappeso, un'intensificazione del controllo dal
basso. Avvenne invece il contrario: la libertà di stampa, la libertà
di associazione e di riunione furono di fatto abolite. Anche la
Costituzione sovietica del 1936 riserva questi diritti
esclusivamente alle organizzazioni controllate dal partito unico.
Solo tali organizzazioni possono disporre di carta, locali, macchine
tipografiche. L'opposizione e il dissenso sono costretti a
ricorrere, per la diffusione di libri e riviste, a metodi di
riproduzione proibiti (samizdat).
La giustificazione dell'operato dei comunisti viene ravvisata nella
necessità di un'accelerata edificazione del socialismo e di una
rapida industrializzazione del paese. In verità, un tale duplice
compito non era stato quasi preso in considerazione da Marx e da
Engels (e, prima del 1918, neppure da Lenin); ma, dopo la conquista
del potere politico, la leadership sovietica non credette di potersi
fermare a uno sviluppo semicapitalistico controllato. Prevalse
dunque la ‛rivoluzione permanente' (preconizzata da Trotzki), che
oltrepassava senza indugio la fase dello Stato borghese democratico
e dell'economia capitalistica (sia pure controllata e corretta in
senso sociale). Ma, se ai primi passi in questa direzione aderirono
spontaneamente anche gli operai delle grandi fabbriche, la
continuazione di un tale programma a opera dell'apparato burocratico
condusse - dopo la fine della NFP - a una ‛rivoluzione dall'alto'
(Stalin), che dalla Germania bismarckiana mutuava non soltanto il
nome, ma anche le caratteristiche, emerse sempre più chiaramente
dopo il 1934, di una gerarchia di livelli e di poteri dotata di
tutti quei simboli tradizionali (uniformi, insegne di rango,
onorificenze, ecc.) che il movimento operaio aveva un tempo così
risolutamente criticato e combattuto. Nasceva così una società
stratificata con rilevanti forme di privilegio, la quale, se in
verità non può essere definita, in termini marxiani, come una
società di classi, ben costituiva però una nuova gerarchia di caste.
La mobilità verticale è limitata, se prescindiamo dall'ascesa
folgorante di certi funzionari, ascesa resa possibile da Stalin
attraverso la liquidazione quasi completa del gruppo dei vecchi
comunisti e le periodiche purghe del partito.
La critica socialista a uno sviluppo siffatto si appunta anzitutto
contro la forma autodistruttiva assunta dalla collettivizzazione
dell'agricoltura (dalla quale, a causa della resistenza dei
contadini, derivarono la carestia e il ristagno della produzione
agricola): distorsione che fu di fatto agevolata dall'eliminazione
di tutti i meccanismi che potevano consentire al regime un'efficace
autocorrezione. Ma, oltre a ciò, la critica socialista vuol anche
mostrare come lo smantellamento di tutti i meccanismi democratici di
controllo, e la loro sostituzione con ‛procedure di acclamazione'
controllate dall'alto, fosse non soltanto illiberale ma anche
antisocialista, e risultasse nocivo persino dal punto di vista della
mera redditività dell'economia nel suo complesso. Il fatto che, più
di sessant'anni dopo la Rivoluzione d'ottobre e più di trenta dopo
la seconda guerra mondiale, l'Unione Sovietica rimanga fortemente
indietro, in materia di produttività sia industriale che agricola,
rispetto alla Germania Federale e agli Stati Uniti è un eloquente
argomento contro la forma dell'ordinamento economico adottato. Una
minore produttività del lavoro significa in pratica che nell'Unione
Sovietica i contadini dei kolchoz e gli operai debbono lavorare di
più (e più a lungo) dei loro colleghi americani e tedeschi per
ottenere lo stesso prodotto. E difficilmente questi svantaggi
potranno essere controbilanciati dai servizi sociali forniti dallo
Stato (nel campo della sanità, dell'istruzione, dei trasporti, della
cultura).
Ancor più pesante si è rivelato il fatto che gli eccidi in massa e i
processi farsa dell'epoca staliniana (ufficialmente ammessi, dopo il
1956, anche nell'Unione Sovietica) hanno arrecato al socialismo un
discredito vastissimo. Per quella via, Stalin diede indirettamente,
e proprio negli anni della grande crisi economica mondiale, un
contributo difficilmente valutabile alla stabilizzazione
dell'ordinamento economico capitalistico. L'esistenza
dell'‛Arcipelago Gulag' ha, verosimilmente, dato alla
stabilizzazione dello status quo un contributo maggiore di tutti gli
sforzi riuniti dei partiti conservatori. R. Aron ha potuto, con
argomenti persuasivi, paragonare questo gigantesco esercito di
lavoratori coatti all'‛esercito industriale di riserva' del
capitalismo e alla miseria di massa all'epoca dell'accumulazione
primitiva capitalistica. L'alternativa alla forma
privato-capitalistica dell'industrializzazione, qual è offerta
dall'Unione Sovietica, è apparsa scarsamente convincente ai bene
informati operai dell'Europa occidentale. Soltanto la rottura con lo
stalinismo (1956) e la - assai timida invero - liberalizzazione dei
rapporti nei paesi del Patto di Varsavia (e del Comecon) hanno
potuto in qualche misura mutare il loro atteggiamento.
Ora, se è vero che - almeno in parte - è possibile spiegare
l'evoluzione dell'Unione Sovietica come inevitabile conseguenza
delle specifiche condizioni di vita del nuovo Stato (sottosviluppo
industriale, distruzioni dovute alla guerra civile, accerchiamento
capitalistico), ciò che tuttavia non si può giustificare (né
presentare come necessario) è la subordinazione del movimento
mondiale del marxismo rivoluzionario (comunismo) ai modelli
sviluppatisi nell'Unione Sovietica. È proprio a causa del pericolo
di un tale adattamento e di una tale ‛imitazione' che i seguaci di
Rosa Luxemburg già nel 1919 criticarono lo stabilirsi del Comitato
esecutivo del Komintern nell'Unione Sovietica. Accadde così - e non
solo per quanto riguarda l'Unione Sovietica dell'epoca staliniana,
ma per tutto il movimento mondiale - che caratteristiche russe, come
la specifica situazione d'emergenza degli anni dell'edificazione e
l'arretratezza, diventarono ‛virtù' generali. A uno svolgimento
siffatto portò un decisivo contributo la cristallizzazione dogmatica
del materialismo dialettico e storico e la sua trasformazione in
un'ideologia giustificazionistica amministrata dalla burocrazia di
partito. Questo irrigidimento dogmatico ha poi sortito anche il
risultato che le forme specifiche dell'edificazione sociale nella
Cina Popolare furono dai marxisti sovietici fraintese e sottomesse a
una gretta critica. Ancora e sempre i partiti dell'Europa
occidentale debbono lottare contro il partito fratello dell'Unione
Sovietica per il riconoscimento di una ‛via propria', giacché la
dogmatica (e astratta) identificazione delle esperienze sovietiche
con la ‛dottrina generale' storna lo sguardo dalla concretezza e
varietà delle situazioni storiche. La dogmatica immobilità, che
abbiamo appena caratterizzata, ha condotto i partiti comunisti a
numerose sconfitte (per es. negli anni trenta in Cina, Spagna,
ecc.).
Col 1968, come già nel 1956, un altro capo d'accusa è stato
formulato contro l'Unione Sovietica e l'orientamento da essa
rappresentato. Il 21 agosto di quell'anno l'Unione Sovietica e i
suoi alleati (con l'eccezione della Romania) occuparono con un colpo
di mano la Cecoslovacchia e, con l'uso della forza, costrinsero il
partito che governava quel paese ad accettare l'occupazione
illimitata - da parte delle truppe sovietiche - e la modificazione
della sua politica interna. In quell'occasione, la critica si
appuntò soprattutto contro la concessione della libertà di stampa e
della libertà di costituire partiti (meno invece contro la riforma
dell'economia, che non si distingueva granché dal modello
ungherese). La giustificazione dell'intervento fu ravvisata, da
parte sovietica, nella minaccia incombente di un Putsch reazionario
o di un ingresso nel paese di truppe tedesco-occidentali, e nella
mancata adozione, da parte del governo, di adeguate contromisure.
L'imperativo della solidarietà socialista (comunista) avrebbe dunque
obbligato gli Stati del Patto di Varsavia a intervenire. A siffatti
argomenti tutti i critici occidentali (come anche quelli all'interno
del campo socialista) contrapposero il principio, basato sul diritto
internazionale, della non ingerenza nelle faccende interne di uno
Stato sovrano.
Anche il partito e il governo della Cina Popolare aderirono a questo
punto di vista (a differenza di quanto accadde in occasione dei
fatti ungheresi del 1956, quando Mao Tse-tung approvò esplicitamente
l'intervento).
Mentre i commentatori conservatori (e liberali) spiegarono
l'intervento dell'Unione Sovietica e dei suoi alleati come una
logica conseguenza del comunismo, e - indirettamente - mostrarono un
certo sollievo per la fine violenta dell'esperimento cecoslovacco di
un comunismo dal ‛volto umano', la critica dei socialisti era resa
ancor più aspra dal fatto che in quell'occasione erano stati
soffocati sul nascere promettenti accenni di una democratizzazione.
Si prese a pretesto per l'intervento la minaccia di un Putsch
reazionario proprio quando, per la prima volta dopo molti anni, si
andava costituendo un'ampia solidarietà tra governo e popolo: per
questa ragione non è assolutamente possibile paragonare
quest'ingerenza con le armi con l'ingerenza a favore di un governo
democratico minacciato dal fascismo.
Il caso della Cecoslovacchia può essere interpretato come un indizio
della paura che la leadership sovietica (o polacca, o
tedesco-orientale, ecc.) nutre nei confronti di un socialismo
veramente democratico, il quale avrebbe una straordinaria forza
d'irradiazione in tutti questi paesi. Ma, anche qualora sussista il
pericolo (come parecchi socialisti privatamente ammettono) che un
movimento mirante a un socialismo democratico oltrepassi il segno e
conduca alla restaurazione del capitalismo, ciò costituirebbe un
argomento eloquente contro il sistema esistente del socialismo
burocratico di Stato (o capitalismo di Stato) piuttosto che contro
il socialismo democratico. L'esistenza di un pericolo siffatto
significherebbe che l'operato del regime sovietico (in più di
sessant'anni) e quello delle repubbliche popolari (in più di trenta)
non hanno ancora definitivamente conquistato al socialismo la
maggioranza della popolazione: è un certificato di inettitudine che
difficilmente potrebbe essere presentato in pubblico.
Da quanto abbiamo detto, si può dedurre come non sia possibile
escludere la possibilità di una restaurazione del capitalismo nei
paesi governati da un socialismo burocratico di Stato. Il socialismo
democratico, al contrario, fornirebbe una garanzia abbastanza certa
contro la ricaduta nel sistema capitalistico, in quanto l'economia
pianificata sarebbe necessariamente posta al servizio dei bisogni
concreti della popolazione, e la popolazione stessa potrebbe, non
solo formalmente ma anche materialmente, partecipare con pienezza
alle decisioni di interesse collettivo. Mai il pericolo di una
restaurazione del capitalismo fu minore che nel momento in cui, alla
testa della Repubblica cecoslovacca, si trovò un governo che era
sostenuto dalla maggioranza della popolazione e che riconosceva il
diritto a una critica aperta. I governi dei paesi organizzati
burocraticamente possono certo, in base ai rapporti delle spie della
polizia sugli umori della gente, farsi un quadro dell'opinione della
popolazione, ma tale quadro può essere ingannevole. I governi
democratici hanno invece a disposizione il termometro dei risultati
elettorali, delle dimostrazioni, della critica aperta in discorsi,
libri, riviste ecc. Per questa ragione essi non possono mai - per
quanto l'opinione pubblica possa venir deformata - allontanarsi dai
desideri della popolazione nella stessa misura dei governi dei paesi
burocratici. L'identità democratica di governanti e governati non è
attuata oggi in nessun luogo, ma gli Stati burocratici sono da essa
più lontani che non gli Stati democratico-capitalistici (anche se
forse meno lontani dei paesi capitalistici governati da un regime di
polizia).
5. Socialismo e paesi in via di sviluppo
Sinora abbiamo parlato esclusivamente dei problemi dei paesi
capitalistici industrialmente avanzati. Ma la maggiore miseria e le
maggiori (o comunque più oppressive) disuguaglianze sociali sono
oggi osservabili nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Si tratta
di paesi e di territori che l'ampliamento del mercato mondiale
capitalistico ha strappato al loro tradizionale ordinamento
economico e sociale e ridotto alla condizione di aree periferiche
del capitalismo mondiale. A rigore, il loro sottosviluppo è uno
sviluppo più o meno fortemente deviato, uno sviluppo che è stato
determinato esclusivamente dagli interessi delle imprese
capitalistiche nelle metropoli (e dagli interessi statali delle
potenze coloniali), e non dai bisogni stessi dei territori
colonizzati.
Nella loro critica al sistema coloniale i socialisti europei possono
rifarsi a una lunga tradizione. L'oppressione dei popoli coloniali
fu già per tempo sottoposta a critica. Ci furono però - purtroppo -
anche coloro che parlarono di una sorta di missione civilizzatrice
dell'Europa, giustificando il colonialismo come una forma di
europeizzazione e di ‛progresso'. In Germania si distinse in modo
particolare, per il ricorso a siffatti argomenti, il
socialdemocratico M. Schippel. Egli pensava che, anche se avevano
bisogno delle materie prime dei paesi oltremare, gli operai tedeschi
non si sarebbero fatti ricattare da barbari incivili, tanto più che
non si facevano sfruttare ‛neppure' (!) dai capitalisti di casa
loro. Una volta che si avesse bisogno delle materie prime
d'oltremare, era dunque meglio averne ‛il controllo diretto'. Si
dovevano così custodire i possessi coloniali dello Stato
capitalista, affinché lo Stato socialista potesse poi ereditarli.
Ma anche lasciando da parte questi eccessi nazionalistici, il
rapporto del socialismo con il colonialismo non era privo di ombre.
Lo stesso Marx mostra talvolta un atteggiamento ambivalente, quando
ad esempio da un lato critica gli orrori del colonialismo inglese in
India e in Cina (guerra dell'oppio), ma dall'altro saluta, come
inizio del cammino verso l'industrializzazione e il socialismo, la
dissoluzione del modo di produzione asiatico e il superamento del
suo secolare ristagno in seguito alla penetrazione del capitalismo
europeo. Il colonialismo (come anche il capitalismo in genere) è suo
malgrado un veicolo del progresso, di un progresso che, anche quando
costa alle masse sangue e miseria, non per questo cessa di essere
tale. È vero che nella speranza di Marx, la rivoluzione
proletario-socialista mondiale avrebbe, in un tempo relativamente
breve, provocato la fine del colonialismo, ma questo aspetto del
problema aveva per lui un interesse assai marginale. Per Marx, il
centro dell'evoluzione della storia universale stava chiaramente in
Europa e nel Nordamerica. Soltanto quando una rivoluzione socialista
avesse vinto in queste aree industrializzate, si sarebbe potuto
risolvere anche il problema dello sviluppo (rapido e senza intoppi)
degli altri paesi del globo.
Le cose sono andate diversamente da come supponevano Marx ed Engels,
Kautsky e Rosa Luxemburg. I centri industrializzati del mercato
mondiale - con l'eccezione di alcuni Stati che hanno aderito in un
secondo tempo al Comecon - sono ancora e sempre capitalisti, mentre
nei paesi del Terzo Mondo, dopo la decolonizzazione politica, si è
rafforzata la tendenza in direzione di movimenti socialisti. È vero
che in molti Stati la decorativa etichetta di ‛socialismo' serve ad
abbellire un capitalismo burocratico (e nazionale) di Stato, ma
comunque la diffusione della ‛parola' denuncia l'influsso della
cosa.
I problemi economici e i conflitti sociali, che occorre superare in
questi paesi, sono notevolmente diversi da quelli che aveva in mente
Marx e da quelli che stanno dinanzi ai paesi industrialmente
avanzati. Anzitutto, manca in tutti una classe operaia idonea a
svolgere il ruolo di soggetto della trasformazione socialista della
società. In alcuni Stati latinoamericani la classe operaia, esigua e
costituita in notevole misura da lavoratori qualificati
dell'industria, rappresenta uno strato privilegiato piuttosto che un
elemento rivoluzionario. La stragrande maggioranza della popolazione
povera (sottoccupata, affamata) consiste di contadini e braccianti e
delle loro numerose famiglie. La meccanizzazione dell'agricoltura
con l'aiuto di macchinari importati libera una quantità sempre
maggiore di manodopera e, con l'inasprirsi della concorrenza, manda
a picco le piccole aziende, quando non accade che i contadini
stabilitisi come affittuari vengano senz'altro cacciati dai
proprietari. Le società cooperative di grandi dimensioni sono quasi
sconosciute e la loro costituzione è ostacolata dai governi,
controllati dalle oligarchie agrario-commerciali. Anche là dove -
come in Messico - sono state attuate riforme agrarie (distribuzione
della terra dei latifondisti), si verifica una nuova incessante
concentrazione dei possessi fondiari, che ricaccia nella miseria le
famiglie senza terra. In questa situazione, le città cresciute oltre
misura funzionano come centro d'attrazione per la popolazione
eccedente delle campagne, e sono circondate da una cintura di
miserabili sobborghi. La popolazione di questi quartieri è in
maggioranza così apatica che difficilmente può essere presa in
considerazione come fattore attivo di un movimento rivoluzionario,
sicché, per il momento, le riforme possono essere avviate soltanto
dall'alto. E portatori di tali riforme (può trattarsi anche di
riforme di struttura, come quelle promosse da Allende in Cile)
possono essere, nelle condizioni date, soltanto élites di
intellettuali (ivi compresi ecclesiastici di tendenze radicali), le
quali si valgono dell'appoggio passivo delle masse povere e della
loro possibilità di mobilitazione. Un marxismo recepito in modo
dogmatico non può, in una situazione del genere, offrire alcuna
guida all'azione. Movimenti come quello di P. Freire in Brasile, che
negli abitanti degli slums cercano anzitutto di svegliare la
coscienza della dignità umana e della loro situazione - e della
possibilità di una sua trasformazione -, acquistano invece grande
importanza. In particolari circostanze, anche i militari (capitani,
cadetti di scuole militari) possono diventare il motore di un
movimento politico, in quanto hanno ricevuto un'istruzione
sufficiente e d'altra parte, per i loro continui contatti reciproci,
possono facilmente associarsi in vista dell'attuazione di obiettivi
politici.
In certi paesi accade anche che si formi un'alleanza di contadini,
piccolo-borghesi, intellettuali e settori della borghesia nazionale,
i quali tutti si sentono oppressi dallo strapotere delle imprese
straniere. Ma in generale tali alleanze hanno vita assai breve. La
maggior parte dei paesi in via di sviluppo scavalcano la fase
capitalistico borghese. Nella misura in cui ancora predominano
sistemi economici capitalistici (come nella maggioranza dei paesi
del Terzo Mondo), essi dipendono in considerevole misura dagli Stati
industrialmente avanzati e dalla loro economia; le borghesie locali
sono di solito strettamente associate all'apparato statale (per lo
più facilmente controllabile) dei vari paesi.
L'atteggiamento dei socialisti negli Stati industriali è (o dovrebbe
essere) determinato da quel principio della ‛solidarietà
internazionale' che vale anche tra i movimenti operai di quegli
stessi Stati. Ciò vuol dire che, nella misura in cui i socialisti
possono esercitare un influsso sui loro governi, o hanno essi stessi
responsabilità di governo, dovrebbero adoperarsi per: 1) mutare i
terms of trade a favore dei paesi del Terzo Mondo produttori di
materie prime; 2) indurre i governi dei paesi industrializzati a
fornire, con aiuti tecnici, con la concessione di know how e con
l'assistenza per lo sviluppo di un'infrastruttura e di una
tecnologia realmente corrispondenti ai bisogni dei paesi in via di
sviluppo, un contributo al risarcimento delle ingiustizie subite da
questi paesi e dalle loro popolazioni.
Quello che abbiamo qui caratterizzato come un ‛dovere morale'
corrisponde però, sino a un certo punto, anche agli interessi - se
intesi con lungimiranza - dei paesi industrializzati. L'abisso
crescente - constatato anche da papa Paolo VI nell'enciclica
Populorum progressio (26/3/1 967) - tra il tenore di vita della
popolazione del Terzo Mondo e quello degli Stati industrializzati
non è soltanto un problema morale dei ‛sazi', ma anche un problema
politico. Per questa ragione un partito realmente socialista in uno
Stato industrializzato capitalistico non potrà esimersi dal prestare
ai movimenti antimperialisti del Terzo Mondo la sua simpatia (anche
se non un sostegno attivo). Delle socialdemocrazie europee al
governo soltanto il partito svedese si è mosso con chiarezza (pur se
con cautela) su questa strada. Dopo essersi lasciati dietro le
spalle oscuri trascorsi nella guerra d'indocina, anche i socialisti
francesi hanno dato espressione alla loro simpatia per questi
movimenti.
Senonché, tanto è indiscutibile il dovere morale di una tale
opzione, quanto è problematica la sua concretizzazione nei casi
singoli. L'Internazionale socialista, alla quale appartengono sia il
partito di governo d'Israele sia parecchi partiti del Terzo Mondo
(che condannano Israele), non può neppure garantire la pace tra i
suoi membri. E accade che anche Stati industrializzati socialisti (e
comunisti) concludano accordi con Stati produttori di petrolio - che
hanno represso nel sangue i propri partiti socialisti (e comunisti)
- e si astengano da ogni polemica contro quei regimi autoritari. La
dipendenza dei paesi industrializzati dalle importazioni di petrolio
si dimostra più importante della solidarietà con i socialisti (o i
comunisti) perseguitati.
Per quanto riguarda la ‛forma dello sviluppo' dei paesi del Terzo
Mondo verso l'industrializzazione, il ‛modello di sviluppo cinese' è
stato il primo a mostrare quanto possa essere sbagliato
l'accoglimento immediato della tecnologia degli Stati
industrializzati. Ad esempio, l'importazione di trattori provoca in
Brasile un accrescimento, e non già una diminuzione, della miseria
contadina. All'aumentata produttività per addetto all'agricoltura
corrisponde un accresciuto dispendio tecnologico (e quindi di
capitale). Ora, poiché le importazioni debbono essere pagate con le
esportazioni (a prezzi in parte calanti) la cosa si risolve di fatto
in una perdita: una perdita che si scarica, in primo luogo,
direttamente sulla popolazione contadina. È perciò molto più
ragionevole promuovere lo sviluppo di tecnologie produttive meno
dispendiose e a più alta intensità occupazionale, le quali aumentino
la produttività senza accrescere parallelamente il dispendio di
capitale e quindi senza appesantire la bilancia commerciale.
