Socialismo

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Nel senso storicamente più vasto, ogni dottrina, teoria o ideologia che postuli una riorganizzazione della società su basi collettivistiche e secondo principi di uguaglianza sostanziale, contrapponendosi alle concezioni individualistiche della vita umana.

In senso più stretto, e in epoca moderna, sistema generalizzato di idee, valori e credenze, finalizzato a guidare i comportamenti collettivi – e i movimenti, i gruppi, i partiti che li organizzano – verso l’obiettivo di un nuovo ordine politico in grado di eliminare o almeno ridurre le disuguaglianze sociali attraverso una qualche forma di socializzazione dei mezzi di produzione e correttivi applicati al meccanismo di distribuzione delle risorse economiche.

1. Origini del termine

Nonostante quella del s. sia una concezione assai antica (si parla infatti di s. anche con riferimento alla Repubblica di Platone), che specialmente nel Medioevo cristiano trova le sue prime concrete manifestazioni in sette ereticali che predicavano l’uguaglianza totale nella comunione dei beni (e che per questo si definivano piuttosto comunioniste), è soltanto nel 19° sec., con l’avvento della società industriale, che la parola e il fenomeno s. assumono i contenuti propri che comunemente gli si attribuiscono. In Francia il termine s. sembra sia stato coniato da P. Leroux dopo la rivoluzione del 1830, mentre in Inghilterra pare circolasse già qualche anno prima nel gruppo di R. Owen. Ma quel che più conta notare è la diversità dei significati che l’etichetta includeva all’atto stesso della sua invenzione: se per Leroux era una specie di dichiarazione di guerra contro il liberalismo, e una risoluta rivendicazione della priorità dello Stato sull’individuo, per Owen rivestiva contenuti più economici e sociali che politici, ponendo al centro dei suoi interessi la questione operaia.

2. Il s. utopistico

La prima fase del pensiero socialista è solitamente identificata, sulla scorta di una definizione di K. Marx, nel s. utopistico. È questa, in realtà, una definizione sommaria che serve ad abbracciare diverse tendenze sviluppatesi fra il 1820 e la fine del 19° secolo. È in particolare in Francia che trovano espressione le teorie originarie del movimento socialista, dalle quali traggono alimento in qualche misura le formulazioni posteriori e contemporanee. Gli esponenti più significativi del s. utopistico furono tutti dei militanti, coinvolti più o meno intensamente nella vita politica del loro tempo e del loro paese, con l’intento di modificare l’ordine esistente attraverso la forza della teoria e la coerenza dell’azione pratica. All’interno di questo movimento si possono tuttavia distinguere due diverse interpretazioni del cruciale rapporto fra teoria e prassi: quella di coloro che privilegiarono il momento dell’analisi della realtà sociale, e quella di coloro che considerarono invece prioritario il momento dell’azione, facendone oggetto esclusivo dei loro sforzi intellettuali.

Il comune riferimento è per tutti costituito dalla rivoluzione del 1789, la differente valutazione della quale, in particolare della sua fase giacobina, si può dire che determini l’appartenenza all’uno o all’altro dei due filoni. Troviamo così da una parte la posizione di pensatori – quali C.-H. de Saint-Simon, F.-M.-C. Fourier, R. Owen, J.-J.-C.-L. Blanc, E. Cabet, P.-J. Proudhon – che sono portati a derivare dalle numerose trasformazioni avvenute nel corso della rivoluzione, considerate inadeguate a risolvere i mali della società, un profondo scetticismo nei confronti della politica e dei suoi strumenti di violenza. Nelle loro dottrine prevalgono dunque il rifiuto dell’esperienza rivoluzionaria, la fiducia nel progresso dell’umanità, l’esaltazione della scienza positiva come unico metodo per risolvere efficacemente i problemi sociali. Le loro analisi si svolgono in termini prevalentemente economici; sul piano politico e giuridico-costituzionale, il problema fondamentale non è quello della migliore forma di governo, bensì quello del miglior sistema di organizzazione sociale, informato ai criteri di rappresentanza meritocratica e ai principi dell’autonomia. Da un’altra parte troviamo invece l’ala radicale del s. utopistico. Il fallimento della Rivoluzione francese è imputato, dagli autori che si riconoscono in questa seconda corrente di pensiero (L.-A. Blanqui, F. Buonarroti, F.-N. Babeuf), a una inadeguata preparazione organizzativa. Il principio egualitario e il ‘comunismo’ dei beni, che costituiscono le finalità supreme dell’azione rivoluzionaria, presuppongono la conquista del potere politico; il momento teorico viene così fortemente semplificato a vantaggio di quello organizzativo, cospiratorio e insurrezionale, nell’ambito di una strategia tutta tesa al rovesciamento dell’ordine politico. Di qui un’esaltazione quasi mistica dell’azione rivoluzionaria quale strumento della palingenesi storica.

C’è dunque fin dalle origini, nel movimento socialista, una duplicità costitutiva mai risolta: un’anima laica, pluralista e moderata; un’altra gnostica, dispotica e radicale, che già da allora si riconosce più nell’etichetta del comunismo che del s. (e comuniste venivano infatti dette le società segrete attive in Francia fra il 1835 e il 1840, ispiratrici della linea Babeuf-Buonarroti, le quali non a caso diffusero l’espressione dittatura comunista per qualificare l’obiettivo della loro rivoluzione).

3. Il s. pragmatico

Parallelamente al movimento francese si sviluppò in Gran Bretagna, soprattutto a opera di R. Owen, una dottrina che vi si accostava per molti aspetti, pur radicandosi in un contesto storico diverso e su problemi diversi di ordine economico-sociale. Le idee maturate in questo ambito si posero alla base di tendenze che riprendevano dalla tradizione filosofica dell’empirismo inglese il carattere della duttilità politica e del pragmatismo. Il ragionamento di Owen era molto semplice: era inutile arrestare il progresso industriale e prendersela con le macchine; tuttavia era rischioso lasciare la regolazione del modo di produzione industriale, nel quale i lavoratori erano immiseriti e resi schiavi, al libero gioco del laissez faire. Occorreva invece una pianificazione ponderata che si occupasse di tutti gli aspetti – dalle condizioni di lavoro alle condizioni di vita – della classe operaia, mediante metodi educativi e filantropici. Il cartismo e il movimento sindacale organizzato in Inghilterra si svolsero in rapporto all’influenza di Owen, accentuandone via via i tratti più o meno inconsapevoli del riformismo pragmatico e respingendone invece quelli che lo iscrivevano nel quadro del s. utopistico. Di Owen si accettò in particolare l’assunto secondo il quale occorreva porre un argine alla discesa dei salari ai livelli minimi di sussistenza, attraverso le trade unions, libere associazioni fra lavoratori.

4. Il s. scientifico

Con K. Marx e F. Engels il s. raggiunse la piena maturità intellettuale e politica. Nel Manifesto del partito comunista, scritto su incarico della Lega dei comunisti durante i moti del 1848 in Germania, Marx ed Engels distinguevano il loro s. dalle altre versioni, tracciando le linee portanti del s. scientifico, in quanto solo un’analisi scientifica dei rapporti economici poteva consentire di elaborare un programma di azione rivoluzionaria del proletariato in lotta con la borghesia per l’attuazione del socialismo. La riflessione del marxismo procedette lungo due direzioni specifiche per la definizione del programma socialista. Da un lato, la non compiutezza delle condizioni oggettive per la rivoluzione pose il problema di approfondire l’analisi critica dell’economia capitalistica. Dall’altro, dopo il 1860, fu in primo piano il problema dell’organizzazione e della direzione del movimento operaio e socialista. Sulla soluzione di questo problema influirono, in particolare, tre eventi: la nascita del Partito socialdemocratico tedesco, la Prima Internazionale e la Comune di Parigi. La Prima Internazionale segnò l’incontro fra il marxismo e il movimento operaio dei diversi paesi europei, che cominciava a liberarsi dal democraticismo, dall’anarchismo e dal romanticismo propri del primo socialismo. Il problema di fondo era quello di indirizzare lo sviluppo delle organizzazioni proletarie, attraverso un centro di coordinamento internazionale, verso obiettivi di unità, di autonomia, di solidarietà. C’era anche il riconoscimento dell’importanza tattica del riformismo democratico e il primo riconoscimento delle vie nazionali al s.: rivoluzionarie quasi ovunque, ma anche pacifiche nei paesi a tradizione liberal-democratica.

Marx escluse che nell’esperienza della Comune parigina del 1871, diretta da blanquisti, proudhoniani e giacobini, vi fossero le condizioni oggettive per un’insurrezione, e per questo preferì agire in difesa delle istituzioni e in vista dell’organizzazione politica del proletariato nelle file della socialdemocrazia tedesca. La lezione che Marx traeva dalle vicende parigine lo portò a riconcettualizzare il s. come quella fase transitoria del processo rivoluzionario nella quale la classe operaia si appropriava dello Stato e del potere legale per instaurare la dittatura del proletariato, momento propedeutico all’avvento della società comunista (Kritik des Gothaer Programms, 1875): troviamo qui una divaricazione sistematica dei due termini di s. e comunismo, di rilievo fondamentale per quelle che saranno le loro applicazioni storiche successive.

5. La varietà dei socialismi

Con la Seconda Internazionale (1889-1917) la guida del movimento operaio fu assunta dalla socialdemocrazia tedesca, il cui ideologo principale era K. Kautsky. In questo ambito la dottrina marxista fu sottoposta a una serie di revisioni critiche, in senso ‘riformista’ o ‘rivoluzionario’, che segnarono in modo indelebile lo sviluppo e i conflitti del movimento socialista nelle diverse realtà storiche.

Dal punto di vista politico, il congresso di Londra del 1896 decretò l’espulsione degli anarchici e la condanna del revisionismo, affrontando una serie di altri problemi cruciali per le sorti del movimento. Negli anni successivi e precedenti alla Prima guerra mondiale, le questioni dello sciopero generale, del militarismo, del colonialismo, e soprattutto della posizione da assumere nei confronti degli eventi bellici, dimostrarono l’incapacità dei partiti socialisti, nella loro maggioranza neutrali o favorevoli al conflitto, di porre la solidarietà di classe al di sopra degli interessi nazionali.

Nella prospettiva della storia delle idee, la Seconda Internazionale presentò una rilettura del marxismo in chiave di revisionismi ‘di sinistra’, attraverso una rivalutazione della dialettica hegeliana, e ‘di destra’, attraverso gli strumenti concettuali dell’evoluzionismo positivistico o del neokantismo. Si ebbero così, da una parte, le posizioni a difesa dell’‘ortodossia’ marxista di K. Kautsky e R. Luxemburg; dall’altra parte, le posizioni fortemente critiche nei confronti della teoria marxista, come quelle di E. Bernstein, di M. Adler e degli altri esponenti del cosiddetto austromarxismo, che recuperavano le ragioni etiche del s. e ne rigettavano le basi scientifiche. Le estreme conseguenze, anche scissionistiche, di questa controversia si ebbero con l’istituzione, nel 1919, della Terza Internazionale, non più socialista ma ormai già comunista, dato che ebbe come partito-guida quello bolscevico e come modello quello della rivoluzione sovietica condotta al successo in Russia appena due anni prima.

Secondo Lenin, il cui pensiero divenne il credo ideologico dei nuovi partiti rivoluzionari in Europa, il comunismo si differenzia dal s. revisionista, definito spregiativamente come «opportunistico, eclettico e senza principi», come pure dallo spontaneismo insurrezionale, perché non assume la coscienza di classe come un prodotto spontaneo dello sviluppo capitalistico, nel modo in cui portava a credere una «grossolana deformazione» della teoria marxista. Solo gli intellettuali borghesi che ne sono gli interpreti, e il partito come «avanguardia armata del proletariato», possono trasmettere la consapevolezza del fine supremo cui tende la storia dell’umanità, cioè la società comunista. Questa ideologia, «onnipotente perché giusta», divenne la dottrina ufficiale del partito rivoluzionario e dello Stato socialista con il quale si identificava.

6. S. e welfare state

La storia delle idee e delle esperienze politiche del s. nel secondo dopoguerra si intreccia e quasi si fonde con la trasformazione dei sistemi democratici nella struttura del welfare state. Lo Stato sociale non fu invero una invenzione socialista: fu piuttosto la risposta in senso compatibile ad alcuni principi-cardine del s. che i sistemi a capitalismo maturo fornivano alle tensioni e alle sfide cui erano sottoposti i propri equilibri sociali ed economici dai processi di produzione e redistribuzione del reddito. Non a caso il prototipo moderno dello Stato sociale si realizzò, dopo la crisi del 1929, negli Stati Uniti con l’esperimento del New deal rooseveltiano e, nel secondo dopoguerra, con l’impostazione teorica e legislativa data al problema dei rapporti fra Stato e mercato da W.H. Beveridge in Gran Bretagna, sotto l’influenza della macroeconomia di J.M. Keynes, e in particolare dei suoi enunciati teorici relativi all’espansione dell’offerta pubblica e delle politiche di spesa finanziate attraverso il bilancio statale e la contribuzione fiscale. In sostanza, il modello del welfare state scaturiva da un compromesso politico fra i principi del mercato e le esigenze di giustizia sociale avanzate dal movimento operaio.

Così, dopo quello con la democrazia, l’incontro fra s. e liberalismo, che nel 19° sec. sembrava impossibile, riscattò del tutto la gran parte dei partiti socialisti europei dalla matrice dell’ortodossia marxista e dell’ideologia rivoluzionaria per adattarli a un ruolo di pragmatismo politico. In altri termini, lo Stato sociale poteva essere visto come una vera e propria rivoluzione culturale, ovvero l’esito, fra l’altro, di un profondo cambiamento degli atteggiamenti e degli orientamenti etico-politici di un largo settore di opinione pubblica socialista, che mirava a obiettivi di socializzazione del mercato attraverso la programmazione economica, sostenendo nel contempo la istituzionalizzazione delle forme di economia mista, diffuse ormai in quasi tutti i sistemi politici dell’Europa occidentale.

È in questo contesto che i partiti socialisti, diventati a tutti gli effetti – compresi quelli della legittimazione e dell’accettazione delle regole della democrazia politica ed economica – partiti socialdemocratici, assunsero responsabilità di governo, rompendo definitivamente i legami con le forze, per lo più minoritarie, del s. (e comunismo) rivoluzionario. Sono emblematici, in questo senso, alcuni episodi maturati durante gli anni 1950: la rottura del patto fra Partito socialista italiano e Partito comunista italiano dopo i fatti di Ungheria del 1956, la svolta di Bad Godes;berg attuata nella Germania Federale dall’SPD di W. Brandt, l’allontanamento dei socialisti francesi dall’orbita di influenza del Partito comunista. Senza contare la collaudata lealtà democratica del Partito laburista in Gran Bretagna e delle socialdemocrazie scandinave e dell’Europa continentale, ormai da tempo, a pieno titolo, forze della sinistra governativa nei rispettivi paesi.

Naturalmente, sul piano delle idee e delle analisi teoriche, non c’è pieno accordo sulle valutazioni del welfare state e sulla stessa praticabilità storica del s. democratico e liberale. A fronte di coloro che hanno sostenuto e in qualche modo teorizzato questo modello, si contrappongono, da un lato, alcune posizioni di sinistra rivoluzionaria, per cui le politiche di welfare non sono che una razionalizzazione del sistema capitalistico in crisi e un modo mascherato per consolidare il dominio della borghesia e, dall’altro, quelle radicalmente liberiste, secondo le quali lo Stato assistenziale corrode alle radici le strutture e i valori della ‘società aperta’, perché esalta la tendenza alla burocratizzazione e al collettivismo che sono i prodromi del totalitarismo, vizio congenito e inestirpabile di qualsiasi ‘illusione’ socialista.

D’altra parte, quando, a partire dalla crisi mondiale dell’economia negli anni 1970, si ruppe il nesso fra benessere e sviluppo, fra accumulazione capitalistica ed equità sociale, che era stato alla base del modello di welfare state; quando la struttura della società impostata sulla tradizionale divisione in classi cominciò a sgretolarsi; quando, alla fine degli anni 1980, crollò anche l’ultimo baluardo di potenza socialista nell’Unione Sovietica e negli Stati satelliti dell’Europa orientale, anche il s. come programma politico e come progetto di società alternativa iniziò a perdere credibilità e consenso fra le masse. Ma può pure darsi, come sostiene M. Duverger, che il s., dopo aver provato a entrarci, uscirà di nuovo dal seno del capitalismo attraverso un processo storico lungo e faticoso per promuovere nuove imprese rivoluzionarie. Come può darsi, secondo quanto afferma N. Bobbio, che il suo destino sia ancora tutto da giocarsi nella prospettiva di una meta, quella del contemperamento fra i principi di libertà e di uguaglianza, tutt’altro che conseguita nella storia dell’umanità.

7. Partiti socialisti italiani

La formazione di un partito socialista inteso quale espressione politica del proletariato risale in Italia al 1892, con la nascita, a Genova, del Partito dei lavoratori italiani. Federazione di organizzazioni operaie, il nuovo partito adottò una piattaforma programmatica di ispirazione marxista e teorizzò la necessità della lotta politica per la conquista dei pubblici poteri, distaccandosi definitivamente dalla dottrina sociale mazziniana e dalle posizioni anarchiche e operaiste. Divenuto nel 1893 Partito socialista dei lavoratori italiani, nel 1895 assunse il nome di Partito socialista italiano (PSI). In questi anni a guidare il partito fu la maggioranza riformista, che aveva in F. Turati il suo principale esponente; convinti della possibilità di una instaurazione pacifica e graduale del s., nel quadro di un generale progresso economico, i riformisti sostennero la svolta liberale di G. Giolitti e privilegiarono l’attività parlamentare, volta al conseguimento di una legislazione sociale più avanzata. L’egemonia riformista fu contrastata dai sindacalisti rivoluzionari, facenti capo ad A. Labriola ed E. Leone, che esaltavano l’azione diretta del proletariato e respingevano ogni forma di collaborazione con la borghesia. Impostisi al congresso di Bologna del 1904, i sindacalisti rivoluzionari diressero, nello stesso anno, il primo sciopero generale nazionale, ma negli anni successivi subirono un progressivo declino, fino alla loro uscita dal partito nel 1907. La maggioranza riformista entrò in crisi con l’impresa libica (1911): alla linea di Turati, contrario alla guerra, si oppose la componente di destra facente capo a I. Bonomi e L. Bissolati, sostenitrice dell’intervento. Nel congresso di Reggio nell’Emilia (1912), che vide la vittoria della sinistra intransigente rivoluzionaria e l’ascesa di B. Mussolini, questo gruppo fu espulso dal partito. Scoppiata la Prima guerra mondiale, il PSI cercò di rimanere fedele alla propria tradizione pacifista e internazionalista.

Le tensioni sociali del dopoguerra favorirono la crescita del PSI, che nel 1919 triplicò la propria rappresentanza parlamentare; nello stesso anno, al congresso di Bologna, si affermò una maggioranza ‘massimalista’, guidata da G.M. Serrati, sostenitrice della conquista rivoluzionaria del potere e dell’instaurazione della dittatura del proletariato. Tale maggioranza entrò in crisi in seguito ai contrasti emersi a proposito dell’occupazione delle fabbriche (1920) e dei rapporti con la Terza Internazionale, cui il PSI aveva aderito. Nel congresso di Livorno del gennaio 1921 il gruppo dirigente respinse le condizioni poste da Mosca, rifiutando di cambiare la denominazione del partito in comunista e di allontanare i riformisti; in seguito a ciò, la corrente facente capo ad A. Bordiga e il gruppo dell’Ordine nuovo di A. Gramsci abbandonarono il PSI e fondarono il Partito comunista d’Italia. L’anno successivo, la componente riformista, favorevole alla collaborazione con i governi borghesi, diede vita al Partito socialista unitario (PSU), guidato da G. Matteotti.

Il clima repressivo instaurato dal fascismo ridusse drasticamente i margini di azione politica del PSI, che dopo aver partecipato alla secessione aventiniana fu sciolto (1926). Trasferita la propria organizzazione in Francia, il PSI nel 1930 si riunificò con i riformisti del PSU (che dal 1926 aveva assunto il nome di Partito socialista dei lavoratori italiani); nel 1934, infine, fu siglato un patto d’unità d’azione con i comunisti volto a combattere il fascismo. Ricostituito in Italia nel 1942 a opera di O. Lizzadri e G. Romita, il PSI assunse l’anno successivo il nome di Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP), in seguito alla confluenza in esso del Movimento di unità proletaria, fondato nello stesso anno da L. Basso. Nel 1943 era sorto anche, per iniziativa di M. Ruini e M. Cevolotto, il Partito democratico del lavoro, di ispirazione riformista, che rimase in vita fino al 1947.

Caduto il fascismo, i socialisti fecero parte, con l’eccezione del secondo governo Bonomi (1944-45), dei governi di unità nazionale che avviarono la ricostruzione del paese. Negli anni successivi la rottura del fronte internazionale antifascista e l’inizio della guerra fredda suscitarono nuovi contrasti interni, in particolare a proposito dei rapporti con il PCI. Alla componente di sinistra, favorevole a una stretta unità d’azione con i comunisti e a una accentuazione della connotazione classista del partito, si contrappose l’ala guidata da G. Saragat, che nel 1947 diede vita al Partito socialista dei lavoratori italiani. Nello stesso anno il PSIUP riprese la denominazione di PSI e accolse al suo interno la maggioranza del Partito d’azione; nel 1949 un altro gruppo uscì dal PSI dando vita al Partito socialista unificato, che nel 1951 si fuse con il Partito socialista dei lavoratori italiani nel Partito socialista democratico italiano (PSDI). Il PSI rimase all’opposizione sino alla fine degli anni 1950.

La denuncia dello stalinismo operata dal XX congresso del PCUS e l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956) portarono alla rottura del patto di unità d’azione fra PSI e PCI e a un riavvicinamento delle diverse componenti del s. italiano. Nel 1963 i socialisti entrarono a far parte del gabinetto presieduto da A. Moro, inaugurando la stagione del centrosinistra. Dopo la scissione della sinistra del PSI, che nel 1964 diede vita al Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP), il processo di avvicinamento tra PSI e PSDI culminò nel 1966 nella nascita del Partito socialista unificato, che però ebbe vita breve, in quanto nel 1969 si ricostituirono le due formazioni originarie. Il PSIUP, dopo un iniziale successo elettorale, perse progressivamente consensi e nel 1972 si sciolse.

Nella nuova situazione determinata dalla crescita della conflittualità sociale e dalla progressiva crisi del centrosinistra, la politica del PSI registrò un cauto spostamento a sinistra e un riavvicinamento al PCI. Gli insoddisfacenti risultati elettorali conseguiti nel 1972 e nel 1976, la crescente polarizzazione del sistema politico italiano fra DC e PCI, la linea del ‘compromesso storico’ perseguita da quest’ultimo, favorirono l’emergere di una nuova leadership facente capo a B. Craxi (segretario del PSI dal 1976). Negli anni successivi il PSI avviò una politica volta a riequilibrare i rapporti di forza con il PCI, ad affermare la propria autonomia (accentuando, anche sul piano ideologico, il distacco dalla tradizione marxista) e ad accrescere il proprio ruolo, esercitando un potere condizionante sulla formazione delle maggioranze di governo. Nel 1983 Craxi formò il primo esecutivo a presidenza socialista, mantenendo la carica di primo ministro fino al 1987. Sul piano elettorale il PSI vide un incremento dei consensi, mentre all’aumento del suo peso politico si accompagnava un crescente coinvolgimento nei processi degenerativi del sistema dei partiti che si sviluppavano in quegli anni. Tale coinvolgimento contribuì in modo rilevante alla crisi verificatasi nei primi anni 1990: l’implicazione del gruppo dirigente socialista negli scandali di tangentopoli portò nel 1993 alle dimissioni di Craxi, mentre il PSI subiva un rapido declino. Dopo la scissione di un gruppo facente capo a V. Spini, che fondò la Federazione laburista, nel 1994 il congresso di Roma stabilì di sciogliere il PSI. La diaspora dei suoi membri ha dato luogo negli anni successivi a numerose formazioni.

Anche il PSDI, rimasto costantemente nell’area di governo, negli anni 1990 fu coinvolto nella crisi legata a tangentopoli, subendo un progressivo declino. Confluito (1998) nel partito dei Socialisti democratici italiani, nel 2004 si è ricostituito come PSDI, con G. Carta come segretario (al quale è succeduto nel 2007 M. Magistro). Nelle elezioni politiche del 2006 il PSDI si è schierato con il centro-sinistra, mentre in quelle del 2008, assieme all'UDC e alla Rosa per l'Italia, ha aderito alla Costituente di centro.

S. della cattedra Espressione polemica, formulata dal liberista tedesco H.B. Oppenheim nel libro Der Kathedersozialismus (1872), rivolta a definire quel gruppo di professori e di studiosi, che, fino all’inizio del 20° sec., svolsero in Germania una polemica dottrinaria contro il liberalismo e le dure conseguenze etico-sociali di esso, ponendo tra i doveri propri dello Stato moderno l’attuazione di una politica sociale a favore dei ceti meno abbienti. Nonostante il suo significato soprattutto teorico, il s. della cattedra, attraverso il Verein für Sozialpolitik (1872), contribuì allo sviluppo della legislazione sociale in Germania. Fra i suoi rappresentanti più in vista G. von Schmoller, A.H.G. Wagner, L.J. Brentano, K. Bücher, H. Herkner.

Dizionario di Filosofia (2009)

Il termine compare per la prima volta nel 18° sec., per designare la corrente antihobbesiana del giusnaturalismo  moderno, ossia quei contrattualisti che ponevano all’origine della società non la natura egoista e ferina dell’uomo, ma la sua tendenza alla socialitas (da cui la definizione di «socialisti»). Questo significato rimarrà tuttavia di uso assai ristretto e il termine acquisirà il suo significato moderno, destinato a uno straordinario successo, soltanto negli anni Trenta dell’Ottocento, quando – a seguito dei problemi sociali sollevati in Inghilterra e in Francia dallo sviluppo industriale – verrà usato per designare le dottrine politiche (owenismo, sansimonismo, fourierismo) che propugnavano la costruzione di un sistema sociale alternativo a quello capitalistico, caratterizzato dalla scomparsa o dalla forte limitazione della proprietà privata, dalla cooperazione collettiva (in luogo della competizione individualistica), dall’eguaglianza sociale ed economica (e non soltanto giuridica e politica).

Da allora in avanti l’idea socialista verrà declinata in modi molto diversi, che possono essere classificati, con una qualche semplificazione, attraverso il riferimento a due temi di cruciale importanza: la natura del fine e la scelta dei mezzi per raggiungerlo. Quanto alla natura del fine, le questioni dirimenti sono l’atteggiamento verso la proprietà privata, il mercato e la democrazia liberale. Per la tradizione socialista che si rifà, in vario modo, alle teorie di Marx (e che sarà largamente maggioritaria sino alla prima metà del Novecento), la proprietà privata dovrà essere abolita e sostituita da un’integrale socializzazione dei mezzi di produzione, con la conseguente scomparsa del mercato e la radicale trasformazione dell’assetto istituzionale (lo Stato liberal-democratico, che è soltanto lo strumento del dominio borghese, verrà distrutto e sostituito da uno Stato proletario che, dopo una fase transitoria di ‘dittatura rivoluzionaria’, si estinguerà, lasciando il posto a una società di liberi produttori che si autogovernano).

Per la tradizione che si rifà alle teorie di Proudhon (il s. libertario o mutualistico, che rimarrà minoritario), la proprietà di tipo capitalistico va abolita, ma non bisogna procedere alla sua collettivizzazione, bensì alla sua diffusione tra i lavoratori, dando vita a una società di piccoli produttori organizzati in libere associazioni autogestite, ispirate ai principi della cooperazione e legate tra loro da rapporti di tipo federale (con conseguente abolizione dello Stato).

Infine, per la tradizione del s. democratico e riformista (il cui primo esponente fu Bernstein), la proprietà privata e il mercato non vanno aboliti, ma affiancati da una serie di interventi pubblici, più o meno estesi, il cui scopo è correggere gli eccessi e le storture del mercato e integrare i diritti civili e politici della democrazia liberale con una serie di diritti e servizi sociali (Stato sociale o Welfare State).

Quanto alla scelta dei mezzi, la grande alternativa è quella tra rivoluzione e riforme: la scelta rivoluzionaria, tipica delle forme di s. miranti a una radicale trasformazione dell’assetto sociale, si accompagna a una teoria del soggetto rivoluzionario, che per la tradizione marxista è la classe operaia (inquadrata nel partito di massa, per il marxismo ortodosso; guidata dal partito-avanguardia, per Lenin; incitata all’azione diretta e all’auto-organizzazione nei consigli, per R. Luxemburg; guidata dal sindacato rivoluzionario, per Sorel), mentre per la tradizione anarchica è costituita dagli strati più emarginati (contadini, studenti, intellettuali) delle società arretrate.

La scelta riformista, invece, implica una serie di cambiamenti graduali dell’assetto sociale: al suo interno occorre tuttavia distinguere nettamente tra il riformismo ‘tattico’ di ispirazione marxista (il cui scopo era quello di servirsi degli strumenti della democrazia ‘borghese’ sino a quando non fossero maturate le condizioni per la trasformazione rivoluzionaria) e il riformismo ‘strategico’ di ispirazione democratico-liberale (che fa del gradualismo una scelta di principio, accetta le istituzioni della società liberal-democratica e sviluppa nel loro quadro un’azione volta a tutelare e promuovere un certo grado di eguaglianza sociale).

Socialismo e comunismo.

Tra i primi a usare il termine s. nel suo significato moderno vi furono i seguaci di Saint-Simon (P. Leroux, in un articolo apparso nel 1833 sulla Revue enciclopédique, ne tentò una prima definizione, contrapponendo il s. all’individualismo) e quelli di Owen (la cui rivista, The new moral world, assunse nel 1836 la dizione di «organ of socialism»). Lo stesso Owen, nel 1841, pubblicò un opuscolo intitolato Che cos’è il socialismo?, mentre il termine – insieme a quello di comunismo, ripreso dai seguaci di Cabet – si andava diffondendo anche in Germania grazie all’opera di L. von Stein (Socialismo e comunismo nella Francia d’oggi, 1842). Negli anni Quaranta tra s. e comunismo non vi erano nette differenze: essi indicavano varianti del medesimo movimento – in larga parte intellettuale – che denunciava la condizione dei lavoratori nella società capitalistica e proponeva il superamento di quest’ultima in direzione di una società egualitaria.

Una prima netta differenziazione si ha nel 1848, quando Marx ed Engels scelgono il termine comunista per titolare il Manifesto. Tale scelta nasce da una netta opzione classista e rivoluzionaria: nel 1847, spiegherà Engels nella prefazione all’edizione inglese del Manifesto del 1888, tutti coloro che si definivano socialisti (owenisti, sansimoniani, ecc.) erano «al di fuori del movimento operaio» e miravano a ottenere «l’appoggio delle classi ‘istruite’»; viceversa, si definivano comunisti quei gruppi della classe operaia che si erano convinti della «necessità di una trasformazione generale della società» e quindi dell’insufficienza di rivoluzioni soltanto politiche. La conclusione di Engels era che nel 1847 «il s. era un movimento borghese, il comunismo un movimento rivoluzionario».

Con la sconfitta dei movimenti rivoluzionari del ’48 la distinzione tra s. e comunismo perse rilevanza, come dimostra anche il fatto che i partiti ispirati alla dottrina di Marx, sorti nell’ultimo quarto dell’Ottocento, presero il nome di ‘socialdemocratici’, ‘socialisti’, ‘operai’ o ‘laburisti’.

In questa fase, che si protrae sino alla Prima guerra mondiale, per s. si intende sia la dottrina marxista nel suo complesso (il cosiddetto s. scientifico), sia – sulla scorta di quanto aveva scritto lo stesso Marx nella Critica al programma di Gotha (1875) – la prima fase della società che nascerà dalla rivoluzione proletaria (quella in cui a ciascuno verrà dato secondo il lavoro svolto), distinta dalla fase finale, detta comunista (in cui a ciascuno verrà dato secondo i suoi bisogni).

Sarà Lenin, leader della corrente bolscevica del partito socialdemocratico russo, a riattualizzare la contrapposizione tra comunismo e s.: il leader bolscevico restituirà infatti al suo partito, nel 1918, l’antica denominazione di comunista, ancora una volta per rimarcare la distanza che separava i ‘veri rivoluzionari’ da quelli ‘falsi’ (ossia dai partiti socialisti europei, che per Lenin si erano «imborghesiti»). Da allora in avanti s. e comunismo rappresentarono due culture politiche distinte e spesso in rapporti ostili, anche se tra i partiti socialisti di ispirazione marxista e i partiti comunisti rimarrà comune l’idea di un ordinamento sociale radicalmente alternativo (sotto il profilo economico e politico) a quello della democrazia liberale.

Le prime forme di socialismo.

Le prime forme di s. si caratterizzano per il richiamo alla scienza e alla sperimentazione sociale, nella convinzione che il passaggio alla nuova società debba realizzarsi grazie alla forza della convinzione e dell’esempio. Saint-Simon  era convinto che la soluzione del problema sociale non sarebbe venuta dalla politica, ma dall’alleanza tra scienza e industria. Nella società del futuro al dominio dei ceti oziosi (aristocratici, militari e redditieri) si sarebbe sostituito quello dei savants («scienziati») e degli industriels (imprenditori e operai), i quali avrebbero garantito uno sviluppo armonico a tutto vantaggio della classe più numerosa e più povera. I sansimoniani  collocheranno le argomentazioni del maestro in uno schema fondato sul contrasto tra proprietà privata e funzionamento ottimale del sistema industriale, mostrando come l’organizzazione sociale di tipo capitalistico concentri gli enormi vantaggi resi possibili dall’industrializzazione nelle mani di pochi e conduca allo «sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo» (di qui la proposta di trasferire allo Stato, trasformato in associazione dei lavoratori, la proprietà di terre e capitali).

Il s. di Owen e di Fourier si caratterizza invece per l’ideazione di «comunità-modello». Fourier  teorizza lo sviluppo di comunità autosufficienti (dette falansteri), nelle quali gli individui eseguono ogni lavoro in comune, avendo anche la possibilità di cambiare periodicamente funzione. Owen, dal canto suo, progetta dei «villaggi cooperativi», ossia delle comunità in cui ai principi dell’individualismo competitivo, propri dell’economia capitalistica, si sostituiscono i principi della cooperazione: tali villaggi sono fondamentalmente agricoli, anche se Owen non esclude determinate attività industriali; a differenza dei falansteri, essi producono non solo per il consumo, ma anche per lo scambio tra comuni. Anche se i villaggi realizzati da Owen diedero risultati deludenti, i principi dell’owenismo lasciarono tracce profonde nel s. anglosassone, che si caratterizzerà per l’attitudine pragmatica e riformista. Quanto al sansimonismo, esso lascerà in eredità alla cultura francese lo stretto legame tra s., scienza e progresso.

Socialismo di Stato e socialismo libertario e mutualistico.

Tra le prime formulazioni dell’idea socialista vi è anche quella del s. di Stato o s. governativo, che da alcuni studiosi è considerato una sorta di anticipazione del s. democratico, per la connessione che istituisce tra s. e democrazia politica, nonché tra s. e intervento dello Stato nella sfera economica. Tanto il francese L. Blanc (che farà parte del governo provvisorio scaturito dalla rivoluzione del 1848), quanto il tedesco F. Lassalle (una delle più eminenti figure del s. tedesco, fondatore nel 1863 dell’Associazione nazionale degli operai tedeschi, che sarà il primo embrione del partito socialdemocratico) sono convinti che lo Stato, grazie alla conquista del suffragio universale, potrà divenire uno strumento per l’emancipazione dei lavoratori, stimolando l’istituzione di industrie autogestite da associazioni operaie:

Blanc teorizza gli ateliers sociaux, nella convizione che essi, liberi dalla logica del profitto, garantiranno il diritto al lavoro, porteranno a una tendenziale eguaglianza delle retribuzioni e supereranno, sul piano della produttività, le industrie private, sconfiggendo il principio capitalistico della concorrenza con le sue stesse armi. Lassalle pensa a un sistema di cooperative di produzione e di consumo, sempre sostenute dallo Stato, che spezzi la «ferrea legge dei salari» (ossia il loro attestarsi al livello minimo della sussistenza).

Agli antipodi del s. di Stato si colloca il s. libertario o mutualistico di Proudhon, che si caratterizza per la carica anti-autoritaria, per la ‘via economica’ (e non politica) al s. e per la sua avversione al collettivismo comunistico. Per Proudhon la proprietà privata è un «furto» soltanto nella sua versione capitalistica, perché si concentra in poche mani, permettendo di sfruttare il lavoro altrui; ma se la proprietà consiste nel possesso, da parte dei lavoratori (singoli o associati), degli strumenti di produzione, allora essa rappresenta la migliore garanzia di libertà da ogni forma di potere. Per riorganizzare la società occorre dunque agire sul piano economico, non collettivizzando la proprietà (perché una comunità proprietaria unica dei mezzi di produzione finirebbe per schiacciare le libertà individuali), ma dando a tutti la possibilità – attraverso un sistema gratuito del credito – di diventare proprietari e di vendere i prodotti del proprio lavoro al giusto prezzo. A questa riforma economica si dovrà affiancare una riforma politica, consistente nel passaggio dall’organizzazione politica della società (fondata sullo Stato e quindi sull’autorità e sull’accentramento del potere) all’organizzazione sociale (fondata sui principi della democrazia economica e del federalismo sociale).

Enciclopedia del Novecento (1982)

di Iring Fetscher

Socialismo

Sommario: 1. Significato del termine. 2. Valori fondamentali del socialismo democratico. 3. La critica socialista della società industriale capitalistica. 4. Critica socialista al socialismo di Stato (capitalismo di Stato, socialismo burocratico). 5. Socialismo e paesi in via di sviluppo. 6. Forme della transizione pacifica al socialismo. 7. Necessità di argomenti morali a favore del socialismo. 8. Socialismo e pace mondiale. 9. Conclusione. □ Bibliografia.

1. Significato del termine

Con ‛socialismo' ci si riferisce oggi, in genere, a due fenomeni diversi. In primo luogo, il termine caratterizza un ordinamento sociale in cui i mezzi di produzione essenziali appartengano alla comunità (allo Stato o alle cooperative dei produttori), e in cui valga il principio ‟da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo il suo lavoro": un ordinamento sociale, cioè, in cui le opportunità di consumo di ognuno siano proporzionate alle prestazioni lavorative effettuate per la comunità. In secondo luogo, s'intende con ‛socialismo' una tendenza politica mirante a riforme di vasta portata, o anche a un mutamento rivoluzionario della società capitalistica, nonché l'organizzazione a essa corrispondente. Sotto questa seconda accezione è possibile, in verità, raccogliere un numero straordinariamente grande di organizzazioni e di movimenti, i quali tutti - più o meno a buon diritto - pretendono per sé la qualifica di socialista.

La prima di queste due accezioni del termine risale alla critica rivolta da Marx al programma di Gotha dei socialdemocratici tedeschi, nella quale si legge: ‟Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata dalla propria base, ma viceversa come emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le macchie della vecchia società dal cui seno è uscita. Perciò il produttore singolo riceve - dopo le detrazioni [per il fondo di riproduzione e per gli inabili al lavoro, per scuole, ospedali, ecc.] - esattamente ciò che dà [...] Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di cose di valore uguale. Contenuto e forma sono mutati, perché, cambiate le circostanze, nessuno può dare niente all'infuori del suo lavoro, e perché d'altra parte niente può passare in proprietà del singolo all'infuori dei mezzi di consumo individuali. [...] L'uguale diritto è qui perciò ancora sempre, secondo il principio, il diritto borghese, benché principio e pratica non contrastino più. [...] Nonostante questo progresso, questo ugual diritto reca ancor sempre un limite borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l'uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale, il lavoro. Ma l'uno è fisicamente o moralmente superiore all'altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare per un tempo più lungo; e il lavoro, per servire come misura, dev'essere determinato secondo la durata e l'intensità, altrimenti cesserebbe di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto disuguale per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente la ineguale attitudine individuale, e quindi la capacità di rendimento, come privilegi naturali. Esso è perciò, pel suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto [...]" (v. Marx, 1891; tr. it., pp. 960-961).

Marx accenna anche alle disuguali condizioni di vita, le quali rendono disuguale, di fatto, l'uguale retribuzione per l'uguale lavoro (la situazione del padre di famiglia è diversa da quella, per es., del celibe, ecc.), e conclude: ‟Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista, qual è uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa condizionato, della società" (ibid.). Più oltre, questa ‟prima fase della società comunista" viene designata comprensivamente come ‟socialismo" e distinta dalla ‟seconda" o ‟più elevata fase", definita ‟comunismo", quella in cui la ripartizione dei beni di consumo e dei servizi può essere effettuata secondo il principio ‟a ognuno secondo i suoi bisogni", cosicché viene superata ogni ingiustizia derivante dall'uguale trattamento di individui di fatto disuguali. Circa questa ‟fase più elevata", Marx osserva che in essa ‟la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro" e quindi anche il ‟contrasto tra lavoro intellettuale e manuale" sono destinati a scomparire, e che il lavoro cesserà di essere ‟soltanto mezzo di vita" per diventare il ‟primo bisogno della vita".

Non possiamo proporci qui il compito di discutere la problematica di questa ‟più elevata fase della società comunista". Ci limitiamo a osservare che, se nelle società capitalistiche industrialmente avanzate si compiono già oggi molteplici tentativi di eliminare (attraverso assegni familiari, sussidi per la casa, gratuità dell'istruzione, refezioni scolastiche, ecc.) quelle disuguaglianze che Marx riteneva inevitabili ancora nel ‛socialismo', esse permangono tuttavia in larga misura; e soprattutto esiste ancora in tutte le società capitalistiche una parte (più o meno grande) della popolazione che non vive della retribuzione del proprio lavoro, ma dei profitti, interessi o rendite derivanti dalle sue proprietà private (siano esse sotto forma di capitali, possessi fondiari, ecc.).

Al pari della prima, anche la seconda accezione del termine ‛socialismo' deriva i propri tratti distintivi dalla contrapposizione al comunismo. Da quando il Partito operaio socialdemocratico russo (bolscevico) abbandonò nel 1918 la sua vecchia denominazione per assumere quella di ‛partito comunista', in tutti i paesi frazioni dei partiti socialisti allora esistenti seguirono il suo esempio e si rifondarono sotto la medesima denominazione. I termini ‛socialismo', ‛socialista' e ‛socialdemocratico' acquistarono in tal modo, per così dire automaticamente, un significato critico - e di delimitazione - nei confronti del comunismo leninista. Questa delimitazione, che nei partiti europei andò facendosi sempre più netta col passare del tempo per raggiungere la massima asprezza durante l'era staliniana e la guerra fredda, era voluta espressamente da entrambe le parti. Al secondo congresso del Komintern (Pietrogrado-Mosca, 19/7-7/8/1920) Lenin formulò le ‛condizioni di ammissione' per ogni partito che volesse aderire all'Internazionale, condizioni che rendevano impossibile, di fatto, l'ingresso di partiti socialdemocratici e laburisti.

Molte di queste richieste sono di tale natura che oggi (1975) neppure tutti i partiti comunisti potrebbero soddisfarle interamente. Menzioneremo i punti più importanti. Il primo stabilisce che la propaganda del partito ‟deve avere un carattere realmente comunista" e ‟tutti gli organi di stampa che si trovano nelle mani del partito devono essere diretti da comunisti fidati". Questa richiesta viene poi rafforzata dal punto 12, che esige la ‟completa subordinazione" di tutta la stampa periodica e non periodica del partito al Comitato centrale. Il sesto punto esige la rottura radicale con il ‟socialpatriottismo e socialpacifismo" sia manifesti che occulti; il settimo un allontanamento di tutti i ‛riformisti' e ‛centristi'; l'ottavo una politica decisamente anticoloniale (soprattutto negli Stati che ancora possiedono colonie); l'undicesimo una ‛verifica' della ‟composizione dei gruppi parlamentari"; il tredicesimo l'introduzione del principio del ‛centralismo democratico' e una ‟disciplina ferrea, confinante con la disciplina militare"; il quattordicesimo ‟epurazioni periodiche degli iscritti alle organizzazioni del partito (nuova registrazione)"; il quindicesimo ‟l'appoggio alla lotta dell'Unione Sovietica contro le forze controrivoluzionarie"; il sedicesimo la revisione dei programmi e il loro adattamento alle deliberazioni dell'Internazionale; il diciassettesimo la subordinazione dei partiti nazionali ‟alle deliberazioni dei congressi dell'Internazionale comunista nonché a quelle del suo Comitato esecutivo"; e infine il diciottesimo esige che ‟i partiti mutino la propria denominazione in quella di Partito comunista (del tale paese), Sezione della Terza Internazionale Comunista" (v. Lenin, 1967, pp. 195-200).

Per i capi della maggioranza dei partiti socialisti tali richieste erano semplicemente inaccettabili. In particolare, non era possibile pensare a un'esclusione dei ‛riformisti' e dei ‛centristi', i quali costituivano la grande maggioranza dei gruppi dirigenti della SPD e degli altri partiti socialisti nell'Europa occidentale.

In seguito a questa spaccatura, il movimento socialista fuori della Russia si sviluppò sotto il segno della distinzione, e spesso del contrasto, nei confronti del partito russo (ribattezzato ‛Partito comunista') e dei suoi partiti fratelli nell'Europa occidentale e centrale. La completa vittoria del riformismo all'interno dei partiti rimasti fuori del Komintern (specialmente nella SPD e nella SF10) dipese tra l'altro dal fatto che i marxisti rivoluzionari avevano in grandissima parte abbandonato i partiti socialisti per aderire ai partiti comunisti di nuova fondazione.

Numerosi tratti peculiari del movimento socialista risalgono a questa rottura - causata dalla preminenza del leninismo all'interno della neonata Terza Internazionale - con l'ala rivoluzionaria del movimento operaio. E precisamente: 1) a differenza dei partiti comunisti, da allora in poi i partiti socialisti sottolineano il ‛carattere democratico' non solo del futuro ordinamento sociale (ciò che avevano già fatto espressamente Marx ed Engels), ma anche della ‛transizione' dalla società capitalistica alla società socialista; 2) a differenza di quelli comunisti, i partiti socialisti (almeno nella maggioranza dei casi) ritenevano - e ritengono - possibile una ‛transizione graduale' dal capitalismo al socialismo (riformismo). Per un certo periodo accadde persino che taluni partiti socialisti rinunciassero interamente all'obiettivo di una ‛società socialista' (nel senso marxiano) e si limitassero a correzioni - mediante riforme sociali - del capitalismo, il quale dal canto suo, sulla scia della ‛rivoluzione keynesiana', andava facendosi sempre più dipendente dagli interventi dello Stato in materia finanziaria ed economica. A rigor di termini, partiti come quello laburista inglese non sono neppure ‛riformisti', in quanto - anche se un programma di statizzazione generale è stato mantenuto a parole per decenni - essi non sono affatto interessati a una completa trasformazione della società in senso socialista; 3) a differenza di quelli comunisti, i partiti socialisti sono in pratica sempre pronti a formare coalizioni, mentre i comunisti sono disposti a entrare in coalizioni di sinistra soltanto sotto la minaccia di un ‛pericolo fascista', e spesso soltanto a condizioni inaccettabili dai loro partners. (Il governo di fronte popolare in Francia sotto Léon Blum rappresenta una rara eccezione, anche se al giorno d'oggi, in verità, tanto il Partito comunista italiano che quello francese sono disposti a formare coalizioni con partiti non comunisti). I partiti socialisti hanno perciò sostenuto governi la cui politica a stento mostrava ancora un qualche rapporto con le rivendicazioni e gli ideali del socialismo (si pensi al national government di MacDonald, alle varie coalizioni SPD-Centro nella Repubblica di Weimar e alle coalizioni della SFIO in Francia dopo la seconda guerra mondiale); 4) in continuazione della ‛svolta nazionalistica' dell'estate 1914, la maggioranza dei partiti socialisti - soprattutto nel periodo tra le due guerre mondiali - si sono sempre più saldamente attestati su posizioni nazionalistiche. A ciò ha contribuito anche il pervertimento dell'internazionalismo proletario dovuto alla subordinazione della Terza Internazionale agli interessi dell'Unione Sovietica. Soltanto la seconda guerra mondiale e la coalizione antifascista hanno nuovamente indebolito queste tendenze nazionalistiche. Ma ricordiamo che ancora dopo il 1945 la SFIO, e persino la ricostituita SPD, erano orientate in senso nazionalistico.

D'altro canto, dei termini ‛socialismo' e ‛socialista' abusarono anche partiti che avevano completamente rotto con la tradizione socialista delle riforme e della rivoluzione sociale. Il partito fascista tedesco si qualificava come Partito tedesco ‛nazionalsocialista dei lavoratori' (Nationalsozialistische deutsche Arbeiterpartei) e cercava in tal modo di sfruttare a proprio vantaggio il valore propagandistico di tale etichetta. A parte un paio di punti programmatici riguardanti le riforme sociali e in seguito completamente dimenticati (come la municipalizzazione dei grandi magazzini e la statalizzazione dei trusts), l'ostentata natura ‛socialista' e ‛filooperaia' del nazismo si limitò a parole d'ordine come ‟onore al lavoro", ‟bellezza del lavoro", ‟unità dei lavoratori del braccio e della mente", e alla propaganda di un'armonia sociale sotto il segno della ‛comunità popolare' e della ‛comunità aziendale'. Nel ‛Fronte dei lavoratori' - che aveva sostituito i disciolti sindacati - erano raccolti insieme imprenditori e operai. Il piccolo-borghese declassato Adolf Hitler amava presentarsi come ‛ex operaio'. Anche il valore simbolico della rivoluzionaria bandiera rossa fu ripreso dai fascisti tedeschi (così come i fascisti italiani avevano ripreso il nero dalle bandiere degli anarchici).

Un analogo abuso del termine ‛socialismo' è rintracciabile in una quantità di partiti che detengono il monopolio del potere statale nei paesi ex coloniali. Anche qui la parola è destinata a comunicare l'illusione della giustizia sociale e dell'armonia tra le classi, ma solo per consolidare in tal modo la compattezza e la forza combattiva della nazione.

2. Valori fondamentali del socialismo democratico

Per grande che continui a essere, per il socialismo del sec. XX, l'importanza del marxismo, mi sembra ragionevole cominciare un panorama dei problemi e dei compiti odierni del socialismo non con una ricapitolazione (o ricostruzione) della teoria marxiana dell'evoluzione della società capitalistica, ma con una rassegna dei valori fondamentali del socialismo democratico, così come essi si sono delineati anzitutto negli anni successivi alla seconda guerra mondiale.

Al vertice di tali valori fondamentali del socialismo democratico stanno, con pari dignità, la ‛libertà' e la ‛giustizia sociale'. I socialisti non rifuggono dall'ammettere che le proprie finalità politiche si riallacciano a valori morali (e anche a convinzioni religiose). Il programma di Godesberg della SPD ha espressamente riconosciuto una pluralità di ‛fondazioni' egualmente valide della lotta per il socialismo. Del resto, non soltanto gli utopisti premarxisti, ma anche lo stesso Marx - e così Engels - rivelavano in ultima analisi una motivazione etica quando si schieravano a favore dell'avvento di un nuovo ordinamento sociale. Se questa circostanza è stata trascurata - anche all'interno della socialdemocrazia tedesca avanti la prima guerra mondiale - ciò è dovuto soltanto alla preponderanza che nel marxismo ha l'interesse per l'economia e per la teoria della storia. M. Horkheimer ha osservato una volta, con ragione, come la dimostrazione che un determinato sviluppo è destinato a verificarsi con ‟la necessità di una legge naturale" non sia ancora, per il singolo, un motivo per accelerarne il corso con il proprio intervento. Solo in quanto era convinto - sulla base delle contraddizioni della società capitalistica - dell'inevitabile avvento di un'‟associazione dei liberi produttori", nella quale ‟il libero sviluppo di ciascuno sia la condizione del libero sviluppo di tutti", in Marx venivano a coincidere la visione scientifica del corso necessario dell'evoluzione e l'adesione eticamente motivata a esso. La dimensione etica era per Marx ovvia, giacché era egli stesso un tipico erede della borghesia liberale e delle sue migliori tradizioni.

Il socialismo democratico si rifiuta di attribuire un predominio esclusivo a uno solo dei due valori fondamentali: la libertà e la giustizia sociale. Dipende soprattutto dalle concrete condizioni di un paese quale dei due valori debba essere sostenuto con maggiore energia (senza però che sia mai possibile perdere l'altro interamente di vista).

Con ‛libertà' il socialismo intende anzitutto il libero dispiegamento di ciascuno dei diversi talenti individuali, e in secondo luogo un'organizzazione della società che consenta a ciascuno dei suoi membri adulti di collaborare attivamente al disbrigo degli affari comuni. Questa seconda specie di libertà - la libertà democratica - può essere considerata come una forma della prima; essa ha però, oltre a ciò, anche un'importante ‛funzione strumentale'. Da un lato favorisce il dispiegamento e l'attivazione delle capacità individuali nel processo collettivo di discussione e decisione politica, dall'altro serve a controllare i governanti (i quali, nell'attuale ordinamento basato sulla divisione del lavoro, sfruttano le loro importanti funzioni), e a proteggere i singoli contro il loro potere.

La giustizia sociale è volta all'instaurazione graduale di una completa ‛uguaglianza di opportunità' (diretta a consentire il dispiegamento delle molteplici capacità individuali). È possibile fare alcuni passi su questa strada anche nel quadro di una società basata sulla proprietà privata; o, in ogni caso, è possibile quando tale società abbia raggiunto un alto grado di industrializzazione. Così, per esempio, la gratuità dell'istruzione - anche per i giovani che vogliono proseguire gli studi medi e universitari -, come pure la concessione di borse di studio agli studenti capaci, sono obiettivi realizzabili anche senza il superamento dell'ordinamento basato sulla proprietà privata. In verità, è facile immaginare che i giovani dei ceti abbienti, privati in tal modo di una (piccola) parte dei propri privilegi, cercheranno delle scappatoie per sfuggire all'‛effetto livellante' di una uguaglianza di opportunità nel campo dell'istruzione.

Ma, anche se si raggiungesse l'obiettivo di un'uguaglianza di opportunità formalmente completa in materia di accesso alla scuola media e all'università, rimarrebbero tuttavia, per i giovani delle famiglie operaie, evidenti situazioni di svantaggio: l'ambiente linguistico familiare ostacola lo sviluppo delle doti naturali legate al linguaggio, tanto che i figli di operai ottengono nei test attitudinali (non matematici) risultati inferiori a quelli che corrisponderebbero alle loro doti ‛innate'. La volontà di procurarsi, attraverso l'apprendimento, i presupposti per l'accesso a occupazioni professionali più interessanti è, nelle famiglie operaie, assai meno diffusa che in quelle borghesi e piccolo-borghesi. L'ambiente sociale esercita istintivamente, nell'interesse del mantenimento della solidarietà di classe, un'azione frenante nei confronti degli individui che vogliono emergere. Solo se ci fosse la garanzia che al successo professionale non si associasse necessariamente il passaggio in un'altra classe - ovvero, se la propria occupazione implicasse comunque un effettivo collegamento con la classe d'origine -, questa influenza inibente potrebbe essere interamente eliminata. In alcuni strati discriminati (come i Negri nordamericani o gli Algerini in Francia, i Turchi o altri lavoratori stranieri nella Germania Federale) si aggiunge inoltre una - reale o presunta - mancanza di prospettive di raggiungere una posizione professionale legata a un'istruzione superiore. L'offuscamento dell'orizzonte futuro scoraggia gli sforzi e blocca lo sviluppo intellettuale (e affettivo).

Se si porta la discussione su di un piano concreto, l'obiettivo della giustizia sociale - nel senso di una realizzata uguaglianza delle opportunità - appare straordinariamente difficile e come una meta ancora assai lontana. Su questa strada, l'ordinamento basato sulla proprietà privata non costituisce affatto l'unico ostacolo (anche se è forse il più potente). Che la sua eliminazione non comporti quindi, di per sé, l'instaurazione della giustizia sociale e dell'uguaglianza delle opportunità, è cosa che risulta chiaramente da indagini compiute in paesi a socialismo burocratico sui desideri e sulle opportunità, in materia di scelta professionale, dei giovani di famiglie operaie, i quali - in una percentuale che si aggira spesso sull'80-90% - finiscono per fare gli operai come i loro padri (da ricerche sociologiche condotte in Ungheria). In questo caso, è ben possibile che svolga un ruolo importante, nei confronti di quelli che vogliono emergere, il motivo della solidarietà di classe e dell'influenza ambientale (motivo caldeggiato dagli strati burocratici privilegiati).

Verosimilmente, una completa uguaglianza delle opportunità sarebbe raggiungibile soltanto se scomparissero interamente le forti differenze - nello stile di vita e nel reddito - tra gli elementi altamente qualificati (tecnici, burocrati, funzionari, artisti) da un lato e i semplici lavoratori manuali dall'altro. Per il momento, di una siffatta evoluzione non c'è ancora traccia nei paesi a socialismo burocratico (a differenza di quanto avviene nella Cina Popolare). Nei paesi industrialmente avanzati e orientati verso le riforme sociali (come la Svezia) esiste invece una tendenza verso l'instaurazione di livelli salariali compensativi. Ciò vuol dire che i salari tendono a essere tanto più alti quanto minore è la soddisfazione ricavabile da una data occupazione. A favore della rigorosa attuazione di questo principio gioca anche un incentivo economico addizionale, quello cioè di sostituire in misura sempre maggiore le mansioni superpagate con processi automatici. È, questa, una tendenza che in molti paesi industrialmente avanzati viene frenata da un afflusso di manodopera priva di istruzione (e più economica), la quale non richiede ancora livelli salariali compensativi.

Nella rassegna dei valori fondamentali del socialismo democratico il terzo posto è occupato dalla ‛pace'. Con ciò s'intende, in primo luogo, l'istituzione di un regime di pace tra gli Stati (ancora relativamente) sovrani; quasi sempre vi si associa, però, l'inclinazione ad attribuire grande valore alla ‛pace sociale'. Si constata ancora, è vero, l'esistenza di contrasti tra le classi, ma si assume che: 1) possano essere risolti nella forma di una composizione dei conflitti istituzionalmente regolata (contratti collettivi, scioperi, procedure di arbitrato, ecc.); e che 2) nell'interesse di un progresso pacifico si debba impedire il più possibile lo ‛scoppio di lotte aperte'.

Le due specie di pace, però, non debbono essere necessariamente associate l'una all'altra. Al contrario, conflitti di classe sul piano interno possono anche diventare il presupposto di una pace duratura, quando abbiano lo scopo di strappare il potere a uno strato imperialistico e guerrafondaio della propria società e di condurre lo Stato sotto un controllo realmente democratico.

L'orientamento dei partiti socialisti e laburisti europei verso una politica di pace, anzi una politica pacifista, ha sortito dopo il 1945 grossi successi, ai quali non sono mancati riconoscimenti internazionali. Nel 1975 J. K. Galbraith ha definito i successi delle coalizioni e dei governi socialisti in politica estera come il vero titolo di merito del socialismo nella nostra epoca: ‟Nell'ultimo trentennio la sinistra democratica nei paesi industriali si è dimostrata capace di liquidare l'impegno oltremare (nelle sue forme coloniali e non coloniali). La sinistra francese ha accelerato la ritirata militare dall'Indocina e dal Nordafrica; in altri paesi le sinistre hanno in parte condotto a termine ciò che avevano cominciato. I socialdemocratici tedeschi hanno posto nella sua giusta prospettiva il problema dei territori orientali. La sinistra americana si è messa alla testa di un movimento che ha condotto alla fine dell'intervento in Vietnam" (‟Le nouvel observateur, spécial économie", luglio 1975, p. 70). A questo titolo di merito corrisponde però, secondo Galbraith, un relativo fallimento riguardo al compito di una trasformazione della società capitalistica. Paradossalmente, i successi di uomini politici come W. Brandt, B. Kreisky ecc., si sono avuti proprio nei settori tradizionalmente considerati come tipici dei conservatori. Galbraith fa risalire tale fallimento soprattutto alla mancanza di specialisti abbastanza competenti da guidare un'economia moderna - in conformità a un piano - in modo tale che risultino garantite al contempo la stabilità della moneta e la piena occupazione. Ci si deve chiedere però se - anche nel caso di un migliore sfruttamento degli strumenti esistenti - una guida siffatta sia possibile continuando a mantenere la libertà decisionale in materia di investimenti, sia per le imprese autonome sia per il settore controllato da trusts internazionali.

A questo proposito, i socialisti e i socialdemocratici (per es. svedesi) si differenziano dai comunisti (marxisti-leninisti dogmatici) soprattutto per un maggiore ‛pragmatismo'. Le socializzazioni vengono bensì prese in considerazione in quanto possibile strumento, ma non se ne fa uno scopo assoluto. Se, per esempio, una crescita dell'economia in direzione della piena occupazione, della creazione di centri produttivi non nocivi per l'ambiente e della produzione di beni di consumo durevoli, non è possibile in altro modo, si procede allora a una socializzazione, cioè si sopprime la libertà decisionale dei proprietari o dei loro rappresentanti - in materia di investimenti. E però immaginabile che una tale operazione possa aver luogo anche nella forma di una cogestione (Mitbestimmung), e quindi non sempre necessariamente in quella di una regolare espropriazione.

3. La critica socialista della società industriale capitalistica

Le società capitalistiche contemporanee sono oggetto di critica da parte non solo dei socialisti, ma anche dei conservatori e dei comunisti. Ma, per quanto numerosi possano essere i punti di concordanza, le differenze nelle finalità e nei valori comportano anche differenze nelle critiche che alla società capitalistica vengono rivolte. La critica socialista poggia sui valori della libertà individuale e della giustizia sociale (uguaglianza); valori che, pur essendo alla base anche dell'ideologia borghese (a partire dalla Rivoluzione francese), sono però sempre stati disattesi nella prassi degli Stati borghesi capitalistici. La critica che i comunisti contemporanei di stampo sovietico rivolgono al capitalismo prende invece le mosse, in prevalenza, dal valore dell'aumento della produzione: essa insiste quindi maggiormente sul fatto che il capitalismo è incapace di sviluppare la produzione (e la produttività del lavoro) sino al punto da consentire una piena e onnilaterale soddisfazione dei bisogni di tutti i membri della società. Questa ristrettezza della prospettiva critica si può spiegare, storicamente, considerando l'arretratezza storica della Russia e la sua situazione verso la fine della guerra civile.

Mentre la critica comunista rimprovera al punto di vista socialista la sua affinità con la tradizione borghese, gli uomini politici socialisti hanno a che fare, nella prassi delle società industrialmente avanzate, con una borghesia che si è sempre più allontanata, di fatto, dai valori fondamentali del proprio passato umanistico, e anzi, spesso, li rinnega cinicamente. Questo allontanamento dai valori delle proprie origini è ravvisabile anche sul piano scientifico.

Un esempio tipico è la teoria della democrazia. Nella sua forma originaria, la democrazia era l'autodeterminazione del popolo (o piuttosto della borghesia, che si identificava con il popolo come totalità). Essa si caratterizzava come ‛dominio del popolo', ovvero come ‛identità di governanti e governati'. Nella ‛teoria economica della democrazia', oggi largamente diffusa, troviamo invece semplicemente un'intesa di élites concorrenziali, le quali, in elezioni periodicamente organizzate, combattono per il diritto all'esercizio del potere. L'esistenza di élites al governo (e all'opposizione), e la possibilità ch'esse si scambino i ruoli in seguito a consultazioni elettorali, è ritenuta un presupposto pienamente bastevole per una democrazia efficiente. L'atto del voto (come unica ‛attività' del cittadino) è interpretato in analogia con l'‛atto di compera' proprio del consumatore. La propaganda delle élites concorrenziali per guadagnarsi la fiducia degli elettori è l'analogo della pubblicità dei produttori di merci per procacciarsi i clienti. L'esistenza di oligopoli, che in campo economico è spesso ancora oggetto di critica, in campo politico da lungo tempo non appare più come uno svantaggio. L'esistenza anche solo di due concorrenti è giudicata sufficiente.