Tecnologie del genere, inoltre, possono almeno in parte essere
sviluppate direttamente sul posto. La concessione di know how
tecnico deve adattarsi ai bisogni immediati delle regioni e dei
paesi interessati (e delle loro masse lavoratrici).
Questo non significa che si debba abbandonare l'edificazione di una
propria industria pesante, si tratta piuttosto di trovare le
proporzioni ‛ottimali' dell'economia, come anche una forma di
sviluppo che eviti quel tipo di controllo sociale mediante la
miseria di massa che fu caratteristico dell'Europa. Ciò vuol dire
che lo sviluppo deve cominciare dalla produzione agricola e
dall'industria leggera, e che bisogna accontentarsi di tecnologie
più semplici prima di poter compiere i primi passi verso l'industria
pesante e verso l'industrializzazione dell'agricoltura. In un
processo del genere, sussiste la possibilità che almeno alcuni dei
paesi in via di sviluppo dedichino sin dall'inizio ai problemi
ecologici un'attenzione maggiore di quanto non sia accaduto nei
primi paesi industrializzati.
Mentre nelle società industrialmente avanzate i socialisti hanno in
mente una transizione democratica e graduale al socialismo e
ripudiano le forme di transizione violente, una via analoga non è
certamente possibile in tutti i paesi in via di sviluppo. Sinora i
partiti socialisti non hanno elaborato una posizione unitaria verso
i movimenti di guerriglia e tutte le altre forme di resistenza
armata contro il neocolonialismo e contro quei governi che di fatto
rappresentano gli interessi dei trusts e delle grandi potenze
capitalistiche. Il loro atteggiamento ha oscillato tra la decisa
presa di posizione adottata dai socialdemocratici svedesi durante il
conflitto vietnamita a favore del movimento di liberazione e la
subordinazione della lotta antimperialista nel Terzo Mondo alle
esigenze del conflitto Est-Ovest, come ha fatto la leadership
centrista del Labour Party (ma non la sua sinistra). Un socialista
che voglia giudicare in base alla concretezza storica dovrebbe
guardarsi dal trasporre frettolosamente le condizioni a lui
familiari a paesi strutturati in modo affatto diverso. Tanto poco
appare oggi necessaria negli Stati industrializzati - in presenza
della democrazia e dello Stato di diritto - la violenza
rivoluzionaria, quanto invece può diventare indispensabile in un
paese come il Cile odierno, sottoposto a una dittatura militare.
D'altra parte, la condanna in blocco di ogni violenza si addice
assai poco ai governi e agli ideologi borghesi, in quanto essi
stessi non sono altro che i diretti o indiretti beneficiari, o gli
eredi, di rivoluzioni violente. Gli studenti contestatori americani,
che hanno nuovamente portato alla luce questa verità storica e che
distribuivano volantini con la Dichiarazione d'indipendenza
americana, furono tacciati e perseguitati dai conservatori come
‛comunisti': a tanto può arrivare l'oblio (o la rimozione) della
storia! (V. anche sottosviluppo e terzo mondo).
6. Forme della transizione pacifica al socialismo
Come abbiamo già sottolineato nell'introduzione, il socialismo
contemporaneo muove dalla premessa che - almeno nelle società
industrialmente sviluppate - è possibile una transizione pacifica e
democratica al socialismo. In verità, sinora non è mai accaduto che
un governo socialista abbia, sulla base della propria maggioranza
parlamentare, realizzato un ordinamento socialista della società, ma
c'è la convinzione (per es., nei socialdemocratici svedesi) che su
questa via sia possibile una transizione lenta, graduale (‟a passo
di lumaca", dice G. Grass) verso altre forme di società. P. Vinde -
un eminente economista socialista svedese che è stato anche
sottosegretario del Ministero dell'economia - ravvisa nello sviluppo
della Svezia dopo il 1932 (anno in cui i socialdemocratici
arrivarono per la prima volta al governo) una continua ma non
conclusa marcia di avvicinamento all'obiettivo socialista. La via
democratica e riformista verso il socialismo consiste secondo lui in
ciò, ‟che il potere dei cittadini viene esteso sempre di più, mentre
quello del capitale è sempre di più ricacciato indietro". Lo
svantaggio di questo metodo è la sua lentezza, nonché il pericolo di
scendere a troppi compromessi, così da rischiare di smarrire
l'obiettivo lungo il cammino. Il suo vantaggio consiste invece
nell'appoggiarsi sulla volontà politica della maggioranza, il che dà
alle riforme una solida base. L'obiettivo rimane fermamente
delineato come segue: ‟[...] una società nella quale il popolo
intero decida sulla produzione e distribuzione dei beni; una società
basata sulla libertà, l'uguaglianza, la democrazia e la solidarietà"
(‟Le nouvel observateur, spécial économie", luglio 1975, p. 58).
Le riforme che Vinde ha in mente sono la pensione sociale per tutti,
l'istruzione generalizzata e gratuita (e obbligatoria per nove
anni), l'assistenza sanitaria gratuita, la sicurezza dalla
disoccupazione (la garanzia del ‛diritto al lavoro'), ecc. In vista
di ciò, la statizzazione non è considerata uno scopo in sé, ma uno
strumento cui far ricorso soltanto quando (e nei casi in cui) ogni
altra misura sia fallita. Così, ad esempio, il programma della
Svezia di statizzazione dell'industria farmaceutica, serve a mettere
interamente sotto controllo i prezzi delle medicine (le farmacie
sono statizzate già da lungo tempo). Anche la speculazione sulle
aree è stata resa impossibile (o almeno limitata) da leggi apposite,
e una gran parte delle abitazioni è diventata di proprietà dei
comuni.
Mentre la statizzazione si ritira un po' nello sfondo, il
potenziamento della democrazia e la democratizzazione dell'economia
hanno svolto in Svezia (come anche nel programma della coalizione di
sinistra in Francia) un ruolo importante. La pianificazione statale
fu avviata già nel 1932 con l'obiettivo del superamento della
disoccupazione, che appariva come ‛la prima delle disuguaglianze'.
Negli ultimi anni lo Stato si è sentito impegnato a procurare a ogni
cittadino - uomo o donna - un lavoro conforme alla sua dignità.
‟Nell'odierna recessione mondiale - prosegue Vinde - noi abbiamo
deciso di compensare la contrazione dei mercati mondiali con
l'espansione interna e di non rassegnarci ad accettare la
disoccupazione. La nostra bilancia commerciale è peggiorata, ma il
saggio di occupazione è cresciuto e non abbiamo che una
disoccupazione assai modesta" (ibid., p. 59). Altri compiti della
pianificazione statale riguardano lo sviluppo regionale e l'aiuto in
caso di cambiamento del posto di lavoro (e per l'ulteriore
qualificazione dei lavoratori). La pianificazione ha quindi, secondo
Vinde, due obiettivi principali: 1) la sicurezza della piena
occupazione; 2) ‟lo sfruttamento razionale del suolo, delle risorse
idriche e delle materie prime".
Ciò significa che la pianificazione deve controllare lo sviluppo
tecnologico e garantire la protezione dell'ambiente. Ma in questo
modo si rafforza anche e in primo luogo la posizione del
consumatore. In sempre maggior misura lo Stato (cioè la comunità) si
assume la protezione dei consumatori dai prodotti nocivi o senza
valore o troppo cari, e costringe i fabbricanti a rispettare norme
prefissate. Inoltre, lo Stato provvede direttamente a mettere a
disposizione di tutti certi servizi essenziali che non sono forniti
- o almeno non nella quantità sufficiente e a prezzi accessibili -
dagli imprenditori privati, e cioè l'assistenza sanitaria, i servizi
sociali, la cultura, l'istruzione. In tal modo la quota del consumo
sociale (cioè del consumo dei servizi summenzionati) è salita in
Svezia, negli anni 1964-1975, dal 14 al 240. Ciò vuol dire che quasi
un quarto dei consumi dello svedese medio è assicurato dallo Stato
(qualunque sia la prestazione lavorativa dei singoli beneficiari).
La cogestione nell'azienda, in Svezia, è regolata dal 1974 in modo
che ogni azienda con più di 100 dipendenti deve avere nel consiglio
di amministrazione due rappresentanti dei sindacati. Questi
rappresentanti sono stati preparati dai sindacati - con l'aiuto
dello Stato - allo svolgimento delle loro mansioni, e dispongono di
adeguate conoscenze specifiche che consentono loro un controllo
effettivo sulla direzione dell'azienda nell'interesse dei
lavoratori. ‟A partire dal 1975, una nuova legge per la garanzia
della sicurezza sul posto di lavoro ha ulteriormente rafforzato la
posizione dei rappresentanti sindacali nell'azienda. In certi casi,
essi possono ora anche bloccare la produzione, quando si siano
formati la convinzione che essa comporti seri pericoli per la salute
dei lavoratori" (ibid.). Le modalità dell'assunzione e del
licenziamento della manodopera, come anche la sua distribuzione
nell'azienda ecc., saranno in futuro oggetto dei contratti
collettivi stipulati tra imprenditori e sindacati. ‟Senza la
preventiva approvazione del sindacato, l'imprenditore non potrà più
introdurre nell'azienda alcun mutamento essenziale" (ibid.).
Senza mutare in linea di principio l'assetto della proprietà, in
questo modo ‟si muta radicalmente il ‛rapporto di forza' tra
imprenditori e lavoratori", un mutamento che riguarda anche il
settore pubblico, nel quale i sindacati hanno una posizione
egualmente forte. Vinde richiama esplicitamente l'attenzione sui
problemi che in una simile situazione nascono da un conflitto tra la
democrazia politica (che controlla e insedia i capi delle aziende
statali) e il controllo diretto dal basso, esercitato dai sindacati.
Nei paesi a socialismo di Stato conflitti di questo genere sono
negati a parole, mentre sono di fatto repressi, giacché i capi
sindacali sono inseriti nella gerarchia dello Stato e del partito, e
in genere ignorano (o almeno non mettono al primo posto) gli
interessi diretti dei lavoratori.
Sembra però, infine, che si stia procedendo a una lenta
socializzazione delle grandi imprese (delle società per azioni).
Questa transizione segue una strada alla quale accennò
incidentalmente anche Marx (riguardo all'Inghilterra): la strada
cioè dell'‛accaparramento'. ‟Il fondo statale per le pensioni (che
dispone di enormi mezzi finanziari) ha cominciato nel 1974 a fare
incetta di azioni di grandi società. Il diritto di voto derivante da
queste partecipazioni viene esercitato dai relativi sindacati
aziendali" (ibid.). Nel 1974 fu bloccato circa un terzo degli utili
(detratte le tasse) delle grandi aziende svedesi. Questi mezzi
finanziari possono essere sbloccati, con il benestare dei sindacati,
solo per promuovere miglioramenti delle condizioni dei lavoratori.
‟Attualmente, i sindacati stanno studiando le modalità di
un'operazione che consentirebbe loro di partecipare alla crescita
economica delle società e di acquisire quote crescenti della
proprietà" (ibid.). Alla fine di un simile processo si avrebbe una
società socialista, la quale godrebbe di tutte le conquiste utili
del capitalismo e si sarebbe risparmiata i pesanti intralci e la
perdita di produttività che una rivoluzione reca necessariamente con
sé.
Quello svedese può essere considerato come il modello meglio
riuscito di uno sviluppo riformistico (ormai progredito) verso il
socialismo democratico. I presupposti perché questa via abbia
successo sono: 1) una democrazia sufficientemente consolidata (e
garantita da complotti di forze reazionarie); 2) un movimento operai
o politicamente attivo, con una leadership non corrotta e non
integrata.
In particolare il primo dei due presupposti non potrebbe esser dato
per scontato in tutte le società industrializzate dell'Occidente,
come ha dimostrato l'esempio del Putsch militare cileno e la sua
esaltazione, nella Germania Federale e altrove, a opera di riviste e
uomini politici ‛liberali'. Quando si tratta di salvare la proprietà
privata, numerosi uomini politici conservatori sono ancor oggi
evidentemente pronti a sacrificare la democrazia e ad abbassare gli
standard della morale politica. Le azioni che si sono
incessantemente rimproverate a Fidel Castro come un crimine, il
generale Pinochet le può compiere senza biasimo alcuno (almeno
finché egli non ‛esagera' e, soprattutto, finché ‛ha successo').
Ma anche quando siano adempiuti entrambi i presupposti, non sarà
facile, per un partito socialista fautore di riforme radicali,
ottenere nelle elezioni una maggioranza sufficiente. La difficoltà è
strettamente connessa con il mutamento della struttura sociale nei
paesi industrialmente avanzati e con il grande influsso dei mass
media, per lo più dominati da circoli filocapitalistici e
conservatori. Se è vero che negli Stati industrializzati lo strato
dei percettori di salari e stipendi costituisce la grande
maggioranza della popolazione (l'80% e più), all'interno di esso,
però, i lavoratori dell'industria raggiungono a stento la metà,
mentre l'altra metà è costituita da impiegati che lavorano negli
uffici e nei servizi (amministrazioni, assicurazioni, agenzie di
viaggi, banche, ecc.). Ora, attraverso questo spostamento del
baricentro sociale verso gli impiegati - i white-collar workers, il
nuovo ceto medio - la disponibilità a organizzarsi e la mentalità
dei percettori di salari e stipendi hanno subito un mutamento
considerevole. Da un lato, si sono formate organizzazioni separate
per gli impiegati e i funzionari (per es., nella Germania Federale),
e dall'altro il grado di organizzazione è in questo strato assai
minore che nei lavoratori industriali delle grandi fabbriche. Ma è
soprattutto la loro mentalità - con il suo orientamento verso i
valori borghesi: concorrenza delle prestazioni, interesse alla
carriera, attenzione ai problemi di status - che distingue
nettamente i white-collar workers dai blue-collar workers, cioè dai
lavoratori impegnati nella produzione materiale.
Negli anni successivi alla prima guerra mondiale lo strato
impiegatizio in rapida crescita - fu un importante campo di
reclutamento per il fascismo. Dai suoi ranghi sono poi usciti,
sinora, di preferenza democratici cristiani, ma anche aderenti alla
socialdemocrazia (moderata), i quali hanno esercitato un ben
determinato influsso sull'orientamento di questo partito. Non di
rado i rappresentanti dell'ala destra all'interno dei partiti
socialisti sono ex piccoli impiegati od operai che hanno progredito
nella scala sociale, mentre i capi dell'ala sinistra provengono
spesso dall'intellettualità e dalla borghesia. E come base di massa
dell'ala destra troviamo proprio lo strato dei white-collar workers
(inteso in senso ampio, sino ai funzionari). Non è facile, in
genere, convincere questo strato della necessità di promuovere un
programma di riforme radicali, di struttura. Esso è convinto che i
partiti socialdemocratici siano necessari unicamente in quanto
strumento utile per la correzione di taluni aspetti unilaterali
(solo temporanei) del capitalismo, nonché come mezzo di difesa
preventiva contro il temuto comunismo. Questo strato tende comunque
in massima parte - almeno in tempi di congiuntura favorevole - a
mantenersi apolitico, o almeno non è disposto a impegnarsi
attivamente nel lavoro politico.
Gli interessi oggettivi dei membri di questo strato - che rientrano
nella classe dei percettori di salari e stipendi - coinciderebbero
interamente, sulla lunga distanza, con quelli degli altri percettori
di salari, ma i loro interessi soggettivi, e i loro interessi
immediati (a breve scadenza), si discostano in misura non
indifferente da quelli dei lavoratori della produzione. Dinanzi
all'ascesa materiale della manodopera industriale, questo strato si
sente minacciato nella sua posizione speciale più di quanto non si
senta incline a salutarla con soddisfazione. Il graduale
eguagliamento dei diritti degli operai a quelli degli impiegati (in
materia di ferie, assicurazioni, opportunità di consumo nel tempo
libero) e il superamento, in parte già osservabile, degli stipendi
dei semplici impiegati da parte dei salari più alti ha un effetto
nocivo sulla solidarietà. A causa dell'indeterminatezza che
caratterizza la categoria degli impiegati, il semplice fattorino e
il commesso di un grande magazzino possono collocarsi nella stessa
classe del direttore generale o dei membri del consiglio di
amministrazione, e quindi, nella loro immaginazione, scavare un
abisso tra sé e i lavoratori della produzione. Si aggiunga che -
ancor più che nel settore della produzione - i posti malpagati nei
gradi inferiori della gerarchia impiegatizia sono occupati da donne.
Ora, le donne considerano spesso il proprio lavoro come
un'occupazione temporanea, e definiscono la propria collocazione
sociale in base alla professione del futuro marito piuttosto che in
base alla loro attività del momento. Per questa ragione il grado di
sindacalizzazione degli impiegati donne è in genere particolarmente
basso. Al contempo, l'esistenza di impiegati subalterni di sesso
femminile (dattilografe, stenotipiste, perforatrici) procura agli
impiegati maschi la sensazione di godere di una posizione più
elevata, in quanto essi hanno spesso (o si attribuiscono) nei
confronti delle loro colleghe una certa limitata facoltà di
impartire ordini. In tal modo, le donne svolgono spesso negli uffici
un ruolo analogo a quello svolto nelle fabbriche dai lavoratori
stranieri: indeboliscono la solidarietà dei salariati nel loro
complesso, giacché i loro interessi (in quanto lavoratrici
temporanee) non coincidono pienamente con quelli dei lavoratori
permanenti; e d'altra parte la loro posizione subordinata
all'interno della gerarchia (a onta dell'obbligo formale
dell'eguaglianza - uguale salario per uguale lavoro - obbligo che
però nella pratica non è pienamente realizzato in nessun luogo)
suscita negli impiegati - e operai - maschi la sensazione
(ingannevole) di godere di una posizione migliore, sensazione che
contribuisce a tenerli nei ranghi.
Negli anni passati questa mentalità impiegatizia è stata già
infranta in alcune imprese. Si è arrivati a scioperi comuni di
operai e impiegati, e frequenti sono stati i casi di impiegati che
hanno aderito al sindacato generale, anziché al proprio sindacato di
categoria. Nelle rivendicazioni degli scioperi è stata
esplicitamente accordata anche da impiegati (per es., tecnici di
fabbrica) la precedenza agli interessi degli operai peggio pagati e,
circa gli aumenti salariali, è stata adottata la richiesta di
aumenti eguali (scartando quindi gli aumenti percentuali, che
lasciano invariata la gerarchia salariale). Ma la solidarietà si è
formata soprattutto nella rivendicazione della cogestione in materia
di mutamenti da apportare al processo lavorativo (velocità della
catena, pause, norme riguardanti l'intensità del lavoro, ecc.). Su
questi punti i tecnici hanno riconosciuto la comunanza d'interessi
con gli operai. Nella misura in cui le rivendicazioni operaie
oltrepassano i problemi meramente salariali e investono i problemi
della struttura e della direzione dell'azienda, è più facile che si
formino posizioni comuni di operai e impiegati. Nelle generazioni
più giovani, anche la preoccupazione per i problemi di status sembra
in declino.
A onta di questi accenni promettenti in direzione di una maggiore
solidarietà di classe, non si può parlare, nei paesi industrialmente
avanzati, di una classe lavoratrice unitaria e quindi di un
movimento operaio che ne esprima gli interessi. In parte, le
differenze di salario, di stipendio e di status vengono
esplicitamente accentuate e potenziate dai vertici aziendali, onde
frenare per questa via l'estendersi della solidarietà. La
concessione di premi speciali, che rappresentano una gran parte
delle entrate, oltre che da sprone all'intensificazione dei ritmi di
lavoro serve anche a ricompensare la docilità e la passività. Per
questa ragione, acquista un'importanza crescente il diritto
d'intervento dei membri dei consigli di fabbrica (rappresentanti
sindacali) i quali possono ostacolare una tale strumentalizzazione
delle varie gratifiche aggiunte a salari e stipendi. Tuttavia,
difficilmente la totalità dei percettori di salari e stipendi -
almeno a scadenza non troppo lontana - potrà costituirsi in unità
(cioè come una ‛classe unitaria e cosciente di sé'). Nel migliore
dei casi può accadere che un partito operaio riformista (e
nazionale) raccolga la maggioranza dei voti di questi settori
dell'elettorato (ma, verosimilmente, neppure la metà dei voti degli
impiegati). Poiché, d'altra parte, diminuisce al contempo la quota
relativa degli operai impegnati nella produzione, la dinamica dello
sviluppo industriale non è più destinata necessariamente (e
spontaneamente) a procacciare ai partiti socialisti e operai, nei
paesi industrializzati, nuovi (potenziali) elettori. Proprio per
questo il ruolo della propaganda elettorale e dell'informazione
diventa sempre più importante.
D'altro canto, per quanto riguarda il problema dell'interesse che
obiettivi socialisti possono rivestire per i percettori di salari e
stipendi, l'interrogativo se si tratti di lavoratori produttori di
plusvalore ovvero di lavoratori pagati con reddito non ha un peso
decisivo. Il confine tra i due gruppi è controverso e, spesso, è
difficile determinarlo con precisione. A rigore, sono produttori di
plusvalore soltanto gli operai e impiegati (ingegneri, ecc.) che
costituiscono una parte del ‛lavoratore complessivo'. Al lavoratore
complessivo appartengono tutti coloro - dal progettista al manovale
- che partecipano alla produzione del plusprodotto; già i
commercianti, i banchieri, i pubblicitari, gli esperti di marketing
non sono più annoverabili nel lavoratore complessivo, e i loro
salari e stipendi sono detratti dal reddito del capitale.
Bisognerebbe quindi supporre che - nell'interesse dell'accrescimento
del reddito del capitale - anche le loro remunerazioni siano
mantenute basse. Ma, poiché le loro prestazioni sono (in un sistema
capitalistico) assolutamente indispensabili per l'avvio della
produzione, e d'altra parte la loro esistenza, oltre a ciò, può
contribuire a rafforzare la stabilità politica, i loro servigi sono
di norma ben ricompensati. In quanto però essi offrono le proprie
prestazioni sul medesimo mercato del lavoro dal quale provengono
anche i lavoratori produttivi (cioè i lavoratori che, appartenendo
al lavoratore complessivo, producono plusvalore), si può supporre
che pure i loro salari oscillino intorno al valore della merce
forza-lavoro.