A questa concezione ristretta della democrazia viene contrapposta dai critici di sinistra l'esigenza di una ‛democrazia partecipativa', che consenta al singolo cittadino di partecipare direttamente e indirettamente alla formazione delle decisioni politiche in qualsiasi sede (comunale, regionale, provinciale, statale). La teoria partecipativa muove dal principio che una concorrenza di élites non significa libertà democratica, soprattutto se si considera che di solito vi si associa una crescente spoliticizzazione della coscienza dei cittadini, declassati a ‛consumatori di politica'. La critica socialista, inoltre, mette in chiaro che la democrazia delle élites concorrenziali sembra essere un mezzo per mantenere le masse elettorali dipendenti in una condizione di amorfa passività, e per stabilizzare quindi lo status quo socioeconomico (cioè l'esistenza di strati economicamente privilegiati). In una situazione caratterizzata dalla concorrenza di élites partitiche è assai difficile che si sviluppi la coscienza della necessità di radicali riforme di struttura (o di un mutamento rivoluzionano); e in particolare è difficile quando la preoccupazione dei due (o più) concorrenti è necessariamente quella di soddisfare a breve scadenza i desideri della maggioranza degli elettori, e nessun partito ha, da solo, la possibilità di spuntarla contro il peso immenso della pubblicità che il sistema economico mette incessantemente in opera a proprio vantaggio.

Da questa visione delle cose consegue che i partiti socialisti, nella loro attività d'informazione e di propaganda, non possono limitarsi ai brevi periodi delle battaglie elettorali e debbono invece preoccuparsi di innalzare continuamente la coscienza politica della maggioranza della popolazione mettendola dinanzi alla necessità di riforme radicali.

Gli apologeti dello status quo economico e politico argomentano spesso, oggigiorno, che evidentemente la maggioranza della popolazione è contenta del sistema sociale esistente (si sostiene che noi ‛votiamo' quando, per es., compriamo al chiosco dei giornali i prodotti demagogico-reazionari della stampa di massa). Altrimenti si dice all'incirca - come si potrebbe spiegare il flusso continuo (sino all'erezione del muro di Berlino) dei profughi dalla Germania Orientale verso quella Occidentale, e la contemporanea quasi completa mancanza di un movimento in senso inverso? L'interpretazione di questo fatto richiede in verità considerazioni più complesse di quelle fatte comunemente. Bisogna anzitutto ricordare che nella Repubblica Democratica Tedesca c'è un capitalismo di Stato amministrato dalla burocrazia (con una produttività del lavoro inferiore a quella della Germania Federale, e quindi salari reali inferiori); difficilmente perciò, nonostante varie incontestabili conquiste nel campo della sanità e dell'istruzione superiore, essa può presentare attrattive per lavoratori o impiegati tedesco-occidentali. Ciò non vuol dire affatto, però, che, in Occidente, alle condizioni esistenti si accompagni una piena soddisfazione. Indizio di una insoddisfazione diffusa, e spesso non apertamente ammessa, è ad esempio l'aumento delle malattie mentali e la fuga - spesso convulsa - nel consumo (incessantemente stimolato dalla pressione pubblicitaria). Le forme della felicità - in ogni caso una felicità da soddisfare a breve scadenza - che una società capitalistica industrialmente avanzata può offrire ai suoi membri si riducono di nuovo e sempre al consumo, al consumo di merci e di servizi sotto forma di merci (per es., viaggi). Tale consumo, che viene pensato in teoria come aumentabile all'infinito, soddisfa però, almeno in parte, solo per la sua reale o presunta ‛esclusività'; una merce, cioè (prescindendo dal suo materiale valore d'uso), procura una soddisfazione tanto maggiore quanto minore è il numero di coloro che partecipano al suo godimento. E poiché la via al godimento di una merce passa per il pagamento della medesima, ciò significa in pratica che le opportunità di felicità sono direttamente proporzionali al reddito, e quindi che - in quanto la piramide dei redditi termina in una punta sottile - la maggioranza della popolazione deve essere di necessità scontenta e infelice.

È un'infelicità che, in tempi di congiuntura favorevole, trova una certa compensazione nella speranza di un futuro accrescimento delle opportunità di consumo. Ma, non appena le società industrialmente avanzate entrano in uno stadio di crescita più lenta (o addirittura di crescita zero), questo malessere, questa frustrazione sono destinati ad aumentare sino a diventare insopportabili.

Sorge allora il pericolo che le ideologie reazionarie offrano all'‛aggressività' delle masse frustrate degli ‛oggetti' sui quali poter rovesciare la propria insoddisfazione. In altre parole, il passaggio a una ripartizione dei redditi (e delle risorse patrimonali) che risulti almeno un poco meno ineguale diventa tanto piu urgente quanto più s'avvicina il momento in cui - anche soltanto a causa della rarefazione dell'energia e delle materie prime, e della necessità di conservare la biosfera - bisognerà rallentare il ritmo della crescita economica. In quel momento, se non prima, lo sfondo ideologico delle società industrialmente avanzate (training for consumership, status sociale determinato dalle opportunità di consumo e anzi dal conspicuous consumption) dovrà trasformarsi. I termini del conflitto saranno allora i seguenti o si potrà ottenere, con argomenti razionali e con l'instaurazione di una certa giustizia sociale (cioè di una maggiore - anche se non completa - uguaglianza), l'accettazione della crescita zero, oppure quest'ultima richiamerà alla ribalta, come compensazione, ideologie reazionarie.

Per quanto riguarda i paesi industriali, la svolta più importante della critica socialista contemporanea è il ripudio, e anzi addirittura il ‛rovesciamento', del rimprovero mosso da Marx all'economia capitalistica, di non essere cioè in grado di realizzare un aumento della produzione tale da soddisfare effettivamente i bisogni di tutta la popolazione. Rimane pur sempre vero che, anche nelle società più ricche, esiste una povertà di massa; essa non è però la conseguenza di capacità produttive insufficienti, ma soltanto di un'ingiusta distribuzione. Il modo di produzione capitalistico si è dimostrato assai più dinamico e vitale di quanto non presumesse Marx nel 1867. In paesi come gli Stati Uniti e la Germania Federale il problema di gran lunga più urgente per il modo di produzione capitalistico è un altro: come cioè rallentare, ai fini della conservazione dell'ecosfera, la dinamica in esso insita (e di vitale importanza per la sua conservazione).

Il vero problema non è tanto una dinamica insufficiente (derivante dalla caduta tendenziale del saggio di profitto, che ha trovato una compensazione maggiore di quanto Marx presumesse e che si dimostra pur sempre sopportabile per le grandi imprese), quanto il mantenimento di tale dinamica ove rimanga al contempo ‛cieca' la direzione in cui la produzione incessantemente crescente si muove. In modo un po' sommario, la situazione si può descrivere nel modo seguente.

Il capitale può conservarsi solo in quanto (e finché) cresce; e, poiché continuamente riemerge il pericolo di una saturazione del mercato, gli sforzi dei produttori capitalistici sono necessariamente diretti a gettare sempre più rapidamente sul mercato prodotti smerciabili e a far invecchiare attraverso il rapido mutamento delle mode prodotti che sarebbero in sé ancora utilizzabili. L'accorciamento del tempo lavorativo necessario alla fabbricazione di un prodotto non serve quindi (o in ogni caso non in primo luogo) ad abbassare il prezzo del prodotto né a investire per rendere più piacevoli i luoghi di lavoro o potenziare e migliorare servizi di vitale importanza (assistenza sanitaria, trasporti pubblici, scuole, giardini, luoghi di ricreazione, ecc.), ma ad aumentare le vendite dei prodotti (merci). Alla base di una tale direzione dello sviluppo sta anzitutto il principio che soltanto la vendita di merci può procurare un profitto, e in secondo luogo che, nonostante il notevole prelievo operato dal fisco, un'alta quota dei profitti dev'essere impiegata per l'ampliamento delle capacità produttive (e per la pubblicità necessaria alla vendita delle merci così prodotte). Sempre maggiore, perciò, diventa la discrepanza tra ciò che da lungo tempo è tecnologicamente possibile e ciò che di fatto avviene: l'accorciamento del tempo di lavoro rimane fortemente indietro rispetto all'aumento della produttività; l'automazione (cioè l'eliminazione dei lavori ripetitivi e faticosi) viene promossa in misura minore di quanto sarebbe possibile (è specialmente degno di nota che il meccanismo concorrenziale sembra in questo caso indebolito, e che l'interesse per la sopravvivenza non costringe affatto le grandi corporations a operare innovazioni tecnologiche); gli investimenti nel settore pubblico (che non dà profitti) rimangono indietro rispetto al bisogno reale. In altre parole, la cosa veramente nefasta non è la carente dinamica del modo di produzione capitalistico, ma la direzione ‛cieca' - cioè obbediente agli impulsi immanenti al sistema - della dinamica in atto.

Già nel 1951 Th. W. Adorno ha anticipato nei Minima moralia questo mutamento di prospettiva e criticato, nei marxisti, la riduzione dell'immagine del futuro a quella di un aumento indefinito della produzione: ‟L'univocità ingenuamente presupposta della tendenza all'aumento della produzione fa già parte di quello spirito borghese che ammette lo sviluppo in una sola direzione, perché, concluso in sé come totalità, e dominato dalla quantificazione, è ostile alla differenza qualitativa. Se si concepisce la società emancipata proprio come emancipazione da questa totalità, ecco che appaiono linee di fuga che hanno poco in comune con l'aumento della produzione [...]; la società liberata dalle catene potrebbe comprendere che anche le forze produttive non costituiscono l'ultimo substrato dell'uomo, ma una figura particolare dell'uomo, storicamente adeguata alla produzione di merci. Forse la vera società proverà disgusto dell'espansione e lascerà liberamente inutilizzate certe possibilità, invece di precipitarsi, sotto un folle assillo, alla conquista delle stelle [...]. Tra i concetti astratti, nessuno si avvicina all'utopia realizzata più di quello della pace eterna" (v. Adorno, 1951; tr. it., p. 154). Nella sua critica Adorno va anche al di là di quanto sopra accennavo. Non soltanto il ‟folle assillo" all'incessante aumento della produzione dei beni di consumo, ma anche la feticizzazione della produzione e della produttività in quanto tali appaiono ai suoi occhi come un eredità - che deve essere superata - della mentalità borghese. La pace in quanto concetto includente il compimento, l'essere - e non più l'agire e il divenire - sono per lui il simbolo più adeguato dell'utopia realizzata. Negli anni trascorsi dalla sua formulazione, tale principio non ha fatto altro che guadagnare in attualità e importanza.

Al problema di come sia possibile, nelle società industriali moderne, tutelare (o meglio salvare e reinstaurare) la libertà individuale, i critici socialisti danno una risposta radicalmente diversa da quella dei conservatori e dei liberali. Per costoro, la proprietà privata dei mezzi di produzione e l'autoresponsabilità economica dell'individuo (anche se da lungo tempo non più pienamente realizzabili) rimangono però sempre un punto di riferimento. Su tale base, a un ulteriore potenziamento dello Stato sociale assistenziale essi contrappongono la promozione della piccola proprietà. I socialisti partono invece dal riconoscimento che la diffusione della proprietà, e la sua acquisizione, non reca più con sé la possibilità di una reale indipendenza. Il possessore di azioni non può, di regola, neppure utilizzarle per i casi di emergenza: in caso di depressione congiunturale, infatti, il suo risparmio si svaluterà, col risultato che egli può essere addirittura danneggiato da questa forma d'investimento (scarsamente adatta al suo caso), in quanto deve vendere proprio quando l'abile speculatore rastrella azioni a buon mercato. Ma, anche lasciando da parte tutto questo, la somma risparmiata non è mai sufficiente a emancipare dalla necessità del lavoro salariato, al quale - mantenendo intatta la struttura delle imprese è associato un alto grado di illibertà. Su tale base, i socialisti aspirano a un ampliamento (o a una reinstaurazione) della libertà individuale per la grande maggioranza (salariata) della popolazione, e ciò anzitutto in due modi: 1) attraverso una sufficiente sicurezza in materia di disoccupazione, invalidità e vecchiaia (pensione sociale di tipo svedese); 2) attraverso diritti di cogestione esercitati da operai e impiegati nella propria azienda (sul luogo di lavoro, nell'azienda, come anche in sede sovraziendale).
Le assicurazioni sociali diminuiscono la dipendenza dall'azienda (insieme con il diritto a cambiare posto di lavoro, diritto che, in piccole città o in comuni rurali, può naturalmente diventare relativamente irrilevante); il diritto alla cogestione diminuisce la dipendenza nell'azienda e - in condizioni ottimali - fa del dipendente salariato un soggetto che concorre attivamente all'organizzazione dei propri rapporti di lavoro (e della produzione in generale).

Gli avversari del socialismo obiettano a queste due vie: 1) che il potenziamento dello Stato sociale e assistenziale rende il singolo sempre più dipendente dalla burocrazia statale, e che la pretesa a essere assistito paralizza la coscienza della responsabilità personale; 2) che la cogestione da un lato conduce a scalzare la libertà imprenditoriale, indispensabile per l'efficienza dell'economia, e dall'altro mette di fatto il singolo lavoratore sotto la tutela dei sindacalisti, i quali parlano in suo nome: si dovrebbe perciò, almeno, escludere la presenza di sindacalisti estranei all'azienda.

La prima obiezione contiene un elemento di verità, ma lascia in ombra l'altra faccia della medaglia. Con la garanzia di una pretesa giuridica alla protezione - una protezione che non può più essere vista come una ‛grazia' o un'‛elemosina' - è la dignità del dipendente salariato che viene garantita in caso di disoccupazione, invalidità ecc. Scompare (o almeno diminuisce) la paura della disoccupazione e della malattia, e si attenua la dipendenza dagli accidenti della congiuntura e/o della propria salute. Si attua così per lui e per la sua famiglia - e in un modo molto reale - la libertà dal bisogno. La dipendenza dalla burocrazia statale, d'altra parte, può al contempo essere alleviata e resa sopportabile se il suo lavoro si svolge in piena luce ed è sottoposto al controllo, per es., dei sindacati.

Nel peggiore dei casi, comunque, il beneficiano dei servizi sociali scambia la dipendenza dalle imprese o dalle elemosine private ed ecclesiastiche con la dipendenza da una burocrazia statale (assai più efficiente e destinata per legge all'assistenza), che è soggetta a un continuo controllo.

Per quanto riguarda la cogestione, l'affermazione ch'essa comporta una limitazione della libertà imprenditoriale è giustificata solo in quanto il consiglio di amministrazione è effettivamente tenuto a render conto del proprio operato al consiglio di sorveglianza (Aufsichtsrat, composto per il 50% da rappresentanti dei lavoratori). Ma in quanto le sue decisioni siano sollecitate da necessità economiche evidenti, anche i rappresentanti dei lavoratori non faranno opposizione e anzi tanto meno si opporranno se saranno forniti di adeguate conoscenze in materia di economia aziendale (conoscenze che, di nuovo, potranno essere mediate dai rappresentanti sindacali). Con ciò si viene anche a dire che un'efficace cogestione a livello aziendale (al di là della cogestione sul luogo di lavoro) non è realizzabile senza l'aiuto dei rappresentanti degli interessi dei lavoratori: i sindacati.

La critica al collettivismo dello Stato assistenziale e all'onnipotenza dello Stato dei sindacati è un espediente difensivo mediante il quale si vuole stornare l'attenzione dai veri pericoli e dai veri privilegi. Essa muove dall'immagine idealizzata di una società liberale costituita da imprenditori che partecipano al mercato in condizioni di relativa uguaglianza e autonomia: immagine che non ha mai corrisposto alla realtà storica e che tanto meno corrisponde all'odierno capitalismo delle corporations.

Sinora abbiamo parlato della critica che i socialisti rivolgono a una democrazia spogliata del suo contenuto concreto (e alla teoria della democrazia che tale realtà rispecchia), al dinamismo cieco dell'economia capitalistica industrialmente avanzata e alla funzione difensiva degli argomenti - di vecchio stampo liberale - usati contro lo Stato assistenziale. Ma il socialismo riformistico, oltre a ciò, ha anche contribuito alla scoperta di forme occulte di disuguaglianza, di cui sinora non si era fatta parola e che - in forma mutata - sono nuovamente riemerse nelle società e negli Stati a socialismo burocratico.
Se si muove dal presupposto che in una società si può parlare di uguaglianza solo in termini di uguali opportunità - per tutti, senza riguardo per l'origine, il sesso, ecc. - di sviluppare le proprie capacità innate e, attraverso tale sviluppo, di condurre una vita soddisfacente, allora tutte le società sono oggi assai lontane da quest'obiettivo.

Difficilmente si potrebbe contestare la manifesta disuguaglianza delle condizioni di vita degli uomini. Nei paesi che ignorano la povertà di massa, tale disuguaglianza viene accettata da una parte considerevole della popolazione, o almeno vista come non insopportabile. La sua legittimazione, per lo più inconscia e sottintesa, si fonda sulla diversità delle prestazioni. Ora, un tale assunto - almeno per quanto riguarda la distribuzione della proprietà - non regge a una verifica. Continua cioè a sussistere il fatto che una piccola minoranza della popolazione percepisce notevoli rendite fondiarie e una parte considerevole dei profitti di capitale. Nella piramide dei redditi ‛al disotto' della fascia più alta (che rappresenta meno dell'1% della popolazione) si sottintende invece come valida un'approssimativa equazione tra prestazione e reddito. Abilità rare - argomenterà l'economista - avranno un prezzo corrispondentemente alto, e un direttore generale o una cantante d'opera di fama mondiale non riceveranno lo stesso ‛salario' di un fattorino d'autobus. Anche questo argomento difficilmente regge a un esame più accurato, o almeno abbisogna di specificazioni.

I redditi altissimi di beniamini del pubblico - come calciatori, pugili, cantanti, ecc. - svolgono in misura considerevole una funzione di alibi. Il pubblico concede loro alti redditi (che del resto sono inferiori a quelli dei membri, per es., del consiglio di amministrazione di un grande magazzino, ecc.) perché da loro ha ricevuto svago, distrazione, piacere. In questo modo, però, viene al contempo legittimato, come compenso per la prestazione di particolari servizi, anche il reddito, per es., di un direttore generale, i cui emolumenti consistono spesso soltanto in misura minore di compensi monetari diretti, e in misura maggiore di prestazioni e di servizi gratuiti forniti dall'azienda (come la casa, l'aeroplano, l'autista, il giardiniere, ecc.). Tutto ciò rappresenta il compenso per la prestazione di servizi e, al contempo, una sorta di ‛subornazione' mirante a garantire un'identità di interessi con i proprietari (o il proprietario). Nella misura in cui (in seguito alla loro dispersione e disinformazione) diventa più difficile il controllo da parte dei rappresentanti della proprietà, cresce il potere dell'oligarchia di coloro che occupano i posti chiave nelle grandi banche e nelle società per azioni e che si cooptano a vicenda.

La capacità di rappresentare con successo gli interessi del capitale è considerata, in questi circoli, come il decisivo criterio di qualificazione; ciò che è in giuoco, in realtà, è quindi il possesso di certe capacità, cui corrisponde quella che si potrebbe chiamare un'élite di prestazioni. Si potrebbe forse dire che il capitalismo delle corporations destina al successo qualità e disposizioni d'una natura affatto peculiare, le quali hanno ormai relativamente poco a che fare con le qualità imprenditoriali dell'industriale o del grande commerciante classico, ma piuttosto con quelle dell'organizzatore e del propagandista. In una società strutturata in modo diverso altre sarebbero presumibilmente le qualità capaci di condurre chi le possiede a posizioni dirigenziali.

Ma anche lasciando da parte la problematica della speciale ricompensa accordata a qualità che servono unicamente alla conservazione dell'ordine sociale esistente, rimangono tuttavia ancora numerose competenze e capacità, delle quali anche in una società postcapitalistica ci sarà un acuto bisogno e che (almeno per un certo tempo) continueranno a possedere un relativo ‛valore di rarità'; si pensi, per es., a medici, ingegneri, tecnici, artisti, scrittori, professori: tutti costoro - nella nostra società scolarizzata - debbono la propria posizione a una lunga e (socialmente) costosa formazione. Se lasciamo da parte la circostanza che (secondo la stessa definizione marxiana) anche in una società socialista domina - come per l'innanzi - la disuguaglianza sotto la forma di ‛salario disuguale per lavoro disuguale', allora l'unica rivendicazione realizzabile di giustizia sociale viene a essere che almeno ogni bambino riceva proprio quella formazione che, corrispondendo alle sue disposizioni innate, gli consenta il pieno sviluppo di se stesso. La giustizia sociale, così, coinciderebbe con la prima realizzazione generale del ‛principio della prestazione'. Ognuno sarebbe debitore della sua posizione nella società esclusivamente a se stesso (e alle sue qualità, portate al pieno sviluppo con l'aiuto della società).

Naturalmente, oggi nessuno richiederà che questo principio della prestazione sia applicato in tutto il suo rigore, giacché le leggi esistenti provvedono, già nel quadro delle società capitalistiche avanzate, a diminuire la disuguaglianza delle condizioni di vita che si accompagna alla disuguaglianza delle prestazioni: la progressività delle imposte provvede ad alleggerire i percettori di redditi bassi o bassissimi, mentre assegni familiari di vario genere (Francia e Germania) e analoghe sovvenzioni a carico dell'erario compensano la disuguaglianza effettiva del carico finanziario delle famiglie senza riguardo alle prestazioni lavorative dei loro membri (o meglio, in misura inversamente proporzionale ai redditi percepiti). La compensazione rimane però di gran lunga insufficiente, mentre d'altra parte il bisogno di tali meccanismi diventerà tanto più incalzante proprio se ai riformatori sociali riuscirà di realizzare sul serio l'uguaglianza di opportunità. In una società nella quale ciascuno dovrà dire a se stesso di dovere la propria posizione (e quindi il suo reddito) esclusivamente alle proprie prestazioni, l'accettazione di una posizione ‛inferiore' diventerà psicologicamente ancor più insopportabile.

Per il momento, i membri della società possono, in maggioranza, ancora appellarsi alla circostanza di non avere avuto l'opportunità di sviluppare le proprie forse latenti - disposizioni in quanto la casa paterna, l'istruzione insufficiente e la precoce necessità di guadagnare hanno loro impedito una più adeguata formazione. In una società nella quale siffatti ostacoli siano invece stati smantellati e/o ne sia stato corretto l'influsso, questa motivazione perderà la capacità di alleviare, psicologicamente, il peso delle situazioni singole. Per questa ragione, la perfetta attuazione della società della prestazione (‟da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo il suo lavoro", come suona la vecchia formula socialista) riuscirà sopportabile per la popolazione soltanto se sarà accompagnata dall'eliminazione delle maggiori differenze di reddito (cioè da un ‛livellamento' delle fasce salariali e retributive in genere), e da una concomitante intensificazione dell'autogestione e della cogestione da parte di tutti i lavoratori. Soltanto nella misura in cui siano realizzate tali misure correttive, l'attuazione - implicita nel socialismo - del principio della prestazione può risultare sopportabile per i singoli. Per le società industrialmente avanzate dei nostri giorni, la transizione a un socialismo ‛non corretto' non è più possibile. Lo stadio socialista deve, sin dall'inizio, già recare con sé caratteristiche del comunismo, deve cioè avvicinarsi - anche se agli inizi possa essere ancora necessario mantenere, in limitata misura, differenze di reddito basate su differenze di prestazione - al principio ‟da ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni".

Nel frattempo, però, noi siamo ancora piuttosto lontani anche dalla realizzazione dell'uguaglianza delle opportunità di partenza. La tendenza generale all'accettazione di valori democratico-egualitari ha comunque avuto l'effetto che soltanto pochi (e piccoli) partiti ripudiano apertamente questa rivendicazione. Tutt'al più si afferma che non può essere realizzata interamente. Ciò che nella pratica si verifica, naturalmente, è un inasprimento della lotta per l'introduzione e l'applicazione di misure capaci di tradurre tale esigenza nella realtà.

Su questa strada, il primo passo era la gratuità dell'istruzione, che in teoria doveva aprire a tutti gli strati della popolazione l'accesso anche alle scuole superiori (ginnasi, licei, istituti tecnici). Divenne presto evidente, però, come tale misura non bastasse ad aprire effettivamente ai giovani delle famiglie operaie l'accesso alle università. La prospettiva di entrare nella vita lavorativa, e quindi formare una famiglia, con cinque o più anni di ritardo trattiene molti giovani della classe lavoratrice dall'intraprendere la lunga strada degli studi superiori e universitari. A ciò si aggiunga che l'ambiente d'origine: genitori, amici e conoscenti, vede istintivamente, nell'‛ascesa individuale', un tradimento della solidarietà con la classe d'origine e quindi, anche se il giudizio rimane inespresso, ne fa oggetto di condanna morale. Timori siffatti possono essere eliminati con successo (e in modo non illusorio) solo se la scuola si trasforma da istituzione della società divisa in classi in scuola per tutto il popolo: in altre parole, se la vecchia scuola superiore cede il posto a una scuola globale, come, per es., accade da lungo tempo in Svezia. Ciò vuol dire che la totalità dei giovani frequenta per nove (o dieci anni) la stessa scuola, nella quale - senza riguardo per l'origine sociale - vengono stimolate nel modo migliore tutte le doti individuali. In tal modo si sottrae ai genitori dei ragazzi di dieci anni la decisione: scuola superiore o prosecuzione della scuola elementare? Quando poi avranno quindici anni - si suppone - i ragazzi saranno in grado, con l'aiuto dei consigli del proprio insegnante, di decidere da soli.

Ma queste misure non sono sufficienti a superare le forme di disuguaglianza che impediscono a molti ragazzi di sviluppare le proprie disposizioni. Le misurazioni del quoziente d'intelligenza (in base a test sia verbali che non verbali) hanno mostrato che, nei bambini di famiglie operaie, il Q.I. verbale rimane notevolmente indietro rispetto a quello non verbale, mentre negli altri bambini i due valori vanno all'incirca di pari passo. Ciò ha fatto riconoscere che, nelle case proletarie, la socializzazione pregiudica lo sviluppo e la differenziazione delle capacità linguistiche, il che danneggerà in seguito i bambini. Si rende perciò necessario, onde controbilanciare questo svantaggio di partenza, un insegnamento linguistico compensativo per i bambini delle classi inferiori. Sennonché numerosi pedagogisti progressisti hanno rifiutato l'adozione di provvedimenti del genere in quanto essi discriminerebbero i bambini provenienti da un ambiente linguistico proletario e conferirebbero una validità generale alla norma linguistica ‛borghese'. Bisognerebbe piuttosto riorientare la scuola, nel senso di indurla ad ammettere con pari diritti, accanto alla lingua letteraria, la lingua colloquiale usata dagli strati proletari (con le sue abbreviazioni e semplificazioni, e con tutta la sua rozzezza e carenza di differenziazione). Per comprensibile che sia il movente d'una simile rivendicazione, nella pratica essa si risolverebbe in una stabilizzazione della disuguaglianza, giacché sarà assai più facile per i bambini di estrazione borghese e piccolo-borghese l'‛apprendimento addizionale' del codice ridotto (Basil Bernstein) che non l'inverso (e d'altra parte ogni sforzo diretto a compensare questo deficit viene energicamente riprovato).

Siamo dunque dinanzi al dilemma: o la lingua colloquiale delle famiglie proletarie viene discriminata attraverso l'insegnamento linguistico compensativo, e il bambino viene allora potenzialmente estraniato dal suo ambiente d'origine; 0vvero si tralascia l'insegnamento compensativo, ma allora al bambino rimangono precluse certe possibilità di differenziare e articolare i suoi sentimenti, di sviluppare la propria individualità o di raggiungere un'adeguata comprensione della letteratura. Anche se Adorno aveva qualche ragione a beffarsi di un certo primitivismo osservabile nell'‛appropriazione dei beni culturali' da parte dei socialdemocratici (avanti la prima guerra mondiale), è pur vero che non si può negare l'importanza, ai fini di un pieno dispiegamento della propria sensibilità spirituale, di un aiuto che favorisca l'acquisizione di capacità linguistiche adeguatamente differenziate. In definitiva, la padronanza della lingua letteraria, con le sue molteplici possibilità espressive, significa anche ‛potere', capacità di convincere, capacità di operare al di là della cerchia, geograficamente - e, nella maggior parte dei casi, linguisticamente - condizionata del proprio ambiente di classe. Ciò che sinora è riuscito, mercé sforzi appositi e contro notevoli resistenze esterne, solo a singoli membri delle classi inferiori, deve essere reso possibile alle cerchie più vaste.

L'ottimizzazione del sistema scolastico in quanto premessa dello sviluppo delle - diverse - capacità individuali costituisce poi la premessa di analoghi effetti positivi anche all'interno del processo produttivo basato sulla divisione del lavoro. Idealmente il suo risultato sarebbe questo, che ognuno finirebbe con l'occupare il posto nel quale può meglio realizzare se stesso e, quindi, meglio riuscire utile alla società. Sennonchè, nessuno vorrà dare per scontato che esistano sempre ed esattamente tante disposizioni naturali quante sono le funzioni che possono essere assegnate. Non è possibile supporre una siffatta armonia prestabilita. Bisogna piuttosto ammettere che esiste un numero di talenti naturali considerevolmente maggiore di quanti ne vengano adoperati - nel quadro di una società basata sulla divisione del lavoro - per l'espletamento di funzioni di alto livello. Ora, nel caso che questi talenti siano tutti sviluppati, sorge il problema seguente: chi, fra tutte le persone (egualmente) fornite di una data capacità, assumerà le relative funzioni (professioni)?

A questo riguardo la società socialista, com'è realizzabile oggi nell'ambito dei paesi industrialmente avanzati, si spinge nuovamente oltre i propri confini tradizionalmente concepiti: la sovrapproduzione di elementi qualificati non conduce a un'ulteriore frustrazione soltanto se viene completata dal superamento dell'asservimento dei singoli, vita natural durante, alla divisione del lavoro. La maggior parte dei vecchi marxisti ha sottolineato questo punto soprattutto per quanto riguarda la sfera politica: una sovrapproduzione, per es., di amministratori competenti spezzerebbe il monopolio della burocrazia, e una rotazione dei funzionari potrebbe avere l'effetto di impedire che i detentori di cariche si isolino dai concreti interessi della popolazione, consolidando e perpetuando il proprio potere. Ma qualcosa di simile si potrebbe sostenere riguardo a tutti gli altri campi. Con l'eccezione di poche funzioni, che a coloro stessi che le esercitano e alla società sembrano ‛non trasferibili' (arte? scienza?), tutte le altre attività dovrebbero essere intercambiabili. Che poi ci si debba rappresentare tale avvicendamento al modo dell'utopia di Fourier (cioè, come un avvicendamento continuo nell'ambito stesso della giornata lavorativa), ovvero, più realisticamente, che uno muti la sua attività principale una o due volte nella vita, non ha grande importanza. L'essenziale è che gli elementi altamente qualificati non rimangano sterilmente inattivi, e non sorgano quindi nuove frustrazioni.

Accanto alla rotazione delle attività (superamento dell'asservimento alla divisione del lavoro, il che però non esclude la sopravvivenza di funzioni diverse) la possibilità di una compartecipazione al processo decisionale nello Stato e nella società (nell'azienda, ecc.) permetterebbe poi la pratica applicazione di una parte delle capacità che si saranno così sviluppate. Bisognerebbe, infine, anche provvedere che il cosiddetto tempo libero possa essere adoperato come tempo dedicato all'esercizio delle facoltà acquisite: esso dovrebbe quindi, rispetto a oggi, mutare radicalmente la propria natura. Il tempo libero cesserebbe allora di essere semplicemente il tempo della riproduzione della capacità lavorativa e di essere dissipato nel consumo passivo di merci e servizi, per diventare il tempo della libera spontaneità e realizzazione di sé, che ha in se stesso il proprio fine.

Anche il problema di procurare ai membri della società capacità e possibilità che consentano loro un uso produttivo (per se medesimi) del tempo libero è stato preso in considerazione da alcuni governi socialisti (specialmente in Danimarca e Svezia). La sua importanza è destinata a crescere ulteriormente con l'accorciamento del tempo di lavoro.

4. Critica socialista al socialismo di Stato (capitalismo di Stato, socialismo burocratico)

Come abbiamo visto, il fatto di prendere le distanze dal comunismo sovietico (e la sua critica) ha contribuito in modo essenziale alla separazione del movimento operaio socialista dalla sua ala estremista, comunista. Una tale separazione, naturalmente, è stata sempre ignorata da coloro che avversano le riforme sociali e la rivoluzione in tutte le loro forme. I fascisti, quando parlavano di ‛bolscevismo', intendevano riferirsi sempre anche ai socialisti e ai socialdemocratici, e i clerico-autoritari austriaci combattevano con la violenza delle armi sia gli uni che gli altri. Talvolta, socialisti e comunisti sono anche arrivati - soprattutto nei periodi di persecuzione - a concordare azioni comuni. Il ristagno della vita politica dovuto alla sistematica esclusione dei partiti comunisti, che in certi casi hanno saputo guadagnarsi sino a un terzo dell'elettorato, ha condotto in Francia a un'alleanza dei socialisti con i comunisti. Ma perché queste alleanze possano risultare davvero solide, i socialisti devono riuscire a impegnare il partner all'osservanza delle norme di una costituzione democratica, la quale preveda la protezione delle minoranze, il pluralismo dei partiti, l'indipendenza dell'amministrazione della giustizia e la libertà di stampa.

È in generale vero - almeno fintantoché il socialismo non sia semplicemente un richiamo da sfruttare per un'estrema linea di difesa contro una rivoluzione più radicale - che i socialisti criticano il comunismo non già perché vuol mutare l'assetto capitalistico della proprietà, ma perché, di fatto, esso ha condotto a porre l'intera popolazione (compresa la classe operaia) sotto la tutela di una casta privilegiata di burocrati, la quale presume, né più né meno, di realizzare la volontà di tutti quanti i lavoratori. Non si può in verità negare che questa critica socialista al comunismo è spesso tornata assai comoda ai conservatori, che potevano così stornare l'attenzione dai propri motivi di opposizione. Essi hanno sfruttato persino le critiche di un Kautsky o di una Rosa Luxemburg, traendone immediatamente pretesto per denunciare anche i socialisti democratici come illusi lontani dal mondo, dimentichi del fatto che il socialismo deve di necessità condurre a un burocraticismo di tipo sovietico. Accade così che sia i reazionari sia gli apologeti dell'Unione Sovietica concordino nella stessa tesi: tale è necessariamente il volto del socialismo! La critica dei socialisti al socialismo di Stato, perciò, ha sempre due aspetti: se da un lato combatte l'autoritarismo burocratico di una élite di partito, dall'altro vuol distinguere tra il socialismo e la sua caricatura.

In una forma un po' diversa i socialisti democratici potrebbero ben riprendere le parole di K. Kraus, il quale, rispondendo polemicamente alla lettera di un'anonima dama della nobiltà ungherese, nel 1920 così si esprimeva: ‟Il comunismo in quanto realtà non è se non il contraltare della sua [cioè delle classi dominanti] ideologia che insulta la vita - facendo però grazia al comunismo di una più pura origine ideale. [...] Il diavolo si porti la sua prassi, ma Iddio ce lo conservi come una costante minaccia sulla testa. di coloro che posseggono terre e che, con la consolazione che la proprietà non è il valore supremo, vorrebbero cacciare tutti gli altri verso il fronte della fame e dell'onore della patria. Iddio ce lo conservi, affinché questi gaglioffi, la cui insolenza già ora non sa più dove rivolgersi, non diventino ancora più insolenti; affinché la società degli aventi l'esclusiva del piacere, la quale ritiene che l'umanità a essa sottomessa riceva abbastanza amore quando si prende da loro la sifilide, vada almeno a letto con un incubo; affinché, almeno, le passi la voglia di fare la morale alle proprie vittime, e il buon umore per scherzarci sopra!" (v. Kraus, 1962, pp. 33-34).

Un tale grido d'indignazione morale, come anche il saluto rivolto da Kraus al comunismo in quanto costante minaccia sospesa sul capo degli oppressori e degli sfruttatori possono suonare troppo retorici, anche se in verità sentimenti analoghi agitavano probabilmente parecchi socialisti. In effetti, i successi che i partiti socialisti hanno potuto conseguire in Occidente in materia di riforme sociali e di miglioramento delle condizioni di vita della classe operaia possono in parte essere messi sul conto della paura che le classi dominanti hanno avuto del comunismo; o comunque è accaduto che, là dove la situazione economica generale lo permetteva senza mettere in pericolo la base della propria esistenza, la classe dominante si è mostrata condiscendente. Quando, invece, il margine per soluzioni di compromesso si era fatto troppo angusto (come negli anni 1932-1933 in Germania), la classe dominante ha naturalmente fatto ricorso senza scrupoli ai movimenti reazionari di massa e al terrore fisico (nonché alla liquidazione delle istituzioni democratico-liberali e dello Stato di diritto).

La critica socialista al capitalismo di Stato sovietico si distingue dalla critica liberale per il suo proposito di dimostrare che - se non prima, con la proibizione di una pluralità di piattaforme all'interno del partito unico - ciò che è andato perduto nell'Unione Sovietica non è soltanto la libertà degli individui, ma anche la garanzia del rispetto degli interessi dei lavoratori. Il partito monolitico guidato con mano di ferro da Lenin (partito che, di fatto, nel 1917 non era da lungo tempo così unitario come la teoria avrebbe richiesto), se poteva rendere buoni servigi nella lotta politica per il potere, una volta diventato la spina dorsale di una società e della sua amministrazione - e dopo la proibizione di tutti gli altri partiti operai e contadini - non poteva che degenerare necessariamente ad apparato burocratico-dittatoriale. Se, almeno agli inizi, il dualismo di apparato di partito e apparato statale garantiva al cittadino sovietico (e al lavoratore) un certo margine di libertà e una certa protezione dall'oppressione, con la totale fusione degli apparati anche questi margini dovevano purtroppo scomparire del tutto.

Il potere statale, che di necessità cresceva enormemente con la statizzazione dei più importanti mezzi di produzione, avrebbe richiesto, come contrappeso, un'intensificazione del controllo dal basso. Avvenne invece il contrario: la libertà di stampa, la libertà di associazione e di riunione furono di fatto abolite. Anche la Costituzione sovietica del 1936 riserva questi diritti esclusivamente alle organizzazioni controllate dal partito unico. Solo tali organizzazioni possono disporre di carta, locali, macchine tipografiche. L'opposizione e il dissenso sono costretti a ricorrere, per la diffusione di libri e riviste, a metodi di riproduzione proibiti (samizdat).

La giustificazione dell'operato dei comunisti viene ravvisata nella necessità di un'accelerata edificazione del socialismo e di una rapida industrializzazione del paese. In verità, un tale duplice compito non era stato quasi preso in considerazione da Marx e da Engels (e, prima del 1918, neppure da Lenin); ma, dopo la conquista del potere politico, la leadership sovietica non credette di potersi fermare a uno sviluppo semicapitalistico controllato. Prevalse dunque la ‛rivoluzione permanente' (preconizzata da Trotzki), che oltrepassava senza indugio la fase dello Stato borghese democratico e dell'economia capitalistica (sia pure controllata e corretta in senso sociale). Ma, se ai primi passi in questa direzione aderirono spontaneamente anche gli operai delle grandi fabbriche, la continuazione di un tale programma a opera dell'apparato burocratico condusse - dopo la fine della NFP - a una ‛rivoluzione dall'alto' (Stalin), che dalla Germania bismarckiana mutuava non soltanto il nome, ma anche le caratteristiche, emerse sempre più chiaramente dopo il 1934, di una gerarchia di livelli e di poteri dotata di tutti quei simboli tradizionali (uniformi, insegne di rango, onorificenze, ecc.) che il movimento operaio aveva un tempo così risolutamente criticato e combattuto. Nasceva così una società stratificata con rilevanti forme di privilegio, la quale, se in verità non può essere definita, in termini marxiani, come una società di classi, ben costituiva però una nuova gerarchia di caste. La mobilità verticale è limitata, se prescindiamo dall'ascesa folgorante di certi funzionari, ascesa resa possibile da Stalin attraverso la liquidazione quasi completa del gruppo dei vecchi comunisti e le periodiche purghe del partito.

La critica socialista a uno sviluppo siffatto si appunta anzitutto contro la forma autodistruttiva assunta dalla collettivizzazione dell'agricoltura (dalla quale, a causa della resistenza dei contadini, derivarono la carestia e il ristagno della produzione agricola): distorsione che fu di fatto agevolata dall'eliminazione di tutti i meccanismi che potevano consentire al regime un'efficace autocorrezione. Ma, oltre a ciò, la critica socialista vuol anche mostrare come lo smantellamento di tutti i meccanismi democratici di controllo, e la loro sostituzione con ‛procedure di acclamazione' controllate dall'alto, fosse non soltanto illiberale ma anche antisocialista, e risultasse nocivo persino dal punto di vista della mera redditività dell'economia nel suo complesso. Il fatto che, più di sessant'anni dopo la Rivoluzione d'ottobre e più di trenta dopo la seconda guerra mondiale, l'Unione Sovietica rimanga fortemente indietro, in materia di produttività sia industriale che agricola, rispetto alla Germania Federale e agli Stati Uniti è un eloquente argomento contro la forma dell'ordinamento economico adottato. Una minore produttività del lavoro significa in pratica che nell'Unione Sovietica i contadini dei kolchoz e gli operai debbono lavorare di più (e più a lungo) dei loro colleghi americani e tedeschi per ottenere lo stesso prodotto. E difficilmente questi svantaggi potranno essere controbilanciati dai servizi sociali forniti dallo Stato (nel campo della sanità, dell'istruzione, dei trasporti, della cultura).

Ancor più pesante si è rivelato il fatto che gli eccidi in massa e i processi farsa dell'epoca staliniana (ufficialmente ammessi, dopo il 1956, anche nell'Unione Sovietica) hanno arrecato al socialismo un discredito vastissimo. Per quella via, Stalin diede indirettamente, e proprio negli anni della grande crisi economica mondiale, un contributo difficilmente valutabile alla stabilizzazione dell'ordinamento economico capitalistico. L'esistenza dell'‛Arcipelago Gulag' ha, verosimilmente, dato alla stabilizzazione dello status quo un contributo maggiore di tutti gli sforzi riuniti dei partiti conservatori. R. Aron ha potuto, con argomenti persuasivi, paragonare questo gigantesco esercito di lavoratori coatti all'‛esercito industriale di riserva' del capitalismo e alla miseria di massa all'epoca dell'accumulazione primitiva capitalistica. L'alternativa alla forma privato-capitalistica dell'industrializzazione, qual è offerta dall'Unione Sovietica, è apparsa scarsamente convincente ai bene informati operai dell'Europa occidentale. Soltanto la rottura con lo stalinismo (1956) e la - assai timida invero - liberalizzazione dei rapporti nei paesi del Patto di Varsavia (e del Comecon) hanno potuto in qualche misura mutare il loro atteggiamento.

Ora, se è vero che - almeno in parte - è possibile spiegare l'evoluzione dell'Unione Sovietica come inevitabile conseguenza delle specifiche condizioni di vita del nuovo Stato (sottosviluppo industriale, distruzioni dovute alla guerra civile, accerchiamento capitalistico), ciò che tuttavia non si può giustificare (né presentare come necessario) è la subordinazione del movimento mondiale del marxismo rivoluzionario (comunismo) ai modelli sviluppatisi nell'Unione Sovietica. È proprio a causa del pericolo di un tale adattamento e di una tale ‛imitazione' che i seguaci di Rosa Luxemburg già nel 1919 criticarono lo stabilirsi del Comitato esecutivo del Komintern nell'Unione Sovietica. Accadde così - e non solo per quanto riguarda l'Unione Sovietica dell'epoca staliniana, ma per tutto il movimento mondiale - che caratteristiche russe, come la specifica situazione d'emergenza degli anni dell'edificazione e l'arretratezza, diventarono ‛virtù' generali. A uno svolgimento siffatto portò un decisivo contributo la cristallizzazione dogmatica del materialismo dialettico e storico e la sua trasformazione in un'ideologia giustificazionistica amministrata dalla burocrazia di partito. Questo irrigidimento dogmatico ha poi sortito anche il risultato che le forme specifiche dell'edificazione sociale nella Cina Popolare furono dai marxisti sovietici fraintese e sottomesse a una gretta critica. Ancora e sempre i partiti dell'Europa occidentale debbono lottare contro il partito fratello dell'Unione Sovietica per il riconoscimento di una ‛via propria', giacché la dogmatica (e astratta) identificazione delle esperienze sovietiche con la ‛dottrina generale' storna lo sguardo dalla concretezza e varietà delle situazioni storiche. La dogmatica immobilità, che abbiamo appena caratterizzata, ha condotto i partiti comunisti a numerose sconfitte (per es. negli anni trenta in Cina, Spagna, ecc.).

Col 1968, come già nel 1956, un altro capo d'accusa è stato formulato contro l'Unione Sovietica e l'orientamento da essa rappresentato. Il 21 agosto di quell'anno l'Unione Sovietica e i suoi alleati (con l'eccezione della Romania) occuparono con un colpo di mano la Cecoslovacchia e, con l'uso della forza, costrinsero il partito che governava quel paese ad accettare l'occupazione illimitata - da parte delle truppe sovietiche - e la modificazione della sua politica interna. In quell'occasione, la critica si appuntò soprattutto contro la concessione della libertà di stampa e della libertà di costituire partiti (meno invece contro la riforma dell'economia, che non si distingueva granché dal modello ungherese). La giustificazione dell'intervento fu ravvisata, da parte sovietica, nella minaccia incombente di un Putsch reazionario o di un ingresso nel paese di truppe tedesco-occidentali, e nella mancata adozione, da parte del governo, di adeguate contromisure. L'imperativo della solidarietà socialista (comunista) avrebbe dunque obbligato gli Stati del Patto di Varsavia a intervenire. A siffatti argomenti tutti i critici occidentali (come anche quelli all'interno del campo socialista) contrapposero il principio, basato sul diritto internazionale, della non ingerenza nelle faccende interne di uno Stato sovrano.

Anche il partito e il governo della Cina Popolare aderirono a questo punto di vista (a differenza di quanto accadde in occasione dei fatti ungheresi del 1956, quando Mao Tse-tung approvò esplicitamente l'intervento).

Mentre i commentatori conservatori (e liberali) spiegarono l'intervento dell'Unione Sovietica e dei suoi alleati come una logica conseguenza del comunismo, e - indirettamente - mostrarono un certo sollievo per la fine violenta dell'esperimento cecoslovacco di un comunismo dal ‛volto umano', la critica dei socialisti era resa ancor più aspra dal fatto che in quell'occasione erano stati soffocati sul nascere promettenti accenni di una democratizzazione. Si prese a pretesto per l'intervento la minaccia di un Putsch reazionario proprio quando, per la prima volta dopo molti anni, si andava costituendo un'ampia solidarietà tra governo e popolo: per questa ragione non è assolutamente possibile paragonare quest'ingerenza con le armi con l'ingerenza a favore di un governo democratico minacciato dal fascismo.
Il caso della Cecoslovacchia può essere interpretato come un indizio della paura che la leadership sovietica (o polacca, o tedesco-orientale, ecc.) nutre nei confronti di un socialismo veramente democratico, il quale avrebbe una straordinaria forza d'irradiazione in tutti questi paesi. Ma, anche qualora sussista il pericolo (come parecchi socialisti privatamente ammettono) che un movimento mirante a un socialismo democratico oltrepassi il segno e conduca alla restaurazione del capitalismo, ciò costituirebbe un argomento eloquente contro il sistema esistente del socialismo burocratico di Stato (o capitalismo di Stato) piuttosto che contro il socialismo democratico. L'esistenza di un pericolo siffatto significherebbe che l'operato del regime sovietico (in più di sessant'anni) e quello delle repubbliche popolari (in più di trenta) non hanno ancora definitivamente conquistato al socialismo la maggioranza della popolazione: è un certificato di inettitudine che difficilmente potrebbe essere presentato in pubblico.

Da quanto abbiamo detto, si può dedurre come non sia possibile escludere la possibilità di una restaurazione del capitalismo nei paesi governati da un socialismo burocratico di Stato. Il socialismo democratico, al contrario, fornirebbe una garanzia abbastanza certa contro la ricaduta nel sistema capitalistico, in quanto l'economia pianificata sarebbe necessariamente posta al servizio dei bisogni concreti della popolazione, e la popolazione stessa potrebbe, non solo formalmente ma anche materialmente, partecipare con pienezza alle decisioni di interesse collettivo. Mai il pericolo di una restaurazione del capitalismo fu minore che nel momento in cui, alla testa della Repubblica cecoslovacca, si trovò un governo che era sostenuto dalla maggioranza della popolazione e che riconosceva il diritto a una critica aperta. I governi dei paesi organizzati burocraticamente possono certo, in base ai rapporti delle spie della polizia sugli umori della gente, farsi un quadro dell'opinione della popolazione, ma tale quadro può essere ingannevole. I governi democratici hanno invece a disposizione il termometro dei risultati elettorali, delle dimostrazioni, della critica aperta in discorsi, libri, riviste ecc. Per questa ragione essi non possono mai - per quanto l'opinione pubblica possa venir deformata - allontanarsi dai desideri della popolazione nella stessa misura dei governi dei paesi burocratici. L'identità democratica di governanti e governati non è attuata oggi in nessun luogo, ma gli Stati burocratici sono da essa più lontani che non gli Stati democratico-capitalistici (anche se forse meno lontani dei paesi capitalistici governati da un regime di polizia).

5. Socialismo e paesi in via di sviluppo

Sinora abbiamo parlato esclusivamente dei problemi dei paesi capitalistici industrialmente avanzati. Ma la maggiore miseria e le maggiori (o comunque più oppressive) disuguaglianze sociali sono oggi osservabili nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Si tratta di paesi e di territori che l'ampliamento del mercato mondiale capitalistico ha strappato al loro tradizionale ordinamento economico e sociale e ridotto alla condizione di aree periferiche del capitalismo mondiale. A rigore, il loro sottosviluppo è uno sviluppo più o meno fortemente deviato, uno sviluppo che è stato determinato esclusivamente dagli interessi delle imprese capitalistiche nelle metropoli (e dagli interessi statali delle potenze coloniali), e non dai bisogni stessi dei territori colonizzati.

Nella loro critica al sistema coloniale i socialisti europei possono rifarsi a una lunga tradizione. L'oppressione dei popoli coloniali fu già per tempo sottoposta a critica. Ci furono però - purtroppo - anche coloro che parlarono di una sorta di missione civilizzatrice dell'Europa, giustificando il colonialismo come una forma di europeizzazione e di ‛progresso'. In Germania si distinse in modo particolare, per il ricorso a siffatti argomenti, il socialdemocratico M. Schippel. Egli pensava che, anche se avevano bisogno delle materie prime dei paesi oltremare, gli operai tedeschi non si sarebbero fatti ricattare da barbari incivili, tanto più che non si facevano sfruttare ‛neppure' (!) dai capitalisti di casa loro. Una volta che si avesse bisogno delle materie prime d'oltremare, era dunque meglio averne ‛il controllo diretto'. Si dovevano così custodire i possessi coloniali dello Stato capitalista, affinché lo Stato socialista potesse poi ereditarli.

Ma anche lasciando da parte questi eccessi nazionalistici, il rapporto del socialismo con il colonialismo non era privo di ombre. Lo stesso Marx mostra talvolta un atteggiamento ambivalente, quando ad esempio da un lato critica gli orrori del colonialismo inglese in India e in Cina (guerra dell'oppio), ma dall'altro saluta, come inizio del cammino verso l'industrializzazione e il socialismo, la dissoluzione del modo di produzione asiatico e il superamento del suo secolare ristagno in seguito alla penetrazione del capitalismo europeo. Il colonialismo (come anche il capitalismo in genere) è suo malgrado un veicolo del progresso, di un progresso che, anche quando costa alle masse sangue e miseria, non per questo cessa di essere tale. È vero che nella speranza di Marx, la rivoluzione proletario-socialista mondiale avrebbe, in un tempo relativamente breve, provocato la fine del colonialismo, ma questo aspetto del problema aveva per lui un interesse assai marginale. Per Marx, il centro dell'evoluzione della storia universale stava chiaramente in Europa e nel Nordamerica. Soltanto quando una rivoluzione socialista avesse vinto in queste aree industrializzate, si sarebbe potuto risolvere anche il problema dello sviluppo (rapido e senza intoppi) degli altri paesi del globo.

Le cose sono andate diversamente da come supponevano Marx ed Engels, Kautsky e Rosa Luxemburg. I centri industrializzati del mercato mondiale - con l'eccezione di alcuni Stati che hanno aderito in un secondo tempo al Comecon - sono ancora e sempre capitalisti, mentre nei paesi del Terzo Mondo, dopo la decolonizzazione politica, si è rafforzata la tendenza in direzione di movimenti socialisti. È vero che in molti Stati la decorativa etichetta di ‛socialismo' serve ad abbellire un capitalismo burocratico (e nazionale) di Stato, ma comunque la diffusione della ‛parola' denuncia l'influsso della cosa.

I problemi economici e i conflitti sociali, che occorre superare in questi paesi, sono notevolmente diversi da quelli che aveva in mente Marx e da quelli che stanno dinanzi ai paesi industrialmente avanzati. Anzitutto, manca in tutti una classe operaia idonea a svolgere il ruolo di soggetto della trasformazione socialista della società. In alcuni Stati latinoamericani la classe operaia, esigua e costituita in notevole misura da lavoratori qualificati dell'industria, rappresenta uno strato privilegiato piuttosto che un elemento rivoluzionario. La stragrande maggioranza della popolazione povera (sottoccupata, affamata) consiste di contadini e braccianti e delle loro numerose famiglie. La meccanizzazione dell'agricoltura con l'aiuto di macchinari importati libera una quantità sempre maggiore di manodopera e, con l'inasprirsi della concorrenza, manda a picco le piccole aziende, quando non accade che i contadini stabilitisi come affittuari vengano senz'altro cacciati dai proprietari. Le società cooperative di grandi dimensioni sono quasi sconosciute e la loro costituzione è ostacolata dai governi, controllati dalle oligarchie agrario-commerciali. Anche là dove - come in Messico - sono state attuate riforme agrarie (distribuzione della terra dei latifondisti), si verifica una nuova incessante concentrazione dei possessi fondiari, che ricaccia nella miseria le famiglie senza terra. In questa situazione, le città cresciute oltre misura funzionano come centro d'attrazione per la popolazione eccedente delle campagne, e sono circondate da una cintura di miserabili sobborghi. La popolazione di questi quartieri è in maggioranza così apatica che difficilmente può essere presa in considerazione come fattore attivo di un movimento rivoluzionario, sicché, per il momento, le riforme possono essere avviate soltanto dall'alto. E portatori di tali riforme (può trattarsi anche di riforme di struttura, come quelle promosse da Allende in Cile) possono essere, nelle condizioni date, soltanto élites di intellettuali (ivi compresi ecclesiastici di tendenze radicali), le quali si valgono dell'appoggio passivo delle masse povere e della loro possibilità di mobilitazione. Un marxismo recepito in modo dogmatico non può, in una situazione del genere, offrire alcuna guida all'azione. Movimenti come quello di P. Freire in Brasile, che negli abitanti degli slums cercano anzitutto di svegliare la coscienza della dignità umana e della loro situazione - e della possibilità di una sua trasformazione -, acquistano invece grande importanza. In particolari circostanze, anche i militari (capitani, cadetti di scuole militari) possono diventare il motore di un movimento politico, in quanto hanno ricevuto un'istruzione sufficiente e d'altra parte, per i loro continui contatti reciproci, possono facilmente associarsi in vista dell'attuazione di obiettivi politici.

In certi paesi accade anche che si formi un'alleanza di contadini, piccolo-borghesi, intellettuali e settori della borghesia nazionale, i quali tutti si sentono oppressi dallo strapotere delle imprese straniere. Ma in generale tali alleanze hanno vita assai breve. La maggior parte dei paesi in via di sviluppo scavalcano la fase capitalistico borghese. Nella misura in cui ancora predominano sistemi economici capitalistici (come nella maggioranza dei paesi del Terzo Mondo), essi dipendono in considerevole misura dagli Stati industrialmente avanzati e dalla loro economia; le borghesie locali sono di solito strettamente associate all'apparato statale (per lo più facilmente controllabile) dei vari paesi.

L'atteggiamento dei socialisti negli Stati industriali è (o dovrebbe essere) determinato da quel principio della ‛solidarietà internazionale' che vale anche tra i movimenti operai di quegli stessi Stati. Ciò vuol dire che, nella misura in cui i socialisti possono esercitare un influsso sui loro governi, o hanno essi stessi responsabilità di governo, dovrebbero adoperarsi per: 1) mutare i terms of trade a favore dei paesi del Terzo Mondo produttori di materie prime; 2) indurre i governi dei paesi industrializzati a fornire, con aiuti tecnici, con la concessione di know how e con l'assistenza per lo sviluppo di un'infrastruttura e di una tecnologia realmente corrispondenti ai bisogni dei paesi in via di sviluppo, un contributo al risarcimento delle ingiustizie subite da questi paesi e dalle loro popolazioni.

Quello che abbiamo qui caratterizzato come un ‛dovere morale' corrisponde però, sino a un certo punto, anche agli interessi - se intesi con lungimiranza - dei paesi industrializzati. L'abisso crescente - constatato anche da papa Paolo VI nell'enciclica Populorum progressio (26/3/1 967) - tra il tenore di vita della popolazione del Terzo Mondo e quello degli Stati industrializzati non è soltanto un problema morale dei ‛sazi', ma anche un problema politico. Per questa ragione un partito realmente socialista in uno Stato industrializzato capitalistico non potrà esimersi dal prestare ai movimenti antimperialisti del Terzo Mondo la sua simpatia (anche se non un sostegno attivo). Delle socialdemocrazie europee al governo soltanto il partito svedese si è mosso con chiarezza (pur se con cautela) su questa strada. Dopo essersi lasciati dietro le spalle oscuri trascorsi nella guerra d'indocina, anche i socialisti francesi hanno dato espressione alla loro simpatia per questi movimenti.

Senonché, tanto è indiscutibile il dovere morale di una tale opzione, quanto è problematica la sua concretizzazione nei casi singoli. L'Internazionale socialista, alla quale appartengono sia il partito di governo d'Israele sia parecchi partiti del Terzo Mondo (che condannano Israele), non può neppure garantire la pace tra i suoi membri. E accade che anche Stati industrializzati socialisti (e comunisti) concludano accordi con Stati produttori di petrolio - che hanno represso nel sangue i propri partiti socialisti (e comunisti) - e si astengano da ogni polemica contro quei regimi autoritari. La dipendenza dei paesi industrializzati dalle importazioni di petrolio si dimostra più importante della solidarietà con i socialisti (o i comunisti) perseguitati.

Per quanto riguarda la ‛forma dello sviluppo' dei paesi del Terzo Mondo verso l'industrializzazione, il ‛modello di sviluppo cinese' è stato il primo a mostrare quanto possa essere sbagliato l'accoglimento immediato della tecnologia degli Stati industrializzati. Ad esempio, l'importazione di trattori provoca in Brasile un accrescimento, e non già una diminuzione, della miseria contadina. All'aumentata produttività per addetto all'agricoltura corrisponde un accresciuto dispendio tecnologico (e quindi di capitale). Ora, poiché le importazioni debbono essere pagate con le esportazioni (a prezzi in parte calanti) la cosa si risolve di fatto in una perdita: una perdita che si scarica, in primo luogo, direttamente sulla popolazione contadina. È perciò molto più ragionevole promuovere lo sviluppo di tecnologie produttive meno dispendiose e a più alta intensità occupazionale, le quali aumentino la produttività senza accrescere parallelamente il dispendio di capitale e quindi senza appesantire la bilancia commerciale. Tecnologie del genere, inoltre, possono almeno in parte essere sviluppate direttamente sul posto. La concessione di know how tecnico deve adattarsi ai bisogni immediati delle regioni e dei paesi interessati (e delle loro masse lavoratrici).

Questo non significa che si debba abbandonare l'edificazione di una propria industria pesante, si tratta piuttosto di trovare le proporzioni ‛ottimali' dell'economia, come anche una forma di sviluppo che eviti quel tipo di controllo sociale mediante la miseria di massa che fu caratteristico dell'Europa. Ciò vuol dire che lo sviluppo deve cominciare dalla produzione agricola e dall'industria leggera, e che bisogna accontentarsi di tecnologie più semplici prima di poter compiere i primi passi verso l'industria pesante e verso l'industrializzazione dell'agricoltura. In un processo del genere, sussiste la possibilità che almeno alcuni dei paesi in via di sviluppo dedichino sin dall'inizio ai problemi ecologici un'attenzione maggiore di quanto non sia accaduto nei primi paesi industrializzati.

Mentre nelle società industrialmente avanzate i socialisti hanno in mente una transizione democratica e graduale al socialismo e ripudiano le forme di transizione violente, una via analoga non è certamente possibile in tutti i paesi in via di sviluppo. Sinora i partiti socialisti non hanno elaborato una posizione unitaria verso i movimenti di guerriglia e tutte le altre forme di resistenza armata contro il neocolonialismo e contro quei governi che di fatto rappresentano gli interessi dei trusts e delle grandi potenze capitalistiche. Il loro atteggiamento ha oscillato tra la decisa presa di posizione adottata dai socialdemocratici svedesi durante il conflitto vietnamita a favore del movimento di liberazione e la subordinazione della lotta antimperialista nel Terzo Mondo alle esigenze del conflitto Est-Ovest, come ha fatto la leadership centrista del Labour Party (ma non la sua sinistra). Un socialista che voglia giudicare in base alla concretezza storica dovrebbe guardarsi dal trasporre frettolosamente le condizioni a lui familiari a paesi strutturati in modo affatto diverso. Tanto poco appare oggi necessaria negli Stati industrializzati - in presenza della democrazia e dello Stato di diritto - la violenza rivoluzionaria, quanto invece può diventare indispensabile in un paese come il Cile odierno, sottoposto a una dittatura militare. D'altra parte, la condanna in blocco di ogni violenza si addice assai poco ai governi e agli ideologi borghesi, in quanto essi stessi non sono altro che i diretti o indiretti beneficiari, o gli eredi, di rivoluzioni violente. Gli studenti contestatori americani, che hanno nuovamente portato alla luce questa verità storica e che distribuivano volantini con la Dichiarazione d'indipendenza americana, furono tacciati e perseguitati dai conservatori come ‛comunisti': a tanto può arrivare l'oblio (o la rimozione) della storia! (V. anche sottosviluppo e terzo mondo).

6. Forme della transizione pacifica al socialismo

Come abbiamo già sottolineato nell'introduzione, il socialismo contemporaneo muove dalla premessa che - almeno nelle società industrialmente sviluppate - è possibile una transizione pacifica e democratica al socialismo. In verità, sinora non è mai accaduto che un governo socialista abbia, sulla base della propria maggioranza parlamentare, realizzato un ordinamento socialista della società, ma c'è la convinzione (per es., nei socialdemocratici svedesi) che su questa via sia possibile una transizione lenta, graduale (‟a passo di lumaca", dice G. Grass) verso altre forme di società. P. Vinde - un eminente economista socialista svedese che è stato anche sottosegretario del Ministero dell'economia - ravvisa nello sviluppo della Svezia dopo il 1932 (anno in cui i socialdemocratici arrivarono per la prima volta al governo) una continua ma non conclusa marcia di avvicinamento all'obiettivo socialista. La via democratica e riformista verso il socialismo consiste secondo lui in ciò, ‟che il potere dei cittadini viene esteso sempre di più, mentre quello del capitale è sempre di più ricacciato indietro". Lo svantaggio di questo metodo è la sua lentezza, nonché il pericolo di scendere a troppi compromessi, così da rischiare di smarrire l'obiettivo lungo il cammino. Il suo vantaggio consiste invece nell'appoggiarsi sulla volontà politica della maggioranza, il che dà alle riforme una solida base. L'obiettivo rimane fermamente delineato come segue: ‟[...] una società nella quale il popolo intero decida sulla produzione e distribuzione dei beni; una società basata sulla libertà, l'uguaglianza, la democrazia e la solidarietà" (‟Le nouvel observateur, spécial économie", luglio 1975, p. 58).