Ora, se è vero che la loro esistenza, in quanto parte del carico
generale costituito dai costi addizionali della valorizzazione del
capitale, grava sulla base costituita dal lavoro produttivo nel suo
complesso, per ciò che riguarda la loro posizione sociale essi sono
invece dei venditori della propria forza-lavoro esattamente come i
lavoratori produttivi. Economicamente, essi si trovano nella stessa
situazione di quei percettori di salari, i quali come già in passato
anziché produrre plusvalore siano al servizio diretto di persone
benestanti e badino al loro comfort privato (in qualità di cuochi,
autisti, giardinieri, ecc.). Il fatto che, in forza del sistema
economico, essi siano pagati con reddito non è comunque attribuibile
a una loro ‛colpa' personale. E se la prestazione di servizi
personali a uno strato di privilegiati comporta spesso un
adattamento mentale ai suoi valori (si pensi al servitore
aristocratico, il butier inglese), difficilmente potrebbe dirsi lo
stesso delle masse di impiegati che lavorano nelle agenzie
pubblicitarie, nelle banche, nelle società di assicurazioni, ecc.
Non si vede perciò per quale ragione essi non debbano solidarizzare
con i lavoratori produttivi. D'altra parte, il confine è spesso
problematico.
Prendiamo il caso degli impiegati di un'agenzia pubblicitaria. In
quanto questa vende a un'altra ditta la pubblicità (come merce o
come servizio), si tratta certo di lavoro produttivo: il
proprietario della ditta (il possessore del capitale) sfrutta la
forza-lavoro (dei suoi disegnatori, autori di testi, ecc.) per
ricavare un profitto (plusvalore) dalla vendita della merce così
prodotta. Se invece si considerano gli impiegati nel reparto
pubblicità di una società, possiamo almeno supporre che si tratti di
lavoratori improduttivi, il cui salario viene pagato con reddito,
viene cioè detratto dai profitti del capitale. Maggiore è il
plusvalore che l'imprenditore spreme dai propri lavoratori
(produttivi), e maggiore sarà la somma che potrà stornare per il
proprio reparto pubblicità. In questo caso, si potrebbe quindi
supporre che gl'interessi dei lavoratori di un'azienda e quelli dei
pubblicitari impiegati nella stessa azienda siano in
contrapposizione, mentre nel primo esempio erano in contrapposizione
soltanto gl'interessi della ditta che forniva e quelli della ditta
che comprava la pubblicità, com'è il caso di ogni rapporto di
compravendita. In definitiva, si potrebbe quindi supporre che sia
più facile sensibilizzare a obiettivi socialisti gl'impiegati di
un'agenzia pubblicitaria indipendente che non gl'impiegati del
reparto pubblicità di una società. Ma anche questa conclusione
appare dubbia. Può ben darsi, infatti, che agli impiegati del
reparto pubblicità il nesso tra aumento dei profitti del capitale e
risparmio sui loro salari appaia molto più immediatamente chiaro che
non agli impiegati di un'agenzia pubblicitaria indipendente.
Nel complesso, a me sembra che il processo di informazione e di
presa di coscienza - il quale prende le mosse dalla circostanza che,
in una società capitalistica, chiunque non disponga di mezzi di
produzione propri è costretto a vendere la propria forza-lavoro a un
proprietario di mezzi di produzione - sia perfettamente in grado non
solo di far emergere l'affinità di situazione di tutti i percettori
di salari e stipendi (sia che forniscano un lavoro produttivo per il
capitale sia che forniscano servizi - pagati con reddito - necessari
per la sua valorizzazione), ma anche di persuadere della necessità
di un controllo collettivo sui mezzi di produzione (aziende) e
sull'economia.
Gli impiegati e i funzionari che, nei paesi capitalistici
organizzati secondo il modello dello stato assistenziale, svolgono
già oggi mansioni di pubblico interesse (insegnanti, medici,
operatori sociali, ecc.) potrebbero sin d'ora sentirsi ‛parte' di
una società socialista (da espandere ulteriormente in futuro) e
trovare in ciò motivazioni per il proprio impegno. Una società
socialista non muterebbe se non in misura minima la loro situazione.
Una volta Gramsci ebbe occasione di affermare che una rivoluzione
socialista è più facile che avvenga in un paese sottosviluppato
(come la Russia) anziché in un paese industrialmente avanzato, ma
che l'edificazione di una Società socialista è invece, in un paese
sottosviluppato, assai più difficile. Circa i paesi dell'Europa
occidentale e del Nordamerica, è quindi sempre vero che in essi è
difficile trovare solide maggioranze per una rivoluzione socialista
o per radicali riforme di struttura; ma, una volta ottenute tali
maggioranze, l'edificazione della nuova società sarebbe
relativamente più agevole. La causa maggiore di questa difficoltà -
oltre ai già menzionati mutamenti sociali strutturali degli ultimi
decenni - sta nel potere dei mass media e nell'influsso ideologico
che la mentalità capitalistica (economica) esercita sulla generalità
della popolazione. Di tale influsso abbiamo già parlato in relazione
al pericolo rappresentato dalla concentrazione della stampa e dal
predominio delle opinioni conservatrici nei mass media.
Devo qui tornare nuovamente su questi problemi in relazione alla
questione della possibilità di una transizione pacifica. Il
predominante influsso di una ‛mentalità capitalistica', o comunque
di un atteggiamento di fondo che per principio si rifiuta di mettere
in questione il capitalismo, non può essere spiegato soltanto in
base a iniziative dirette e consapevoli dei manipolatori di
opinioni. Esso risale a una formazione ideologica che deriva
direttamente dalle condizioni di vita. L. Althusser ha dunque
certamente ragione quando parla dell'inevitabilità dell'ideologia
(nozione che peraltro, egli estende a torto alla società socialista
del futuro, liquidando con ciò il carattere critico della teoria
marxiana dell'ideologia). Ogni acquisto in un grande magazzino, ogni
uso di una merce oltre a soddisfare certi bisogni, indotti dalla
pubblicità implica anche una tacita complicità con il sistema
economico.
Nell'acquisto di merci, il bisogno delle quali sia stato indotto
dalla pubblicità, emerge una (anche se temporanea) soddisfazione
che, esperita come temporanea felicità, convoglia le speranze verso
una futura maggiore felicità legata alla sfera di un futuro maggiore
consumo. Dominato dalle categorie del consumo, il lavoratore per
l'innanzi ancora stretto da vincoli di solidarietà con i suoi
compagni di lavoro si trasforma in un individualista mosso
dall'egoismo. Attraverso un maggior consumo, fonte di prestigio,
egli cerca di differenziarsi dai suoi vicini. La lotta
concorrenziale, che va sempre più scomparendo dalla sfera della
produzione, dove è sostituita da accordi di cartello e da trusts in
grado di dominare il mercato, ribolle tanto più violenta tra i
consumatori, isolati dal proprio egoismo e passivizzati dalla
propria spinta al consumo. Ogniqualvolta viene pubblicizzato un
qualche prodotto viene al contempo pubblicizzato il sistema, che
fornisce tali prodotti e con essi la felicità, la gioia di vivere,
ecc. Persino l'aggressività contro il ‛capo', sempre latente nelle
aziende, viene posta dalle agenzie pubblicitarie al servizio
dell'aumento dei consumi: vidi una volta a New York la réclame di
una compagnia aerea, che consisteva in un impressionante manifesto
in stile pop, recante la scritta: ‟Come diventa piccolo il tuo capo,
quando lo vedi dal finestrino di uno dei nostri Boeing jumbo jets!".
La moderna psicologia della pubblicità adatta perfettamente gli
annunci alla situazione psicologica dei potenziali condumatori.
Persino l'impulso alla ribellione viene integrato nel sistema
costituito dalla soddisfazione dei bisogni attraverso le merci. Da
lungo tempo i pubblicitari abili hanno saputo porsi sul terreno
della subcultura della ribellione giovanile, trasformando la
protesta contro il mondo del consumo in nuovi articoli di consumo:
si vendono a caro prezzo jeans che sembrano già frusti, e si
confezionano con toppe ‛vestiti eleganti', che soltanto chi abbia
almeno un reddito medio si può permettere!
Il ‛velo' dei salari, che così a lungo è servito come mezzo per
celare la situazione di sfruttamento presente nel rapporto di
lavoro, conserva ancora la sua efficacia. Quanto più i sindacati
riescono ad avvicinare effettivamente i salari al valore della merce
forza-lavoro, tanto più il salario appare plausibilmente come la
ricompensa adeguata alla prestazione fornita. E quanto meno
trasparente diventa per i singoli la prestazione complessa del
lavoratore complessivo e il suo rapporto con i lavoratori parziali,
tanto meno la teoria del plusvalore si accorda con la loro
esperienza immediata. Soltanto nelle aziende minori lo sfruttamento
è ancora a portata di mano, ma qui spesso il rapporto personale con
l'imprenditore maschera di nuovo i rapporti economici.
Il mutamento graduale dei rapporti di forza tra lavoratori e magnati
del capitale ha procurato ai lavoratori - come mostra l'esempio
svedese - condizioni di vita e di lavoro notevolmente migliori; esso
reca però con sé necessariamente il pericolo che il fervore
riformista s'illanguidisca prima di raggiungere il suo obiettivo:
‟Se le cose ci vanno tanto bene sotto il capitalismo, perché mai
dovremmo aspirare al socialismo?". In ogni caso, è ben certo che il
socialismo burocratico di Stato di tipo sovietico non appare più
desiderabile.
7. Necessità di argomenti morali a favore del socialismo
Da qualunque lato si cominci l'analisi, si arriva sempre alla
conclusione che oggi la società democratica e socialista non
rappresenta più, per la maggioranza della popolazione, l'unico e
necessario strumento per la realizzazione dei suoi interessi
materiali. Se può ancor oggi sussistere, anche obiettivamente, una
convergenza tra interessi dei percettori di salari e stipendi e una
futura società socialista, difficilmente sarà possibile realizzare
la solidarietà dei lavoratori (al di là dei confini nazionali, ma
anche all'interno delle singole nazioni) ricorrendo esclusivamente
ad argomenti poggianti sull'interesse. Mentre al tempo di Marx e di
Engels l'illustrazione degli interessi dei lavoratori bastava a
convincerli della necessità del socialismo e dell'internazionalismo,
oggi questo non è più pensabile. E se allora gli argomenti morali
avevano un carattere utopico - quando non erano al servizio della
perpetuazione del sistema sociale costituito -, oggi gli argomenti
morali sono diventati pressoché indispensabili per la fondazione del
socialismo. Per questa ragione anche il ruolo, all'interno del
movimento operaio, dei cristiani impegnati nella rivoluzione
sociale, è destinato in futuro a crescere. Per costoro, l'esigenza
di una solidarietà fraterna non rappresenta semplicemente un modo di
dare espressione a interessi oggettivi ma anche, al contempo, un
imperativo cristiano.
D'altra parte se oggi, a poco a poco ma sempre più chiaramente,
emerge il ruolo degli argomenti e dei moventi di ordine morale, ciò
non significa necessariamente una rottura con la tradizione. Da
lungo tempo, anche se inconsci e nascosti dall'ideologia
materialistica del tempo, impulsi morali erano all'opera nel
movimento operaio. Numerosi intellettuali di famiglie borghesi hanno
aderito al movimento operaio per ragioni di questa specie, anche se
ritenevano sconveniente riflettere sulle proprie motivazioni. Marx,
Engels, O. Bauer, Lenin provenivano tutti dalla borghesia e
avrebbero senz'alcun dubbio potuto costruirsi una carriera anche
all'interno della propria classe. Essi optarono per il movimento
operaio perché avvertivano la necessità di un mutamento sociale; e
avvertivano tale necessità perché li muoveva a sdegno la miseria di
massa nel capitalismo industriale. Questo, almeno, era il punto di
partenza del loro impegno; in seguito, le loro riflessioni
teoretiche non conservavano più alcun legame diretto con queste
motivazioni. Marx condannava il socialismo moralistico non perché
fosse morale, ma perché non produceva altro che una fraseologia
sentimentale destinata, in quanto tale, a rimanere senza conseguenza
alcuna.
La necessità obiettiva della transizione al socialismo è oggi
ravvisabile - come abbiamo già accennato - nel fatto che la dinamica
cieca dell'anarchica produzione capitalistica conduce negli Stati
industrializzati alla distruzione della biosfera e nei paesi in via
di sviluppo alla miseria di massa. Obiettivamente, è oggi
interessato a questa transizione un numero d'uomini maggiore di
quanto sia mai accaduto in passato, ma la motivazione soggettiva non
è più suscitabile sollecitando in particolare una presa di coscienza
degli interessi di classe del proletariato industriale. Per
importante che sia tuttora la riflessione sul carattere di merce
della propria forza-lavoro, maggior rilievo sembra avere la
solidarietà, moralmente fondata, di tutti i lavoratori e la
preoccupazione per le generazioni future.
Già nel periodo classico del capitalismo, per il singolo lavoratore
che aderiva alle organizzazioni del movimento operaio le motivazioni
morali erano importanti. Proprio i futuri capi provenienti dalla
classe operaia avrebbero potuto altrettanto bene far carriera -
individualmente - nel quadro dell'ordinamento sociale costituito
anziché mettersi a lavorare in un'organizzazione destinata a
rimanere per lungo tempo discriminata e sottopagata. Evidentemente,
essi hanno anteposto alla propria ascesa isolata e personale la
solidarietà con la classe e con la sua emancipazione futura.
Naturalmente questo esempio è un po' artificioso, e può anche darsi
che la possibilità obiettiva di un'ascesa individuale mancasse del
tutto; rimane in ogni caso il fatto che tali scelte erano reali.
Oggi comunque, quando le differenziazioni all'interno della classe
operaia e del ceto impiegatizio si sono fatte assai più articolate,
e l'illusione di avere opportunità di carriera si nutre di
possibilità effettive, è necessaria una motivazione morale molto più
forte per aderire a un movimento operaio che promuova riforme
radicali (o la rivoluzione). In paesi come gli Stati Uniti,
l'interesse economico privato sembra essere così predominante -
anche tra i sindacalisti - che difficilmente motivazioni del genere
potranno avere importanza. Ma in paesi come l'Italia, nei quali la
crescita dell'economia capitalistica presenta difficoltà
strutturali, le condizioni sono certamente diverse. In questi paesi,
affluiscono ai partiti rivoluzionari persino elementi di origine
piccolo-borghese e piccolocontadina.
Negli Stati industrialmente avanzati e relativamente prosperi, come
gli Stati Uniti e la Germania Federale, la mentalità centrata
sull'interesse economico privato è invece penetrata così
profondamente nello stesso movimento operaio che solo forti
contromotivazioni morali possono ricacciarla indietro. Non è quindi
un caso se un militante come E. Eppler, che trae la sua ispirazione
dal cristianesimo evangelico, si colloca all'ala sinistra della
socialdemocrazia tedesca.
Gli argomenti morali sono quelli che nel modo più diretto e lampante
conducono dalla prospettiva egoistica dell'uomo privato (e del
consumatore) verso la solidarietà con la società nel suo insieme (e
in particolare con i suoi membri più svantaggiati: lavoratori
stranieri, minorenni, malati di mente, pensionati, ecc.). Poiché
questi settori della popolazione sono quelli che nello Stato
assistenziale burocratico-capitalistico sopportano sempre i pesi
maggiori, e d'altra parte è loro negata la possibilità di realizzare
i propri interessi particolari, la soluzione può venire soltanto da
uno spirito di solidarietà, che si ponga in consapevole conflitto
con la dominante mentalità capitalistica, egoisticamente rivolta
all'interesse privato.
Ma gli argomenti morali - come abbiamo visto - giocano un ruolo
considerevole anche nel problema della politica dello sviluppo. In
una Terra che diventa sempre più piccola, anche gli abitanti dei
paesi più lontani sono diventati nostri vicini, in particolare se
consideriamo che il loro benessere e il loro disagio sono
determinati in misura non indifferente dal nostro sistema economico.
Sono stati i paesi industrializzati a imporre loro uno sviluppo
unilaterale, ed è perciò solo questione di giustizia aiutarli oggi a
superare questa unilateralità e a edificare un ordinamento economico
che risponda ai loro propri bisogni.
Quanto siano insufficienti, in questo campo, le considerazioni
centrate unicamente sulla politica e sui sistemi sociali, si può
forse dedurre dal modello dei rapporti esistenti tra gli Stati che
si definiscono socialisti. Anche se in questi Stati si continua a
parlare pubblicamente di aiuti reciproci disinteressati, ciò che di
fatto prevale è sempre l'interesse nazionale dei singoli Stati, e
specialmente quello del partner di volta in volta più forte. Di
fronte ai desiderata cinesi gli esperti sovietici argomentarono nel
modo seguente: ‟L'odierno tenore di vita della popolazione sovietica
è il frutto dell'accumulazione primitiva socialista, che ai nostri
popoli è costata molti sforzi, fatica e disagi. Perciò non vediamo
assolutamente perché dovremmo sentirci obbligati - senza una
contropartita adeguata - a innalzarvi al livello di sviluppo da noi
raggiunto". Ad argomenti analoghi potrebbero naturalmente ricorrere
anche gli Stati capitalistici. Pure la Russia zarista, la cui
eredità territoriale è stata raccolta quasi interamente dall'Unione
Sovietica, era un paese capitalistico, e dallo sfruttamento
coloniale dei suoi territori asiatici (e della Cina) traeva
sovraprofitti considerevoli. Sebbene questa situazione vantaggiosa
sia andata in parte perduta con la guerra mondiale e la guerra
civile, storicamente incontriamo qui una ‛colpa' analoga a quella
della Germania, che è stata anch'essa esclusa, dopo il 1918, dal
novero delle potenze coloniali. Ora l'Unione Sovietica non ha
affatto rinunciato ai suoi territori coloniali (che, nella
valutazione di Lenin, costituivano ancora il secondo complesso di
territori coloniali dopo quello britannico). La costruzione della
federazione delle repubbliche sovietiche (con il diritto teorico
alla separazione) è servita a metterle tutte saldamente sotto
l'egemonia russa, senza che per questo si dovesse rinunciare al
preteso internazionalismo e alla pretesa distruzione dell'impero
zarista, prigione dei popoli.
Ma le motivazioni morali mi sembrano necessarie soprattutto perché -
almeno negli Stati industrializzati - occupano la scena, in quanto
soggetti attivi della formazione di movimenti socialisti promotori
di riforme radicali, piuttosto elementi provenienti
dall'intellettualità, dalla piccola borghesia e dalla manodopera
qualificata che non elementi provenienti da quei gruppi marginali
che oggi sopportano i pesi maggiori del sistema economico. Nè le
donne sottopagate nelle aziende nè i lavoratori stranieri nè gli
invalidi o i sofferenti di disturbi psichici possono - senza aiuto e
senza una guida - organizzare efficacemente la propria difesa contro
il sistema economico. Essi possono essere bensi alleati, ma non
soggetti del movimento politico. Qualcosa del genere potrebbe dirsi
del Terzo Mondo nei suoi rapporti con le metropoli industrializzate.
L'analogia tra il rapporto Terzo Mondo-Stati industrializzati e
quello classe operaia-capitalisti nelle prime fasi dello sviluppo
capitalistico non regge a una verifica. Con l'eccezione di poche
materie prime, che in effetti si trovano prevalentemente nel Terzo
Mondo (petrolio greggio - almeno sinora - e qualche altra), non si
può assolutamente parlare di una totale dipendenza delle nazioni
industrializzate dalle esportazioni del Terzo Mondo. Un embargo
sulle esportazioni, pertanto, non potrebbe avere le stesse
conseguenze di uno sciopero generale della classe operaia. Paesi
industrialmente avanzati e ricchi (come gli Stati Uniti, il Canada,
la Nuova Zelanda, l'Australia, ma anche la Francia) possono per
esempio esportare grandi quantità di generi alimentari e di
foraggio. Oltre a ciò, alcuni di essi dispongono di petrolio greggio
(Stati Uniti, Canada, Australia), oro, diamanti, cobalto, cotone,
ecc. I più moderni metodi di estrazione consentono loro di diventare
concorrenti temibili dei paesi in via di sviluppo. Per questa
ragione non è possibile, in molti settori della produzione di
materie prime, la costituzione di un fronte unitario. È vero che il
superamento della dipendenza del Terzo Mondo dalle metropoli
capitalistiche è in qualche modo facilitato dalla concorrenza che
oppone queste ultime agli Stati comunisti ma, dinanzi alla
supremazia tecnologica degli Stati Uniti, del Giappone e
dell'Europa, ciò non è sufficiente.
La via più sicura sembra essere quella degli sforzi per superare la
fase della ‛monocultura', la quale ha come effetto la totale
dipendenza dalle oscillazioni sul mercato mondiale dei prezzi di un
solo prodotto (o di pochi), e lo sviluppo di una produzione che
riesca a coprire il fabbisogno il più possibile con le forze
interne. Su questa strada, gli aiuti economici disinteressati, cosi
come li ho caratterizzati sopra, posso no arrecare un aiuto
considerevole e accelerare lo sviluppo. Ora, la concessione di tali
aiuti difficilmente potrà essere ottenuta unicamente dagli sforzi di
questi paesi, mentre pressioni adeguate potranno rendere l'opinione
pubblica consapevole della loro urgenza e daranno forza alla voce
degli uomini politici delle metropoli che si battono per
quest'obiettivo. Ma la motivazione di questi ultimi e dei loro
seguaci potrà essere data soltanto dall'imperativo morale della
solidarietà internazionale: dall'aspirazione cioè a una condizione
di benessere internazionale che vada al di là della semplice assenza
di guerra.
8. Socialismo e pace mondiale
Già Kant faceva risalire la guerra al conflitto di interessi
particolari. In verità, egli aveva in mente unicamente i signori
feudali e assolutisti, e credeva che con l'introduzione della
democrazia in tutto il mondo si sarebbe potuta instaurare la ‛pace
perpetua'. Va però detto che Kant riteneva estremamente lunga e per
nulla certa una siffatta evoluzione verso la pace perpetua. La
storia ha poi dimostrato come anche le democrazie siano
perfettamente capaci di condurre guerre sanguinose: è infatti
possibile, eccitandone i sentimenti, fornire motivazioni adeguate
agli eserciti popolari e, d'altra parte, non sempre il popolo
giudica in modo razionale e illuminato dei suoi interessi reali. Il
nazionalismo ha reso possibile il collegamento tra democrazia e
guerra, riuscendo con successo a mascherare gli interessi effettivi
- di minoranze - che stanno dietro alle guerre offensive. Da ciò si
è frettolosamente concluso che le democrazie sono di necessità
bellicose e, dal fatto che le guerre degli eserciti nazionali
moderni (dalla levée en masse di Napoleone) sono di solito
notevolmente più sanguinose delle guerre dinastiche condotte dai
principi assolutistici, si è tratto un ulteriore argomento contro la
democrazia. In realtà, la pace è naufragata sullo scoglio non già
della democrazia, ma di una democrazia imperfetta e disinformata. Se
si fosse avuta un'effettiva informazione dell'opinione pubblica e
una concreta discussione degli interessi della maggioranza della
popolazione, difficilmente governi sottoposti al consenso popolare
sarebbero stati in grado di scatenare guerre.
La critica socialista alla democrazia non mira alla sua abolizione,
ma alla sua attuazione concreta. Essa si sforza cioè di demolire gli
influssi diretti e indiretti che rappresentanti di interessi
particolari (specialmente la lobby degli armamenti ed eventualmente
delle alte sfere militari) esercitano sul governo e sul parlamento
o, almeno, di assoggettare tali influssi a controllo. È legittimo
chiedersi se ciò sia in genere possibile senza una socializzazione
della produzione degli armamenti. Oltre a ciò, i socialisti (sin dal
piano di Jean Jaurès per una armée nouvelle) hanno sempre propugnato
la costituzione di una milizia popolare, cioè di un esercito che sia
costituito dalla totalità dei cittadini abili alle armi e che, già
per questa ragione, non tolleri di essere adoperato per scopi di
repressione politica all'interno. D'altra parte, una milizia
siffatta costituirebbe anche per gli Stati vicini una certa garanzia
che non si intraprenderebbero guerre offensive. In tempi
recentissimi, teorici che s'ispirano alle dottrine del Mahatma
Gandhi e di altri difensori della civil disobedience o della passive
resistance hanno ulteriormente elaborato l'idea di una milizia
popolare socialista. Per garantirsi da un attacco di sorpresa
dall'esterno basterebbe addestrare il popolo ai metodi della difesa
civile; si otterrebbe per questa via il risultato di eliminare
completamente la minaccia dei vicini e di svolgere così una notevole
funzione protettiva, in quanto ogni potenziale aggressore sa in
anticipo che dovrebbe fare i conti con una resistenza sotto forma di
guerriglia partigiana.
Di importanza decisiva è il fatto che, con la liquidazione degli
interessi particolari (di singoli settori dell'industria, come
l'industria degli armamenti, ma anche, in certe circostanze, di
settori interessati a certi territori oltremare o desiderosi di
garantire i propri investimenti oltremare), i possibili motivi di
una guerra offensiva vengono a cadere. Con l'estensione del
socialismo nel mondo le guerre tra Stati scomparirebbero
automaticamente. I conflitti d'interesse tra i popoli, infatti, si
verificano solo finché è possibile che all'interno dei singoli Stati
risultino preponderanti gli interessi di minoranze: già nel
Manifesto comunista del 1848 si diceva: ‟Con l'antagonismo delle
classi all'interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca
ostilità fra le nazioni" (v. Marx-Engels, 1848). È vero che anche
questa prognosi sembra ormai essere stata confutata dalla storia, al
pari di quella di Kant, che fu ripresa da W. Wilson nel 1917 e
rinnovata da F. D. Roosevelt nel 1944. Neppure il socialismo ha
portato la pace mondiale, e neppure la ‛patria del socialismo', come
l'Unione Sovietica orgogliosamente si chiamava, ha rinunciato alle
guerre offensive: la guerra finno-sovietica ha rappresentato la
prima deviazione dalla regola, e in seguito gli interventi in
Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968), come anche i numerosi e
sanguinosi incidenti di frontiera sull'Ussuri hanno mostrato - anche
ammettendo che i vari casi richiedano analisi diverse - che l'Unione
Sovietica è perfettamente capace di azioni militari aggressive.
Ma la realtà delle guerre condotte dagli Stati democratici può tanto
poco confutare l'importanza della democrazia per garantire la pace,
quanto scarsa è la forza probatoria degli esempi summenzionati. È
vero che nell'Unione Sovietica non esistono interessi commerciali
legati agli armamenti; esiste però un'oligarchia dominante, la quale
s'identifica con l'influsso militare e politico dell'Unione
Sovietica su scala mondiale, e sente inoltre se stessa - come da
sempre ogni governo di una grande potenza - quale garante della pace
mondiale. Ma un simile sentimento non può essere altro che una
sincera autoillusione ideologica o una maschera cinica.
Se abbiamo poc'anzi criticato la democrazia bellicosa e
nazionalistica per la sua ingiustizia sociale e per l'influsso che
interessi particolari esercitano sulla formazione della volontà
politica, dobbiamo ora rivolgere la nostra censura al socialismo
burocratico per l'insufficiente democraticità delle sue fondamenta.
Il socialismo potrebbe essere bensì la base e il garante di un
ordinamento mondiale pacifico, ma soltanto se fosse strutturato
democraticamente. Una società nella quale non vi fossero più
conflitti di classe e interessi privilegiati di minoranze, e vi
fosse invece un'efficiente democrazia con libere elezioni e libero
accesso alle candidature, con libere discussioni di orientamenti e
progetti politici diversi, con una libera stampa e un'informazione
radiotelevisiva ampia e obiettiva: una società siffatta sarebbe
certamente la custode della pace e dell'amicizia tra i popoli. A
essa basterebbe - sino a quando continuassero a sussistere Stati
potenzialmente aggressori - una milizia popolare dotata di armamenti
sufficienti per infliggere a qualsiasi nemico, in caso di attacco di
sorpresa, perdite tali da fargli ritenere saggio rinunciare
all'intervento. E questa società non avrebbe bisogno di armi
offensive (so bene che questa distinzione è diventata oggi
tecnologicamente obsoleta, ma una milizia popolare farebbe comunque
a meno di ogni specie di armi pesanti; prescindo qui dalla
possibilità di una distruzione reciproca in seguito all'uso delle
armi nucleari, le quali accrescono ulteriormente l'irrazionalità
della corsa agli armamenti e si prestano eccellentemente a
legittimare gli immensi sforzi compiuti per mantenere o - il più
delle volte - per restaurare un ‛equilibrio' che si presuma
alterato): l'irradiazione, su scala mondiale, dell'influsso che
eserciterebbe un simile paese (certamente contrassegnato da un grado
altissimo di prosperità) costituirebbe il suo più efficace strumento
politico.
9. Conclusione
Non sempre le prospettive ultime implicite in una politica
socialista sono presenti a tutti gli uomini politici socialisti (e
socialdemocratici), né tutti le hanno ben chiare in mente. È da esse
soltanto, tuttavia, che le fatiche dei riformisti come le
aspirazioni dei rivoluzionari possono trarre il proprio significato,
che è quello di fare della Terra un luogo in cui i cittadini degli
Stati - e gli Stati stessi - possano vivere in pace, in cui non ci
sia né sfruttamento né dominio, e in cui, infine, ciascuno possa -
con l'aiuto di tutti gli altri - sviluppare onnilateralmente le
proprie disposizioni naturali e ricavar piacere dalle proprie
occupazioni. L'immagine di questa società futura e degli uomini che
in essa vivranno emancipati è come un mosaico composto di
un'infinità di tessere. I socialisti non credono ch'essa possa
essere tradotta in realtà ‛d'un colpo' e le deformazioni degli Stati
a socialismo burocratico li hanno confermati in questa convinzione.
Là dove urge la miseria, bisogna dapprima fare rotta verso mete meno
auguste. Sempre - però - si dovrà aver cura di mantenere aperta la
strada verso ulteriori riforme, di impedire la formazione di una
nuova oligarchia (sia essa reclutata su basi economiche o su basi
politiche e ideologiche) e, infine, di preservare la possibilità di
ritornare sugli errori compiuti per correggerli. Contro la pretesa
all'infallibilità, che caratterizza parecchie élites comuniste,
bisogna sempre ricordare le profetiche parole che Marx scriveva nel
1852: ‟Le rivoluzioni borghesi, come quelle del secolo decimottavo,
passano tempestosamente di successo in successo; i loro effetti
drammatici si sorpassano l'un l'altro [...]. Ma hanno vita effimera,
presto raggiungono il punto culminante: e allora una lunga nausea si
impadronisce della società, prima che essa possa rendersi
freddamente ragione dei risultati del suo periodo di febbre e di
tempesta. Le rivoluzioni proletarie, invece, quelle del secolo
decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompono a ogni
istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che sembrava già
cosa compiuta per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo
spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e
delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro
avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si
levi di nuovo più formidabile di fronte a esse; si ritraggono
continuamente, spaventate dall'infinita immensità dei loro propri
scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile
ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano Hic Rhodus,
hic salta! Qui è la rosa, qui devi ballare!" (v. Marx, 1852; tr.
it., pp. 491-492).
Il socialismo riformista può essere una strada verso quella
difficile, lunga e complicata rivoluzione che Marx aveva in mente.
Non è di certo, comunque, un vicolo cieco nel quale il processo di
emancipazione sia condannato ad arrestarsi (v. anche comunismo e
marxismo).
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1998)
di Maurizio Degl'Innocenti
Sommario: 1. Il termine e il problema delle origini. 2. L'idea
societaria e il movimento operaio. 3. Il partito nazionale dei
lavoratori e l'integrazione politica. 4. L'affermazione della
socialdemocrazia nel secondo dopoguerra. Il 'socialismo nazionale'
nel Terzo Mondo. 5. Verso il XXI secolo. □ Bibliografia.
1. Il termine e il problema delle origini
Anche se sarebbe più corretto parlare di 'socialismi' (più che di
'socialismo') per la varietà e l'evoluzione, nel XIX e nel XX
secolo, delle dottrine e delle pratiche riassumibili sotto quel
concetto, in generale si può definire il socialismo come un progetto
e movimento di riforma della società nella libertà che, finalizzato
all'estensione dei diritti di uguaglianza politici e sociali, pone
al centro di una pratica solidaristica l'etica del lavoro e della
persona umana e privilegia finalità e comportamenti collettivi
contro l'esasperato utilitarismo individuale o di gruppo proprio del
mercato capitalistico.Le origini del socialismo sono state cercate
perfino nell'antichità classica, suggerendo che l'idea della
comunità fraterna sia stata elaborata sul modello dei concetti di
'eunomia', o fruizione egualitaria dei beni, e 'isonomia', o
uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. È stato
pertanto rappresentato come protosocialista lo stesso Platone, per
le sue formulazioni di un generico comunismo integrale all'indomani
della guerra del Peloponneso. A maggior ragione furono rintracciati
prodromi di socialismo in talune prospettive di rigenerazione
collettiva presenti nel confucianesimo, nel taoismo, nell'islamismo,
e soprattutto nel cristianesimo delle origini, prima che diventasse
la religione ufficiale del Sacro Romano Impero.
Anche se è controversa l'attribuzione al cristianesimo degli aspetti
egualitari del pensiero greco, è un fatto che l'immagine del 'Gesù
socialista' ebbe larga fortuna, in particolare tra Ottocento e
Novecento. E ancora, furono colte anticipazioni del socialismo
nell'invocazione dell'avvento del regno di Dio attraverso la
trasformazione dell'ordine sociale e soprattutto nei movimenti
millenaristici, per lo più a sfondo rurale, che con la crisi del
sistema feudale si formarono in Inghilterra, in Boemia e in
Westfalia, fino al movimento dei diggers e dei livellatori nel XVII
secolo. L'idea della città ideale, fondata su un comunismo di
ispirazione umanitaria ma ancor più religiosa, trovò espressione nel
XVI e nel XVII secolo nelle utopie di Tommaso Moro e di Tommaso
Campanella, e nel secolo successivo nelle teorie di Gabriel Bonnot
de Mably, di Morelly e dell'abate Jean Meslier.
Nella seconda metà del XVIII secolo l'idea di uguaglianza sociale si
secolarizzò con la proclamazione dei diritti dell'uomo in nome della
ragione, della quale il socialismo fu presentato come l'evoluzione
più logica sul piano sociale ed economico. Cosicché la congiura
degli Eguali di Babeuf del 1796 - descritta in un saggio fortunato
da Filippo Buonarroti nel 1828 - fu assunta come inizio autentico
del 'programma comunista' della soppressione della proprietà privata
e della comunione dei beni e del lavoro. Babeuf impersonò la figura
del cospiratore rivoluzionario capace di guidare la massa con
l'esempio e con la propaganda verso la società nuova, inaugurando
una concezione dell'élite rivoluzionaria che avrebbe avuto seguaci
in Blanqui, nell'ala più radicale del cartismo inglese, in alcuni
protagonisti della Comune di Parigi e perfino in Lenin. D'altra
parte, nelle istanze libertarie ed egualitarie della Rivoluzione
francese così come nel tessuto associativo e sindacale inglese
furono ricercate le basi del socialismo democratico inteso come
movimento di riforma nella libertà, anche in riferimento ai valori
della civiltà europea.
In termini cronologici, invece, le origini del socialismo vanno
collocate tra gli anni venti e trenta dell'Ottocento, vale a dire
quando le parole 'socialista' e 'socialismo' passarono dal
linguaggio teologico o giuridico, in relazione all'origine
contrattualistica o socialis dello Stato o alla socialitas umana, al
linguaggio politico e poi, dal decennio successivo, al vocabolario
comune per indicare una dottrina, un movimento, un comune sentire
rivolti alla costruzione di una nuova organizzazione societaria o
comunitaria del lavoro e, più in generale, della vita collettiva, in
contrapposizione al disordine competitivo, all'individualismo
egoistico, alla diseguaglianza sociale e allo sfruttamento del
lavoratore attribuiti al "vecchio mondo immorale" (Owen) e/o al
sistema capitalistico. Contemporaneamente prendeva corpo l'auto- o
etero-rappresentazione del movimento, con la proiezione e
l'interpretazione delle origini dettate dai mutevoli indirizzi
culturali e dalle circostanze pratiche: l'esegesi dei 'profeti' e
degli anticipatori va dunque collocata solo in questo capitolo.
2. L'idea societaria e il movimento operaio
Il paese della prima rivoluzione industriale e della
liberalizzazione del mercato del lavoro fu anche quello di
incubazione del socialismo, termine con il quale vennero indicati
gli esperimenti pratici e le teorie di Robert Owen (1771-1858) - un
capitano d'industria di New Lanark in Scozia - e dei suoi seguaci,
per lo più in simbiosi con il concetto di associazione e in
alternativa a quello di individualismo. I presupposti si ravvisano
già, alla fine del Settecento, nelle denunce degli effetti negativi
dell'industrializzazione da parte di riformatori agrari e sociali
come William Ogilvie e Thomas Spence, e soprattutto Thomas Paine; e
non meno nelle istanze propugnate da William Godwin a favore di un
associazionismo fondato sui legami di parentela e sul vicinato in
opposizione all'autoritarismo dello Stato. Owen, che derivò da
Godwin (e soprattutto da Helvétius) la teoria dell'influenza
dell'ambiente sul carattere umano, propagandò in A new view of
society, or essays on the principle of the formation of human
character, 1813, e in New moral world, 1835-1844, un "sistema di
cooperazione generale" o "nuovo mondo morale" laico e solidale,
fondato sul trinomio "verità, lavoro e scienza". Teorizzò così la
creazione di villaggi comunitari, composti in media da 500-2000
persone, finanziati dalle parrocchie e dalle contee con la tassa sui
poveri, da capitalisti filantropi o dalle stesse associazioni
operaie; in tali villaggi il lavoro sarebbe stato remunerato in base
all'assunto, ricavato dall'economia classica, che "l'unità di misura
naturale del valore è, in linea di principio, il lavoro umano". Dopo
un primo esperimento filantropico a New Lanark Owen ne promosse un
altro nel 1825 nell'Indiana, negli Stati Uniti, con la comunità di
New Harmony, che ebbe però risultati deludenti. Tornato in
Inghilterra nel 1829, si pose alla testa del movimento sindacale
tentando l'integrazione della società cooperativa di consumo con la
trade union, il cui sviluppo fu favorito dalle leggi del 1824-1825
sulle associazioni operaie. Ma l'iniziativa più ambiziosa di Owen,
la Grand National Consolidated Trade Union, ebbe vita effimera e fu
disciolta nel 1834.
Negli anni venti e trenta l'owenismo ebbe comunque larga diffusione
anche a seguito di un'efficace propaganda (realizzata con una media
annua di due milioni e mezzo di opuscoli tra il 1839 e il 1841) e
lasciò tracce così profonde da far individuare in esso le origini
delle attitudini pragmatiche e moderate del movimento operaio
inglese.Con Owen condivisero la teoria economica classica del valore
i cosiddetti 'socialisti ricardiani', che ebbero un'influenza
rilevante sullo stesso Marx. Tra essi Thomas Hodgskin sostenne in
Labour defended against the claims of capital (1825) che in regime
capitalistico la salvezza per i lavoratori era nell'organizzazione
autonoma di resistenza, la sola capace di mettere in crisi la legge
del 'prezzo naturale del lavoro' che lo eguagliava alla pura
sussistenza. Si accostarono al movimento cooperativo e sindacale di
ispirazione oweniana John Gray e William Thompson, che fu il primo a
usare il termine 'plusvalore' (An inquiry into the principles of the
distribution of wealth, 1824; Labour rewarded, 1827). La mancata
concessione del voto ai lavoratori nel 1832, il malcontento
suscitato dalla legge sui poveri del 1834 che negava il sussidio
agli abili, e infine la campagna per la riforma delle fabbriche
promossa nei distretti industriali furono all'origine, tra il 1836 e
il 1848, del cartismo, la più vasta agitazione di ceti operai e
popolari che abbia interessato l'Inghilterra (e l'Europa) nel XIX
secolo.
Attraverso la petizione popolare esso si propose di ottenere una
'Carta del popolo', tra i cui punti più qualificanti era il
suffragio universale maschile.
Il cartismo non manifestò caratteri autenticamente socialisti anche
se tra i promotori, per lo più appartenenti allo strato superiore
dei lavoratori qualificati e autodidatti come i tipografi e i sarti,
vi furono oweniani come William Lovett e Henry Hetherington.
Tuttavia esso favorì la presa di coscienza di classe del movimento
operaio inglese inaugurandone le grandi agitazioni di massa, e
diventò un punto di riferimento essenziale nella tradizione
democratica del socialismo europeo. Fallita una prima agitazione nel
1838-1839, il movimento conobbe una ripresa negli anni quaranta (il
'decennio della fame'), con un rinnovato gruppo dirigente nel quale
risultarono più influenti socialisti e fautori della 'violenza
fisica' (in alternativa alla sola 'violenza morale') come James
Bronterre O'Brien, Julian Harney e l'irlandese Feargus O'Connor.
Dopo il rigetto delle petizioni del 1842 e del 1848 i gruppi
cartisti residui assunsero connotati più apertamente socialisti.
O'Brien pubblicò la prima parte di The rise, progress and phases of
human slavery (1849), in cui tracciò un parallelo tra la schiavitù
antica di tipo patrimoniale e quella moderna di tipo salariale,
prospettando nella rivoluzione, violenta o pacifica, il solo mezzo
per ottenere la libertà dell'uomo. Qualche rilievo ebbe la
riorganizzata National Charter Association, la cui direzione passò
da O'Connor a Ernest Jones e a Harney, con orientamento più
marcatamente internazionalista.
Nel 1850 Harney si adoperò perché i membri della Society of
Fraternal Democrats, creata nel 1846, si associassero al gruppo dei
blanquisti e di Karl Marx, di cui tradusse il Manifesto sul "Red
republican", per costituire la Lega universale dei comunisti
rivoluzionari, con le parole d'ordine "dittatura del proletariato",
"rivoluzione permanente", "comunismo" come "forma finale di
organizzazione della società umana". Negli anni cinquanta però Jones
ebbe maggiore forza all'interno del sindacato e successivamente di
un movimento di pressione che contribuì alla riforma elettorale del
1867. Tra l'altro egli rilanciò la tesi della nazionalizzazione
della terra, già prospettata nel piano agrario cartista dopo il
1842, per collocarvi la manodopera urbana disoccupata ("colonie in
patria").
In opposizione alle agitazioni per le 'le carte del popolo' del
1848, sorse il movimento del socialismo cristiano per iniziativa di
esponenti della Chiesa d'Inghilterra come Frederick Denison Maurice
e Charles Kingsley, e dell'avvocato John Malcolm Forbes Ludlow, che
aveva seguito in Francia le iniziative di Blanc e Buchez. L'intento
dei socialisti cristiani era quello di unire fraternamente
lavoratori e ceti abbienti mediante l'organizzazione della
produzione. Organo del movimento fu "Politics for the people"
(1848), poi "The Christian socialist" (1850-1851), e infine "The
journal of association" (1852). Mentre Ludlow fondò piccole
associazioni operaie di produzione, di ispirazione cristiana, Thomas
Hughes si dedicò al movimento sindacale e Edward Vansittart Neale al
movimento cooperativo laico, dirigendo a lungo la segreteria della
Cooperative Union, nell'obiettivo comune di creare un movimento
associativo di tipo nuovo che coinvolgesse, attraverso il sindacato
e la cooperazione, produttori e consumatori.
La maggior parte delle cooperative locali e di produzione fallì, e
il cointeressamento del sindacato non fu soddisfacente, tanto che il
gruppo di Ludlow e Maurice rinunciò al cooperativismo per dedicarsi
alla politica sanitaria e alla istruzione operaia fondando nel 1854
il Working men's college a Londra. Neale continuò invece il suo
impegno nella cooperazione di consumo, nella quale era destinata al
successo, a Manchester, la North of England cooperative whole sale
society, poi organismo commerciale centrale per tutto il
paese.Insieme all'Inghilterra fu la Francia l'altro 'paese del
socialismo', favorito dal precedente della grande rivoluzione che
aveva scosso il principio stesso di proprietà e posto la democrazia
politica come condizione di quella sociale. Furono chiamati per
primi 'socialisti' i seguaci di Claude-Henri Saint-Simon (17601825),
di origine nobile ma caduto in rovina economicamente. A lui Émile
Durkheim ha attribuito addirittura la qualifica di 'padre del
socialismo', nonché del positivismo, ma già Mazzini aveva definito
il saintsimonismo "la più avanzata manifestazione dello spirito di
novità che ha soffiato nel nostro secolo" ed Engels gli aveva
riconosciuto un ruolo importante nella diffusione e nella
sistemazione delle idee del socialismo non strettamente economico.