Le riforme che Vinde ha in mente sono la pensione sociale per tutti, l'istruzione generalizzata e gratuita (e obbligatoria per nove anni), l'assistenza sanitaria gratuita, la sicurezza dalla disoccupazione (la garanzia del ‛diritto al lavoro'), ecc. In vista di ciò, la statizzazione non è considerata uno scopo in sé, ma uno strumento cui far ricorso soltanto quando (e nei casi in cui) ogni altra misura sia fallita. Così, ad esempio, il programma della Svezia di statizzazione dell'industria farmaceutica, serve a mettere interamente sotto controllo i prezzi delle medicine (le farmacie sono statizzate già da lungo tempo). Anche la speculazione sulle aree è stata resa impossibile (o almeno limitata) da leggi apposite, e una gran parte delle abitazioni è diventata di proprietà dei comuni.

Mentre la statizzazione si ritira un po' nello sfondo, il potenziamento della democrazia e la democratizzazione dell'economia hanno svolto in Svezia (come anche nel programma della coalizione di sinistra in Francia) un ruolo importante. La pianificazione statale fu avviata già nel 1932 con l'obiettivo del superamento della disoccupazione, che appariva come ‛la prima delle disuguaglianze'. Negli ultimi anni lo Stato si è sentito impegnato a procurare a ogni cittadino - uomo o donna - un lavoro conforme alla sua dignità. ‟Nell'odierna recessione mondiale - prosegue Vinde - noi abbiamo deciso di compensare la contrazione dei mercati mondiali con l'espansione interna e di non rassegnarci ad accettare la disoccupazione. La nostra bilancia commerciale è peggiorata, ma il saggio di occupazione è cresciuto e non abbiamo che una disoccupazione assai modesta" (ibid., p. 59). Altri compiti della pianificazione statale riguardano lo sviluppo regionale e l'aiuto in caso di cambiamento del posto di lavoro (e per l'ulteriore qualificazione dei lavoratori). La pianificazione ha quindi, secondo Vinde, due obiettivi principali: 1) la sicurezza della piena occupazione; 2) ‟lo sfruttamento razionale del suolo, delle risorse idriche e delle materie prime".

Ciò significa che la pianificazione deve controllare lo sviluppo tecnologico e garantire la protezione dell'ambiente. Ma in questo modo si rafforza anche e in primo luogo la posizione del consumatore. In sempre maggior misura lo Stato (cioè la comunità) si assume la protezione dei consumatori dai prodotti nocivi o senza valore o troppo cari, e costringe i fabbricanti a rispettare norme prefissate. Inoltre, lo Stato provvede direttamente a mettere a disposizione di tutti certi servizi essenziali che non sono forniti - o almeno non nella quantità sufficiente e a prezzi accessibili - dagli imprenditori privati, e cioè l'assistenza sanitaria, i servizi sociali, la cultura, l'istruzione. In tal modo la quota del consumo sociale (cioè del consumo dei servizi summenzionati) è salita in Svezia, negli anni 1964-1975, dal 14 al 240. Ciò vuol dire che quasi un quarto dei consumi dello svedese medio è assicurato dallo Stato (qualunque sia la prestazione lavorativa dei singoli beneficiari).

La cogestione nell'azienda, in Svezia, è regolata dal 1974 in modo che ogni azienda con più di 100 dipendenti deve avere nel consiglio di amministrazione due rappresentanti dei sindacati. Questi rappresentanti sono stati preparati dai sindacati - con l'aiuto dello Stato - allo svolgimento delle loro mansioni, e dispongono di adeguate conoscenze specifiche che consentono loro un controllo effettivo sulla direzione dell'azienda nell'interesse dei lavoratori. ‟A partire dal 1975, una nuova legge per la garanzia della sicurezza sul posto di lavoro ha ulteriormente rafforzato la posizione dei rappresentanti sindacali nell'azienda. In certi casi, essi possono ora anche bloccare la produzione, quando si siano formati la convinzione che essa comporti seri pericoli per la salute dei lavoratori" (ibid.). Le modalità dell'assunzione e del licenziamento della manodopera, come anche la sua distribuzione nell'azienda ecc., saranno in futuro oggetto dei contratti collettivi stipulati tra imprenditori e sindacati. ‟Senza la preventiva approvazione del sindacato, l'imprenditore non potrà più introdurre nell'azienda alcun mutamento essenziale" (ibid.).

Senza mutare in linea di principio l'assetto della proprietà, in questo modo ‟si muta radicalmente il ‛rapporto di forza' tra imprenditori e lavoratori", un mutamento che riguarda anche il settore pubblico, nel quale i sindacati hanno una posizione egualmente forte. Vinde richiama esplicitamente l'attenzione sui problemi che in una simile situazione nascono da un conflitto tra la democrazia politica (che controlla e insedia i capi delle aziende statali) e il controllo diretto dal basso, esercitato dai sindacati. Nei paesi a socialismo di Stato conflitti di questo genere sono negati a parole, mentre sono di fatto repressi, giacché i capi sindacali sono inseriti nella gerarchia dello Stato e del partito, e in genere ignorano (o almeno non mettono al primo posto) gli interessi diretti dei lavoratori.

Sembra però, infine, che si stia procedendo a una lenta socializzazione delle grandi imprese (delle società per azioni). Questa transizione segue una strada alla quale accennò incidentalmente anche Marx (riguardo all'Inghilterra): la strada cioè dell'‛accaparramento'. ‟Il fondo statale per le pensioni (che dispone di enormi mezzi finanziari) ha cominciato nel 1974 a fare incetta di azioni di grandi società. Il diritto di voto derivante da queste partecipazioni viene esercitato dai relativi sindacati aziendali" (ibid.). Nel 1974 fu bloccato circa un terzo degli utili (detratte le tasse) delle grandi aziende svedesi. Questi mezzi finanziari possono essere sbloccati, con il benestare dei sindacati, solo per promuovere miglioramenti delle condizioni dei lavoratori. ‟Attualmente, i sindacati stanno studiando le modalità di un'operazione che consentirebbe loro di partecipare alla crescita economica delle società e di acquisire quote crescenti della proprietà" (ibid.). Alla fine di un simile processo si avrebbe una società socialista, la quale godrebbe di tutte le conquiste utili del capitalismo e si sarebbe risparmiata i pesanti intralci e la perdita di produttività che una rivoluzione reca necessariamente con sé.

Quello svedese può essere considerato come il modello meglio riuscito di uno sviluppo riformistico (ormai progredito) verso il socialismo democratico. I presupposti perché questa via abbia successo sono: 1) una democrazia sufficientemente consolidata (e garantita da complotti di forze reazionarie); 2) un movimento operai o politicamente attivo, con una leadership non corrotta e non integrata.
In particolare il primo dei due presupposti non potrebbe esser dato per scontato in tutte le società industrializzate dell'Occidente, come ha dimostrato l'esempio del Putsch militare cileno e la sua esaltazione, nella Germania Federale e altrove, a opera di riviste e uomini politici ‛liberali'. Quando si tratta di salvare la proprietà privata, numerosi uomini politici conservatori sono ancor oggi evidentemente pronti a sacrificare la democrazia e ad abbassare gli standard della morale politica. Le azioni che si sono incessantemente rimproverate a Fidel Castro come un crimine, il generale Pinochet le può compiere senza biasimo alcuno (almeno finché egli non ‛esagera' e, soprattutto, finché ‛ha successo').

Ma anche quando siano adempiuti entrambi i presupposti, non sarà facile, per un partito socialista fautore di riforme radicali, ottenere nelle elezioni una maggioranza sufficiente. La difficoltà è strettamente connessa con il mutamento della struttura sociale nei paesi industrialmente avanzati e con il grande influsso dei mass media, per lo più dominati da circoli filocapitalistici e conservatori. Se è vero che negli Stati industrializzati lo strato dei percettori di salari e stipendi costituisce la grande maggioranza della popolazione (l'80% e più), all'interno di esso, però, i lavoratori dell'industria raggiungono a stento la metà, mentre l'altra metà è costituita da impiegati che lavorano negli uffici e nei servizi (amministrazioni, assicurazioni, agenzie di viaggi, banche, ecc.). Ora, attraverso questo spostamento del baricentro sociale verso gli impiegati - i white-collar workers, il nuovo ceto medio - la disponibilità a organizzarsi e la mentalità dei percettori di salari e stipendi hanno subito un mutamento considerevole. Da un lato, si sono formate organizzazioni separate per gli impiegati e i funzionari (per es., nella Germania Federale), e dall'altro il grado di organizzazione è in questo strato assai minore che nei lavoratori industriali delle grandi fabbriche. Ma è soprattutto la loro mentalità - con il suo orientamento verso i valori borghesi: concorrenza delle prestazioni, interesse alla carriera, attenzione ai problemi di status - che distingue nettamente i white-collar workers dai blue-collar workers, cioè dai lavoratori impegnati nella produzione materiale.

Negli anni successivi alla prima guerra mondiale lo strato impiegatizio in rapida crescita - fu un importante campo di reclutamento per il fascismo. Dai suoi ranghi sono poi usciti, sinora, di preferenza democratici cristiani, ma anche aderenti alla socialdemocrazia (moderata), i quali hanno esercitato un ben determinato influsso sull'orientamento di questo partito. Non di rado i rappresentanti dell'ala destra all'interno dei partiti socialisti sono ex piccoli impiegati od operai che hanno progredito nella scala sociale, mentre i capi dell'ala sinistra provengono spesso dall'intellettualità e dalla borghesia. E come base di massa dell'ala destra troviamo proprio lo strato dei white-collar workers (inteso in senso ampio, sino ai funzionari). Non è facile, in genere, convincere questo strato della necessità di promuovere un programma di riforme radicali, di struttura. Esso è convinto che i partiti socialdemocratici siano necessari unicamente in quanto strumento utile per la correzione di taluni aspetti unilaterali (solo temporanei) del capitalismo, nonché come mezzo di difesa preventiva contro il temuto comunismo. Questo strato tende comunque in massima parte - almeno in tempi di congiuntura favorevole - a mantenersi apolitico, o almeno non è disposto a impegnarsi attivamente nel lavoro politico.

Gli interessi oggettivi dei membri di questo strato - che rientrano nella classe dei percettori di salari e stipendi - coinciderebbero interamente, sulla lunga distanza, con quelli degli altri percettori di salari, ma i loro interessi soggettivi, e i loro interessi immediati (a breve scadenza), si discostano in misura non indifferente da quelli dei lavoratori della produzione. Dinanzi all'ascesa materiale della manodopera industriale, questo strato si sente minacciato nella sua posizione speciale più di quanto non si senta incline a salutarla con soddisfazione. Il graduale eguagliamento dei diritti degli operai a quelli degli impiegati (in materia di ferie, assicurazioni, opportunità di consumo nel tempo libero) e il superamento, in parte già osservabile, degli stipendi dei semplici impiegati da parte dei salari più alti ha un effetto nocivo sulla solidarietà. A causa dell'indeterminatezza che caratterizza la categoria degli impiegati, il semplice fattorino e il commesso di un grande magazzino possono collocarsi nella stessa classe del direttore generale o dei membri del consiglio di amministrazione, e quindi, nella loro immaginazione, scavare un abisso tra sé e i lavoratori della produzione. Si aggiunga che - ancor più che nel settore della produzione - i posti malpagati nei gradi inferiori della gerarchia impiegatizia sono occupati da donne.

Ora, le donne considerano spesso il proprio lavoro come un'occupazione temporanea, e definiscono la propria collocazione sociale in base alla professione del futuro marito piuttosto che in base alla loro attività del momento. Per questa ragione il grado di sindacalizzazione degli impiegati donne è in genere particolarmente basso. Al contempo, l'esistenza di impiegati subalterni di sesso femminile (dattilografe, stenotipiste, perforatrici) procura agli impiegati maschi la sensazione di godere di una posizione più elevata, in quanto essi hanno spesso (o si attribuiscono) nei confronti delle loro colleghe una certa limitata facoltà di impartire ordini. In tal modo, le donne svolgono spesso negli uffici un ruolo analogo a quello svolto nelle fabbriche dai lavoratori stranieri: indeboliscono la solidarietà dei salariati nel loro complesso, giacché i loro interessi (in quanto lavoratrici temporanee) non coincidono pienamente con quelli dei lavoratori permanenti; e d'altra parte la loro posizione subordinata all'interno della gerarchia (a onta dell'obbligo formale dell'eguaglianza - uguale salario per uguale lavoro - obbligo che però nella pratica non è pienamente realizzato in nessun luogo) suscita negli impiegati - e operai - maschi la sensazione (ingannevole) di godere di una posizione migliore, sensazione che contribuisce a tenerli nei ranghi.

Negli anni passati questa mentalità impiegatizia è stata già infranta in alcune imprese. Si è arrivati a scioperi comuni di operai e impiegati, e frequenti sono stati i casi di impiegati che hanno aderito al sindacato generale, anziché al proprio sindacato di categoria. Nelle rivendicazioni degli scioperi è stata esplicitamente accordata anche da impiegati (per es., tecnici di fabbrica) la precedenza agli interessi degli operai peggio pagati e, circa gli aumenti salariali, è stata adottata la richiesta di aumenti eguali (scartando quindi gli aumenti percentuali, che lasciano invariata la gerarchia salariale). Ma la solidarietà si è formata soprattutto nella rivendicazione della cogestione in materia di mutamenti da apportare al processo lavorativo (velocità della catena, pause, norme riguardanti l'intensità del lavoro, ecc.). Su questi punti i tecnici hanno riconosciuto la comunanza d'interessi con gli operai. Nella misura in cui le rivendicazioni operaie oltrepassano i problemi meramente salariali e investono i problemi della struttura e della direzione dell'azienda, è più facile che si formino posizioni comuni di operai e impiegati. Nelle generazioni più giovani, anche la preoccupazione per i problemi di status sembra in declino.

A onta di questi accenni promettenti in direzione di una maggiore solidarietà di classe, non si può parlare, nei paesi industrialmente avanzati, di una classe lavoratrice unitaria e quindi di un movimento operaio che ne esprima gli interessi. In parte, le differenze di salario, di stipendio e di status vengono esplicitamente accentuate e potenziate dai vertici aziendali, onde frenare per questa via l'estendersi della solidarietà. La concessione di premi speciali, che rappresentano una gran parte delle entrate, oltre che da sprone all'intensificazione dei ritmi di lavoro serve anche a ricompensare la docilità e la passività. Per questa ragione, acquista un'importanza crescente il diritto d'intervento dei membri dei consigli di fabbrica (rappresentanti sindacali) i quali possono ostacolare una tale strumentalizzazione delle varie gratifiche aggiunte a salari e stipendi. Tuttavia, difficilmente la totalità dei percettori di salari e stipendi - almeno a scadenza non troppo lontana - potrà costituirsi in unità (cioè come una ‛classe unitaria e cosciente di sé'). Nel migliore dei casi può accadere che un partito operaio riformista (e nazionale) raccolga la maggioranza dei voti di questi settori dell'elettorato (ma, verosimilmente, neppure la metà dei voti degli impiegati). Poiché, d'altra parte, diminuisce al contempo la quota relativa degli operai impegnati nella produzione, la dinamica dello sviluppo industriale non è più destinata necessariamente (e spontaneamente) a procacciare ai partiti socialisti e operai, nei paesi industrializzati, nuovi (potenziali) elettori. Proprio per questo il ruolo della propaganda elettorale e dell'informazione diventa sempre più importante.

D'altro canto, per quanto riguarda il problema dell'interesse che obiettivi socialisti possono rivestire per i percettori di salari e stipendi, l'interrogativo se si tratti di lavoratori produttori di plusvalore ovvero di lavoratori pagati con reddito non ha un peso decisivo. Il confine tra i due gruppi è controverso e, spesso, è difficile determinarlo con precisione. A rigore, sono produttori di plusvalore soltanto gli operai e impiegati (ingegneri, ecc.) che costituiscono una parte del ‛lavoratore complessivo'. Al lavoratore complessivo appartengono tutti coloro - dal progettista al manovale - che partecipano alla produzione del plusprodotto; già i commercianti, i banchieri, i pubblicitari, gli esperti di marketing non sono più annoverabili nel lavoratore complessivo, e i loro salari e stipendi sono detratti dal reddito del capitale. Bisognerebbe quindi supporre che - nell'interesse dell'accrescimento del reddito del capitale - anche le loro remunerazioni siano mantenute basse. Ma, poiché le loro prestazioni sono (in un sistema capitalistico) assolutamente indispensabili per l'avvio della produzione, e d'altra parte la loro esistenza, oltre a ciò, può contribuire a rafforzare la stabilità politica, i loro servigi sono di norma ben ricompensati. In quanto però essi offrono le proprie prestazioni sul medesimo mercato del lavoro dal quale provengono anche i lavoratori produttivi (cioè i lavoratori che, appartenendo al lavoratore complessivo, producono plusvalore), si può supporre che pure i loro salari oscillino intorno al valore della merce forza-lavoro.

Ora, se è vero che la loro esistenza, in quanto parte del carico generale costituito dai costi addizionali della valorizzazione del capitale, grava sulla base costituita dal lavoro produttivo nel suo complesso, per ciò che riguarda la loro posizione sociale essi sono invece dei venditori della propria forza-lavoro esattamente come i lavoratori produttivi. Economicamente, essi si trovano nella stessa situazione di quei percettori di salari, i quali come già in passato anziché produrre plusvalore siano al servizio diretto di persone benestanti e badino al loro comfort privato (in qualità di cuochi, autisti, giardinieri, ecc.). Il fatto che, in forza del sistema economico, essi siano pagati con reddito non è comunque attribuibile a una loro ‛colpa' personale. E se la prestazione di servizi personali a uno strato di privilegiati comporta spesso un adattamento mentale ai suoi valori (si pensi al servitore aristocratico, il butier inglese), difficilmente potrebbe dirsi lo stesso delle masse di impiegati che lavorano nelle agenzie pubblicitarie, nelle banche, nelle società di assicurazioni, ecc. Non si vede perciò per quale ragione essi non debbano solidarizzare con i lavoratori produttivi. D'altra parte, il confine è spesso problematico.

Prendiamo il caso degli impiegati di un'agenzia pubblicitaria. In quanto questa vende a un'altra ditta la pubblicità (come merce o come servizio), si tratta certo di lavoro produttivo: il proprietario della ditta (il possessore del capitale) sfrutta la forza-lavoro (dei suoi disegnatori, autori di testi, ecc.) per ricavare un profitto (plusvalore) dalla vendita della merce così prodotta. Se invece si considerano gli impiegati nel reparto pubblicità di una società, possiamo almeno supporre che si tratti di lavoratori improduttivi, il cui salario viene pagato con reddito, viene cioè detratto dai profitti del capitale. Maggiore è il plusvalore che l'imprenditore spreme dai propri lavoratori (produttivi), e maggiore sarà la somma che potrà stornare per il proprio reparto pubblicità. In questo caso, si potrebbe quindi supporre che gl'interessi dei lavoratori di un'azienda e quelli dei pubblicitari impiegati nella stessa azienda siano in contrapposizione, mentre nel primo esempio erano in contrapposizione soltanto gl'interessi della ditta che forniva e quelli della ditta che comprava la pubblicità, com'è il caso di ogni rapporto di compravendita. In definitiva, si potrebbe quindi supporre che sia più facile sensibilizzare a obiettivi socialisti gl'impiegati di un'agenzia pubblicitaria indipendente che non gl'impiegati del reparto pubblicità di una società. Ma anche questa conclusione appare dubbia. Può ben darsi, infatti, che agli impiegati del reparto pubblicità il nesso tra aumento dei profitti del capitale e risparmio sui loro salari appaia molto più immediatamente chiaro che non agli impiegati di un'agenzia pubblicitaria indipendente.

Nel complesso, a me sembra che il processo di informazione e di presa di coscienza - il quale prende le mosse dalla circostanza che, in una società capitalistica, chiunque non disponga di mezzi di produzione propri è costretto a vendere la propria forza-lavoro a un proprietario di mezzi di produzione - sia perfettamente in grado non solo di far emergere l'affinità di situazione di tutti i percettori di salari e stipendi (sia che forniscano un lavoro produttivo per il capitale sia che forniscano servizi - pagati con reddito - necessari per la sua valorizzazione), ma anche di persuadere della necessità di un controllo collettivo sui mezzi di produzione (aziende) e sull'economia.

Gli impiegati e i funzionari che, nei paesi capitalistici organizzati secondo il modello dello stato assistenziale, svolgono già oggi mansioni di pubblico interesse (insegnanti, medici, operatori sociali, ecc.) potrebbero sin d'ora sentirsi ‛parte' di una società socialista (da espandere ulteriormente in futuro) e trovare in ciò motivazioni per il proprio impegno. Una società socialista non muterebbe se non in misura minima la loro situazione.

Una volta Gramsci ebbe occasione di affermare che una rivoluzione socialista è più facile che avvenga in un paese sottosviluppato (come la Russia) anziché in un paese industrialmente avanzato, ma che l'edificazione di una Società socialista è invece, in un paese sottosviluppato, assai più difficile. Circa i paesi dell'Europa occidentale e del Nordamerica, è quindi sempre vero che in essi è difficile trovare solide maggioranze per una rivoluzione socialista o per radicali riforme di struttura; ma, una volta ottenute tali maggioranze, l'edificazione della nuova società sarebbe relativamente più agevole. La causa maggiore di questa difficoltà - oltre ai già menzionati mutamenti sociali strutturali degli ultimi decenni - sta nel potere dei mass media e nell'influsso ideologico che la mentalità capitalistica (economica) esercita sulla generalità della popolazione. Di tale influsso abbiamo già parlato in relazione al pericolo rappresentato dalla concentrazione della stampa e dal predominio delle opinioni conservatrici nei mass media.

Devo qui tornare nuovamente su questi problemi in relazione alla questione della possibilità di una transizione pacifica. Il predominante influsso di una ‛mentalità capitalistica', o comunque di un atteggiamento di fondo che per principio si rifiuta di mettere in questione il capitalismo, non può essere spiegato soltanto in base a iniziative dirette e consapevoli dei manipolatori di opinioni. Esso risale a una formazione ideologica che deriva direttamente dalle condizioni di vita. L. Althusser ha dunque certamente ragione quando parla dell'inevitabilità dell'ideologia (nozione che peraltro, egli estende a torto alla società socialista del futuro, liquidando con ciò il carattere critico della teoria marxiana dell'ideologia). Ogni acquisto in un grande magazzino, ogni uso di una merce oltre a soddisfare certi bisogni, indotti dalla pubblicità implica anche una tacita complicità con il sistema economico.

Nell'acquisto di merci, il bisogno delle quali sia stato indotto dalla pubblicità, emerge una (anche se temporanea) soddisfazione che, esperita come temporanea felicità, convoglia le speranze verso una futura maggiore felicità legata alla sfera di un futuro maggiore consumo. Dominato dalle categorie del consumo, il lavoratore per l'innanzi ancora stretto da vincoli di solidarietà con i suoi compagni di lavoro si trasforma in un individualista mosso dall'egoismo. Attraverso un maggior consumo, fonte di prestigio, egli cerca di differenziarsi dai suoi vicini. La lotta concorrenziale, che va sempre più scomparendo dalla sfera della produzione, dove è sostituita da accordi di cartello e da trusts in grado di dominare il mercato, ribolle tanto più violenta tra i consumatori, isolati dal proprio egoismo e passivizzati dalla propria spinta al consumo. Ogniqualvolta viene pubblicizzato un qualche prodotto viene al contempo pubblicizzato il sistema, che fornisce tali prodotti e con essi la felicità, la gioia di vivere, ecc. Persino l'aggressività contro il ‛capo', sempre latente nelle aziende, viene posta dalle agenzie pubblicitarie al servizio dell'aumento dei consumi: vidi una volta a New York la réclame di una compagnia aerea, che consisteva in un impressionante manifesto in stile pop, recante la scritta: ‟Come diventa piccolo il tuo capo, quando lo vedi dal finestrino di uno dei nostri Boeing jumbo jets!". La moderna psicologia della pubblicità adatta perfettamente gli annunci alla situazione psicologica dei potenziali condumatori. Persino l'impulso alla ribellione viene integrato nel sistema costituito dalla soddisfazione dei bisogni attraverso le merci. Da lungo tempo i pubblicitari abili hanno saputo porsi sul terreno della subcultura della ribellione giovanile, trasformando la protesta contro il mondo del consumo in nuovi articoli di consumo: si vendono a caro prezzo jeans che sembrano già frusti, e si confezionano con toppe ‛vestiti eleganti', che soltanto chi abbia almeno un reddito medio si può permettere!

Il ‛velo' dei salari, che così a lungo è servito come mezzo per celare la situazione di sfruttamento presente nel rapporto di lavoro, conserva ancora la sua efficacia. Quanto più i sindacati riescono ad avvicinare effettivamente i salari al valore della merce forza-lavoro, tanto più il salario appare plausibilmente come la ricompensa adeguata alla prestazione fornita. E quanto meno trasparente diventa per i singoli la prestazione complessa del lavoratore complessivo e il suo rapporto con i lavoratori parziali, tanto meno la teoria del plusvalore si accorda con la loro esperienza immediata. Soltanto nelle aziende minori lo sfruttamento è ancora a portata di mano, ma qui spesso il rapporto personale con l'imprenditore maschera di nuovo i rapporti economici.

Il mutamento graduale dei rapporti di forza tra lavoratori e magnati del capitale ha procurato ai lavoratori - come mostra l'esempio svedese - condizioni di vita e di lavoro notevolmente migliori; esso reca però con sé necessariamente il pericolo che il fervore riformista s'illanguidisca prima di raggiungere il suo obiettivo: ‟Se le cose ci vanno tanto bene sotto il capitalismo, perché mai dovremmo aspirare al socialismo?". In ogni caso, è ben certo che il socialismo burocratico di Stato di tipo sovietico non appare più desiderabile.

7. Necessità di argomenti morali a favore del socialismo

Da qualunque lato si cominci l'analisi, si arriva sempre alla conclusione che oggi la società democratica e socialista non rappresenta più, per la maggioranza della popolazione, l'unico e necessario strumento per la realizzazione dei suoi interessi materiali. Se può ancor oggi sussistere, anche obiettivamente, una convergenza tra interessi dei percettori di salari e stipendi e una futura società socialista, difficilmente sarà possibile realizzare la solidarietà dei lavoratori (al di là dei confini nazionali, ma anche all'interno delle singole nazioni) ricorrendo esclusivamente ad argomenti poggianti sull'interesse. Mentre al tempo di Marx e di Engels l'illustrazione degli interessi dei lavoratori bastava a convincerli della necessità del socialismo e dell'internazionalismo, oggi questo non è più pensabile. E se allora gli argomenti morali avevano un carattere utopico - quando non erano al servizio della perpetuazione del sistema sociale costituito -, oggi gli argomenti morali sono diventati pressoché indispensabili per la fondazione del socialismo. Per questa ragione anche il ruolo, all'interno del movimento operaio, dei cristiani impegnati nella rivoluzione sociale, è destinato in futuro a crescere. Per costoro, l'esigenza di una solidarietà fraterna non rappresenta semplicemente un modo di dare espressione a interessi oggettivi ma anche, al contempo, un imperativo cristiano.

D'altra parte se oggi, a poco a poco ma sempre più chiaramente, emerge il ruolo degli argomenti e dei moventi di ordine morale, ciò non significa necessariamente una rottura con la tradizione. Da lungo tempo, anche se inconsci e nascosti dall'ideologia materialistica del tempo, impulsi morali erano all'opera nel movimento operaio. Numerosi intellettuali di famiglie borghesi hanno aderito al movimento operaio per ragioni di questa specie, anche se ritenevano sconveniente riflettere sulle proprie motivazioni. Marx, Engels, O. Bauer, Lenin provenivano tutti dalla borghesia e avrebbero senz'alcun dubbio potuto costruirsi una carriera anche all'interno della propria classe. Essi optarono per il movimento operaio perché avvertivano la necessità di un mutamento sociale; e avvertivano tale necessità perché li muoveva a sdegno la miseria di massa nel capitalismo industriale. Questo, almeno, era il punto di partenza del loro impegno; in seguito, le loro riflessioni teoretiche non conservavano più alcun legame diretto con queste motivazioni. Marx condannava il socialismo moralistico non perché fosse morale, ma perché non produceva altro che una fraseologia sentimentale destinata, in quanto tale, a rimanere senza conseguenza alcuna.

La necessità obiettiva della transizione al socialismo è oggi ravvisabile - come abbiamo già accennato - nel fatto che la dinamica cieca dell'anarchica produzione capitalistica conduce negli Stati industrializzati alla distruzione della biosfera e nei paesi in via di sviluppo alla miseria di massa. Obiettivamente, è oggi interessato a questa transizione un numero d'uomini maggiore di quanto sia mai accaduto in passato, ma la motivazione soggettiva non è più suscitabile sollecitando in particolare una presa di coscienza degli interessi di classe del proletariato industriale. Per importante che sia tuttora la riflessione sul carattere di merce della propria forza-lavoro, maggior rilievo sembra avere la solidarietà, moralmente fondata, di tutti i lavoratori e la preoccupazione per le generazioni future.

Già nel periodo classico del capitalismo, per il singolo lavoratore che aderiva alle organizzazioni del movimento operaio le motivazioni morali erano importanti. Proprio i futuri capi provenienti dalla classe operaia avrebbero potuto altrettanto bene far carriera - individualmente - nel quadro dell'ordinamento sociale costituito anziché mettersi a lavorare in un'organizzazione destinata a rimanere per lungo tempo discriminata e sottopagata. Evidentemente, essi hanno anteposto alla propria ascesa isolata e personale la solidarietà con la classe e con la sua emancipazione futura. Naturalmente questo esempio è un po' artificioso, e può anche darsi che la possibilità obiettiva di un'ascesa individuale mancasse del tutto; rimane in ogni caso il fatto che tali scelte erano reali. Oggi comunque, quando le differenziazioni all'interno della classe operaia e del ceto impiegatizio si sono fatte assai più articolate, e l'illusione di avere opportunità di carriera si nutre di possibilità effettive, è necessaria una motivazione morale molto più forte per aderire a un movimento operaio che promuova riforme radicali (o la rivoluzione). In paesi come gli Stati Uniti, l'interesse economico privato sembra essere così predominante - anche tra i sindacalisti - che difficilmente motivazioni del genere potranno avere importanza. Ma in paesi come l'Italia, nei quali la crescita dell'economia capitalistica presenta difficoltà strutturali, le condizioni sono certamente diverse. In questi paesi, affluiscono ai partiti rivoluzionari persino elementi di origine piccolo-borghese e piccolocontadina.

Negli Stati industrialmente avanzati e relativamente prosperi, come gli Stati Uniti e la Germania Federale, la mentalità centrata sull'interesse economico privato è invece penetrata così profondamente nello stesso movimento operaio che solo forti contromotivazioni morali possono ricacciarla indietro. Non è quindi un caso se un militante come E. Eppler, che trae la sua ispirazione dal cristianesimo evangelico, si colloca all'ala sinistra della socialdemocrazia tedesca.
Gli argomenti morali sono quelli che nel modo più diretto e lampante conducono dalla prospettiva egoistica dell'uomo privato (e del consumatore) verso la solidarietà con la società nel suo insieme (e in particolare con i suoi membri più svantaggiati: lavoratori stranieri, minorenni, malati di mente, pensionati, ecc.). Poiché questi settori della popolazione sono quelli che nello Stato assistenziale burocratico-capitalistico sopportano sempre i pesi maggiori, e d'altra parte è loro negata la possibilità di realizzare i propri interessi particolari, la soluzione può venire soltanto da uno spirito di solidarietà, che si ponga in consapevole conflitto con la dominante mentalità capitalistica, egoisticamente rivolta all'interesse privato.