In saggi come L'organisateur (1819-1820), Du système industriel
(1821-1822), Catéchisme des industriels (1823), Saint-Simon sostenne
che sarebbe stata la scienza, più che la politica, a risolvere il
problema sociale lasciato aperto dalla Rivoluzione francese. E
applicando al mondo morale il principio di attrazione universale
teorizzato da Newton nella fisica, attribuì all'industrializzazione,
se opportunamente coordinata, il passaggio pacifico dall'età
organica dei "secoli cristiani" all'età "positiva". Al dominio degli
oisifs, cioè dei ceti parassitari (aristocratici, militari e
redditieri), si sarebbe così sostituito quello dei savants e degli
industriels o produttori, cioè dei possessori delle conoscenze
scientifiche nonché degli imprenditori e degli operai, impegnati
insieme a conseguire lo sviluppo nell'ordine e nell'unità armonica
della società, a beneficio fisico e morale della "classe la plus
nombreuse et la plus pauvre". Ne sarebbe conseguito un "nuovo
cristianesimo", non più basato sui dogmi teologici, bensì sulla
verità scientifica (Nouveau christianisme, 1825).
Tali principî furono ripresi, specialmente tra il 1830 e il 1832,
dagli eredi più diretti di Saint-Simon come Olinde Rodrigues,
Prosper Enfantin e Saint-Amand Bazard. Essi rappresentarono la
storia dell'umanità come l'evoluzione dall'antagonismo di forze
contrapposte e dallo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo
(schiavo-padrone nell'età antica, servo-signore nell'età medievale,
operaio-padrone nell'età borghese) all'associazione, nella quale
tale sfruttamento sarebbe stato eliminato. In quest'ultima fase i
mezzi di produzione sarebbero stati socializzati con l'abolizione
dell'eredità, mentre ai privati sarebbe rimasta la proprietà dei
beni di consumo. La socializzazione dei mezzi di produzione non si
sarebbe confusa con la comunione dei beni, perché ciascuno avrebbe
avuto secondo le capacità e le opere (disuguaglianza nella
ripartizione). Una discussa evoluzione di tali teorie in senso
tecnocratico e misticheggiante si ebbe nel pensiero di Enfantin,
mentre nei discepoli della seconda generazione - come il tipografo
autodidatta e laico Pierre Leroux - si manifestò un più spiccato
interesse per le organizzazioni autonome di lavoratori. L'eredità
del sansimonismo correlò il socialismo in Francia (e in Belgio) al
positivismo, alleato della Scienza e del Progresso. Ma esso ebbe
rilevanza anche nella promozione di un ceto imprenditoriale nel
settore mobiliare e delle grandi infrastrutture negli anni del
Secondo Impero.
Per la sua fiducia nell'industrialismo Saint-Simon apparve come
l'anticipatore della teoria della società industriale e della
occupational community, elaborata poi da Durkheim, o, addirittura,
dell'economia pianificata.L'altro rappresentante della 'grande
utopia' socialista nel periodo della Restaurazione fu Charles
Fourier (1772-1837), proveniente da una famiglia di commercianti.
Nei saggi Théorie des quatre mouvements (1808), Traité de
l'association domestique et agricole (1822), Le nouveau monde
industriel et sociétaire (1829) e La fausse industrie (1835-1836),
Fourier teorizzò quattro stadi della storia umana (selvaggio,
patriarcale, barbarico e della civiltà); nella successione dalla
condizione razionale e 'passionale' (lavoro e amore) alla
civilisation ("il mondo alla rovescia") le istituzioni avrebbero
allontanato le passioni e il matrimonio soffocato l'amore, mentre la
coercizione sociale e l'organizzazione del lavoro avrebbero reso
quest'ultimo noioso, incerto e alienante e l'"anarchia commerciale"
avrebbe impedito al salariato di partecipare ai benefici dello
sviluppo. Alla civilisation Fourier contrappose la società di
Armonia, articolata in piccole comunità, autosufficienti e pertanto
sottratte alla competizione, organizzate in falansteri, grandi
edifici sociali costruiti per la vita collettiva, dove il lavoro
sarebbe stato svolto alternativamente da gruppi divisi per età e
genere, e retribuito in relazione al rendimento, al talento e al
capitale.
La nuova società pertanto sarebbe risultata dalla giustapposizione
di comunità autosufficienti e autonome, dedite prevalentemente
all'agricoltura, alla trasformazione dei prodotti della terra e alla
produzione dei beni di consumo. Per il suo rifiuto
dell'industrialismo fu attribuita a Fourier una visione arcaica, ma
la sua critica radicale del sistema capitalistico fu anche valutata
con favore. In tempi più recenti sono state riconsiderate
positivamente la sua denuncia degli aspetti repressivi della
civiltà, l'apertura alla vita istintuale - quasi un'anticipazione
della pedagogia moderna e perfino della cultura ecologica - nonché
la progettualità degli insediamenti, prefigurazione della moderna
urbanistica. La scuola societaria o fourieriana degli anni trenta e
quaranta ebbe solo in apparenza un'influenza minore di quella
sansimoniana. Vantò fortunati divulgatori come Victor Considérant e
conobbe un successo duraturo nella cooperazione, specialmente di
produzione, con Michel Derrion, Philippe Buchez e Jean-Baptiste
Godin.
Assai più eclettico fu il comunismo comunitario di Étienne Cabet
(1788-1856), nato da una famiglia di artigiani, pubblicista e
redattore del giornale "Le populaire", esule a Londra dopo il 1834.
Nel noto saggio Voyage en Icarie (1842), ispirato all'Utopia di
Tommaso Moro adattata a un ambiente industriale, si pronunciò per
l'abolizione della proprietà privata e per il lavoro obbligatorio in
grandi aziende pubbliche meccanizzate, coniando lo slogan fortunato:
"Tutti hanno il dovere di lavorare lo stesso numero di ore al
giorno, secondo i propri mezzi, e il diritto di ricevere una parte
uguale di tutti i prodotti, secondo i propri bisogni".
Negli anni quaranta in Francia (dove Cabet era tornato nel 1841)
'comunismo' era in qualche modo assimilato a cabetismo o a
icarianesimo, anche nell'ultima versione ispirata a una sorta di
cristianesimo primitivo (Mon crédo communiste, 1845; Le vrai
christianisme suivant Jésus-Christ, 1846).La questione della
centralità del 'diritto al lavoro' nella società moderna fu
sollevata soprattutto da Louis Blanc (1811-1882), autore di
L'organisation du travail (1839, 1848¹⁰). Critico nei confronti
delle ipotesi comunitarie, egli attribuì allo Stato, reso "amico del
popolo" con il suffragio universale, il coordinamento di un sistema
di aziende pubbliche: gli ateliers sociaux, autonomi nella gestione,
finanziati da un prestito statale gratuito, e resi più competitivi
delle imprese private, con il cointeressamento operaio alla
produzione.
Nella rivoluzione del 1848 Blanc assunse una posizione di rilievo,
diventando presidente della Commissione del Lussemburgo, ma gli
ateliers nationaux, simili alle fabbriche di carità, non ebbero
fortuna. Il fallimento di tale indirizzo determinò un sostanziale
allontanamento dei lavoratori dall'idea repubblicana; lo stesso
Blanc fu esule in Inghilterra e quando tornò in Francia assunse una
posizione defilata, tanto da non aderire alla Comune.
E tuttavia nella storia del socialismo (grazie anche all'influenza
cartista) egli, pur non essendo stato un dottrinario, fu considerato
come il primo teorico dell'interventismo statale e per la sua
visione graduale e pacifica della via al socialismo fu ritenuto
perfino l'anticipatore della socialdemocrazia.Agli antipodi della
corrente 'statalista' o 'governativa' rappresentata da Blanc si
trova l''anarchismo positivo' di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865).
Egli riteneva il mondo fondato su principî universali di
contraddizione o antagonismo, e di interazione o reciprocità, la cui
espressione più compiuta era da individuarsi nella famiglia e, sul
piano produttivo, nel libero scambio delle merci regolato dai valori
creati dal lavoro, secondo la teorizzazione dei socialisti
ricardiani e di Owen. In una serie di saggi - dal celebre Qu'est-ce
que la proprieté? (1840) dove definì la proprietà un furto, a
Système des contraddictions économiques, ou philosophie de la misère
(1846), De la justice dans la révolution et dans l'Église (1858), De
la capacité politique des classes ouvrières (1865) - teorizzò
un'organizzazione dal basso, autogestita sul piano economico e
amministrativo da individui, gruppi e comuni organizzati su basi
federative, ma con il sostegno di una banca popolare, nella quale le
retribuzioni fossero proporzionali al successo personale o alla
composizione della famiglia. Rifiutando la proprietà pubblica dei
mezzi di produzione, compresa la terra, Proudhon delineò una società
a carattere artigiano e contadino (dal cui ambiente egli stesso
proveniva), basata sui piccoli produttori e sulla conservazione
della famiglia patriarcale, in cui la donna avesse un ruolo
subordinato.
E tuttavia egli e i suoi seguaci non solo ebbero largo successo in
Francia negli anni cinquanta e sessanta, ma rimasero i referenti più
accreditati di tutte quelle correnti del movimento socialista che si
richiamarono all'antiautoritarismo, al mutualismo e al federalismo;
in questo ambito Proudhon fu considerato uno dei padri del movimento
anarchico o anarco-sindacalista. La polemica stessa in cui lo
impegnarono Marx ed Engels contribuì a rafforzare tale opinione.Al
di fuori dell'Inghilterra e della Francia, cioè dei paesi delle
rivoluzioni borghesi (industriale e politica), gli sviluppi del
socialismo furono più tardivi e stentati. In Germania, il socialismo
si diffuse inizialmente solo in ambito culturale e tra gli esuli
politici.
Così, dalla metà degli anni quaranta prese corpo il movimento del
'vero' socialismo, o socialismo tedesco, come corrente filosofica
della sinistra hegeliana, i cui esponenti più noti furono Karl Grun
e Moses Hess, mentre nel 1834 era stata fondata a Parigi una Lega
dei proscritti (Bund der Geatchen), di tendenza
democratico-repubblicana, trasformatasi nel 1836 in Lega dei giusti
e infine, nel 1847 a Londra, in quella Lega dei comunisti che
commissionò a Marx nel 1847 la redazione del Manifesto, uscito nel
febbraio dell'anno successivo. Influenzati dalla sinistra hegeliana
e dalla frequentazione degli esuli, a contatto con la classe operaia
inglese ma in una prospettiva internazionalista, Karl Marx
(1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) enunciarono una
concezione materialistica della storia vista come il succedersi di
fasi segnate dall'antagonismo di due classi in base ai rapporti di
produzione. L'esasperazione delle antinomie, in ultimo tra borghesia
e proletariato, avrebbe infine prodotto una rivoluzione dalla quale,
per la prima volta nella storia dell'umanità, sarebbe scaturita una
società senza classi, in cui "il libero sviluppo di ciascuno fosse
la condizione per il libero sviluppo di tutti".
Pur prevedendo in tempi brevi la socializzazione dei mezzi di
produzione e di scambio, Marx si astenne dal fornire un quadro
esaustivo dello stadio finale, ammettendo tuttavia la necessità di
misure giuridiche ed economiche corrispondenti alla "costituzione
del proletariato in classe dominante", e si limitò a definire
"socialista" la fase di transizione al comunismo; nel 1852
introdusse la nozione di "dittatura del proletariato" poi precisata
dopo la Comune. Ai comunisti assegnò la funzione di 'avanguardia'
dei partiti operai nella lotta contro la borghesia dove questa fosse
dominante, e in alleanza con essa, contro l'aristocrazia, nei paesi
meno sviluppati. Il Manifesto fu nell'immediato privo di influenza
pratica, ma la ebbe enorme in seguito (fu definito "il vangelo del
socialismo moderno"), come parte qualificante di un corpus di
scritti - fra cui il primo volume del Kapital, tirato in mille copie
nel 1867 esaurite solo nel 1871 (il secondo e il terzo volume furono
editi a cura di Engels nel 1885 e nel 1894; il quarto a cura di Karl
Kautsky nel 1895) - che era destinato a incidere profondamente sul
movimento socialista, a partire dagli anni ottanta e per oltre un
secolo.
Marx definì "scientifico" il suo socialismo per differenziarlo da
quello, precedente al Manifesto, che chiamò "utopico" ritenendo
quest'ultimo indirizzato alla ricerca di rimedi sociali "al di fuori
del movimento operaio" e prescindendo dalla questione del potere,
nel presupposto che di volta in volta la scienza, l'atto di volontà
o addirittura il comportamento onesto e filantropico potessero dar
vita a nuovi sistemi sociali più o meno fantasiosi.
L'affermazione successiva del marxismo all'interno del movimento
operaio contribuì a consolidare questa immagine negativa del
socialismo precedente al Manifesto, fino a inglobarvi le posizioni
di Blanc e perfino di Proudhon. La periodizzazione e le categorie
interpretative di Marx divennero poi di uso comune. Né cambiò la
sostanza il fatto che in sede storiografica si tentasse una
correzione parziale di tale valenza negativa introducendo la
categoria di 'protosocialismo', che si voleva calato nella realtà
del proprio tempo, limitando invece la qualifica di 'utopismo' alle
teorie e alle pratiche cooperativistiche-associative che tendevano
alla progressiva giustapposizione di realizzazioni molecolari, per
riscrivere dal basso l'intera teoria delle relazioni sociali; oppure
ancora distinguendo tra gli utopisti per eccellenza, o 'grandi
utopisti', cioè i capiscuola come Saint-Simon, Owen, Fourier, Cabet,
e i discepoli, più solleciti alle sperimentazioni. In realtà, i
socialisti cosiddetti utopici del XIX secolo dovrebbero essere
piuttosto considerati dei riformatori sociali che, al di là dei
progetti ambiziosi e dei tentativi falliti, non mancarono di
lasciare tracce profonde nella cultura e nella realtà politica,
associativa, mutualistica, sindacale e cooperativa del tempo, spesso
con risultati duraturi. Gli stessi Marx ed Engels non possono essere
considerati fuori da questo contesto.Nel trentennio successivo al
1848, col favore di una fase economica propizia e, fino al 1873, del
rialzo dei prezzi, si registrò una forte spinta all'organizzazione
sindacale (la 'prassi operaia') mediante la quale furono erette le
prime difese contro lo sfruttamento generalizzato della manodopera e
conseguiti i primi elementi di una legislazione sociale nonché, sia
pure tra forti ostacoli, la garanzia del diritto di coalizione (in
Inghilterra fu rilevante al riguardo l'esito positivo dello sciopero
degli edili londinesi nel 1859). Il movimento dei lavoratori diventò
un nuovo soggetto, riconosciuto.
La testimonianza più significativa fu la costituzione della
Associazione Internazionale dei Lavoratori (o Prima Internazionale)
il 28 settembre 1864 alla St. Martin Hall di Londra, dopo gli
incontri promossi dai sindacati inglesi e dalle società operaie
francesi in occasione dell'Esposizione internazionale di Londra nel
1862. Negli statuti e soprattutto nel preambolo (Indirizzo alla
classe operaia), a cui dette un contributo decisivo Marx, si affermò
che l'emancipazione della classe operaia doveva essere opera della
classe stessa, a cominciare dalla liberazione dalla soggezione
economica, fonte di ogni servitù. Tuttavia, pur nel condiviso clima
di solidarietà internazionale, vi si palesarono subito prospettive
assai diverse: i sindacati inglesi ricercavano garanzie contro il
crumiraggio, mentre le società francesi mettevano in primo piano il
mutualismo e il sistema del credito gratuito, e quelle belghe il
libero pensiero. I primi congressi (Ginevra, 1866; Losanna, 1867)
furono dominati dalla delegazione francese, nella quale era forte
l'influenza dei proudhoniani contrari alla pratica dello sciopero.
La sconfitta del proudhonismo (congresso di Bruxelles, 1868)
coincise con la piena legittimazione della lotta di resistenza e
soprattutto con la svolta a favore della collettivizzazione, per la
quale risultò decisivo l'appoggio del belga César de Paepe
(1842-1890).
Al successivo congresso di Basilea (1869) fu riaffermato il duplice
obiettivo della collettivizzazione della terra e della promozione
delle 'società di resistenza nei vari corpi di mestiere'. Intanto
una nuova e più agguerrita opposizione al marxismo veniva da parte
dei seguaci dell'esule russo Michail Bakunin (1814-1876), che
negarono al Consiglio generale di Londra la prerogativa di imporre
disciplina e politica alle sezioni nazionali e locali, per le quali
reclamarono invece la piena autonomia. Il contrasto tra Bakunin e
Marx fu dirompente e aprì tra socialisti (e poi comunisti) e
anarchici una divaricazione che non si sarebbe più ricomposta. Il
primo predicò l'abolizione dell'ereditarietà dei beni, laddove il
secondo puntò sulla soppressione della proprietà privata in quanto
tale; l'uno concepì i partiti operai come fattori di
burocratizzazione e di subordinazione allo Stato per il tramite
della legislazione sociale, l'altro li considerò essenziali nella
via al socialismo. Ma il dissenso fondamentale fu su due punti
ulteriori: il primo era rappresentato dal problema dello Stato, che
i seguaci di Bakunin volevano distruggere in tutte le sue forme
(come del resto la religione, per l'autoritarismo dogmatico), non
escludendo neppure il ricorso al terrorismo, laddove nella strategia
marxista la conquista del potere, per via rivoluzionaria o
democratica, rimase obiettivo centrale; il secondo punto riguardava
l'individuazione dei soggetti rivoluzionari, in quanto gli anarchici
coinvolgevano anche gli strati più emarginati della società, come i
contadini poveri, gli artigiani in rovina e gli studenti, mentre i
socialisti puntavano sugli operai, specialmente di fabbrica, come
classe generale.
La tradizione bakuniana o anarchica o libertaria trovò consensi più
diffusi in Spagna, in Italia, nella Svizzera francese, nel Belgio
vallone, ma non sarebbe corretto vedere in ciò l'aspetto
qualificante di un presunto socialismo mediterraneo.Il problema
dello Stato si pose in maniera tanto chiara quanto drammatica nel
marzo 1871 con la Comune di Parigi, una sollevazione popolare più o
meno spontanea, dettata anche da motivi patriottici - forse l'ultima
'giornata' nella tradizione rivoluzionaria del 1789 - alla quale
parteciparono ceti operai, artigiani e piccolo-borghesi.
L'Internazionale vi fu estranea e manifestò la sua solidarietà solo
a eventi accaduti. Bakunin fu sollecito a cogliervi "la negazione
audace e netta dello Stato" e, per l'"azione spontanea delle masse",
"l'istinto socialista". Marx la interpretò come il primo esperimento
di "governo della classe operaia", ma ne ricavò anche l'ammonimento
a non spezzare l'unità della nazione, "potente fattore della
produzione sociale". Nonostante la brevità dell'esperienza
(settantadue giorni) e la modestia delle realizzazioni socialiste,
la Comune (con la precedente sconfitta francese a Sedan) ebbe
conseguenze notevoli in Europa e in seno all'Internazionale stessa,
anche se è eccessivo affermare che rappresentò la discriminante tra
'il socialismo di ieri' e quello 'di oggi'. Essa accelerò la spinta
tradeunionistica dei sindacati inglesi e contribuì a trasferire il
centro di gravità del movimento socialista dalla Francia alla
Germania. Nell'immediato, il fallimento della Comune esasperò i
contrasti tra i seguaci di Marx e di Bakunin, e se il primo riuscì a
far espellere il secondo al congresso dell'Aja del 1872, fu tuttavia
costretto a spostare la sede dell'Internazionale a New York
decretandone così la fine (1876). Pur nella brevità e nelle vivaci
polemiche che ne caratterizzarono la vita, l'Internazionale fornì
un'importante esperienza di impegno intorno a una concezione di
lotta più definita e omogenea, contribuendo a radicare l'identità
collettiva, tanto che tutte le successive analoghe iniziative ne
rivendicarono la continuità.
3. Il partito nazionale dei lavoratori e l'integrazione politica
A partire dalla fine del XIX secolo le vicende del socialismo furono
contrassegnate dall'affermazione e dalla vitalità di due soggetti
apparentemente distanti o addirittura antagonistici, ma in realtà
connessi: la classe operaia e la nazione. L'interesse della Seconda
Internazionale, costituita nel 1889 da partiti nazionali per o della
classe operaia, si volgeva a entrambi.La costituzione del partito
operaio e/o socialista, sollecitata dall'allargamento del suffragio
e dall'insorgente società di massa, rifletteva innanzitutto la
grande frattura sociale tra manodopera e capitale, tra ceti
subalterni e leaderships tradizionali e/o borghesi, in una fase di
rafforzamento dello Stato-nazione, di integrazione del mercato e di
un più marcato ruolo dello Stato nell'economia e nella società. Per
certi versi essa si poneva come punto d'approdo dell'evoluzione del
proletariato dalla condizione di 'rango inferiore', di 'plebe', di
'gente comune' o di 'ceto lavoratore operaio' a quella di 'classe
lavoratrice', il che aveva posto in primo piano il rapporto tra
coscienza e organizzazione, quest'ultima intesa anche come
completamento della personalità del singolo. Il partito, insieme al
sindacato (generale e centrale), fu così la risposta al nuovo tipo
di conflittualità sociale determinatosi alla fine del secolo, che
reclamava da un lato modalità più complesse e 'aperte', e comunque
più organizzate - la pratica diffusa dello sciopero, il richiamo
alle otto ore lavorative reso ricco di suggestioni dalla festa del
primo maggio, il rivendicato controllo del collocamento, la più
generale definizione del contenzioso, a cominciare dal contratto
collettivo (in Inghilterra dal 1890) -, mentre dall'altro richiedeva
iniziative più decisamente orientate al compromesso sociale
(legislazione sociale, uffici del lavoro, istruzione).
L'affermazione e l'articolazione concreta del partito, dunque,
dipesero dal congiunto rapporto con i centri propulsivi del sistema
capitalistico e con la democratizzazione di quello politico. La
perifericità rispetto ad essi facilitò l'affermazione del
partito-avanguardia presentatosi come tale per la classe, per di più
intesa come classe generale, guida all'istruzione e al reclutamento,
ma ancor più alla rivoluzione; in determinate condizioni ciò
sollecitò la subordinazione dello Stato al partito e,
successivamente, la sua trasformazione in regime. Viceversa, la
vicinanza determinò l'evoluzione del partito socialista in un
partito elettorale di massa, che si definì nella mobilitazione e
nell'inquadramento di vasti strati popolari ai margini o al di fuori
della cittadinanza politica tradizionale, assumendo da allora un
ruolo importante nell'evoluzione dei sistemi
democratico-rappresentativi e in ogni caso svolgendo un'accentuata
funzione di socializzazione politica nella propaganda di nuovi fini
collettivi. A tale scopo il partito si indirizzò all'interno verso
la creazione di un vasto apparato - in buona parte finanziato dalle
quote sociali e articolato in sezioni particolari nonché in comitati
o uffici a struttura gerarchico-piramidale - e all'esterno verso
l'interrelazione con istituzioni o associazioni di sostegno e
collaterali.
Nella tipologia del 'grande partito', classista ma aperto alla
confluenza di ceti piccolo- e medio-borghesi, che rimase la più
emblematica del socialismo europeo, alla proiezione elettorale si
sovrapposero l'attitudine educativa, che esaltava la funzione
importante della dottrina nel radicamento dell'obbligazione
politica, ma anche l'attività di sostegno a strutture di solidarietà
e a organismi vari di partecipazione. Come luogo dell'aggregazione e
della mediazione di nuovi interessi sociali, o della canalizzazione
delle tensioni e dunque dell'istituzionalizzazione della 'nuova'
conflittualità, esso finì per ricoprire un ruolo essenziale ai fini
della stabilizzazione/destabilizzazione del sistema
politico-istituzionale, delineando nel complesso, ma non in modo
lineare e senza soluzioni di continuità, un'evoluzione da
'associazione' e 'movimento' a 'istituzione', da 'forma' esterna ed
extraparlamentare a funzione centrale del sistema politico
rappresentativo di massa, da istituto a fondamento classista a
partito dello sviluppo sociale. Infine, facendo riferimento
specifico alla fase di insediamento, decisiva per il codice genetico
di un partito, occorre sottolineare che il partito 'secondo
internazionalista' rappresentò il superamento definitivo del
settarismo cospirativo e del corporativismo e del regionalismo
'primo internazionalista' assumendo, nella separazione dagli
anarchici e poi dai sindacalisti rivoluzionari, il metodo
democratico come mezzo per la piena espressione del movimento
operaio, e ne collocò la prospettiva in una dimensione politica
nazionale, portando con ciò la lotta a ridosso dello Stato per la
conquista e la gestione del potere. Inoltre, identificando nella
classe operaia la protagonista consapevole della propria
emancipazione, autonoma e distinta dalle altre forze politiche, il
partito socialista postulava anche un collegamento - e in taluni
casi una vera e propria divisione dei compiti - con il sindacato,
centro di organizzazione dei lavoratori intorno alla difesa di
interessi corporativi.
La Seconda Internazionale nacque appunto con questa duplice anima:
politica (e democratica) e corporativo-operaia. E tale duplice
registro fu adottato da tutti i partiti operai o socialdemocratici
che si costituirono nel giro di una quindicina d'anni, adattandosi
alle tradizioni e agli ambienti, con il criterio dell'adesione ora
collettiva, ora individuale. Nei partiti della Seconda
Internazionale fu rituale la professione di marxismo in vista della
socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, ma furono
ugualmente importanti la pratica riformista e la partecipazione alla
lotta parlamentare e al governo delle amministrazioni locali, tanto
che i consensi elettorali furono presi a misura del successo
politico. Dopo la fine delle ipotesi catastrofiche di fine secolo e
i successi elettorali e sindacali dovuti a una congiuntura
favorevole, l'alba del nuovo secolo sembrò quella dell''epoca
socialdemocratica'. Sulla spinta dell'industrializzazione e dei
progressi scientifici, dell'urbanesimo e della diffusione
dell'istruzione, il vecchio mondo aristocratico e individualista
parve destinato a crollare di fronte ai crescenti successi del
socialismo il cui edificio, come si teorizzò al congresso
dell'Internazionale a Stoccarda nel 1907, poggiava saldamente su tre
pilastri: il partito, il sindacato e il movimento associativo e
cooperativo.Il primo partito nazionale fu fondato in Germania, dove
il mondo del lavoro si andò organizzando intorno all'Arbeitsverein
con obiettivi tradeunionistici e culturali.
Proprio rivendicando l'autonomia dei lavoratori dalle formazioni
politiche borghesi, nel presupposto che a essi spettasse il
rinnovamento etico e sociale di uno Stato hegelianamente inteso come
pernio della vita pubblica, fu creato nel 1863 a Lipsia da Ferdinand
Lassalle (1825-1864) l'Allgemeiner Deutscher Arbeiterverein (ADAV).
Lassalle considerò la borghesia un'unica massa reazionaria e,
richiamandosi alla 'legge ferrea dei salari', giudicò inutili gli
scioperi per proporre piuttosto la creazione di cooperative di
produzione che competessero efficacemente sul mercato con le imprese
capitalistiche, così da assicurare in modo pacifico e legale il
passaggio a un nuovo ordine sociale conforme a giustizia, con la
garanzia di uno Stato conquistato politicamente con il suffragio
universale e diretto. Grande comunicatore, egli diventò assai
popolare tra i lavoratori tedeschi, con forme di culto personale,
finché non venne ucciso in duello nel gennaio 1864. Gli succedette
alla presidenza del partito l'avvocato Johann Baptist von
Schweitzer, direttore di "Der Sozial-Demokrat", il quale pur nella
confermata fedeltà allo Stato prussiano fu più sensibile all'azione
sindacale. In contrapposizione ai lassalliani nel 1869 fu fondata a
Eisenach la Sozialdemokratische Arbeiter Partei (SDAP), che si
richiamò all'Internazionale affermando la simultaneità dell'azione
politica con quella sindacale. Ne furono promotori il tornitore
autodidatta August Bebel (1840-1913), futuro autore del celebre Die
Frau und der Sozialismus (1883), che ebbe una cinquantina di
edizioni, e il pubblicista emigrato Wilhelm Liebknecht (1826-1900),
i quali dalle iniziali posizioni antiprussiane per la creazione
della 'grande' Germania democratica in alleanza con le forze
borghesi, si erano gradualmente avvicinati a Marx, anche per la
frequentazione delle sezioni tedesche dell'Internazionale fondate da
Philipp Becker. Nel 1875 i due partiti si fusero al congresso di
Gotha, con un programma che fu criticato da Marx per le concessioni
fatte ai lassalliani sui concetti della 'fratellanza dei popoli',
della 'legge ferrea' dei salari, della borghesia come unica massa
reazionaria, della cooperazione di produzione.
Le critiche di Marx non ebbero influenza pratica (l'ebbero semmai
nello sviluppo successivo del pensiero leninista). L'organizzazione
del partito, finalmente democratico e sociale, ne uscì consolidata,
tanto che nelle elezioni del 1877 conseguì il 9% dei voti, mentre le
iniziative a favore della cultura operaia e la stessa unità
sindacale risultarono fortemente stimolate. Dal 1878 il partito subì
la legislazione antisocialista voluta da Bismarck, che ne proibì
giornali, sedi, congressi, ma ne ammise la partecipazione alle
elezioni, cosicché rimase in piedi una struttura per fiduciari. In
ogni caso restò più che mai attivo il movimento sindacale:
l'imponente sciopero dei minatori da esso organizzato nel 1889
contribuì a far abrogare la legislazione di emergenza (1890). Alle
successive elezioni i socialdemocratici ottennero un milione e
quattrocentomila voti (oltre il 20%) acquistando un'autorità
indiscussa in tutto il movimento socialista internazionale. Grande
influenza ebbe anche la rivista teorica "Neue Zeit" diretta dal 1883
al 1917 da Karl Kautsky (1854-1938), al quale fu attribuito, con la
paternità delle categorie 'marxisti' e 'marxismo', un ruolo
fondamentale nell'assunzione del pensiero di Marx a 'dottrina
ufficiale del partito', anche e soprattutto ai fini della egemonia
politica e ideologica nelle lotte interne.
Il concetto stesso di 'socialdemocrazia', nato nel senso della
tradizione del 1848, acquisì definitivamente la duplice valenza
classista e 'democratico-sociale', cioè di 'completo dominio del
popolo', contro lo sfruttamento e contro il privilegio, per
l'eguaglianza e per la libertà. Il programma del partito approvato
al congresso di Erfurt del 1891, preparato da Kautsky con il
consenso di Engels, indicò gli obiettivi della socializzazione dei
mezzi di produzione e di scambio, dell'utilizzazione di ogni
strumento di lotta legale e in particolare di quella parlamentare
per l'emancipazione dei lavoratori, del sostegno alla lotta di
resistenza sindacale. Ne uscì delineato così un partito di classe e
di massa. Il programma di Erfurt diventò un punto di riferimento
essenziale per tutti i partiti della Seconda Internazionale, di cui
la socialdemocrazia tedesca fu l'asse portante: come disse Engels,
essa "appariva come la massa più numerosa, più compatta, la forza
d'urto decisiva dell'esercito proletario internazionale". In
effetti, nel 1912-1913 il sindacato, diretto da Karl Legien, vantò
due milioni e mezzo di iscritti; nelle elezioni del Reichstag del
1912 la SPD ottenne oltre quattro milioni di voti (34,8% del totale)
e 110 seggi; i membri del partito, fondato sulle sezioni
territoriali e finanziato dalle quote individuali, raggiunsero un
milione.
Ma nel sistema politico-istituzionale imperiale tale forza restò
politicamente 'isolata' o 'separata', cosicché, al fine di superare
tale isolamento in connessione al tramonto delle ipotesi
catastrofiche, già a cavallo del secolo non mancarono posizioni
volte alla 'revisione' del programma, che mettevano in discussione
alcuni punti centrali del pensiero di Marx, in particolare sulla
proletarizzazione dei ceti medi e sulla concentrazione progressiva
delle ricchezze, sullo Stato come strumento operativo nelle mani
delle classi dirigenti e sulla dittatura del proletariato. Se ne
fecero interpreti Georg von Vollmar (1850-1922), favorevole al
'riformismo di Stato' e alla piccola proprietà contadina, e
soprattutto Eduard Bernstein (1850-1932), nutrito di filosofia
neokantiana e vicino alla scuola economica marginalista, che in Die
Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der
Sozialdemokratie (1899) propose di trasformare la SPD in un "partito
di riforme socialiste e democratiche" in quanto "erede del
liberalismo per il suo contenuto spirituale", confutando la tesi
della proletarizzazione dei ceti medi e della dittatura del
proletariato ("il movimento è tutto"). Difesero l'ortodossia
marxista Bebel e Kautsky, autore di Die Agrarfrage (1899), Bernstein
und sozialistische Programm (1899), Die soziale Revolution (1902) e
Der Weg zur Macht (1909).
Negli anni successivi, dopo la prima Rivoluzione russa del 1905 e
soprattutto dal 1910, emersero critiche alla 'ortodossia di centro'
anche da sinistra, in particolare da Herman Goster, Anton Pannekoek,
Alexander L. Helfand detto Parvus, e soprattutto da Rosa Luxemburg
(1870-1919) secondo la quale, nell'ipotesi di una crisi
rivoluzionaria determinata dalle presunte contraddizioni dell'età
dell'imperialismo, occorreva piuttosto educare la classe operaia
perché si rendesse spontaneamente protagonista della rivoluzione di
massa, evitando così anche il pericolo dell'autoritarismo presente
sia nel partito burocratico che nelle leaderships professionali
(come quelle, rivoluzionarie, teorizzate da Lenin nel Che fare? del
1902). La SPD respinse ufficialmente il revisionismo al congresso di
Dresda del 1903, ma la prassi sindacale e di tipo parlamentare portò
ugualmente a una crescente integrazione politica e sociale, sancita
dal voto favorevole ai crediti di guerra nell'agosto 1914. Per
taluni però fu un'integrazione 'in negativo' perché, al di là dei
miglioramenti materiali per i lavoratori, non fu tale da superare le
condizioni politiche discriminatorie messe in atto dalle forze
conservatrici dell'Impero, cosicché la socialdemocrazia avrebbe
cercato e coltivato la sopravvivenza come 'corpo separato' o 'Stato
nello Stato', nel culto dell'organizzazione e nella vigilanza
sull'ortodossia dottrinaria. In ogni caso nell'evoluzione da partito
'della rivoluzione' a partito dello sviluppo e 'nazionale', la SPD
riuscì a legarsi stabilmente alla classe operaia e a radicare nella
società l'immagine di una forza di progresso.
Sul modello tedesco di partito socialdemocratico di massa si
riorganizzò la socialdemocrazia austriaca, al congresso di Hainfeld
del 1889, sotto la guida di Victor Adler (1852-1918). Saldamente
insediata nelle aree industriali, essa fu protagonista di lotte
democratiche di massa, come quella del 1905 per il suffragio
universale, ottenuto infine nel 1907, e assunse posizioni di grande
originalità sul problema nazionale, fin dal congresso di Brünn del
1899, quando fu posto l'obiettivo della trasformazione dell'Austria
in "Stato democratico federale delle nazionalità", con ampi
riconoscimenti all'autonomia personale e culturale, su cui scrissero
Karl Renner (1870-1950) in Der Kampf der oesterreichischen Nationen
um der Staat (1902) e Otto Bauer (1882-1938) in Die
Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie (1907).
La questione nazionale e con essa quella della democratizzazione
dello Stato furono al centro anche della storia del socialismo
belga, diviso in fiammingo e vallone. Nel 1884 fu fondato il Parti
Ouvrier Belge (POB), in cui confluivano circoli, sindacati e
cooperative. L'obiettivo politico più rilevante fu la conquista del
suffragio universale, per il quale il partito promosse grandi
scioperi nel 1886 e nel 1892. Con l'allargamento del suffragio il
POB ottenne, nel 1894, 27 deputati, tra i quali Édouard Anseele, in
rappresentanza dell'area socialista fiamminga che ruotava intorno al
Vooruit di Gand (cooperativa di consumo), ed Émile Vandervelde
(1866-1938), prolifico divulgatore del socialismo positivista.
In Francia il movimento socialista si riprese molto tardi dalla
sconfitta della Comune, senza più recuperare tuttavia il ruolo
propulsivo dei decenni precedenti. Comunque esso costituì pur sempre
un terreno di incubazione politica di notevole interesse,
sollecitato dal tradizionale rapporto con la Repubblica ad
affrontare la questione decisiva delle alleanze con le forze
politiche 'affini', nonché per l'attenzione da sempre rivolta al
fattore culturale ed educativo nei processi di trasformazione della
società di massa. Non ultimo, la Francia fu negli anni ottanta,
insieme al Belgio, l'area di diffusione dell''operaismo': per la
prima ne furono simboli la bourse du travail e il sindacato di
mestiere, per l'altro la maison du peuple e la cooperativa di
consumo. Nel 1883 fu costituito da Paul Lafargue (1842-1911) e da
Jules Guesde (1845-1922) il Parti ouvrier con un'organizzazione
centralizzata, largamente ispirata al marxismo. I 'possibilisti' di
Paul Brousse gli contrapposero un partito fondato su strutture
locali e con l'obiettivo della trasformazione graduale dello Stato
in senso decentrato, in alleanza con la borghesia liberale. Proprio
i due gruppi, in concorrenza, assunsero l'iniziativa della
costituzione della Seconda Internazionale a Parigi nel 1889. Ma la
'litigiosità' interna continuò a indebolire fortemente il movimento
politico nei confronti di quello sindacale, che viceversa andò
rafforzandosi fino alla fondazione della Confédération Générale du
Travail a Limoges nel 1895. Nel movimento sindacale si affermò una
corrente maggioritaria favorevole all'action directe, influenzata da
Fernand Pelloutier e poi da Hubert Lagardelle e da Georges Sorel
(1847-1922), autore di L'avenir socialiste des syndicats (1898) e
Réflexions sur la violence (1908).
Il sindacalismo rivoluzionario e l'anarco-sindacalismo, che si
diffusero nei paesi dell'Europa meridionale, si contrapposero al
cosiddetto marxismo della Seconda Internazionale (partito di tipo
socialdemocratico e lotta politico-parlamentare; centralizzazione
dell'organizzazione sindacale e legislazione sociale), privilegiando
lo sciopero come strumento di educazione della coscienza di classe e
riservando allo sciopero generale la funzione di emancipare la
classe operaia fino all'atto decisivo dell'espropriazione, così da
consentire ai lavoratori (i 'produttori') di pervenire alla gestione
delle imprese. La crisi boulangista e l'affaire Dreyfus fecero
precipitare i contrasti fra i gruppi socialisti in tema di alleanze
con i repubblicani e i radicali. Quando, nel giugno 1899, il
socialista Alexandre Millerand entrò nel gabinetto borghese di
Waldeck-Rousseau per difendere le istituzioni repubblicane da un
possibile colpo di Stato della destra e per introdurre la scuola
laica di Stato, si creò una divaricazione tra i 'guesdisti',
contrari a ogni collaborazione con la borghesia, e gli
'indipendenti' di Jean Jaurès (1859-1914), al riguardo più
possibilisti, divaricazione che rimase incolmabile fino al 1905,
quando per i buoni uffici dell'Internazionale le diverse componenti
si unificarono nella Section Française de l'Internationale Ouvrière
(SFIO).Il problema sollevato dal caso Millerand, relativo
all'appoggio (ministerialismo) o addirittura alla partecipazione
(ministeriabilismo) dei socialisti a governi a maggioranza borghese,
interessò tutti i partiti aderenti all'Internazionale, con modalità
diverse dettate nei vari paesi dalle effettive prospettive di
trasformazione delle società borghesi liberali in società
democratico-parlamentari. Proprio sul sostegno o meno alla 'svolta
liberale' inaugurata da Giovanni Giolitti agli inizi del secolo, si
verificò in Italia la prima irriducibile frattura nel Partito
Socialista che, sotto la guida di Filippo Turati (1857-1932),
direttore della "Critica sociale" dal 1891, era stato fondato a
Genova nel 1892, con un programma ispirato a quello di Erfurt.
Il contrasto, che si mantenne sotto diverse vesti fino all'avvento
del fascismo, si verificò tra la componente gradualista e riformista
di Turati, Claudio Treves, Leonida Bissolati e poi dei dirigenti
della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), costituita nel
1906, e quella intransigente e rivoluzionaria di Arturo Labriola e
di Enrico Ferri, dalla quale poi si scissero i sindacalisti
rivoluzionari di Alceste De Ambris. Rispetto al socialismo delle
aree industrializzate e a tradizione liberale e a quello tipico
delle aree rurali e a regime autocratico, il socialismo italiano si
collocò in una posizione mediana, con larga approssimazione più
vicino a quello francese dopo la Comune o a quello spagnolo per il
ruolo sociale della Chiesa e l'anticlericalismo, la frequente
difformità di indirizzo tra sindacato e partito, il protagonismo
delle campagne e gli squilibri regionali, la permanenza di una vasta
area sovversiva (in Spagna gli anarchici ebbero basi di massa
nonostante l'opposizione del Partito Socialista Obrero Español,
PSOE, fondato nel 1888 da Pablo Iglesias).Nell'Europa centrorientale
e meridionale, dove i processi di integrazione politica furono
ancora più lenti, la penetrazione socialista divenne significativa
solo alla fine del XIX secolo, con un primo insediamento nei centri
urbani lungo i canali dell'emigrazione. Tipica figura di profugo
socialista fu il bulgaro Christian G. Rakovskij, che in Svizzera fu
in contatto con Plechanov e in Germania con Liebknecht, e che al
congresso dell'Internazionale di Amsterdam del 1904 rappresentò la
Serbia e in quello di Stoccarda del 1907 la Romania. In Bulgaria fu
costituito nel 1891 un partito nazionale, poi Partito
socialdemocratico bulgaro del lavoro (BRSPD), dal 1903 diviso tra i
'larghi', favorevoli alla collaborazione con la borghesia, e gli
'stretti', ad essa contrari. In Serbia il partito fu costituito nel
1903. In Polonia il Polska Parti Socjalistyczna, fondato da Jósef
Pilsudski nel 1892, tenne il primo congresso a Varsavia nel 1894:
pur nella professione di internazionalismo, perseguì la
realizzazione di uno Stato indipendente e democratico.
Le associazioni operaie di lingua jiddish si organizzarono invece
nel 1887 in un Bund come parte del movimento socialista russo.Anche
in Russia il socialismo restò a lungo diffuso nella cerchia di una
piccola intelligencija, una minoranza rivoluzionaria ed elitaria che
si opponeva all'aristocrazia e alla Chiesa ortodossa. Dall'estero
Aleksandr Herzen indicò una strada al socialismo che, partendo dall'
esperienza del mir, consentisse di superare o di evitare lo stadio
capitalistico. Pëtr Lavrov, fondatore a Parigi di "Vpered", la
rivista teorica del populismo, predicò la necessità di 'andare al
popolo', cioè alle masse contadine, e assegnò un ruolo determinante
all'intellettuale rivoluzionario. Un tema che fu ripreso, in una
prospettiva insurrezionale e addirittura terroristica, da Bakunin,
da Sergej G. Nečaev, da Pëtr N. Tkǎcev, e poi, nella prospettiva
bolscevica, anche da Lenin. Erede del populismo fu il Partito
socialista rivoluzionario costituito nel 1901. La diffusione del
marxismo in Russia conobbe il filtro non solo del pensiero
populista, ma anche del Gruppo di liberazione del lavoro, fondato a
Ginevra nel 1883 da Georgij Plechanov (1857-1918), Pavel Aksel'rod e
Vera Zasulič, che furono in contatto con Marx ed Engels e con gli
esponenti socialdemocratici tedeschi, anch'essi allora in esilio in
Svizzera. Dall'incontro tra gruppi di emigrati e settori della
classe operaia di Mosca e di San Pietroburgo, di Kiev e di Odessa,
nacque a Minsk nel 1898 il Partito operaio socialdemocratico russo,
con un programma che recuperò la tradizione populista
rivoluzionaria, respingendone però i metodi terroristici, e attribuì
al proletariato industriale il compito della rivoluzione. Nel 1903
il partito si divise tra menscevichi (minoritari) e bolscevichi
(maggioritari).
I primi, con Plechanov e J. Cederbaum detto Martov (1873-1923), si
professarono marxisti 'occidentalisti', cioè convinti che allo
zarismo sarebbe dovuto succedere un regime democratico-borghese
prima di giungere al socialismo; i secondi, con Lenin, sostennero la
tesi del passaggio immediato dalla rivoluzione democratica alla
dittatura del proletariato e dettero vita a un partito di
rivoluzionari di professione.Nelle aree più sviluppate o prive delle
fratture sociali e politiche tipiche dell'Europa centrorientale e
meridionale, la penetrazione del marxismo fu assai più stentata o
praticamente assente. In Inghilterra, per esempio, dopo il crollo
del cartismo l'attività politico-partitica rimase a lungo modesta,
specialmente se confrontata con i vistosi successi della
cooperazione e del sindacato, che nel 1868 fondò il Trades Union
Congress (TUC) e, dopo lo sciopero del 1889, ricevette ulteriore
impulso dal 'nuovo unionismo', cioè dall'organizzazione di nuove
fasce di lavoratori dei trasporti, del carbone e dell'industria,
semispecializzati e manovali (un milione e seicentomila iscritti nel
1892, che avrebbero raggiunto i quattro milioni e mezzo nel 1914).