Ma gli argomenti morali - come abbiamo visto - giocano un ruolo considerevole anche nel problema della politica dello sviluppo. In una Terra che diventa sempre più piccola, anche gli abitanti dei paesi più lontani sono diventati nostri vicini, in particolare se consideriamo che il loro benessere e il loro disagio sono determinati in misura non indifferente dal nostro sistema economico. Sono stati i paesi industrializzati a imporre loro uno sviluppo unilaterale, ed è perciò solo questione di giustizia aiutarli oggi a superare questa unilateralità e a edificare un ordinamento economico che risponda ai loro propri bisogni.

Quanto siano insufficienti, in questo campo, le considerazioni centrate unicamente sulla politica e sui sistemi sociali, si può forse dedurre dal modello dei rapporti esistenti tra gli Stati che si definiscono socialisti. Anche se in questi Stati si continua a parlare pubblicamente di aiuti reciproci disinteressati, ciò che di fatto prevale è sempre l'interesse nazionale dei singoli Stati, e specialmente quello del partner di volta in volta più forte. Di fronte ai desiderata cinesi gli esperti sovietici argomentarono nel modo seguente: ‟L'odierno tenore di vita della popolazione sovietica è il frutto dell'accumulazione primitiva socialista, che ai nostri popoli è costata molti sforzi, fatica e disagi. Perciò non vediamo assolutamente perché dovremmo sentirci obbligati - senza una contropartita adeguata - a innalzarvi al livello di sviluppo da noi raggiunto". Ad argomenti analoghi potrebbero naturalmente ricorrere anche gli Stati capitalistici. Pure la Russia zarista, la cui eredità territoriale è stata raccolta quasi interamente dall'Unione Sovietica, era un paese capitalistico, e dallo sfruttamento coloniale dei suoi territori asiatici (e della Cina) traeva sovraprofitti considerevoli. Sebbene questa situazione vantaggiosa sia andata in parte perduta con la guerra mondiale e la guerra civile, storicamente incontriamo qui una ‛colpa' analoga a quella della Germania, che è stata anch'essa esclusa, dopo il 1918, dal novero delle potenze coloniali. Ora l'Unione Sovietica non ha affatto rinunciato ai suoi territori coloniali (che, nella valutazione di Lenin, costituivano ancora il secondo complesso di territori coloniali dopo quello britannico). La costruzione della federazione delle repubbliche sovietiche (con il diritto teorico alla separazione) è servita a metterle tutte saldamente sotto l'egemonia russa, senza che per questo si dovesse rinunciare al preteso internazionalismo e alla pretesa distruzione dell'impero zarista, prigione dei popoli.

Ma le motivazioni morali mi sembrano necessarie soprattutto perché - almeno negli Stati industrializzati - occupano la scena, in quanto soggetti attivi della formazione di movimenti socialisti promotori di riforme radicali, piuttosto elementi provenienti dall'intellettualità, dalla piccola borghesia e dalla manodopera qualificata che non elementi provenienti da quei gruppi marginali che oggi sopportano i pesi maggiori del sistema economico. Nè le donne sottopagate nelle aziende nè i lavoratori stranieri nè gli invalidi o i sofferenti di disturbi psichici possono - senza aiuto e senza una guida - organizzare efficacemente la propria difesa contro il sistema economico. Essi possono essere bensi alleati, ma non soggetti del movimento politico. Qualcosa del genere potrebbe dirsi del Terzo Mondo nei suoi rapporti con le metropoli industrializzate.

L'analogia tra il rapporto Terzo Mondo-Stati industrializzati e quello classe operaia-capitalisti nelle prime fasi dello sviluppo capitalistico non regge a una verifica. Con l'eccezione di poche materie prime, che in effetti si trovano prevalentemente nel Terzo Mondo (petrolio greggio - almeno sinora - e qualche altra), non si può assolutamente parlare di una totale dipendenza delle nazioni industrializzate dalle esportazioni del Terzo Mondo. Un embargo sulle esportazioni, pertanto, non potrebbe avere le stesse conseguenze di uno sciopero generale della classe operaia. Paesi industrialmente avanzati e ricchi (come gli Stati Uniti, il Canada, la Nuova Zelanda, l'Australia, ma anche la Francia) possono per esempio esportare grandi quantità di generi alimentari e di foraggio. Oltre a ciò, alcuni di essi dispongono di petrolio greggio (Stati Uniti, Canada, Australia), oro, diamanti, cobalto, cotone, ecc. I più moderni metodi di estrazione consentono loro di diventare concorrenti temibili dei paesi in via di sviluppo. Per questa ragione non è possibile, in molti settori della produzione di materie prime, la costituzione di un fronte unitario. È vero che il superamento della dipendenza del Terzo Mondo dalle metropoli capitalistiche è in qualche modo facilitato dalla concorrenza che oppone queste ultime agli Stati comunisti ma, dinanzi alla supremazia tecnologica degli Stati Uniti, del Giappone e dell'Europa, ciò non è sufficiente.

La via più sicura sembra essere quella degli sforzi per superare la fase della ‛monocultura', la quale ha come effetto la totale dipendenza dalle oscillazioni sul mercato mondiale dei prezzi di un solo prodotto (o di pochi), e lo sviluppo di una produzione che riesca a coprire il fabbisogno il più possibile con le forze interne. Su questa strada, gli aiuti economici disinteressati, cosi come li ho caratterizzati sopra, posso no arrecare un aiuto considerevole e accelerare lo sviluppo. Ora, la concessione di tali aiuti difficilmente potrà essere ottenuta unicamente dagli sforzi di questi paesi, mentre pressioni adeguate potranno rendere l'opinione pubblica consapevole della loro urgenza e daranno forza alla voce degli uomini politici delle metropoli che si battono per quest'obiettivo. Ma la motivazione di questi ultimi e dei loro seguaci potrà essere data soltanto dall'imperativo morale della solidarietà internazionale: dall'aspirazione cioè a una condizione di benessere internazionale che vada al di là della semplice assenza di guerra.

8. Socialismo e pace mondiale

Già Kant faceva risalire la guerra al conflitto di interessi particolari. In verità, egli aveva in mente unicamente i signori feudali e assolutisti, e credeva che con l'introduzione della democrazia in tutto il mondo si sarebbe potuta instaurare la ‛pace perpetua'. Va però detto che Kant riteneva estremamente lunga e per nulla certa una siffatta evoluzione verso la pace perpetua. La storia ha poi dimostrato come anche le democrazie siano perfettamente capaci di condurre guerre sanguinose: è infatti possibile, eccitandone i sentimenti, fornire motivazioni adeguate agli eserciti popolari e, d'altra parte, non sempre il popolo giudica in modo razionale e illuminato dei suoi interessi reali. Il nazionalismo ha reso possibile il collegamento tra democrazia e guerra, riuscendo con successo a mascherare gli interessi effettivi - di minoranze - che stanno dietro alle guerre offensive. Da ciò si è frettolosamente concluso che le democrazie sono di necessità bellicose e, dal fatto che le guerre degli eserciti nazionali moderni (dalla levée en masse di Napoleone) sono di solito notevolmente più sanguinose delle guerre dinastiche condotte dai principi assolutistici, si è tratto un ulteriore argomento contro la democrazia. In realtà, la pace è naufragata sullo scoglio non già della democrazia, ma di una democrazia imperfetta e disinformata. Se si fosse avuta un'effettiva informazione dell'opinione pubblica e una concreta discussione degli interessi della maggioranza della popolazione, difficilmente governi sottoposti al consenso popolare sarebbero stati in grado di scatenare guerre.

La critica socialista alla democrazia non mira alla sua abolizione, ma alla sua attuazione concreta. Essa si sforza cioè di demolire gli influssi diretti e indiretti che rappresentanti di interessi particolari (specialmente la lobby degli armamenti ed eventualmente delle alte sfere militari) esercitano sul governo e sul parlamento o, almeno, di assoggettare tali influssi a controllo. È legittimo chiedersi se ciò sia in genere possibile senza una socializzazione della produzione degli armamenti. Oltre a ciò, i socialisti (sin dal piano di Jean Jaurès per una armée nouvelle) hanno sempre propugnato la costituzione di una milizia popolare, cioè di un esercito che sia costituito dalla totalità dei cittadini abili alle armi e che, già per questa ragione, non tolleri di essere adoperato per scopi di repressione politica all'interno. D'altra parte, una milizia siffatta costituirebbe anche per gli Stati vicini una certa garanzia che non si intraprenderebbero guerre offensive. In tempi recentissimi, teorici che s'ispirano alle dottrine del Mahatma Gandhi e di altri difensori della civil disobedience o della passive resistance hanno ulteriormente elaborato l'idea di una milizia popolare socialista. Per garantirsi da un attacco di sorpresa dall'esterno basterebbe addestrare il popolo ai metodi della difesa civile; si otterrebbe per questa via il risultato di eliminare completamente la minaccia dei vicini e di svolgere così una notevole funzione protettiva, in quanto ogni potenziale aggressore sa in anticipo che dovrebbe fare i conti con una resistenza sotto forma di guerriglia partigiana.

Di importanza decisiva è il fatto che, con la liquidazione degli interessi particolari (di singoli settori dell'industria, come l'industria degli armamenti, ma anche, in certe circostanze, di settori interessati a certi territori oltremare o desiderosi di garantire i propri investimenti oltremare), i possibili motivi di una guerra offensiva vengono a cadere. Con l'estensione del socialismo nel mondo le guerre tra Stati scomparirebbero automaticamente. I conflitti d'interesse tra i popoli, infatti, si verificano solo finché è possibile che all'interno dei singoli Stati risultino preponderanti gli interessi di minoranze: già nel Manifesto comunista del 1848 si diceva: ‟Con l'antagonismo delle classi all'interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca ostilità fra le nazioni" (v. Marx-Engels, 1848). È vero che anche questa prognosi sembra ormai essere stata confutata dalla storia, al pari di quella di Kant, che fu ripresa da W. Wilson nel 1917 e rinnovata da F. D. Roosevelt nel 1944. Neppure il socialismo ha portato la pace mondiale, e neppure la ‛patria del socialismo', come l'Unione Sovietica orgogliosamente si chiamava, ha rinunciato alle guerre offensive: la guerra finno-sovietica ha rappresentato la prima deviazione dalla regola, e in seguito gli interventi in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968), come anche i numerosi e sanguinosi incidenti di frontiera sull'Ussuri hanno mostrato - anche ammettendo che i vari casi richiedano analisi diverse - che l'Unione Sovietica è perfettamente capace di azioni militari aggressive.
Ma la realtà delle guerre condotte dagli Stati democratici può tanto poco confutare l'importanza della democrazia per garantire la pace, quanto scarsa è la forza probatoria degli esempi summenzionati. È vero che nell'Unione Sovietica non esistono interessi commerciali legati agli armamenti; esiste però un'oligarchia dominante, la quale s'identifica con l'influsso militare e politico dell'Unione Sovietica su scala mondiale, e sente inoltre se stessa - come da sempre ogni governo di una grande potenza - quale garante della pace mondiale. Ma un simile sentimento non può essere altro che una sincera autoillusione ideologica o una maschera cinica.

Se abbiamo poc'anzi criticato la democrazia bellicosa e nazionalistica per la sua ingiustizia sociale e per l'influsso che interessi particolari esercitano sulla formazione della volontà politica, dobbiamo ora rivolgere la nostra censura al socialismo burocratico per l'insufficiente democraticità delle sue fondamenta. Il socialismo potrebbe essere bensì la base e il garante di un ordinamento mondiale pacifico, ma soltanto se fosse strutturato democraticamente. Una società nella quale non vi fossero più conflitti di classe e interessi privilegiati di minoranze, e vi fosse invece un'efficiente democrazia con libere elezioni e libero accesso alle candidature, con libere discussioni di orientamenti e progetti politici diversi, con una libera stampa e un'informazione radiotelevisiva ampia e obiettiva: una società siffatta sarebbe certamente la custode della pace e dell'amicizia tra i popoli. A essa basterebbe - sino a quando continuassero a sussistere Stati potenzialmente aggressori - una milizia popolare dotata di armamenti sufficienti per infliggere a qualsiasi nemico, in caso di attacco di sorpresa, perdite tali da fargli ritenere saggio rinunciare all'intervento. E questa società non avrebbe bisogno di armi offensive (so bene che questa distinzione è diventata oggi tecnologicamente obsoleta, ma una milizia popolare farebbe comunque a meno di ogni specie di armi pesanti; prescindo qui dalla possibilità di una distruzione reciproca in seguito all'uso delle armi nucleari, le quali accrescono ulteriormente l'irrazionalità della corsa agli armamenti e si prestano eccellentemente a legittimare gli immensi sforzi compiuti per mantenere o - il più delle volte - per restaurare un ‛equilibrio' che si presuma alterato): l'irradiazione, su scala mondiale, dell'influsso che eserciterebbe un simile paese (certamente contrassegnato da un grado altissimo di prosperità) costituirebbe il suo più efficace strumento politico.

9. Conclusione

Non sempre le prospettive ultime implicite in una politica socialista sono presenti a tutti gli uomini politici socialisti (e socialdemocratici), né tutti le hanno ben chiare in mente. È da esse soltanto, tuttavia, che le fatiche dei riformisti come le aspirazioni dei rivoluzionari possono trarre il proprio significato, che è quello di fare della Terra un luogo in cui i cittadini degli Stati - e gli Stati stessi - possano vivere in pace, in cui non ci sia né sfruttamento né dominio, e in cui, infine, ciascuno possa - con l'aiuto di tutti gli altri - sviluppare onnilateralmente le proprie disposizioni naturali e ricavar piacere dalle proprie occupazioni. L'immagine di questa società futura e degli uomini che in essa vivranno emancipati è come un mosaico composto di un'infinità di tessere. I socialisti non credono ch'essa possa essere tradotta in realtà ‛d'un colpo' e le deformazioni degli Stati a socialismo burocratico li hanno confermati in questa convinzione.

Là dove urge la miseria, bisogna dapprima fare rotta verso mete meno auguste. Sempre - però - si dovrà aver cura di mantenere aperta la strada verso ulteriori riforme, di impedire la formazione di una nuova oligarchia (sia essa reclutata su basi economiche o su basi politiche e ideologiche) e, infine, di preservare la possibilità di ritornare sugli errori compiuti per correggerli. Contro la pretesa all'infallibilità, che caratterizza parecchie élites comuniste, bisogna sempre ricordare le profetiche parole che Marx scriveva nel 1852: ‟Le rivoluzioni borghesi, come quelle del secolo decimottavo, passano tempestosamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l'un l'altro [...]. Ma hanno vita effimera, presto raggiungono il punto culminante: e allora una lunga nausea si impadronisce della società, prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati del suo periodo di febbre e di tempesta. Le rivoluzioni proletarie, invece, quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompono a ogni istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che sembrava già cosa compiuta per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte a esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall'infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano Hic Rhodus, hic salta! Qui è la rosa, qui devi ballare!" (v. Marx, 1852; tr. it., pp. 491-492).

Il socialismo riformista può essere una strada verso quella difficile, lunga e complicata rivoluzione che Marx aveva in mente. Non è di certo, comunque, un vicolo cieco nel quale il processo di emancipazione sia condannato ad arrestarsi (v. anche comunismo e marxismo).

Enciclopedia delle Scienze Sociali (1998)

di Maurizio Degl'Innocenti

Sommario: 1. Il termine e il problema delle origini. 2. L'idea societaria e il movimento operaio. 3. Il partito nazionale dei lavoratori e l'integrazione politica. 4. L'affermazione della socialdemocrazia nel secondo dopoguerra. Il 'socialismo nazionale' nel Terzo Mondo. 5. Verso il XXI secolo. □ Bibliografia.

1. Il termine e il problema delle origini

Anche se sarebbe più corretto parlare di 'socialismi' (più che di 'socialismo') per la varietà e l'evoluzione, nel XIX e nel XX secolo, delle dottrine e delle pratiche riassumibili sotto quel concetto, in generale si può definire il socialismo come un progetto e movimento di riforma della società nella libertà che, finalizzato all'estensione dei diritti di uguaglianza politici e sociali, pone al centro di una pratica solidaristica l'etica del lavoro e della persona umana e privilegia finalità e comportamenti collettivi contro l'esasperato utilitarismo individuale o di gruppo proprio del mercato capitalistico.Le origini del socialismo sono state cercate perfino nell'antichità classica, suggerendo che l'idea della comunità fraterna sia stata elaborata sul modello dei concetti di 'eunomia', o fruizione egualitaria dei beni, e 'isonomia', o uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. È stato pertanto rappresentato come protosocialista lo stesso Platone, per le sue formulazioni di un generico comunismo integrale all'indomani della guerra del Peloponneso. A maggior ragione furono rintracciati prodromi di socialismo in talune prospettive di rigenerazione collettiva presenti nel confucianesimo, nel taoismo, nell'islamismo, e soprattutto nel cristianesimo delle origini, prima che diventasse la religione ufficiale del Sacro Romano Impero.

Anche se è controversa l'attribuzione al cristianesimo degli aspetti egualitari del pensiero greco, è un fatto che l'immagine del 'Gesù socialista' ebbe larga fortuna, in particolare tra Ottocento e Novecento. E ancora, furono colte anticipazioni del socialismo nell'invocazione dell'avvento del regno di Dio attraverso la trasformazione dell'ordine sociale e soprattutto nei movimenti millenaristici, per lo più a sfondo rurale, che con la crisi del sistema feudale si formarono in Inghilterra, in Boemia e in Westfalia, fino al movimento dei diggers e dei livellatori nel XVII secolo. L'idea della città ideale, fondata su un comunismo di ispirazione umanitaria ma ancor più religiosa, trovò espressione nel XVI e nel XVII secolo nelle utopie di Tommaso Moro e di Tommaso Campanella, e nel secolo successivo nelle teorie di Gabriel Bonnot de Mably, di Morelly e dell'abate Jean Meslier.

Nella seconda metà del XVIII secolo l'idea di uguaglianza sociale si secolarizzò con la proclamazione dei diritti dell'uomo in nome della ragione, della quale il socialismo fu presentato come l'evoluzione più logica sul piano sociale ed economico. Cosicché la congiura degli Eguali di Babeuf del 1796 - descritta in un saggio fortunato da Filippo Buonarroti nel 1828 - fu assunta come inizio autentico del 'programma comunista' della soppressione della proprietà privata e della comunione dei beni e del lavoro. Babeuf impersonò la figura del cospiratore rivoluzionario capace di guidare la massa con l'esempio e con la propaganda verso la società nuova, inaugurando una concezione dell'élite rivoluzionaria che avrebbe avuto seguaci in Blanqui, nell'ala più radicale del cartismo inglese, in alcuni protagonisti della Comune di Parigi e perfino in Lenin. D'altra parte, nelle istanze libertarie ed egualitarie della Rivoluzione francese così come nel tessuto associativo e sindacale inglese furono ricercate le basi del socialismo democratico inteso come movimento di riforma nella libertà, anche in riferimento ai valori della civiltà europea.

In termini cronologici, invece, le origini del socialismo vanno collocate tra gli anni venti e trenta dell'Ottocento, vale a dire quando le parole 'socialista' e 'socialismo' passarono dal linguaggio teologico o giuridico, in relazione all'origine contrattualistica o socialis dello Stato o alla socialitas umana, al linguaggio politico e poi, dal decennio successivo, al vocabolario comune per indicare una dottrina, un movimento, un comune sentire rivolti alla costruzione di una nuova organizzazione societaria o comunitaria del lavoro e, più in generale, della vita collettiva, in contrapposizione al disordine competitivo, all'individualismo egoistico, alla diseguaglianza sociale e allo sfruttamento del lavoratore attribuiti al "vecchio mondo immorale" (Owen) e/o al sistema capitalistico. Contemporaneamente prendeva corpo l'auto- o etero-rappresentazione del movimento, con la proiezione e l'interpretazione delle origini dettate dai mutevoli indirizzi culturali e dalle circostanze pratiche: l'esegesi dei 'profeti' e degli anticipatori va dunque collocata solo in questo capitolo.

2. L'idea societaria e il movimento operaio

Il paese della prima rivoluzione industriale e della liberalizzazione del mercato del lavoro fu anche quello di incubazione del socialismo, termine con il quale vennero indicati gli esperimenti pratici e le teorie di Robert Owen (1771-1858) - un capitano d'industria di New Lanark in Scozia - e dei suoi seguaci, per lo più in simbiosi con il concetto di associazione e in alternativa a quello di individualismo. I presupposti si ravvisano già, alla fine del Settecento, nelle denunce degli effetti negativi dell'industrializzazione da parte di riformatori agrari e sociali come William Ogilvie e Thomas Spence, e soprattutto Thomas Paine; e non meno nelle istanze propugnate da William Godwin a favore di un associazionismo fondato sui legami di parentela e sul vicinato in opposizione all'autoritarismo dello Stato. Owen, che derivò da Godwin (e soprattutto da Helvétius) la teoria dell'influenza dell'ambiente sul carattere umano, propagandò in A new view of society, or essays on the principle of the formation of human character, 1813, e in New moral world, 1835-1844, un "sistema di cooperazione generale" o "nuovo mondo morale" laico e solidale, fondato sul trinomio "verità, lavoro e scienza". Teorizzò così la creazione di villaggi comunitari, composti in media da 500-2000 persone, finanziati dalle parrocchie e dalle contee con la tassa sui poveri, da capitalisti filantropi o dalle stesse associazioni operaie; in tali villaggi il lavoro sarebbe stato remunerato in base all'assunto, ricavato dall'economia classica, che "l'unità di misura naturale del valore è, in linea di principio, il lavoro umano". Dopo un primo esperimento filantropico a New Lanark Owen ne promosse un altro nel 1825 nell'Indiana, negli Stati Uniti, con la comunità di New Harmony, che ebbe però risultati deludenti. Tornato in Inghilterra nel 1829, si pose alla testa del movimento sindacale tentando l'integrazione della società cooperativa di consumo con la trade union, il cui sviluppo fu favorito dalle leggi del 1824-1825 sulle associazioni operaie. Ma l'iniziativa più ambiziosa di Owen, la Grand National Consolidated Trade Union, ebbe vita effimera e fu disciolta nel 1834.

Negli anni venti e trenta l'owenismo ebbe comunque larga diffusione anche a seguito di un'efficace propaganda (realizzata con una media annua di due milioni e mezzo di opuscoli tra il 1839 e il 1841) e lasciò tracce così profonde da far individuare in esso le origini delle attitudini pragmatiche e moderate del movimento operaio inglese.Con Owen condivisero la teoria economica classica del valore i cosiddetti 'socialisti ricardiani', che ebbero un'influenza rilevante sullo stesso Marx. Tra essi Thomas Hodgskin sostenne in Labour defended against the claims of capital (1825) che in regime capitalistico la salvezza per i lavoratori era nell'organizzazione autonoma di resistenza, la sola capace di mettere in crisi la legge del 'prezzo naturale del lavoro' che lo eguagliava alla pura sussistenza. Si accostarono al movimento cooperativo e sindacale di ispirazione oweniana John Gray e William Thompson, che fu il primo a usare il termine 'plusvalore' (An inquiry into the principles of the distribution of wealth, 1824; Labour rewarded, 1827). La mancata concessione del voto ai lavoratori nel 1832, il malcontento suscitato dalla legge sui poveri del 1834 che negava il sussidio agli abili, e infine la campagna per la riforma delle fabbriche promossa nei distretti industriali furono all'origine, tra il 1836 e il 1848, del cartismo, la più vasta agitazione di ceti operai e popolari che abbia interessato l'Inghilterra (e l'Europa) nel XIX secolo.
Attraverso la petizione popolare esso si propose di ottenere una 'Carta del popolo', tra i cui punti più qualificanti era il suffragio universale maschile.

Il cartismo non manifestò caratteri autenticamente socialisti anche se tra i promotori, per lo più appartenenti allo strato superiore dei lavoratori qualificati e autodidatti come i tipografi e i sarti, vi furono oweniani come William Lovett e Henry Hetherington. Tuttavia esso favorì la presa di coscienza di classe del movimento operaio inglese inaugurandone le grandi agitazioni di massa, e diventò un punto di riferimento essenziale nella tradizione democratica del socialismo europeo. Fallita una prima agitazione nel 1838-1839, il movimento conobbe una ripresa negli anni quaranta (il 'decennio della fame'), con un rinnovato gruppo dirigente nel quale risultarono più influenti socialisti e fautori della 'violenza fisica' (in alternativa alla sola 'violenza morale') come James Bronterre O'Brien, Julian Harney e l'irlandese Feargus O'Connor. Dopo il rigetto delle petizioni del 1842 e del 1848 i gruppi cartisti residui assunsero connotati più apertamente socialisti. O'Brien pubblicò la prima parte di The rise, progress and phases of human slavery (1849), in cui tracciò un parallelo tra la schiavitù antica di tipo patrimoniale e quella moderna di tipo salariale, prospettando nella rivoluzione, violenta o pacifica, il solo mezzo per ottenere la libertà dell'uomo. Qualche rilievo ebbe la riorganizzata National Charter Association, la cui direzione passò da O'Connor a Ernest Jones e a Harney, con orientamento più marcatamente internazionalista.

Nel 1850 Harney si adoperò perché i membri della Society of Fraternal Democrats, creata nel 1846, si associassero al gruppo dei blanquisti e di Karl Marx, di cui tradusse il Manifesto sul "Red republican", per costituire la Lega universale dei comunisti rivoluzionari, con le parole d'ordine "dittatura del proletariato", "rivoluzione permanente", "comunismo" come "forma finale di organizzazione della società umana". Negli anni cinquanta però Jones ebbe maggiore forza all'interno del sindacato e successivamente di un movimento di pressione che contribuì alla riforma elettorale del 1867. Tra l'altro egli rilanciò la tesi della nazionalizzazione della terra, già prospettata nel piano agrario cartista dopo il 1842, per collocarvi la manodopera urbana disoccupata ("colonie in patria").

In opposizione alle agitazioni per le 'le carte del popolo' del 1848, sorse il movimento del socialismo cristiano per iniziativa di esponenti della Chiesa d'Inghilterra come Frederick Denison Maurice e Charles Kingsley, e dell'avvocato John Malcolm Forbes Ludlow, che aveva seguito in Francia le iniziative di Blanc e Buchez. L'intento dei socialisti cristiani era quello di unire fraternamente lavoratori e ceti abbienti mediante l'organizzazione della produzione. Organo del movimento fu "Politics for the people" (1848), poi "The Christian socialist" (1850-1851), e infine "The journal of association" (1852). Mentre Ludlow fondò piccole associazioni operaie di produzione, di ispirazione cristiana, Thomas Hughes si dedicò al movimento sindacale e Edward Vansittart Neale al movimento cooperativo laico, dirigendo a lungo la segreteria della Cooperative Union, nell'obiettivo comune di creare un movimento associativo di tipo nuovo che coinvolgesse, attraverso il sindacato e la cooperazione, produttori e consumatori.

La maggior parte delle cooperative locali e di produzione fallì, e il cointeressamento del sindacato non fu soddisfacente, tanto che il gruppo di Ludlow e Maurice rinunciò al cooperativismo per dedicarsi alla politica sanitaria e alla istruzione operaia fondando nel 1854 il Working men's college a Londra. Neale continuò invece il suo impegno nella cooperazione di consumo, nella quale era destinata al successo, a Manchester, la North of England cooperative whole sale society, poi organismo commerciale centrale per tutto il paese.Insieme all'Inghilterra fu la Francia l'altro 'paese del socialismo', favorito dal precedente della grande rivoluzione che aveva scosso il principio stesso di proprietà e posto la democrazia politica come condizione di quella sociale. Furono chiamati per primi 'socialisti' i seguaci di Claude-Henri Saint-Simon (17601825), di origine nobile ma caduto in rovina economicamente. A lui Émile Durkheim ha attribuito addirittura la qualifica di 'padre del socialismo', nonché del positivismo, ma già Mazzini aveva definito il saintsimonismo "la più avanzata manifestazione dello spirito di novità che ha soffiato nel nostro secolo" ed Engels gli aveva riconosciuto un ruolo importante nella diffusione e nella sistemazione delle idee del socialismo non strettamente economico.

In saggi come L'organisateur (1819-1820), Du système industriel (1821-1822), Catéchisme des industriels (1823), Saint-Simon sostenne che sarebbe stata la scienza, più che la politica, a risolvere il problema sociale lasciato aperto dalla Rivoluzione francese. E applicando al mondo morale il principio di attrazione universale teorizzato da Newton nella fisica, attribuì all'industrializzazione, se opportunamente coordinata, il passaggio pacifico dall'età organica dei "secoli cristiani" all'età "positiva". Al dominio degli oisifs, cioè dei ceti parassitari (aristocratici, militari e redditieri), si sarebbe così sostituito quello dei savants e degli industriels o produttori, cioè dei possessori delle conoscenze scientifiche nonché degli imprenditori e degli operai, impegnati insieme a conseguire lo sviluppo nell'ordine e nell'unità armonica della società, a beneficio fisico e morale della "classe la plus nombreuse et la plus pauvre". Ne sarebbe conseguito un "nuovo cristianesimo", non più basato sui dogmi teologici, bensì sulla verità scientifica (Nouveau christianisme, 1825).

Tali principî furono ripresi, specialmente tra il 1830 e il 1832, dagli eredi più diretti di Saint-Simon come Olinde Rodrigues, Prosper Enfantin e Saint-Amand Bazard. Essi rappresentarono la storia dell'umanità come l'evoluzione dall'antagonismo di forze contrapposte e dallo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo (schiavo-padrone nell'età antica, servo-signore nell'età medievale, operaio-padrone nell'età borghese) all'associazione, nella quale tale sfruttamento sarebbe stato eliminato. In quest'ultima fase i mezzi di produzione sarebbero stati socializzati con l'abolizione dell'eredità, mentre ai privati sarebbe rimasta la proprietà dei beni di consumo. La socializzazione dei mezzi di produzione non si sarebbe confusa con la comunione dei beni, perché ciascuno avrebbe avuto secondo le capacità e le opere (disuguaglianza nella ripartizione). Una discussa evoluzione di tali teorie in senso tecnocratico e misticheggiante si ebbe nel pensiero di Enfantin, mentre nei discepoli della seconda generazione - come il tipografo autodidatta e laico Pierre Leroux - si manifestò un più spiccato interesse per le organizzazioni autonome di lavoratori. L'eredità del sansimonismo correlò il socialismo in Francia (e in Belgio) al positivismo, alleato della Scienza e del Progresso. Ma esso ebbe rilevanza anche nella promozione di un ceto imprenditoriale nel settore mobiliare e delle grandi infrastrutture negli anni del Secondo Impero.

Per la sua fiducia nell'industrialismo Saint-Simon apparve come l'anticipatore della teoria della società industriale e della occupational community, elaborata poi da Durkheim, o, addirittura, dell'economia pianificata.L'altro rappresentante della 'grande utopia' socialista nel periodo della Restaurazione fu Charles Fourier (1772-1837), proveniente da una famiglia di commercianti. Nei saggi Théorie des quatre mouvements (1808), Traité de l'association domestique et agricole (1822), Le nouveau monde industriel et sociétaire (1829) e La fausse industrie (1835-1836), Fourier teorizzò quattro stadi della storia umana (selvaggio, patriarcale, barbarico e della civiltà); nella successione dalla condizione razionale e 'passionale' (lavoro e amore) alla civilisation ("il mondo alla rovescia") le istituzioni avrebbero allontanato le passioni e il matrimonio soffocato l'amore, mentre la coercizione sociale e l'organizzazione del lavoro avrebbero reso quest'ultimo noioso, incerto e alienante e l'"anarchia commerciale" avrebbe impedito al salariato di partecipare ai benefici dello sviluppo. Alla civilisation Fourier contrappose la società di Armonia, articolata in piccole comunità, autosufficienti e pertanto sottratte alla competizione, organizzate in falansteri, grandi edifici sociali costruiti per la vita collettiva, dove il lavoro sarebbe stato svolto alternativamente da gruppi divisi per età e genere, e retribuito in relazione al rendimento, al talento e al capitale.