Il movimento operaio inglese cercò piuttosto l'alleanza con i
radicali e soprattutto con i liberali, per l'allargamento dei
diritti politici e per una più incisiva legislazione sociale e di
tutela del lavoro, dando vita a quella tattica lib-lab
(liberal-labour) contro la quale con scarso successo si opposero la
Social Democratic Federation, fondata da H. Mayers Hyndman nel 1881,
e la Socialist League, promossa nel 1884 da William Morris
(1834-1896), di ispirazione marxista. Influenza notevole ebbe invece
il gruppo di pressione, costituito tra gli altri da Sidney Webb e
Beatrice Potter, George Bernard Shaw, George Wells, raccolto nella
Fabian Society (1884), che intese promuovere un socialismo
pragmatico e gradualista, come attestava la scelta della
denominazione stessa con il riferimento al generale romano Fabio
Massimo il Temporeggiatore.
Il volume Fabian essays in socialism, del 1889, circolò in due
milioni di copie, preparando il terreno culturale per i partiti non
marxisti come l'Independent Labour Party di Keir Hardie (1856-1915),
fondato nel 1893, e poi, nel 1890, per il Labour Representation
Committee, da cui ebbe origine nel 1906 il Labour Party, che già
nelle prime elezioni ottenne 26 seggi parlamentari. Esso costituì il
modello del partito a struttura indiretta, basata cioè sull'adesione
di gruppo, poi modificata dal riconoscimento di una quota politica
individuale facoltativa per gli aderenti alle Trade Unions (Trade
Unions act, 1913) e in seguito, nel 1918, dall'esplicita ammissione
dell'iscrizione individuale.Nei Paesi Scandinavi le origini del
movimento socialista si legarono ai rapporti che emigranti, studenti
e pubblicisti, come August Palm o Holtermann Knudsen, stabilirono
con la socialdemocrazia tedesca. Il movimento socialista ebbe una
iniziale diffusione nei centri urbani, innestandosi sulla tradizione
corporativa artigiana, ma ben presto allargò il consenso popolare
agitando i grandi temi politico-istituzionali: le riforme elettorali
in Svezia, la riforma costituzionale in Danimarca (1916), la
questione dell'indipendenza della Norvegia nel 1905. Nel complesso,
però, il movimento sindacale (e anche cooperativo) mantenne una
posizione predominante.
Ciò fu particolarmente evidente in Svezia dove il partito, fondato
nel 1889 da Hjalmar Brainting (1860-1925), condivise a lungo con il
sindacato le strutture di base, ma anche gli obiettivi politici di
fondo: furono le Lands Organizationen a indire lo sciopero generale
per il suffragio universale nel 1902, e fu il partito, con i suoi 35
deputati nel 1905 e 73 nel 1914, a far approvare dal Parlamento le
assicurazioni contro la vecchiaia, le malattie e la disoccupazione,
facendo leva sulla recuperata capacità di mobilitazione sindacale
dopo il grave insuccesso dello sciopero generale dell'estate 1909
indetto in risposta a una serrata padronale. Il Partito
socialdemocratico o laburista diventò il più importante in Finlandia
fin dal 1907, in Svezia dal 1914, in Danimarca dal 1924 e in
Norvegia dal 1927. In Inghilterra e in quasi tutti i Paesi
Scandinavi i laburisti e i socialisti si fecero dunque sostenitori
di un'evoluzione in senso sociale del sistema liberaldemocratico,
del resto assai più avanzato che altrove, presupponendo che lo
Stato, permeato con un'azione graduale e dal basso, o sottoposto a
un'efficace pressione da parte delle organizzazioni dei lavoratori,
potesse assumere un ruolo 'amico' fondamentale. Nella gerarchia che
si stabilì allora in Europa tra sindacato e partito fu il primo a
precedere il secondo e a determinarne la natura organizzativa.Fuori
dal Vecchio Continente, con la parziale eccezione di alcuni
dominions inglesi, il socialismo stentò a penetrare, per lo più
tramite l'emigrazione europea, e ancor più a radicarsi, anche
limitatamente ai centri urbani e alle aree minerarie (come in Cile).
In Giappone, nella seconda parte dell'era Meiji, si costituirono
gruppi e partiti ('socialisti orientali', 'conducenti di ricsciò',
'amici del popolo', 'semplici', 'per lo studio del socialismo'),
dalla vita breve e stentata, anche per le continue persecuzioni,
dediti prevalentemente all'istruzione e alla propaganda attraverso
la stampa. Tuttavia la partecipazione del tipografo Sen Katayama al
congresso dell'Internazionale di Amsterdam del 1904 e ancor più la
condanna della guerra russo-giapponese da lui espressa insieme al
russo Plechanov, conferirono al movimento notorietà internazionale.
Dall'America Latina ebbero una rappresentanza nei lavori
dell'Internazionale solo l'Uruguay e l'Argentina, dove nel 1894 era
stato costituito un Partito socialista da Alfredo Palacios e da Juan
Baudista Justo. Il caso più significativo era comunque rappresentato
dagli Stati Uniti, che si apprestavano a diventare la massima
potenza industriale e 'la terra promessa del capitalismo', senza
avere neppure i pesanti condizionamenti dei vecchi regimi di cui
soffriva la società europea, e dunque erano apparentemente i
destinatari dei più ambiziosi progetti sociali, come del resto
avevano inteso i primi profughi socialisti seguaci di Fourier, Owen,
Cabet e poi di Lassalle e Marx. Ma non si può certo dire che i
risultati fossero pari alle attese, nonostante gli iniziali modesti
successi conseguiti con la costituzione di un Socialist Labor Party
nel 1877, che negli anni novanta trovò nuovo slancio sotto la guida
di Daniel De Leon (1852-1914); poi di una Social Democracy, nel
1897; e infine di un Socialist Party of America nel 1901.
Né risultò decisivo ai fini dell'insediamento il fiancheggiamento di
organizzazioni sindacali come il Noble Order of Knights of Labor
negli anni settanta e ottanta, o le Trades and Labor negli anni
novanta - dopo il vano tentativo di penetrazione nella più potente
American Federation of Labor di Samuel Gompers - o gli Industrial
Workers of the World; e neppure lo straordinario successo di opere
come Progress and poverty (1879) del radicale Henry George e di
Looking backward (1888) di Edward Bellamy o l'attrazione esercitata
su scrittori come Jack London e Upton Sinclair. Nel momento della
massima espansione, il 1912-1913, il Socialist Party of America
vantava meno di 120.000 iscritti e il suo candidato alle elezioni
presidenziali, Eugene Debbs, ottenne il 6% dei consensi. Il
'fallimento' del socialismo negli Stati Uniti fu attribuito a
molteplici fattori: il sistema politico istituzionale presidenziale
bipartitico imperniato sulle primarie e sulla rilevanza della
'macchina elettorale'; l'influenza dei democratici dopo l'elezione
alla presidenza di Thomas Woodrow Wilson (come più tardi negli anni
trenta di Franklin Delano Roosevelt); l'isolamento del movimento,
chiuso nell'ambiente dell'emigrazione; le caratteristiche della
classe operaia formatasi per stratificazioni successive e divisa per
segmenti, e dunque non omogenea; e soprattutto la grande mobilità
della società americana che avrebbe impedito la stratificazione
delle classi.
Tale insuccesso fu considerato la riprova della superiorità del
capitalismo sul socialismo e ancor più dei limiti del marxismo,
specialmente nelle società complesse e aperte. Per contro, l'accento
posto sulla vocazione imperialistica degli Stati Uniti come valvola
di sfogo della conflittualità interna, e, quindi, come decisivo
fattore di contenimento dell'area di diffusione del socialismo, non
sembrò avere uguale rilievo.Nell'età della Seconda Internazionale il
socialismo aveva acquisito le caratteristiche di movimento di massa:
nel 1912 i partiti aderenti vantavano 3,4 milioni di iscritti
(contro i 7,3 milioni di soci delle cooperative e i 10,8 milioni di
sindacalizzati) e circa 12 milioni di elettori, e disponevano di una
rete di 200 grandi quotidiani. Era tuttavia un movimento che
sembrava presupporre uno sviluppo lineare della società e la pace
internazionale. La guerra mondiale ne segnò il collasso,
dimostrandone l'incongruità rispetto al compito che esso si era dato
di difendere la pace in nome della solidarietà di classe, ma al
tempo stesso ne accelerò l'integrazione politica. Nel 1914, con
pochi dissensi tra i quali quello del Partito Socialista Italiano, i
socialisti tedeschi, austriaci e francesi votarono i crediti di
guerra, con la motivazione di dover difendere il principio di
nazionalità e di voler abbattere gli uni l'autocrazia zarista, gli
altri l'imperialismo e il militarismo tedesco.Tra le due guerre
l'area della democrazia e del socialismo arretrò di fronte
all'espansione del fascismo e delle politiche autoritarie in Italia,
Germania, Austria e Spagna, nonché in Portogallo, Ungheria e
Romania.
In tali paesi socialismo e democrazia condivisero una identica
sorte, si compenetrarono ulteriormente, e tale identificazione
costituì un'eredità importante per le leaderships costrette
all'emigrazione e per le generazioni successive. Ma il socialismo
subì anche la sfida del comunismo, dopo la rivoluzione bolscevica
del 1917 e la creazione il 2 marzo 1919 della Terza Internazionale,
la quale nel giugno 1920 varò ventuno punti per l'ammissione, tra i
quali il più qualificante fu la creazione di un partito accentrato e
disciplinato che combattesse in via prioritaria le vecchie
leaderships socialiste per affermare la sua superiore autorità. I
comunisti diventarono così i nemici implacabili dei regimi
democratici e dei partiti socialisti, dando vita a propri partiti
(in Italia nel gennaio 1921), fino ad accusare gli ex compagni di
'socialfascismo', cioè di essere la componente più moderata e più
'opportunista' della controrivoluzione. Queste polemiche, ancora
persistenti negli anni dell'ascesa al potere del nazismo, furono
superate solo con la politica dei fronti popolari dopo il 1935. Al
Komintern si oppose l'Internationale Ouvrière et Socialiste,
ricostituita a Berna nel 1919 e poi ufficialmente ad Amburgo nel
1923 (IOS), sulla base della conferma della via democratica e
parlamentare al socialismo nei paesi a sviluppo capitalistico, e
dunque della denuncia del totalitarismo bolscevico. Il tentativo dei
socialdemocratici austriaci di unificare socialisti e comunisti con
l'Internazionale due e mezzo fallì quasi subito e i più confluirono
nell'IOS, di cui ricoprì la carica di segretario fino al 1939
Friedrich Adler (1879-1960).
Rimase comunque viva un'area centrista, che, pur respingendo il
metodo bolscevico per i paesi avanzati, ne ammise tuttavia la
possibilità in quelli sottosviluppati o autocratici, come era stata
la Russia zarista, o nell'ipotesi della difesa da attacchi interni
ed esterni. In seguito 'i centristi', come del resto non pochi
intellettuali di sinistra, furono pronti a concedere al regime
sovietico almeno il beneficio d'inventario per l'avvio di una
direzione pianificata dell'economia e per i progressi conseguiti
tanto nella politica di industrializzazione quanto nello sviluppo
dell'istruzione e dei servizi sociali (cfr. Sidney e Beatrice Webb,
Soviet communism: a new civilization?, London 1935).Nonostante
l'arretramento, è stata collocata nel periodo tra le due guerre la
definitiva sedimentazione ('cristallizzazione') socialdemocratica.
Nel 1931 i partiti aderenti alla IOS vantavano oltre 6 milioni di
iscritti, 26 milioni di elettori, più di 1.300 deputati, e una rete
di oltre 360 organi di stampa.
Anche nei paesi che sarebbero stati poi investiti dalla reazione
fascista o autoritaria, l'area del precedente consenso elettorale
socialista acquisito nel primo dopoguerra risultò in qualche modo
consolidata, destinata cioè a confermarsi nelle prime elezioni
'libere' dopo il 1945. Altra questione è quella dell'uso del
potenziale socialdemocratico. Per molti esso non fu pari
all'obiettivo di difendere la democrazia là dove era minacciata (o
per contro di indirizzare in senso sovietico le presunte
potenzialità rivoluzionarie dell'immediato dopoguerra), e tantomeno
di affrontare con una cultura economica di lungo periodo la crisi
del 1923-1924 e soprattutto del 1929, nel perdurante pregiudizio che
fosse impossibile riformare la società capitalistica. In realtà non
mancò allora la ricerca di strade nuove: con i socialdemocratici
Richard von Moellendorf, Rudolf Wissel e Otto Neurath, questi ultimi
anche in relazione al disegno dello Stato 'organico' di Walther
Rathenau, nonché con Georges Douglas H. Cole e Rudolf Hilferding, si
mirava alla parziale socializzazione delle imprese, nell'ambito di
un'economia 'governata' ma rispettosa di ampi spazi di autogestione;
Louis De Brouckère teorizzava la "democrazia industriale" e il
"controllo operaio" (Le contrôle ouvrier), mentre i guild socialists
inglesi affermavano la primogenitura dell'economia e della società
sulla politica nell'ambito di una concezione pluralistica dei
rapporti sociali. Albert Thomas rilanciò in Francia la tesi della
'presenza nella nazione' in relazione allo sviluppo della
produttività, e il belga Henri de Man (1885-1953), che era stato
critico severo del marxismo in nome di un socialismo nazionale,
etico-volontaristico e socio-psicologico in Au-delà du marxisme,
1927, teorizzò in Le socialisme constructif, 1933, un'economia mista
sottoposta a un "piano del lavoro" nazionale, che fece adottare al
POB alla vigilia della guerra. L'influenza del 'planismo' di de Man
fu grande in Olanda e in Svizzera, e in taluni ambienti del
socialismo inglese e francese favorevoli alla "économie dirigée" e
alla "évolution constructive" ("néosocialisme").
Al di là dei risultati immediati, per la verità modesti, la pratica
di economia mista o diretta maturata tra le due guerre era destinata
a incidere nel lungo periodo, entrando a far parte del codice
genetico del socialismo occidentale, di volta in volta come risposta
alle crisi cicliche o meno, come correttivo degli 'eccessi' della
libera concorrenza, come volano rispetto agli squilibri del mercato,
addirittura come sinonimo di servizio pubblico impiegato per
combattere le ineguaglianze e per consolidare la coesione
nazionale.Il punto centrale fu che in molti paesi i
socialdemocratici andarono allora al governo, per lo più di
coalizione, e indipendentemente dai risultati conseguiti
perfezionarono il processo di integrazione politica e sociale
avviato alla fine del secolo precedente. In tale situazione quasi
tutti promossero la revisione dei programmi originari (un'esperienza
che invece mancò al socialismo italiano, prematuramente disperso dal
fascismo e costretto all'esilio). Dopo la proclamazione della
Repubblica in Germania, nel novembre 1918, furono eletti presidente
e cancelliere in un governo di coalizione i leaders della SPD,
Friedrich Ebert (1871-1925) e Philipp Scheidemann (1865-1939), forti
del 38% dei voti conseguiti nelle elezioni dell'Assemblea
costituente il 19 gennaio 1919, nonostante l'opposizione mossa dai
'socialisti indipendenti', costituitisi nel 1917, e dalla Lega
spartachista, la cui rivolta fu repressa nel sangue.
Esclusa dal governo del Reich dal 1923 al 1928, la SPD restò al
governo in coalizione nella Prussia, nel Baden, nell'Assia e in
Amburgo con buoni risultati in campo amministrativo, scolastico e
urbanistico (in particolare con Walter Gropius e il Bauhaus di
Weimar), e tornò al cancellierato nel 1928 con Hermann Müller (e
Hilferding, ministro delle Finanze) prima di essere spazzata via dal
nazismo.Anche in Austria i socialdemocratici risultarono il partito
più forte. Presidente della Repubblica, cancelliere e ministro degli
Esteri furono eletti rispettivamente Karl Seitz, Karl Renner e Otto
Bauer. Renner fu anche capo dello Stato nel 1945-1950. Se la SPD
avviò la revisione del programma al congresso di Görlitz (1921)
delineando già allora 'il partito di tutto il popolo', i
socialdemocratici austriaci, fedeli custodi dell'unità del partito,
nel congresso di Linz del 1926 abbandonarono definitivamente la
teoria della dittatura del proletariato per ammettere la violenza a
solo scopo difensivo. Grande autorevolezza, anche all'estero,
acquistò il piccolo gruppo degli 'austromarxisti', già noto per le
precedenti posizioni sulla questione nazionale e ora impegnato, in
particolare con Bauer (Der Weg zum Sozialismus, 1919), a delineare
una rivoluzione politica per via democratica attraverso un processo
lento di socializzazione dei rapporti di produzione. La
socialdemocrazia austriaca ottenne risultati rilevanti con la
legislazione sociale promossa tra il 1918 e il 1920 dal ministro
Ferdinand Hanusch, e soprattutto nell'amministrazione della città di
Vienna, una delle esperienze di governo della città culturalmente e
socialmente più feconde in tutto il Novecento. Nel febbraio 1934,
dopo una repressione sanguinosa a Vienna, il governo reazionario di
Dolfuss distrusse la socialdemocrazia austriaca e con essa il regime
democratico. La lotta al fascismo fu alla base della politica dei
fronti popolari inaugurata dopo il 1935 in quei paesi dove la
presenza comunista era consistente, e in Spagna si realizzò nella
sfortunata difesa della Repubblica.
L'esperienza più significativa si ebbe in Francia quando, nel 1936,
il Front populaire portò al governo una coalizione presieduta dal
socialista Léon Blum (1872-1950), il quale ebbe però vita difficile
tanto che si dimise già nel giugno 1937. La politica del fronte
popolare fu poi messa in crisi dal patto di alleanza tra Hitler e
Stalin nel 1939; fu ripresa solo nella Resistenza e ancora negli
anni 1945-1947 in Italia e in Francia, ma costituì un precedente
importante anche per i progetti di democrazia popolare nell'Europa
orientale (1945-1949).
Nei paesi dell'Europa del nord, i partiti socialisti portarono a
compimento l'integrazione politica e sociale assumendo
responsabilità di governo significative. In Inghilterra il Labour
Party da terzo partito divenne in pochi anni il primo, conquistando
nel 1918 il 24% dei voti validi, e nel 1929 il 37%. Con l'aiuto dei
liberali riuscì a dar vita nel gennaio 1924 al primo governo
presieduto da un laburista, Ramsay Mac Donald (1866-1937), e a un
secondo nel 1929. In entrambi i casi l'esperienza ebbe risultati
molto modesti, ma rivestì un grande valore simbolico anche in
Europa. Il programma del 1918 a favore della generalizzazione del
minimo vitale e della gestione democratica e decentrata delle
industrie nazionalizzate, finanziata con una forte leva fiscale, fu
rivisto nel 1928, dopo l'insuccesso dello sciopero generale per la
nazionalizzazione delle miniere (1926), con una diversa e più
intensa attenzione ai problemi di politica estera e di politica
sociale sotto il titolo significativo: The Labour and the Nation.
Dopo il fallimento dei governi Mac Donald il Labour rimase
all'opposizione per nove anni, ma nel 1940 fu chiamato da Winston
Churchill nel governo di unità nazionale.
All'interno dei dominions britannici, si sviluppò un sistema di
Welfare State in Nuova Zelanda, dove il Labour Party, diretto da
Michael Savage (1872-1940), giunse al governo nel 1935 con il 46%
dei voti e vi restò fino al 1949. Fin dal 1938 esso creò un servizio
sanitario nazionale gratuito con il Social security act. In
Australia, dove era presente un forte movimento sindacale (nel 1914
un iscritto ogni nove abitanti), il Labour Party assunse la
direzione del governo federale nel 1910, ma fu travagliato da
polemiche e divisioni interne; dette poi vita a un nuovo governo
presieduto da J.H. Scullin (1876-1953), nel 1929, nel momento
economico più difficile. Nelle elezioni del 1931 subì una pesante
sconfitta, da cui però si riprese negli anni quaranta. I risultati
più rilevanti e più duraturi verso il Welfare State tuttavia furono
conseguiti in Svezia, dove il leader socialdemocratico Karl H.
Branting prima partecipò al governo nel 1917, poi fu eletto primo
ministro nel 1920-1923 e nel 1924-1925.
Ma la vera svolta avvenne dopo la formazione di un governo in
alleanza con il partito dei contadini, presieduto da Per Albin
Hansson, il quale inaugurò la cosiddetta 'politica del focolare',
che prospettava una società priva di aspri antagonismi di classe,
volta a ricercare la piena occupazione con investimenti pubblici
finanziati da una severa politica fiscale. Nelle elezioni del 1936 i
socialdemocratici ottennero il 46% dei voti. In Danimarca il leader
del Partito socialdemocratico, Thorvald Stauning, fu a capo di un
governo di coalizione nel 1924, poi nel 1929 e ancora nel 1933. In
Norvegia i socialisti formarono governi di coalizione nel 1928 con
Christopher Hornsrud, e nel 1935 con Johann Nygaardsvold.
L'esperienza scandinava parve addirittura definire una propria via
al socialismo la quale, all'interno dell'accettata società
capitalista e dunque intervenendo sui meccanismi di redistribuzione
del reddito piuttosto che su quelli della produzione, in un clima di
solidarietà sociale conciliasse, empiricamente e gradualmente,
libertà, giustizia, sicurezza e stabilità.
4. L'affermazione della socialdemocrazia nel secondo dopoguerra
Il 'socialismo nazionale' nel Terzo Mondo.Durante la guerra contro
il fascismo quasi tutti i partiti socialisti dell'Europa
occidentale, in patria e in esilio, sostennero i governi di unità
nazionale, privilegiando la nazione e la democrazia rispetto alla
classe e all'anticapitalismo. Nei decenni successivi rinunciarono,
dopo che lo avevano già fatto nella pratica, all'idea stessa della
violenza e della rivoluzione per la conquista del potere, e
pervennero definitivamente a un concetto più maturo di socialismo,
inteso come un ideale sociale ed economico inseparabile dal metodo
democratico assunto come mezzo e come fine. I partiti socialisti
europei, inseriti compiutamente nel cosiddetto mondo libero,
perseguirono una opposizione assoluta al totalitarismo, che negli
anni della guerra fredda identificarono nel comunismo per la sua
aggressività ideologica e politica; ciò li portò ad accogliere la
protezione militare della NATO, sia pure in un'ottica difensiva e
non trascurando mai di incentivare le politiche di distensione e di
disarmo controllato.