La nuova società pertanto sarebbe risultata dalla giustapposizione di comunità autosufficienti e autonome, dedite prevalentemente all'agricoltura, alla trasformazione dei prodotti della terra e alla produzione dei beni di consumo. Per il suo rifiuto dell'industrialismo fu attribuita a Fourier una visione arcaica, ma la sua critica radicale del sistema capitalistico fu anche valutata con favore. In tempi più recenti sono state riconsiderate positivamente la sua denuncia degli aspetti repressivi della civiltà, l'apertura alla vita istintuale - quasi un'anticipazione della pedagogia moderna e perfino della cultura ecologica - nonché la progettualità degli insediamenti, prefigurazione della moderna urbanistica. La scuola societaria o fourieriana degli anni trenta e quaranta ebbe solo in apparenza un'influenza minore di quella sansimoniana. Vantò fortunati divulgatori come Victor Considérant e conobbe un successo duraturo nella cooperazione, specialmente di produzione, con Michel Derrion, Philippe Buchez e Jean-Baptiste Godin.

Assai più eclettico fu il comunismo comunitario di Étienne Cabet (1788-1856), nato da una famiglia di artigiani, pubblicista e redattore del giornale "Le populaire", esule a Londra dopo il 1834. Nel noto saggio Voyage en Icarie (1842), ispirato all'Utopia di Tommaso Moro adattata a un ambiente industriale, si pronunciò per l'abolizione della proprietà privata e per il lavoro obbligatorio in grandi aziende pubbliche meccanizzate, coniando lo slogan fortunato: "Tutti hanno il dovere di lavorare lo stesso numero di ore al giorno, secondo i propri mezzi, e il diritto di ricevere una parte uguale di tutti i prodotti, secondo i propri bisogni".

Negli anni quaranta in Francia (dove Cabet era tornato nel 1841) 'comunismo' era in qualche modo assimilato a cabetismo o a icarianesimo, anche nell'ultima versione ispirata a una sorta di cristianesimo primitivo (Mon crédo communiste, 1845; Le vrai christianisme suivant Jésus-Christ, 1846).La questione della centralità del 'diritto al lavoro' nella società moderna fu sollevata soprattutto da Louis Blanc (1811-1882), autore di L'organisation du travail (1839, 1848¹⁰). Critico nei confronti delle ipotesi comunitarie, egli attribuì allo Stato, reso "amico del popolo" con il suffragio universale, il coordinamento di un sistema di aziende pubbliche: gli ateliers sociaux, autonomi nella gestione, finanziati da un prestito statale gratuito, e resi più competitivi delle imprese private, con il cointeressamento operaio alla produzione.

Nella rivoluzione del 1848 Blanc assunse una posizione di rilievo, diventando presidente della Commissione del Lussemburgo, ma gli ateliers nationaux, simili alle fabbriche di carità, non ebbero fortuna. Il fallimento di tale indirizzo determinò un sostanziale allontanamento dei lavoratori dall'idea repubblicana; lo stesso Blanc fu esule in Inghilterra e quando tornò in Francia assunse una posizione defilata, tanto da non aderire alla Comune.

E tuttavia nella storia del socialismo (grazie anche all'influenza cartista) egli, pur non essendo stato un dottrinario, fu considerato come il primo teorico dell'interventismo statale e per la sua visione graduale e pacifica della via al socialismo fu ritenuto perfino l'anticipatore della socialdemocrazia.Agli antipodi della corrente 'statalista' o 'governativa' rappresentata da Blanc si trova l''anarchismo positivo' di Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865). Egli riteneva il mondo fondato su principî universali di contraddizione o antagonismo, e di interazione o reciprocità, la cui espressione più compiuta era da individuarsi nella famiglia e, sul piano produttivo, nel libero scambio delle merci regolato dai valori creati dal lavoro, secondo la teorizzazione dei socialisti ricardiani e di Owen. In una serie di saggi - dal celebre Qu'est-ce que la proprieté? (1840) dove definì la proprietà un furto, a Système des contraddictions économiques, ou philosophie de la misère (1846), De la justice dans la révolution et dans l'Église (1858), De la capacité politique des classes ouvrières (1865) - teorizzò un'organizzazione dal basso, autogestita sul piano economico e amministrativo da individui, gruppi e comuni organizzati su basi federative, ma con il sostegno di una banca popolare, nella quale le retribuzioni fossero proporzionali al successo personale o alla composizione della famiglia. Rifiutando la proprietà pubblica dei mezzi di produzione, compresa la terra, Proudhon delineò una società a carattere artigiano e contadino (dal cui ambiente egli stesso proveniva), basata sui piccoli produttori e sulla conservazione della famiglia patriarcale, in cui la donna avesse un ruolo subordinato.

E tuttavia egli e i suoi seguaci non solo ebbero largo successo in Francia negli anni cinquanta e sessanta, ma rimasero i referenti più accreditati di tutte quelle correnti del movimento socialista che si richiamarono all'antiautoritarismo, al mutualismo e al federalismo; in questo ambito Proudhon fu considerato uno dei padri del movimento anarchico o anarco-sindacalista. La polemica stessa in cui lo impegnarono Marx ed Engels contribuì a rafforzare tale opinione.Al di fuori dell'Inghilterra e della Francia, cioè dei paesi delle rivoluzioni borghesi (industriale e politica), gli sviluppi del socialismo furono più tardivi e stentati. In Germania, il socialismo si diffuse inizialmente solo in ambito culturale e tra gli esuli politici.

Così, dalla metà degli anni quaranta prese corpo il movimento del 'vero' socialismo, o socialismo tedesco, come corrente filosofica della sinistra hegeliana, i cui esponenti più noti furono Karl Grun e Moses Hess, mentre nel 1834 era stata fondata a Parigi una Lega dei proscritti (Bund der Geatchen), di tendenza democratico-repubblicana, trasformatasi nel 1836 in Lega dei giusti e infine, nel 1847 a Londra, in quella Lega dei comunisti che commissionò a Marx nel 1847 la redazione del Manifesto, uscito nel febbraio dell'anno successivo. Influenzati dalla sinistra hegeliana e dalla frequentazione degli esuli, a contatto con la classe operaia inglese ma in una prospettiva internazionalista, Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) enunciarono una concezione materialistica della storia vista come il succedersi di fasi segnate dall'antagonismo di due classi in base ai rapporti di produzione. L'esasperazione delle antinomie, in ultimo tra borghesia e proletariato, avrebbe infine prodotto una rivoluzione dalla quale, per la prima volta nella storia dell'umanità, sarebbe scaturita una società senza classi, in cui "il libero sviluppo di ciascuno fosse la condizione per il libero sviluppo di tutti".

Pur prevedendo in tempi brevi la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, Marx si astenne dal fornire un quadro esaustivo dello stadio finale, ammettendo tuttavia la necessità di misure giuridiche ed economiche corrispondenti alla "costituzione del proletariato in classe dominante", e si limitò a definire "socialista" la fase di transizione al comunismo; nel 1852 introdusse la nozione di "dittatura del proletariato" poi precisata dopo la Comune. Ai comunisti assegnò la funzione di 'avanguardia' dei partiti operai nella lotta contro la borghesia dove questa fosse dominante, e in alleanza con essa, contro l'aristocrazia, nei paesi meno sviluppati. Il Manifesto fu nell'immediato privo di influenza pratica, ma la ebbe enorme in seguito (fu definito "il vangelo del socialismo moderno"), come parte qualificante di un corpus di scritti - fra cui il primo volume del Kapital, tirato in mille copie nel 1867 esaurite solo nel 1871 (il secondo e il terzo volume furono editi a cura di Engels nel 1885 e nel 1894; il quarto a cura di Karl Kautsky nel 1895) - che era destinato a incidere profondamente sul movimento socialista, a partire dagli anni ottanta e per oltre un secolo.

Marx definì "scientifico" il suo socialismo per differenziarlo da quello, precedente al Manifesto, che chiamò "utopico" ritenendo quest'ultimo indirizzato alla ricerca di rimedi sociali "al di fuori del movimento operaio" e prescindendo dalla questione del potere, nel presupposto che di volta in volta la scienza, l'atto di volontà o addirittura il comportamento onesto e filantropico potessero dar vita a nuovi sistemi sociali più o meno fantasiosi.

L'affermazione successiva del marxismo all'interno del movimento operaio contribuì a consolidare questa immagine negativa del socialismo precedente al Manifesto, fino a inglobarvi le posizioni di Blanc e perfino di Proudhon. La periodizzazione e le categorie interpretative di Marx divennero poi di uso comune. Né cambiò la sostanza il fatto che in sede storiografica si tentasse una correzione parziale di tale valenza negativa introducendo la categoria di 'protosocialismo', che si voleva calato nella realtà del proprio tempo, limitando invece la qualifica di 'utopismo' alle teorie e alle pratiche cooperativistiche-associative che tendevano alla progressiva giustapposizione di realizzazioni molecolari, per riscrivere dal basso l'intera teoria delle relazioni sociali; oppure ancora distinguendo tra gli utopisti per eccellenza, o 'grandi utopisti', cioè i capiscuola come Saint-Simon, Owen, Fourier, Cabet, e i discepoli, più solleciti alle sperimentazioni. In realtà, i socialisti cosiddetti utopici del XIX secolo dovrebbero essere piuttosto considerati dei riformatori sociali che, al di là dei progetti ambiziosi e dei tentativi falliti, non mancarono di lasciare tracce profonde nella cultura e nella realtà politica, associativa, mutualistica, sindacale e cooperativa del tempo, spesso con risultati duraturi. Gli stessi Marx ed Engels non possono essere considerati fuori da questo contesto.Nel trentennio successivo al 1848, col favore di una fase economica propizia e, fino al 1873, del rialzo dei prezzi, si registrò una forte spinta all'organizzazione sindacale (la 'prassi operaia') mediante la quale furono erette le prime difese contro lo sfruttamento generalizzato della manodopera e conseguiti i primi elementi di una legislazione sociale nonché, sia pure tra forti ostacoli, la garanzia del diritto di coalizione (in Inghilterra fu rilevante al riguardo l'esito positivo dello sciopero degli edili londinesi nel 1859). Il movimento dei lavoratori diventò un nuovo soggetto, riconosciuto.

La testimonianza più significativa fu la costituzione della Associazione Internazionale dei Lavoratori (o Prima Internazionale) il 28 settembre 1864 alla St. Martin Hall di Londra, dopo gli incontri promossi dai sindacati inglesi e dalle società operaie francesi in occasione dell'Esposizione internazionale di Londra nel 1862. Negli statuti e soprattutto nel preambolo (Indirizzo alla classe operaia), a cui dette un contributo decisivo Marx, si affermò che l'emancipazione della classe operaia doveva essere opera della classe stessa, a cominciare dalla liberazione dalla soggezione economica, fonte di ogni servitù. Tuttavia, pur nel condiviso clima di solidarietà internazionale, vi si palesarono subito prospettive assai diverse: i sindacati inglesi ricercavano garanzie contro il crumiraggio, mentre le società francesi mettevano in primo piano il mutualismo e il sistema del credito gratuito, e quelle belghe il libero pensiero. I primi congressi (Ginevra, 1866; Losanna, 1867) furono dominati dalla delegazione francese, nella quale era forte l'influenza dei proudhoniani contrari alla pratica dello sciopero. La sconfitta del proudhonismo (congresso di Bruxelles, 1868) coincise con la piena legittimazione della lotta di resistenza e soprattutto con la svolta a favore della collettivizzazione, per la quale risultò decisivo l'appoggio del belga César de Paepe (1842-1890).

Al successivo congresso di Basilea (1869) fu riaffermato il duplice obiettivo della collettivizzazione della terra e della promozione delle 'società di resistenza nei vari corpi di mestiere'. Intanto una nuova e più agguerrita opposizione al marxismo veniva da parte dei seguaci dell'esule russo Michail Bakunin (1814-1876), che negarono al Consiglio generale di Londra la prerogativa di imporre disciplina e politica alle sezioni nazionali e locali, per le quali reclamarono invece la piena autonomia. Il contrasto tra Bakunin e Marx fu dirompente e aprì tra socialisti (e poi comunisti) e anarchici una divaricazione che non si sarebbe più ricomposta. Il primo predicò l'abolizione dell'ereditarietà dei beni, laddove il secondo puntò sulla soppressione della proprietà privata in quanto tale; l'uno concepì i partiti operai come fattori di burocratizzazione e di subordinazione allo Stato per il tramite della legislazione sociale, l'altro li considerò essenziali nella via al socialismo. Ma il dissenso fondamentale fu su due punti ulteriori: il primo era rappresentato dal problema dello Stato, che i seguaci di Bakunin volevano distruggere in tutte le sue forme (come del resto la religione, per l'autoritarismo dogmatico), non escludendo neppure il ricorso al terrorismo, laddove nella strategia marxista la conquista del potere, per via rivoluzionaria o democratica, rimase obiettivo centrale; il secondo punto riguardava l'individuazione dei soggetti rivoluzionari, in quanto gli anarchici coinvolgevano anche gli strati più emarginati della società, come i contadini poveri, gli artigiani in rovina e gli studenti, mentre i socialisti puntavano sugli operai, specialmente di fabbrica, come classe generale.

La tradizione bakuniana o anarchica o libertaria trovò consensi più diffusi in Spagna, in Italia, nella Svizzera francese, nel Belgio vallone, ma non sarebbe corretto vedere in ciò l'aspetto qualificante di un presunto socialismo mediterraneo.Il problema dello Stato si pose in maniera tanto chiara quanto drammatica nel marzo 1871 con la Comune di Parigi, una sollevazione popolare più o meno spontanea, dettata anche da motivi patriottici - forse l'ultima 'giornata' nella tradizione rivoluzionaria del 1789 - alla quale parteciparono ceti operai, artigiani e piccolo-borghesi. L'Internazionale vi fu estranea e manifestò la sua solidarietà solo a eventi accaduti. Bakunin fu sollecito a cogliervi "la negazione audace e netta dello Stato" e, per l'"azione spontanea delle masse", "l'istinto socialista". Marx la interpretò come il primo esperimento di "governo della classe operaia", ma ne ricavò anche l'ammonimento a non spezzare l'unità della nazione, "potente fattore della produzione sociale". Nonostante la brevità dell'esperienza (settantadue giorni) e la modestia delle realizzazioni socialiste, la Comune (con la precedente sconfitta francese a Sedan) ebbe conseguenze notevoli in Europa e in seno all'Internazionale stessa, anche se è eccessivo affermare che rappresentò la discriminante tra 'il socialismo di ieri' e quello 'di oggi'. Essa accelerò la spinta tradeunionistica dei sindacati inglesi e contribuì a trasferire il centro di gravità del movimento socialista dalla Francia alla Germania. Nell'immediato, il fallimento della Comune esasperò i contrasti tra i seguaci di Marx e di Bakunin, e se il primo riuscì a far espellere il secondo al congresso dell'Aja del 1872, fu tuttavia costretto a spostare la sede dell'Internazionale a New York decretandone così la fine (1876). Pur nella brevità e nelle vivaci polemiche che ne caratterizzarono la vita, l'Internazionale fornì un'importante esperienza di impegno intorno a una concezione di lotta più definita e omogenea, contribuendo a radicare l'identità collettiva, tanto che tutte le successive analoghe iniziative ne rivendicarono la continuità.

3. Il partito nazionale dei lavoratori e l'integrazione politica

A partire dalla fine del XIX secolo le vicende del socialismo furono contrassegnate dall'affermazione e dalla vitalità di due soggetti apparentemente distanti o addirittura antagonistici, ma in realtà connessi: la classe operaia e la nazione. L'interesse della Seconda Internazionale, costituita nel 1889 da partiti nazionali per o della classe operaia, si volgeva a entrambi.La costituzione del partito operaio e/o socialista, sollecitata dall'allargamento del suffragio e dall'insorgente società di massa, rifletteva innanzitutto la grande frattura sociale tra manodopera e capitale, tra ceti subalterni e leaderships tradizionali e/o borghesi, in una fase di rafforzamento dello Stato-nazione, di integrazione del mercato e di un più marcato ruolo dello Stato nell'economia e nella società. Per certi versi essa si poneva come punto d'approdo dell'evoluzione del proletariato dalla condizione di 'rango inferiore', di 'plebe', di 'gente comune' o di 'ceto lavoratore operaio' a quella di 'classe lavoratrice', il che aveva posto in primo piano il rapporto tra coscienza e organizzazione, quest'ultima intesa anche come completamento della personalità del singolo. Il partito, insieme al sindacato (generale e centrale), fu così la risposta al nuovo tipo di conflittualità sociale determinatosi alla fine del secolo, che reclamava da un lato modalità più complesse e 'aperte', e comunque più organizzate - la pratica diffusa dello sciopero, il richiamo alle otto ore lavorative reso ricco di suggestioni dalla festa del primo maggio, il rivendicato controllo del collocamento, la più generale definizione del contenzioso, a cominciare dal contratto collettivo (in Inghilterra dal 1890) -, mentre dall'altro richiedeva iniziative più decisamente orientate al compromesso sociale (legislazione sociale, uffici del lavoro, istruzione).

L'affermazione e l'articolazione concreta del partito, dunque, dipesero dal congiunto rapporto con i centri propulsivi del sistema capitalistico e con la democratizzazione di quello politico. La perifericità rispetto ad essi facilitò l'affermazione del partito-avanguardia presentatosi come tale per la classe, per di più intesa come classe generale, guida all'istruzione e al reclutamento, ma ancor più alla rivoluzione; in determinate condizioni ciò sollecitò la subordinazione dello Stato al partito e, successivamente, la sua trasformazione in regime. Viceversa, la vicinanza determinò l'evoluzione del partito socialista in un partito elettorale di massa, che si definì nella mobilitazione e nell'inquadramento di vasti strati popolari ai margini o al di fuori della cittadinanza politica tradizionale, assumendo da allora un ruolo importante nell'evoluzione dei sistemi democratico-rappresentativi e in ogni caso svolgendo un'accentuata funzione di socializzazione politica nella propaganda di nuovi fini collettivi. A tale scopo il partito si indirizzò all'interno verso la creazione di un vasto apparato - in buona parte finanziato dalle quote sociali e articolato in sezioni particolari nonché in comitati o uffici a struttura gerarchico-piramidale - e all'esterno verso l'interrelazione con istituzioni o associazioni di sostegno e collaterali.

Nella tipologia del 'grande partito', classista ma aperto alla confluenza di ceti piccolo- e medio-borghesi, che rimase la più emblematica del socialismo europeo, alla proiezione elettorale si sovrapposero l'attitudine educativa, che esaltava la funzione importante della dottrina nel radicamento dell'obbligazione politica, ma anche l'attività di sostegno a strutture di solidarietà e a organismi vari di partecipazione. Come luogo dell'aggregazione e della mediazione di nuovi interessi sociali, o della canalizzazione delle tensioni e dunque dell'istituzionalizzazione della 'nuova' conflittualità, esso finì per ricoprire un ruolo essenziale ai fini della stabilizzazione/destabilizzazione del sistema politico-istituzionale, delineando nel complesso, ma non in modo lineare e senza soluzioni di continuità, un'evoluzione da 'associazione' e 'movimento' a 'istituzione', da 'forma' esterna ed extraparlamentare a funzione centrale del sistema politico rappresentativo di massa, da istituto a fondamento classista a partito dello sviluppo sociale. Infine, facendo riferimento specifico alla fase di insediamento, decisiva per il codice genetico di un partito, occorre sottolineare che il partito 'secondo internazionalista' rappresentò il superamento definitivo del settarismo cospirativo e del corporativismo e del regionalismo 'primo internazionalista' assumendo, nella separazione dagli anarchici e poi dai sindacalisti rivoluzionari, il metodo democratico come mezzo per la piena espressione del movimento operaio, e ne collocò la prospettiva in una dimensione politica nazionale, portando con ciò la lotta a ridosso dello Stato per la conquista e la gestione del potere. Inoltre, identificando nella classe operaia la protagonista consapevole della propria emancipazione, autonoma e distinta dalle altre forze politiche, il partito socialista postulava anche un collegamento - e in taluni casi una vera e propria divisione dei compiti - con il sindacato, centro di organizzazione dei lavoratori intorno alla difesa di interessi corporativi.

La Seconda Internazionale nacque appunto con questa duplice anima: politica (e democratica) e corporativo-operaia. E tale duplice registro fu adottato da tutti i partiti operai o socialdemocratici che si costituirono nel giro di una quindicina d'anni, adattandosi alle tradizioni e agli ambienti, con il criterio dell'adesione ora collettiva, ora individuale. Nei partiti della Seconda Internazionale fu rituale la professione di marxismo in vista della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, ma furono ugualmente importanti la pratica riformista e la partecipazione alla lotta parlamentare e al governo delle amministrazioni locali, tanto che i consensi elettorali furono presi a misura del successo politico. Dopo la fine delle ipotesi catastrofiche di fine secolo e i successi elettorali e sindacali dovuti a una congiuntura favorevole, l'alba del nuovo secolo sembrò quella dell''epoca socialdemocratica'. Sulla spinta dell'industrializzazione e dei progressi scientifici, dell'urbanesimo e della diffusione dell'istruzione, il vecchio mondo aristocratico e individualista parve destinato a crollare di fronte ai crescenti successi del socialismo il cui edificio, come si teorizzò al congresso dell'Internazionale a Stoccarda nel 1907, poggiava saldamente su tre pilastri: il partito, il sindacato e il movimento associativo e cooperativo.Il primo partito nazionale fu fondato in Germania, dove il mondo del lavoro si andò organizzando intorno all'Arbeitsverein con obiettivi tradeunionistici e culturali.

Proprio rivendicando l'autonomia dei lavoratori dalle formazioni politiche borghesi, nel presupposto che a essi spettasse il rinnovamento etico e sociale di uno Stato hegelianamente inteso come pernio della vita pubblica, fu creato nel 1863 a Lipsia da Ferdinand Lassalle (1825-1864) l'Allgemeiner Deutscher Arbeiterverein (ADAV). Lassalle considerò la borghesia un'unica massa reazionaria e, richiamandosi alla 'legge ferrea dei salari', giudicò inutili gli scioperi per proporre piuttosto la creazione di cooperative di produzione che competessero efficacemente sul mercato con le imprese capitalistiche, così da assicurare in modo pacifico e legale il passaggio a un nuovo ordine sociale conforme a giustizia, con la garanzia di uno Stato conquistato politicamente con il suffragio universale e diretto. Grande comunicatore, egli diventò assai popolare tra i lavoratori tedeschi, con forme di culto personale, finché non venne ucciso in duello nel gennaio 1864. Gli succedette alla presidenza del partito l'avvocato Johann Baptist von Schweitzer, direttore di "Der Sozial-Demokrat", il quale pur nella confermata fedeltà allo Stato prussiano fu più sensibile all'azione sindacale. In contrapposizione ai lassalliani nel 1869 fu fondata a Eisenach la Sozialdemokratische Arbeiter Partei (SDAP), che si richiamò all'Internazionale affermando la simultaneità dell'azione politica con quella sindacale. Ne furono promotori il tornitore autodidatta August Bebel (1840-1913), futuro autore del celebre Die Frau und der Sozialismus (1883), che ebbe una cinquantina di edizioni, e il pubblicista emigrato Wilhelm Liebknecht (1826-1900), i quali dalle iniziali posizioni antiprussiane per la creazione della 'grande' Germania democratica in alleanza con le forze borghesi, si erano gradualmente avvicinati a Marx, anche per la frequentazione delle sezioni tedesche dell'Internazionale fondate da Philipp Becker. Nel 1875 i due partiti si fusero al congresso di Gotha, con un programma che fu criticato da Marx per le concessioni fatte ai lassalliani sui concetti della 'fratellanza dei popoli', della 'legge ferrea' dei salari, della borghesia come unica massa reazionaria, della cooperazione di produzione.

Le critiche di Marx non ebbero influenza pratica (l'ebbero semmai nello sviluppo successivo del pensiero leninista). L'organizzazione del partito, finalmente democratico e sociale, ne uscì consolidata, tanto che nelle elezioni del 1877 conseguì il 9% dei voti, mentre le iniziative a favore della cultura operaia e la stessa unità sindacale risultarono fortemente stimolate. Dal 1878 il partito subì la legislazione antisocialista voluta da Bismarck, che ne proibì giornali, sedi, congressi, ma ne ammise la partecipazione alle elezioni, cosicché rimase in piedi una struttura per fiduciari. In ogni caso restò più che mai attivo il movimento sindacale: l'imponente sciopero dei minatori da esso organizzato nel 1889 contribuì a far abrogare la legislazione di emergenza (1890). Alle successive elezioni i socialdemocratici ottennero un milione e quattrocentomila voti (oltre il 20%) acquistando un'autorità indiscussa in tutto il movimento socialista internazionale. Grande influenza ebbe anche la rivista teorica "Neue Zeit" diretta dal 1883 al 1917 da Karl Kautsky (1854-1938), al quale fu attribuito, con la paternità delle categorie 'marxisti' e 'marxismo', un ruolo fondamentale nell'assunzione del pensiero di Marx a 'dottrina ufficiale del partito', anche e soprattutto ai fini della egemonia politica e ideologica nelle lotte interne.

Il concetto stesso di 'socialdemocrazia', nato nel senso della tradizione del 1848, acquisì definitivamente la duplice valenza classista e 'democratico-sociale', cioè di 'completo dominio del popolo', contro lo sfruttamento e contro il privilegio, per l'eguaglianza e per la libertà. Il programma del partito approvato al congresso di Erfurt del 1891, preparato da Kautsky con il consenso di Engels, indicò gli obiettivi della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio, dell'utilizzazione di ogni strumento di lotta legale e in particolare di quella parlamentare per l'emancipazione dei lavoratori, del sostegno alla lotta di resistenza sindacale. Ne uscì delineato così un partito di classe e di massa. Il programma di Erfurt diventò un punto di riferimento essenziale per tutti i partiti della Seconda Internazionale, di cui la socialdemocrazia tedesca fu l'asse portante: come disse Engels, essa "appariva come la massa più numerosa, più compatta, la forza d'urto decisiva dell'esercito proletario internazionale". In effetti, nel 1912-1913 il sindacato, diretto da Karl Legien, vantò due milioni e mezzo di iscritti; nelle elezioni del Reichstag del 1912 la SPD ottenne oltre quattro milioni di voti (34,8% del totale) e 110 seggi; i membri del partito, fondato sulle sezioni territoriali e finanziato dalle quote individuali, raggiunsero un milione.
Ma nel sistema politico-istituzionale imperiale tale forza restò politicamente 'isolata' o 'separata', cosicché, al fine di superare tale isolamento in connessione al tramonto delle ipotesi catastrofiche, già a cavallo del secolo non mancarono posizioni volte alla 'revisione' del programma, che mettevano in discussione alcuni punti centrali del pensiero di Marx, in particolare sulla proletarizzazione dei ceti medi e sulla concentrazione progressiva delle ricchezze, sullo Stato come strumento operativo nelle mani delle classi dirigenti e sulla dittatura del proletariato. Se ne fecero interpreti Georg von Vollmar (1850-1922), favorevole al 'riformismo di Stato' e alla piccola proprietà contadina, e soprattutto Eduard Bernstein (1850-1932), nutrito di filosofia neokantiana e vicino alla scuola economica marginalista, che in Die Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (1899) propose di trasformare la SPD in un "partito di riforme socialiste e democratiche" in quanto "erede del liberalismo per il suo contenuto spirituale", confutando la tesi della proletarizzazione dei ceti medi e della dittatura del proletariato ("il movimento è tutto"). Difesero l'ortodossia marxista Bebel e Kautsky, autore di Die Agrarfrage (1899), Bernstein und sozialistische Programm (1899), Die soziale Revolution (1902) e Der Weg zur Macht (1909).

Negli anni successivi, dopo la prima Rivoluzione russa del 1905 e soprattutto dal 1910, emersero critiche alla 'ortodossia di centro' anche da sinistra, in particolare da Herman Goster, Anton Pannekoek, Alexander L. Helfand detto Parvus, e soprattutto da Rosa Luxemburg (1870-1919) secondo la quale, nell'ipotesi di una crisi rivoluzionaria determinata dalle presunte contraddizioni dell'età dell'imperialismo, occorreva piuttosto educare la classe operaia perché si rendesse spontaneamente protagonista della rivoluzione di massa, evitando così anche il pericolo dell'autoritarismo presente sia nel partito burocratico che nelle leaderships professionali (come quelle, rivoluzionarie, teorizzate da Lenin nel Che fare? del 1902). La SPD respinse ufficialmente il revisionismo al congresso di Dresda del 1903, ma la prassi sindacale e di tipo parlamentare portò ugualmente a una crescente integrazione politica e sociale, sancita dal voto favorevole ai crediti di guerra nell'agosto 1914. Per taluni però fu un'integrazione 'in negativo' perché, al di là dei miglioramenti materiali per i lavoratori, non fu tale da superare le condizioni politiche discriminatorie messe in atto dalle forze conservatrici dell'Impero, cosicché la socialdemocrazia avrebbe cercato e coltivato la sopravvivenza come 'corpo separato' o 'Stato nello Stato', nel culto dell'organizzazione e nella vigilanza sull'ortodossia dottrinaria. In ogni caso nell'evoluzione da partito 'della rivoluzione' a partito dello sviluppo e 'nazionale', la SPD riuscì a legarsi stabilmente alla classe operaia e a radicare nella società l'immagine di una forza di progresso.
Sul modello tedesco di partito socialdemocratico di massa si riorganizzò la socialdemocrazia austriaca, al congresso di Hainfeld del 1889, sotto la guida di Victor Adler (1852-1918). Saldamente insediata nelle aree industriali, essa fu protagonista di lotte democratiche di massa, come quella del 1905 per il suffragio universale, ottenuto infine nel 1907, e assunse posizioni di grande originalità sul problema nazionale, fin dal congresso di Brünn del 1899, quando fu posto l'obiettivo della trasformazione dell'Austria in "Stato democratico federale delle nazionalità", con ampi riconoscimenti all'autonomia personale e culturale, su cui scrissero Karl Renner (1870-1950) in Der Kampf der oesterreichischen Nationen um der Staat (1902) e Otto Bauer (1882-1938) in Die Nationalitätenfrage und die Sozialdemokratie (1907).

La questione nazionale e con essa quella della democratizzazione dello Stato furono al centro anche della storia del socialismo belga, diviso in fiammingo e vallone. Nel 1884 fu fondato il Parti Ouvrier Belge (POB), in cui confluivano circoli, sindacati e cooperative. L'obiettivo politico più rilevante fu la conquista del suffragio universale, per il quale il partito promosse grandi scioperi nel 1886 e nel 1892. Con l'allargamento del suffragio il POB ottenne, nel 1894, 27 deputati, tra i quali Édouard Anseele, in rappresentanza dell'area socialista fiamminga che ruotava intorno al Vooruit di Gand (cooperativa di consumo), ed Émile Vandervelde (1866-1938), prolifico divulgatore del socialismo positivista.

In Francia il movimento socialista si riprese molto tardi dalla sconfitta della Comune, senza più recuperare tuttavia il ruolo propulsivo dei decenni precedenti. Comunque esso costituì pur sempre un terreno di incubazione politica di notevole interesse, sollecitato dal tradizionale rapporto con la Repubblica ad affrontare la questione decisiva delle alleanze con le forze politiche 'affini', nonché per l'attenzione da sempre rivolta al fattore culturale ed educativo nei processi di trasformazione della società di massa. Non ultimo, la Francia fu negli anni ottanta, insieme al Belgio, l'area di diffusione dell''operaismo': per la prima ne furono simboli la bourse du travail e il sindacato di mestiere, per l'altro la maison du peuple e la cooperativa di consumo. Nel 1883 fu costituito da Paul Lafargue (1842-1911) e da Jules Guesde (1845-1922) il Parti ouvrier con un'organizzazione centralizzata, largamente ispirata al marxismo. I 'possibilisti' di Paul Brousse gli contrapposero un partito fondato su strutture locali e con l'obiettivo della trasformazione graduale dello Stato in senso decentrato, in alleanza con la borghesia liberale. Proprio i due gruppi, in concorrenza, assunsero l'iniziativa della costituzione della Seconda Internazionale a Parigi nel 1889. Ma la 'litigiosità' interna continuò a indebolire fortemente il movimento politico nei confronti di quello sindacale, che viceversa andò rafforzandosi fino alla fondazione della Confédération Générale du Travail a Limoges nel 1895. Nel movimento sindacale si affermò una corrente maggioritaria favorevole all'action directe, influenzata da Fernand Pelloutier e poi da Hubert Lagardelle e da Georges Sorel (1847-1922), autore di L'avenir socialiste des syndicats (1898) e Réflexions sur la violence (1908).