Fu esemplare a questo riguardo l'assunzione della carica di
segretario generale della NATO dal 1957 al 1961 da parte di
Paul-Henri Spaak (1899-1972), leader dei socialisti belgi, che aveva
già ricoperto le cariche di presidente del Consiglio nel 1938-1939,
di ministro degli Esteri nel 1938-1949 (lo fu anche nel 1961-1969).
I partiti socialisti si trasformarono da partiti di classe, per la
difesa degli interessi dei lavoratori dipendenti, in partiti di
popolo, per perseguire una prospettiva di più generale benessere, e
sostituirono all'idea della socializzazione dei mezzi di produzione
e di scambio come primo presupposto del socialismo quella
dell'espansione del pubblico controllo delle imprese e della
pianificazione democratica al fine di garantire la crescita e la
distribuzione equa delle risorse, delineando con ciò un'economia
mista fra pubblico e privato.
Nel 1951 a Francoforte tali concetti furono posti a fondamento della
Dichiarazione dei principî del socialismo democratico della
ricostituita Internazionale socialista che, nel passaggio dalla fase
della propaganda a quella delle realizzazioni, prese atto che in
molti paesi il 'capitalismo non controllato', prevaricatore dei
diritti dell'uomo a favore di quelli della proprietà, lasciava il
campo a un regime economico nel quale l'intervento dello Stato o il
possesso collettivo dei mezzi di produzione conseguivano progressi
considerevoli nella creazione di "un nuovo ordine sociale".
L'Internazionale si rivolse ai popoli dei paesi sottosviluppati
proponendo il socialismo come arma di lotta per la conquista
dell'indipendenza nazionale e per il conseguimento di uno standard
di vita più elevato, contro le oligarchie indigene e lo sfruttamento
neocoloniale. Essa individuò nel comunismo non solo un grave fattore
di divisione e di arretramento del movimento operaio, ma un
avversario pericoloso che a torto si richiamava al socialismo
('socialismo reale') perché rigidamente dogmatico e per giunta
"incompatibile con lo spirito critico del marxismo" e indirizzato
all'esasperazione dei contrasti di classe nell'interesse della
dittatura di un partito unico, strumento di un "nuovo imperialismo".
Il socialismo (democratico) si definì dunque come "un movimento
internazionale" che fondava i propri convincimenti, fossero ispirati
dal marxismo o da principî religiosi o umanitari, sul comune
obiettivo di costruire "un sistema di giustizia sociale, di vita
migliore, di libertà e di pace".
Dalla constatazione che lo sviluppo delle scienze e della tecnica
aveva dato all'umanità la possibilità di distruggere se stessa, ma
anche di migliorare continuamente la propria condizione di vita,
esso ricavò la conferma che la produzione non potesse essere
lasciata al libero gioco delle forze economiche ma dovesse essere
'pianificata', sia pure nel rispetto dei diritti fondamentali delle
persone umane. Un aggiornamento di tali principî di fronte alla
mondializzazione economica fu fatto con la Dichiarazione di
Stoccolma al congresso dell'Internazionale del 19-22 giugno 1989,
con l'accentuazione delle motivazioni democratiche, la
valorizzazione del ruolo dell'uomo e della donna, e una maggiore
attenzione alla solidarietà tra il Nord e il Sud dei popoli della
terra ("una nuova società democratica mondiale").In Inghilterra, nel
1945, il Labour Party, ottenuta la maggioranza in Parlamento, avviò
una vasta politica di Welfare State, largamente ispirata alle idee
di William Henry Beveridge e di John Maynard Keynes, al fine di
garantire la protezione generale, solidale e socialmente equa contro
la disoccupazione, la malattia, gli infortuni e la vecchiaia, e
promosse un impegnativo programma di nazionalizzazioni nelle
industrie di base (ferrovie e trasporti, acciaio, carbone).
Ricacciato all'opposizione nel 1951, il Labour ebbe un'evoluzione
profonda dopo la sconfitta della sinistra interna di Aneurine Bevan
e poi di Michael Foot. Ne fece fede il saggio The future of
socialism, scritto da Anthony Crosland nel 1956, nel quale si
sosteneva che il fondamento del socialismo era sociale più che
economico, cioè volto a conseguire una più equa distribuzione delle
ricchezze e un più razionale sistema educativo per ridurre le
differenze di classe e la povertà, piuttosto che a interferire sui
diritti di proprietà dei mezzi di produzione o addirittura a
esasperare gli interessi di classe. A tali principî si ispirò la
nuova leadership laburista negli anni 1955-1963, sotto la guida di
Hugh Gaitskell (1906-1963), e poi, tra il 1963 e il 1976, di Harold
Wilson. Con una campagna a favore della politica dei redditi e della
'rivoluzione tecnica e scientifica', in cui riecheggiavano le tesi
non solo di Keynes e di Schumpeter ma anche di Burnham e di
Galbraith, i laburisti tornarono al governo nel 1964-1970 e poi
ancora nel 1974-1976 e, dopo le dimissioni di Wilson, con James
Callaghan nel 1976-1979. Fece seguito un lungo periodo di
opposizione, rotto infine dalla clamorosa vittoria elettorale del 1°
maggio 1997, che ha portato al potere Tony Blair e ha attribuito al
Labour 419 seggi su 659.In Svezia i socialdemocratici detennero il
potere ininterrottamente per mezzo secolo (dal 1932) con Hansonn,
Tage Erlander e Olof Palme (1927-1986), e per molti decenni in
Norvegia e in Danimarca per poi alternarsi al potere con
l'opposizione conservatrice. Il socialismo scandinavo accentuò
l'obiettivo della coesione nazionale come proiezione del solidarismo
dalla 'culla alla tomba', e della funzionalità fondata sulla 'parità
delle occasioni' più che sull'uguaglianza.
In Germania l'evoluzione della SPD ebbe la sua consacrazione al
congresso di Bad Godesberg, nel 1959, con la rinuncia al marxismo.
Nel presupposto che una moderna società industriale non possa essere
governata da un principio uniforme, il congresso delineò i tratti di
un'economia mista e di una società fortemente pluralistica.
L'istanza originaria della collettivizzazione venne tradotta
nell'esigenza del controllo pubblico, e per la prima volta ci si
dichiarò per la protezione e la promozione della proprietà privata e
si accettò esplicitamente la logica della libera competizione
economica tra pubblico e privato con la parola d'ordine "libertà
finché possibile, pianificazione finché necessaria". Furono poste
così le condizioni perché la SPD accedesse al governo nella grande
coalizione con i democristiani negli anni 1966-1969, e poi tra il
1969 e il 1974 assumendo il cancellierato con Willy Brandt
(1913-1992), già sindaco di Berlino negli anni 1957-1964 e poi
ministro degli Esteri. Brandt avviò il processo di distensione con
l'URSS e con la Repubblica Democratica Tedesca (Ostpolitik), e
quando venne sostituito dal compagno di partito Helmut Schmidt,
negli anni 1974-1982, si dedicò all'Internazionale socialista
dilatandone l'area di intervento e rafforzandone il prestigio.In
Austria il processo di secolarizzazione del partito fu portato a
compimento negli anni cinquanta. Nel 1960 il presidente del partito,
Bruno Pitterman, ebbe a dichiarare che "la professione di fede nel
marxismo per i socialisti di oggi è una questione privata
esattamente come la professione di una religione". I
socialdemocratici dettero vita a una grande coalizione con i
democristiani nel 1959-1966, sotto la guida di Bruno Kreisky
(1911-1990) che, dopo aver ricoperto la carica di ministro degli
Esteri nel 1959-1966, venne eletto cancelliere nel 1970.Anche in
Francia i socialisti alla fine della guerra assunsero le massime
cariche dello Stato con Vincent Auriol (1884-1966), primo presidente
della IV Repubblica dal 1947 al 1954, e con Paul Ramadier, primo
ministro di un governo tripartito, con la partecipazione dei
comunisti, fino al maggio 1947.
Dal 1946 al 1968, sotto la guida di Guy Mollet (1905-1975) che aveva
sconfitto la corrente di destra di Blum, favorevole a una più
radicale revisione programmatica in nome di un umanesimo socialista,
la SFIO si collocò come la troisième force tra comunisti e
gaullisti. Essa tornò in primo piano solo nel 1956-1957 con il
governo Mollet. Quest'ultimo però fu travolto dalla crisi algerina e
di Suez lasciando aperta la strada alla soluzione della V
Repubblica. Il socialismo francese piombò, come in passato, in una
fase critica di divisioni e di polemiche interne da cui uscì solo
con il congresso di Epinay del giugno 1971, sotto la guida di
François Mitterrand (1916-1996). Con la firma del programma comune
delle sinistre nel giugno 1972, Mitterrand pose le condizioni della
scalata alla presidenza della Repubblica, che infine ottenne nel
1981 e poi ancora nel 1988, nel primo caso trascinando al successo
elettorale i socialisti che formarono un governo con la
partecipazione dei comunisti, nel secondo in coabitazione con il
governo Chirac. Nel giugno 1997 le elezioni anticipate hanno sancito
una nuova vittoria socialista, che ha portato alla formazione del
governo presieduto da Lionel Jospin.
In Italia la revisione programmatica dei socialisti fu più lenta e
si compì con la svolta autonomista e democratica del 1956 e
soprattutto con i governi di centro-sinistra degli anni sessanta. La
vicenda socialista fu qui dominata dai rapporti con il più forte
partito comunista del mondo occidentale, rapporti che determinarono
nel 1947 la scissione tra il Partito Socialista di Pietro Nenni
(1891-1980) e il Partito Socialista Democratico Italiano di Giuseppe
Saragat (1898-1988), e nel 1964 quella dell'ala sinistra che dette
vita al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP);
nonché con la Democrazia Cristiana, grande partito di centro di
ispirazione cattolica. Partito di cerniera del sistema politico
nonostante le dimensioni modeste (10-14% dell'elettorato), e dunque
con un forte potere di coalizione, il PSI assunse un ruolo di primo
piano negli anni ottanta, sotto la dinamica segreteria di Bettino
Craxi, che fu presidente del Consiglio tra il 1983 e il 1987, e con
la popolare presidenza della Repubblica di Sandro Pertini
(1896-1990) tra il 1978 e il 1985; anche per questo subì i
contraccolpi più pesanti nella crisi della cosiddetta 'prima
Repubblica' negli anni 1992-1994, fino alla frantumazione in piccoli
gruppi la cui sopravvivenza è stata resa difficile dal passaggio dal
sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario.
Mentre negli anni ottanta il 'consenso socialdemocratico' si
indeboliva per la prima volta nei paesi centroeuropei e scandinavi
(dove l'elettorato era stabilmente oltre il 35%), nei paesi
dell'Europa meridionale esso si andava affermando in maniera
vistosa. Oltre alla Francia e all'Italia, i casi più significativi
furono quelli dei paesi usciti da regimi autoritari: in Grecia il
Panellino Sosialistiko Kinima (PASOK) di Andréas Papandreu andò al
governo nel 1981; in Spagna il PSOE di Felipe Gonzales nel 1982; in
Portogallo il Partido socialista di Mario Soares nel 1983. Al
governo per molti anni (anche nel decennio successivo), questi
partiti esercitarono un ruolo importante di stabilizzazione sociale
consolidando le nuove istituzioni democratiche e portando a
compimento l'inserimento dei propri paesi nella Comunità Europea. Al
tempo stesso essi spostarono il baricentro dell'area di diffusione
del socialismo dai centri tradizionali dell'Europa
centro-occidentale, scandinava e britannica all'Europa meridionale,
tanto che si è parlato di un socialismo mediterraneo, caratterizzato
da un più accentuato pragmatismo e dalla tendenza al leaderismo.
Oltre alla compiuta integrazione politica e sociale dei partiti
socialdemocratici nell'Europa occidentale, e tralasciando
l'esperienza del socialismo reale nei paesi dell'Est (riconducibile
però alla storia del comunismo, ivi compreso quello non allineato e
autogestionario della Iugoslavia), l'altro fatto nuovo del secondo
dopoguerra fu lo sviluppo del socialismo nel Terzo Mondo in
condizioni molto diverse da quelle della 'culla europea'.
Si affermò l'idea che nella seconda metà del XX secolo la
rivoluzione, o il grande mutamento, appartenesse alla campagna
piuttosto che alle fabbriche e alla città, e si collegasse ai
processi di decolonizzazione del Terzo Mondo e di formazione di
nuovi Stati indipendenti, che si affermavano per lo più dopo lunghe
e sanguinose guerre di liberazione contro le antiche potenze
coloniali. Il 'modello socialista' sembrò rappresentare meglio le
esigenze della modernizzazione e dello sviluppo rispetto a quello
del capitalismo industriale e finanziario, e parve in grado di
soddisfare la ricerca da parte delle élites dominanti, spesso
guidate da un leader carismatico, di un'identità sociale e culturale
che superasse in senso comunitario e al tempo stesso nazionalistico
le divisioni tribali, etniche e religiose. Esso di solito si
identificò nella prospettiva della nazionalizzazione delle industrie
di base e nella creazione di partiti-regime.Così, in Egitto, Giamāl
'Abd an-Nāṣir (Nasser, 1918-1970), che salì al potere nel 1952 con
un colpo di Stato militare e assunse tutti i poteri nel 1954 con il
titolo di rais e poi come presidente della Repubblica, dopo la crisi
di Suez del 1956 intensificò la lotta contro il capitale straniero
avviando una politica di nazionalizzazione di larghi settori
dell'economia e promuovendo la riforma agraria. Egli fece
dell'Egitto una delle nazioni guida del non allineamento, indicando
al Terzo Mondo il socialismo nazionale come la terza via allo
sviluppo rispetto al socialismo reale dei paesi dell'Est e al
capitalismo occidentale. In Siria, nel 1953, fu fondato il partito
Ba'th come "movimento nazionale, populista e rivoluzionario"
impegnato nel conseguimento dell'unità araba, della libertà e del
socialismo. Il nazionalismo non era qui circoscritto a uno Stato
arabo in particolare, ma esteso al 'popolo arabo' nel suo complesso,
di cui si rivendicava la crescita spirituale e materiale, in una
visione laica, non religiosa né tribale. Il Ba'th andò al potere in
Siria nel 1970, con un colpo di Stato diretto da Hafiz Assad. Si è
parlato poi di 'socialismo algerino' con Ahmed Ben Bella e con
Houari Boumedienne, e negli anni sessanta di 'socialismo tunisino'
con al-Habib Burghiba.
I
n Africa, tra le diverse ideologie della liberazione e del potere,
ebbe un ruolo significativo la concezione del 'socialismo africano'
e della 'negritudine' dello scrittore francofilo Léopold Sédar
Senghor, capo di Stato dell'ex Senegal francese dal 1960 al 1980.
Ispirandosi al pensiero comunitario e umanistico premarxista
francese (ma anche di Léon Blum), Senghor parlò di una 'terza'
rivoluzione, dopo quella capitalista e comunista, destinata a
esaltare l'apporto dei popoli di colore alla nuova 'civiltà
planetaria'. Partendo da una valutazione negativa dell'assimilazione
coloniale egli riscoprì le tradizioni autoctone e l'anima collettiva
negra, non in contrapposizione ma a completamento dei valori
universali della civiltà europea. Fautore di una concezione
dirigistica e di 'una dittatura democratica' fu invece Sekú Turé,
presidente della Guinea dopo l'indipendenza conseguita nel 1958.
Convinto assertore di un 'socialismo panafricano' (e non nazionale)
fu infine il capo di Stato prima del Tanganica (1962) e poi della
Tanzania (1964) Julius Nyerere. Cattolico, dopo avere compiuto gli
studi in Inghilterra questi delineò un progetto di socialismo
fondato sull'espansione della tradizionale famiglia allargata, allo
scopo di pervenire a una comunità in cui la proprietà privata
venisse limitata e fosse concessa la libertà di espressione, ma non
l'organizzazione del dissenso. Un'ulteriore applicazione di una
democrazia dirigista nazionalista, legata al non allineamento
internazionale, è riconducibile a Sukarno (1901-1970), primo
presidente dell'Indonesia nel 1945. Un esempio raro (a parte
l'eccezione giapponese) di una dinamica democratico-parlamentare per
l'accesso al governo fu dato in Cile nel 1970 dall'elezione alla
presidenza della Repubblica di Salvador Allende (1908-1973). Alla
testa della coalizione di Unidad Popular, composta da socialisti,
comunisti, radicali e cattolici di sinistra, egli governò per tre
anni prima di essere rovesciato da un colpo di Stato militare.
5. Verso il XXI secolo
Al suo XX congresso del 9 settembre 1996, a New York,
l'Internazionale socialista ha vantato l'adesione di oltre 140
partiti membri rispetto ai 110 nel 1992 (20 nel 1951 e 40 nel 1976).
I partiti che si riconoscevano nell'Internazionale socialista erano
al governo in 13 paesi su 15 della Comunità Europea. Nell'Europa
orientale erano diventati complessivamente la prima forza politica,
dopo la conversione degli ex partiti comunisti e l'efficace
opposizione ai nuovi nazionalismi etnici. Fuori dell'Europa erano al
governo in Giappone, Pakistan, Nepal, India, Cile, Giamaica, Costa
Rica, Columbia e in moltissimi paesi dell'Africa. Anche se
l'Internazionale si configurava come un luogo di incontro di partiti
sulla base di criteri di adesione abbastanza larghi (conformità agli
ideali di democrazia, sviluppo, pace; consistenza reale; gestione
interna democratica), la sua crescita attesta pur sempre che il
socialismo era, più che mai dopo il crollo del comunismo, una grande
forza evocatrice in tutto il mondo. L'espansione geografica del
socialismo sembrava finalmente concretizzarne l'aspirazione
universalistica, presente fin dalle origini, e l'ambizione di farsi
interprete dei processi di democratizzazione dei paesi già governati
da regimi dittatoriali o totalitari. L'esito di tale sfida, tuttora
in corso, coinciderà con le possibilità di affermazione nel Terzo
Mondo dei valori di tolleranza, di rispetto della persona, di
uguaglianza dei diritti politici e sociali propri della civiltà
occidentale, ma anche di efficaci politiche di sviluppo, in grado
tra l'altro di disinnescare la 'bomba' demografica.
Più difficile è prevedere quante delle esperienze del socialismo
nazionale nelle aree di sottosviluppo preludano a un'effettiva nuova
via che valorizzi le risorse indigene e con ciò arricchisca anche il
modello socialdemocratico originario nella globalizzazione delle
relazioni economiche e sociali.Eppure, nei paesi europei e
anglosassoni, cioè nell'area storicamente propulsiva del socialismo,
si sono fatte oggi più frequenti le voci sulla vetustà o addirittura
sul declino della socialdemocrazia. La mondializzazione economica e
la rivoluzione tecnologico-informatica, l'esplosione demografica e
la pressione immigratoria, le politiche di risanamento dei bilanci
pubblici mettono in discussione il 'compromesso' socialdemocratico
su cui sono stati fondati il Welfare State e il keynesismo, e
perfino la tradizionale struttura a tre stadi imperniata sul
rapporto partito-sindacato-associazionismo collaterale. Più
correttamente si dovrebbe parlare di conclusione di un ciclo,
fondato sul binomio classe operaia-nazione, iniziato oltre un secolo
fa, nell'epoca dell'industrializzazione diffusa. Nel codice genetico
del socialismo (europeo) il futuro apparteneva al lavoro dipendente,
del quale il proletariato di fabbrica sarebbe stato il nucleo
aggregante e significativo, tanto più perché destinato a diventare
più omogeneo, più diffuso, più acculturato e più consapevole.
Era un socialismo che faceva riferimento al lavoro manuale, e quando
si rivolgeva ad altri ceti (impiegati, quadri, intellettuali,
contadini) li coinvolgeva in quanto, nei comportamenti e nelle
attitudini, si rendevano 'popolo' o 'proletariato'. Nelle società
postindustriali, il futuro appartiene al terziario avanzato, sempre
più informatizzato, piuttosto che al settore secondario. E rispetto
al lavoro, una volta termine di partenza e di arrivo della vita, uno
spazio crescente viene assunto dal tempo di non lavoro o 'libero'.
D'altra parte l'affermazione preponderante dell''io' e del privato
sul pubblico parrebbe imporsi sulle pratiche di socializzazione e
classiste, e perfino comunitarie. La trasformazione del partito
socialdemocratico da partito di classe in partito catch-all
('pigliatutto') fa temere che ne vengano minate irrimediabilmente le
'radici sociali' e vanificato il potere mobilitante dell'ideologia.
Sono ridimensionati gli itinerari tipici di acculturazione della
massa dei lavoratori (quartieri, luoghi di ritrovo, linguaggio) che
rendevano omogenea la classe; e lo stesso processo produttivo tende
a 'individualizzarsi', con la flessibilità, il decentramento e
l'informatizzazione. Il frazionamento degli interessi facilita la
promozione di movimenti monotematici e di gruppi di pressione,
mentre diviene più incisiva la presenza di organismi
politico-economici e monetari sovranazionali: il partito nazionale
di grande apparato e di massa, in grado di intermediare la domanda,
per giunta inarticolata, registra una costante, inarrestabile
flessione.
La percezione della chiusura di un ciclo pare comunemente avvertita,
cosicché per il socialismo sul finire del XX secolo si parla sempre
più di un passaggio dalle nazionalizzazioni al mercato; dalla
fiducia nel progresso lineare alla prospettiva di uno sviluppo
compatibile o sostenibile; dallo statalismo alla valorizzazione
delle associazioni non profit e alla responsabilità dei cittadini;
dalla lotta contro l'ingiustizia sociale a quella contro
l'esclusione e contro presunte nuove ineguaglianze, quali quelle
prodotte nelle città dal degrado ambientale, dalla diffusione della
droga, dalla criminalità organizzata e dall'immigrazione.
L'obiettivo è quello di portare la cittadinanza al livello della
quotidianità.
Ai socialisti è affidato il compito, davvero difficile e dall'esito
incerto, di adattare ai problemi attuali il modello ricevuto dai
padri in un secolo di lotte per l'uguaglianza dei diritti e per la
protezione sociale dell'individuo.