Il sindacalismo rivoluzionario e l'anarco-sindacalismo, che si diffusero nei paesi dell'Europa meridionale, si contrapposero al cosiddetto marxismo della Seconda Internazionale (partito di tipo socialdemocratico e lotta politico-parlamentare; centralizzazione dell'organizzazione sindacale e legislazione sociale), privilegiando lo sciopero come strumento di educazione della coscienza di classe e riservando allo sciopero generale la funzione di emancipare la classe operaia fino all'atto decisivo dell'espropriazione, così da consentire ai lavoratori (i 'produttori') di pervenire alla gestione delle imprese. La crisi boulangista e l'affaire Dreyfus fecero precipitare i contrasti fra i gruppi socialisti in tema di alleanze con i repubblicani e i radicali. Quando, nel giugno 1899, il socialista Alexandre Millerand entrò nel gabinetto borghese di Waldeck-Rousseau per difendere le istituzioni repubblicane da un possibile colpo di Stato della destra e per introdurre la scuola laica di Stato, si creò una divaricazione tra i 'guesdisti', contrari a ogni collaborazione con la borghesia, e gli 'indipendenti' di Jean Jaurès (1859-1914), al riguardo più possibilisti, divaricazione che rimase incolmabile fino al 1905, quando per i buoni uffici dell'Internazionale le diverse componenti si unificarono nella Section Française de l'Internationale Ouvrière (SFIO).Il problema sollevato dal caso Millerand, relativo all'appoggio (ministerialismo) o addirittura alla partecipazione (ministeriabilismo) dei socialisti a governi a maggioranza borghese, interessò tutti i partiti aderenti all'Internazionale, con modalità diverse dettate nei vari paesi dalle effettive prospettive di trasformazione delle società borghesi liberali in società democratico-parlamentari. Proprio sul sostegno o meno alla 'svolta liberale' inaugurata da Giovanni Giolitti agli inizi del secolo, si verificò in Italia la prima irriducibile frattura nel Partito Socialista che, sotto la guida di Filippo Turati (1857-1932), direttore della "Critica sociale" dal 1891, era stato fondato a Genova nel 1892, con un programma ispirato a quello di Erfurt.

Il contrasto, che si mantenne sotto diverse vesti fino all'avvento del fascismo, si verificò tra la componente gradualista e riformista di Turati, Claudio Treves, Leonida Bissolati e poi dei dirigenti della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL), costituita nel 1906, e quella intransigente e rivoluzionaria di Arturo Labriola e di Enrico Ferri, dalla quale poi si scissero i sindacalisti rivoluzionari di Alceste De Ambris. Rispetto al socialismo delle aree industrializzate e a tradizione liberale e a quello tipico delle aree rurali e a regime autocratico, il socialismo italiano si collocò in una posizione mediana, con larga approssimazione più vicino a quello francese dopo la Comune o a quello spagnolo per il ruolo sociale della Chiesa e l'anticlericalismo, la frequente difformità di indirizzo tra sindacato e partito, il protagonismo delle campagne e gli squilibri regionali, la permanenza di una vasta area sovversiva (in Spagna gli anarchici ebbero basi di massa nonostante l'opposizione del Partito Socialista Obrero Español, PSOE, fondato nel 1888 da Pablo Iglesias).Nell'Europa centrorientale e meridionale, dove i processi di integrazione politica furono ancora più lenti, la penetrazione socialista divenne significativa solo alla fine del XIX secolo, con un primo insediamento nei centri urbani lungo i canali dell'emigrazione. Tipica figura di profugo socialista fu il bulgaro Christian G. Rakovskij, che in Svizzera fu in contatto con Plechanov e in Germania con Liebknecht, e che al congresso dell'Internazionale di Amsterdam del 1904 rappresentò la Serbia e in quello di Stoccarda del 1907 la Romania. In Bulgaria fu costituito nel 1891 un partito nazionale, poi Partito socialdemocratico bulgaro del lavoro (BRSPD), dal 1903 diviso tra i 'larghi', favorevoli alla collaborazione con la borghesia, e gli 'stretti', ad essa contrari. In Serbia il partito fu costituito nel 1903. In Polonia il Polska Parti Socjalistyczna, fondato da Jósef Pilsudski nel 1892, tenne il primo congresso a Varsavia nel 1894: pur nella professione di internazionalismo, perseguì la realizzazione di uno Stato indipendente e democratico.

Le associazioni operaie di lingua jiddish si organizzarono invece nel 1887 in un Bund come parte del movimento socialista russo.Anche in Russia il socialismo restò a lungo diffuso nella cerchia di una piccola intelligencija, una minoranza rivoluzionaria ed elitaria che si opponeva all'aristocrazia e alla Chiesa ortodossa. Dall'estero Aleksandr Herzen indicò una strada al socialismo che, partendo dall' esperienza del mir, consentisse di superare o di evitare lo stadio capitalistico. Pëtr Lavrov, fondatore a Parigi di "Vpered", la rivista teorica del populismo, predicò la necessità di 'andare al popolo', cioè alle masse contadine, e assegnò un ruolo determinante all'intellettuale rivoluzionario. Un tema che fu ripreso, in una prospettiva insurrezionale e addirittura terroristica, da Bakunin, da Sergej G. Nečaev, da Pëtr N. Tkǎcev, e poi, nella prospettiva bolscevica, anche da Lenin. Erede del populismo fu il Partito socialista rivoluzionario costituito nel 1901. La diffusione del marxismo in Russia conobbe il filtro non solo del pensiero populista, ma anche del Gruppo di liberazione del lavoro, fondato a Ginevra nel 1883 da Georgij Plechanov (1857-1918), Pavel Aksel'rod e Vera Zasulič, che furono in contatto con Marx ed Engels e con gli esponenti socialdemocratici tedeschi, anch'essi allora in esilio in Svizzera. Dall'incontro tra gruppi di emigrati e settori della classe operaia di Mosca e di San Pietroburgo, di Kiev e di Odessa, nacque a Minsk nel 1898 il Partito operaio socialdemocratico russo, con un programma che recuperò la tradizione populista rivoluzionaria, respingendone però i metodi terroristici, e attribuì al proletariato industriale il compito della rivoluzione. Nel 1903 il partito si divise tra menscevichi (minoritari) e bolscevichi (maggioritari).

I primi, con Plechanov e J. Cederbaum detto Martov (1873-1923), si professarono marxisti 'occidentalisti', cioè convinti che allo zarismo sarebbe dovuto succedere un regime democratico-borghese prima di giungere al socialismo; i secondi, con Lenin, sostennero la tesi del passaggio immediato dalla rivoluzione democratica alla dittatura del proletariato e dettero vita a un partito di rivoluzionari di professione.Nelle aree più sviluppate o prive delle fratture sociali e politiche tipiche dell'Europa centrorientale e meridionale, la penetrazione del marxismo fu assai più stentata o praticamente assente. In Inghilterra, per esempio, dopo il crollo del cartismo l'attività politico-partitica rimase a lungo modesta, specialmente se confrontata con i vistosi successi della cooperazione e del sindacato, che nel 1868 fondò il Trades Union Congress (TUC) e, dopo lo sciopero del 1889, ricevette ulteriore impulso dal 'nuovo unionismo', cioè dall'organizzazione di nuove fasce di lavoratori dei trasporti, del carbone e dell'industria, semispecializzati e manovali (un milione e seicentomila iscritti nel 1892, che avrebbero raggiunto i quattro milioni e mezzo nel 1914). Il movimento operaio inglese cercò piuttosto l'alleanza con i radicali e soprattutto con i liberali, per l'allargamento dei diritti politici e per una più incisiva legislazione sociale e di tutela del lavoro, dando vita a quella tattica lib-lab (liberal-labour) contro la quale con scarso successo si opposero la Social Democratic Federation, fondata da H. Mayers Hyndman nel 1881, e la Socialist League, promossa nel 1884 da William Morris (1834-1896), di ispirazione marxista. Influenza notevole ebbe invece il gruppo di pressione, costituito tra gli altri da Sidney Webb e Beatrice Potter, George Bernard Shaw, George Wells, raccolto nella Fabian Society (1884), che intese promuovere un socialismo pragmatico e gradualista, come attestava la scelta della denominazione stessa con il riferimento al generale romano Fabio Massimo il Temporeggiatore.

Il volume Fabian essays in socialism, del 1889, circolò in due milioni di copie, preparando il terreno culturale per i partiti non marxisti come l'Independent Labour Party di Keir Hardie (1856-1915), fondato nel 1893, e poi, nel 1890, per il Labour Representation Committee, da cui ebbe origine nel 1906 il Labour Party, che già nelle prime elezioni ottenne 26 seggi parlamentari. Esso costituì il modello del partito a struttura indiretta, basata cioè sull'adesione di gruppo, poi modificata dal riconoscimento di una quota politica individuale facoltativa per gli aderenti alle Trade Unions (Trade Unions act, 1913) e in seguito, nel 1918, dall'esplicita ammissione dell'iscrizione individuale.Nei Paesi Scandinavi le origini del movimento socialista si legarono ai rapporti che emigranti, studenti e pubblicisti, come August Palm o Holtermann Knudsen, stabilirono con la socialdemocrazia tedesca. Il movimento socialista ebbe una iniziale diffusione nei centri urbani, innestandosi sulla tradizione corporativa artigiana, ma ben presto allargò il consenso popolare agitando i grandi temi politico-istituzionali: le riforme elettorali in Svezia, la riforma costituzionale in Danimarca (1916), la questione dell'indipendenza della Norvegia nel 1905. Nel complesso, però, il movimento sindacale (e anche cooperativo) mantenne una posizione predominante.

Ciò fu particolarmente evidente in Svezia dove il partito, fondato nel 1889 da Hjalmar Brainting (1860-1925), condivise a lungo con il sindacato le strutture di base, ma anche gli obiettivi politici di fondo: furono le Lands Organizationen a indire lo sciopero generale per il suffragio universale nel 1902, e fu il partito, con i suoi 35 deputati nel 1905 e 73 nel 1914, a far approvare dal Parlamento le assicurazioni contro la vecchiaia, le malattie e la disoccupazione, facendo leva sulla recuperata capacità di mobilitazione sindacale dopo il grave insuccesso dello sciopero generale dell'estate 1909 indetto in risposta a una serrata padronale. Il Partito socialdemocratico o laburista diventò il più importante in Finlandia fin dal 1907, in Svezia dal 1914, in Danimarca dal 1924 e in Norvegia dal 1927. In Inghilterra e in quasi tutti i Paesi Scandinavi i laburisti e i socialisti si fecero dunque sostenitori di un'evoluzione in senso sociale del sistema liberaldemocratico, del resto assai più avanzato che altrove, presupponendo che lo Stato, permeato con un'azione graduale e dal basso, o sottoposto a un'efficace pressione da parte delle organizzazioni dei lavoratori, potesse assumere un ruolo 'amico' fondamentale. Nella gerarchia che si stabilì allora in Europa tra sindacato e partito fu il primo a precedere il secondo e a determinarne la natura organizzativa.Fuori dal Vecchio Continente, con la parziale eccezione di alcuni dominions inglesi, il socialismo stentò a penetrare, per lo più tramite l'emigrazione europea, e ancor più a radicarsi, anche limitatamente ai centri urbani e alle aree minerarie (come in Cile).

In Giappone, nella seconda parte dell'era Meiji, si costituirono gruppi e partiti ('socialisti orientali', 'conducenti di ricsciò', 'amici del popolo', 'semplici', 'per lo studio del socialismo'), dalla vita breve e stentata, anche per le continue persecuzioni, dediti prevalentemente all'istruzione e alla propaganda attraverso la stampa. Tuttavia la partecipazione del tipografo Sen Katayama al congresso dell'Internazionale di Amsterdam del 1904 e ancor più la condanna della guerra russo-giapponese da lui espressa insieme al russo Plechanov, conferirono al movimento notorietà internazionale. Dall'America Latina ebbero una rappresentanza nei lavori dell'Internazionale solo l'Uruguay e l'Argentina, dove nel 1894 era stato costituito un Partito socialista da Alfredo Palacios e da Juan Baudista Justo. Il caso più significativo era comunque rappresentato dagli Stati Uniti, che si apprestavano a diventare la massima potenza industriale e 'la terra promessa del capitalismo', senza avere neppure i pesanti condizionamenti dei vecchi regimi di cui soffriva la società europea, e dunque erano apparentemente i destinatari dei più ambiziosi progetti sociali, come del resto avevano inteso i primi profughi socialisti seguaci di Fourier, Owen, Cabet e poi di Lassalle e Marx. Ma non si può certo dire che i risultati fossero pari alle attese, nonostante gli iniziali modesti successi conseguiti con la costituzione di un Socialist Labor Party nel 1877, che negli anni novanta trovò nuovo slancio sotto la guida di Daniel De Leon (1852-1914); poi di una Social Democracy, nel 1897; e infine di un Socialist Party of America nel 1901.

Né risultò decisivo ai fini dell'insediamento il fiancheggiamento di organizzazioni sindacali come il Noble Order of Knights of Labor negli anni settanta e ottanta, o le Trades and Labor negli anni novanta - dopo il vano tentativo di penetrazione nella più potente American Federation of Labor di Samuel Gompers - o gli Industrial Workers of the World; e neppure lo straordinario successo di opere come Progress and poverty (1879) del radicale Henry George e di Looking backward (1888) di Edward Bellamy o l'attrazione esercitata su scrittori come Jack London e Upton Sinclair. Nel momento della massima espansione, il 1912-1913, il Socialist Party of America vantava meno di 120.000 iscritti e il suo candidato alle elezioni presidenziali, Eugene Debbs, ottenne il 6% dei consensi. Il 'fallimento' del socialismo negli Stati Uniti fu attribuito a molteplici fattori: il sistema politico istituzionale presidenziale bipartitico imperniato sulle primarie e sulla rilevanza della 'macchina elettorale'; l'influenza dei democratici dopo l'elezione alla presidenza di Thomas Woodrow Wilson (come più tardi negli anni trenta di Franklin Delano Roosevelt); l'isolamento del movimento, chiuso nell'ambiente dell'emigrazione; le caratteristiche della classe operaia formatasi per stratificazioni successive e divisa per segmenti, e dunque non omogenea; e soprattutto la grande mobilità della società americana che avrebbe impedito la stratificazione delle classi.

Tale insuccesso fu considerato la riprova della superiorità del capitalismo sul socialismo e ancor più dei limiti del marxismo, specialmente nelle società complesse e aperte. Per contro, l'accento posto sulla vocazione imperialistica degli Stati Uniti come valvola di sfogo della conflittualità interna, e, quindi, come decisivo fattore di contenimento dell'area di diffusione del socialismo, non sembrò avere uguale rilievo.Nell'età della Seconda Internazionale il socialismo aveva acquisito le caratteristiche di movimento di massa: nel 1912 i partiti aderenti vantavano 3,4 milioni di iscritti (contro i 7,3 milioni di soci delle cooperative e i 10,8 milioni di sindacalizzati) e circa 12 milioni di elettori, e disponevano di una rete di 200 grandi quotidiani. Era tuttavia un movimento che sembrava presupporre uno sviluppo lineare della società e la pace internazionale. La guerra mondiale ne segnò il collasso, dimostrandone l'incongruità rispetto al compito che esso si era dato di difendere la pace in nome della solidarietà di classe, ma al tempo stesso ne accelerò l'integrazione politica. Nel 1914, con pochi dissensi tra i quali quello del Partito Socialista Italiano, i socialisti tedeschi, austriaci e francesi votarono i crediti di guerra, con la motivazione di dover difendere il principio di nazionalità e di voler abbattere gli uni l'autocrazia zarista, gli altri l'imperialismo e il militarismo tedesco.Tra le due guerre l'area della democrazia e del socialismo arretrò di fronte all'espansione del fascismo e delle politiche autoritarie in Italia, Germania, Austria e Spagna, nonché in Portogallo, Ungheria e Romania.

In tali paesi socialismo e democrazia condivisero una identica sorte, si compenetrarono ulteriormente, e tale identificazione costituì un'eredità importante per le leaderships costrette all'emigrazione e per le generazioni successive. Ma il socialismo subì anche la sfida del comunismo, dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 e la creazione il 2 marzo 1919 della Terza Internazionale, la quale nel giugno 1920 varò ventuno punti per l'ammissione, tra i quali il più qualificante fu la creazione di un partito accentrato e disciplinato che combattesse in via prioritaria le vecchie leaderships socialiste per affermare la sua superiore autorità. I comunisti diventarono così i nemici implacabili dei regimi democratici e dei partiti socialisti, dando vita a propri partiti (in Italia nel gennaio 1921), fino ad accusare gli ex compagni di 'socialfascismo', cioè di essere la componente più moderata e più 'opportunista' della controrivoluzione. Queste polemiche, ancora persistenti negli anni dell'ascesa al potere del nazismo, furono superate solo con la politica dei fronti popolari dopo il 1935. Al Komintern si oppose l'Internationale Ouvrière et Socialiste, ricostituita a Berna nel 1919 e poi ufficialmente ad Amburgo nel 1923 (IOS), sulla base della conferma della via democratica e parlamentare al socialismo nei paesi a sviluppo capitalistico, e dunque della denuncia del totalitarismo bolscevico. Il tentativo dei socialdemocratici austriaci di unificare socialisti e comunisti con l'Internazionale due e mezzo fallì quasi subito e i più confluirono nell'IOS, di cui ricoprì la carica di segretario fino al 1939 Friedrich Adler (1879-1960).

Rimase comunque viva un'area centrista, che, pur respingendo il metodo bolscevico per i paesi avanzati, ne ammise tuttavia la possibilità in quelli sottosviluppati o autocratici, come era stata la Russia zarista, o nell'ipotesi della difesa da attacchi interni ed esterni. In seguito 'i centristi', come del resto non pochi intellettuali di sinistra, furono pronti a concedere al regime sovietico almeno il beneficio d'inventario per l'avvio di una direzione pianificata dell'economia e per i progressi conseguiti tanto nella politica di industrializzazione quanto nello sviluppo dell'istruzione e dei servizi sociali (cfr. Sidney e Beatrice Webb, Soviet communism: a new civilization?, London 1935).Nonostante l'arretramento, è stata collocata nel periodo tra le due guerre la definitiva sedimentazione ('cristallizzazione') socialdemocratica. Nel 1931 i partiti aderenti alla IOS vantavano oltre 6 milioni di iscritti, 26 milioni di elettori, più di 1.300 deputati, e una rete di oltre 360 organi di stampa.
Anche nei paesi che sarebbero stati poi investiti dalla reazione fascista o autoritaria, l'area del precedente consenso elettorale socialista acquisito nel primo dopoguerra risultò in qualche modo consolidata, destinata cioè a confermarsi nelle prime elezioni 'libere' dopo il 1945. Altra questione è quella dell'uso del potenziale socialdemocratico. Per molti esso non fu pari all'obiettivo di difendere la democrazia là dove era minacciata (o per contro di indirizzare in senso sovietico le presunte potenzialità rivoluzionarie dell'immediato dopoguerra), e tantomeno di affrontare con una cultura economica di lungo periodo la crisi del 1923-1924 e soprattutto del 1929, nel perdurante pregiudizio che fosse impossibile riformare la società capitalistica. In realtà non mancò allora la ricerca di strade nuove: con i socialdemocratici Richard von Moellendorf, Rudolf Wissel e Otto Neurath, questi ultimi anche in relazione al disegno dello Stato 'organico' di Walther Rathenau, nonché con Georges Douglas H. Cole e Rudolf Hilferding, si mirava alla parziale socializzazione delle imprese, nell'ambito di un'economia 'governata' ma rispettosa di ampi spazi di autogestione; Louis De Brouckère teorizzava la "democrazia industriale" e il "controllo operaio" (Le contrôle ouvrier), mentre i guild socialists inglesi affermavano la primogenitura dell'economia e della società sulla politica nell'ambito di una concezione pluralistica dei rapporti sociali. Albert Thomas rilanciò in Francia la tesi della 'presenza nella nazione' in relazione allo sviluppo della produttività, e il belga Henri de Man (1885-1953), che era stato critico severo del marxismo in nome di un socialismo nazionale, etico-volontaristico e socio-psicologico in Au-delà du marxisme, 1927, teorizzò in Le socialisme constructif, 1933, un'economia mista sottoposta a un "piano del lavoro" nazionale, che fece adottare al POB alla vigilia della guerra. L'influenza del 'planismo' di de Man fu grande in Olanda e in Svizzera, e in taluni ambienti del socialismo inglese e francese favorevoli alla "économie dirigée" e alla "évolution constructive" ("néosocialisme").

Al di là dei risultati immediati, per la verità modesti, la pratica di economia mista o diretta maturata tra le due guerre era destinata a incidere nel lungo periodo, entrando a far parte del codice genetico del socialismo occidentale, di volta in volta come risposta alle crisi cicliche o meno, come correttivo degli 'eccessi' della libera concorrenza, come volano rispetto agli squilibri del mercato, addirittura come sinonimo di servizio pubblico impiegato per combattere le ineguaglianze e per consolidare la coesione nazionale.Il punto centrale fu che in molti paesi i socialdemocratici andarono allora al governo, per lo più di coalizione, e indipendentemente dai risultati conseguiti perfezionarono il processo di integrazione politica e sociale avviato alla fine del secolo precedente. In tale situazione quasi tutti promossero la revisione dei programmi originari (un'esperienza che invece mancò al socialismo italiano, prematuramente disperso dal fascismo e costretto all'esilio). Dopo la proclamazione della Repubblica in Germania, nel novembre 1918, furono eletti presidente e cancelliere in un governo di coalizione i leaders della SPD, Friedrich Ebert (1871-1925) e Philipp Scheidemann (1865-1939), forti del 38% dei voti conseguiti nelle elezioni dell'Assemblea costituente il 19 gennaio 1919, nonostante l'opposizione mossa dai 'socialisti indipendenti', costituitisi nel 1917, e dalla Lega spartachista, la cui rivolta fu repressa nel sangue.

Esclusa dal governo del Reich dal 1923 al 1928, la SPD restò al governo in coalizione nella Prussia, nel Baden, nell'Assia e in Amburgo con buoni risultati in campo amministrativo, scolastico e urbanistico (in particolare con Walter Gropius e il Bauhaus di Weimar), e tornò al cancellierato nel 1928 con Hermann Müller (e Hilferding, ministro delle Finanze) prima di essere spazzata via dal nazismo.Anche in Austria i socialdemocratici risultarono il partito più forte. Presidente della Repubblica, cancelliere e ministro degli Esteri furono eletti rispettivamente Karl Seitz, Karl Renner e Otto Bauer. Renner fu anche capo dello Stato nel 1945-1950. Se la SPD avviò la revisione del programma al congresso di Görlitz (1921) delineando già allora 'il partito di tutto il popolo', i socialdemocratici austriaci, fedeli custodi dell'unità del partito, nel congresso di Linz del 1926 abbandonarono definitivamente la teoria della dittatura del proletariato per ammettere la violenza a solo scopo difensivo. Grande autorevolezza, anche all'estero, acquistò il piccolo gruppo degli 'austromarxisti', già noto per le precedenti posizioni sulla questione nazionale e ora impegnato, in particolare con Bauer (Der Weg zum Sozialismus, 1919), a delineare una rivoluzione politica per via democratica attraverso un processo lento di socializzazione dei rapporti di produzione. La socialdemocrazia austriaca ottenne risultati rilevanti con la legislazione sociale promossa tra il 1918 e il 1920 dal ministro Ferdinand Hanusch, e soprattutto nell'amministrazione della città di Vienna, una delle esperienze di governo della città culturalmente e socialmente più feconde in tutto il Novecento. Nel febbraio 1934, dopo una repressione sanguinosa a Vienna, il governo reazionario di Dolfuss distrusse la socialdemocrazia austriaca e con essa il regime democratico. La lotta al fascismo fu alla base della politica dei fronti popolari inaugurata dopo il 1935 in quei paesi dove la presenza comunista era consistente, e in Spagna si realizzò nella sfortunata difesa della Repubblica.

L'esperienza più significativa si ebbe in Francia quando, nel 1936, il Front populaire portò al governo una coalizione presieduta dal socialista Léon Blum (1872-1950), il quale ebbe però vita difficile tanto che si dimise già nel giugno 1937. La politica del fronte popolare fu poi messa in crisi dal patto di alleanza tra Hitler e Stalin nel 1939; fu ripresa solo nella Resistenza e ancora negli anni 1945-1947 in Italia e in Francia, ma costituì un precedente importante anche per i progetti di democrazia popolare nell'Europa orientale (1945-1949).

Nei paesi dell'Europa del nord, i partiti socialisti portarono a compimento l'integrazione politica e sociale assumendo responsabilità di governo significative. In Inghilterra il Labour Party da terzo partito divenne in pochi anni il primo, conquistando nel 1918 il 24% dei voti validi, e nel 1929 il 37%. Con l'aiuto dei liberali riuscì a dar vita nel gennaio 1924 al primo governo presieduto da un laburista, Ramsay Mac Donald (1866-1937), e a un secondo nel 1929. In entrambi i casi l'esperienza ebbe risultati molto modesti, ma rivestì un grande valore simbolico anche in Europa. Il programma del 1918 a favore della generalizzazione del minimo vitale e della gestione democratica e decentrata delle industrie nazionalizzate, finanziata con una forte leva fiscale, fu rivisto nel 1928, dopo l'insuccesso dello sciopero generale per la nazionalizzazione delle miniere (1926), con una diversa e più intensa attenzione ai problemi di politica estera e di politica sociale sotto il titolo significativo: The Labour and the Nation. Dopo il fallimento dei governi Mac Donald il Labour rimase all'opposizione per nove anni, ma nel 1940 fu chiamato da Winston Churchill nel governo di unità nazionale.

All'interno dei dominions britannici, si sviluppò un sistema di Welfare State in Nuova Zelanda, dove il Labour Party, diretto da Michael Savage (1872-1940), giunse al governo nel 1935 con il 46% dei voti e vi restò fino al 1949. Fin dal 1938 esso creò un servizio sanitario nazionale gratuito con il Social security act. In Australia, dove era presente un forte movimento sindacale (nel 1914 un iscritto ogni nove abitanti), il Labour Party assunse la direzione del governo federale nel 1910, ma fu travagliato da polemiche e divisioni interne; dette poi vita a un nuovo governo presieduto da J.H. Scullin (1876-1953), nel 1929, nel momento economico più difficile. Nelle elezioni del 1931 subì una pesante sconfitta, da cui però si riprese negli anni quaranta. I risultati più rilevanti e più duraturi verso il Welfare State tuttavia furono conseguiti in Svezia, dove il leader socialdemocratico Karl H. Branting prima partecipò al governo nel 1917, poi fu eletto primo ministro nel 1920-1923 e nel 1924-1925.

Ma la vera svolta avvenne dopo la formazione di un governo in alleanza con il partito dei contadini, presieduto da Per Albin Hansson, il quale inaugurò la cosiddetta 'politica del focolare', che prospettava una società priva di aspri antagonismi di classe, volta a ricercare la piena occupazione con investimenti pubblici finanziati da una severa politica fiscale. Nelle elezioni del 1936 i socialdemocratici ottennero il 46% dei voti. In Danimarca il leader del Partito socialdemocratico, Thorvald Stauning, fu a capo di un governo di coalizione nel 1924, poi nel 1929 e ancora nel 1933. In Norvegia i socialisti formarono governi di coalizione nel 1928 con Christopher Hornsrud, e nel 1935 con Johann Nygaardsvold. L'esperienza scandinava parve addirittura definire una propria via al socialismo la quale, all'interno dell'accettata società capitalista e dunque intervenendo sui meccanismi di redistribuzione del reddito piuttosto che su quelli della produzione, in un clima di solidarietà sociale conciliasse, empiricamente e gradualmente, libertà, giustizia, sicurezza e stabilità.

4. L'affermazione della socialdemocrazia nel secondo dopoguerra
 
Il 'socialismo nazionale' nel Terzo Mondo.Durante la guerra contro il fascismo quasi tutti i partiti socialisti dell'Europa occidentale, in patria e in esilio, sostennero i governi di unità nazionale, privilegiando la nazione e la democrazia rispetto alla classe e all'anticapitalismo. Nei decenni successivi rinunciarono, dopo che lo avevano già fatto nella pratica, all'idea stessa della violenza e della rivoluzione per la conquista del potere, e pervennero definitivamente a un concetto più maturo di socialismo, inteso come un ideale sociale ed economico inseparabile dal metodo democratico assunto come mezzo e come fine. I partiti socialisti europei, inseriti compiutamente nel cosiddetto mondo libero, perseguirono una opposizione assoluta al totalitarismo, che negli anni della guerra fredda identificarono nel comunismo per la sua aggressività ideologica e politica; ciò li portò ad accogliere la protezione militare della NATO, sia pure in un'ottica difensiva e non trascurando mai di incentivare le politiche di distensione e di disarmo controllato.

Fu esemplare a questo riguardo l'assunzione della carica di segretario generale della NATO dal 1957 al 1961 da parte di Paul-Henri Spaak (1899-1972), leader dei socialisti belgi, che aveva già ricoperto le cariche di presidente del Consiglio nel 1938-1939, di ministro degli Esteri nel 1938-1949 (lo fu anche nel 1961-1969). I partiti socialisti si trasformarono da partiti di classe, per la difesa degli interessi dei lavoratori dipendenti, in partiti di popolo, per perseguire una prospettiva di più generale benessere, e sostituirono all'idea della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio come primo presupposto del socialismo quella dell'espansione del pubblico controllo delle imprese e della pianificazione democratica al fine di garantire la crescita e la distribuzione equa delle risorse, delineando con ciò un'economia mista fra pubblico e privato.

Nel 1951 a Francoforte tali concetti furono posti a fondamento della Dichiarazione dei principî del socialismo democratico della ricostituita Internazionale socialista che, nel passaggio dalla fase della propaganda a quella delle realizzazioni, prese atto che in molti paesi il 'capitalismo non controllato', prevaricatore dei diritti dell'uomo a favore di quelli della proprietà, lasciava il campo a un regime economico nel quale l'intervento dello Stato o il possesso collettivo dei mezzi di produzione conseguivano progressi considerevoli nella creazione di "un nuovo ordine sociale". L'Internazionale si rivolse ai popoli dei paesi sottosviluppati proponendo il socialismo come arma di lotta per la conquista dell'indipendenza nazionale e per il conseguimento di uno standard di vita più elevato, contro le oligarchie indigene e lo sfruttamento neocoloniale. Essa individuò nel comunismo non solo un grave fattore di divisione e di arretramento del movimento operaio, ma un avversario pericoloso che a torto si richiamava al socialismo ('socialismo reale') perché rigidamente dogmatico e per giunta "incompatibile con lo spirito critico del marxismo" e indirizzato all'esasperazione dei contrasti di classe nell'interesse della dittatura di un partito unico, strumento di un "nuovo imperialismo". Il socialismo (democratico) si definì dunque come "un movimento internazionale" che fondava i propri convincimenti, fossero ispirati dal marxismo o da principî religiosi o umanitari, sul comune obiettivo di costruire "un sistema di giustizia sociale, di vita migliore, di libertà e di pace".

Dalla constatazione che lo sviluppo delle scienze e della tecnica aveva dato all'umanità la possibilità di distruggere se stessa, ma anche di migliorare continuamente la propria condizione di vita, esso ricavò la conferma che la produzione non potesse essere lasciata al libero gioco delle forze economiche ma dovesse essere 'pianificata', sia pure nel rispetto dei diritti fondamentali delle persone umane. Un aggiornamento di tali principî di fronte alla mondializzazione economica fu fatto con la Dichiarazione di Stoccolma al congresso dell'Internazionale del 19-22 giugno 1989, con l'accentuazione delle motivazioni democratiche, la valorizzazione del ruolo dell'uomo e della donna, e una maggiore attenzione alla solidarietà tra il Nord e il Sud dei popoli della terra ("una nuova società democratica mondiale").In Inghilterra, nel 1945, il Labour Party, ottenuta la maggioranza in Parlamento, avviò una vasta politica di Welfare State, largamente ispirata alle idee di William Henry Beveridge e di John Maynard Keynes, al fine di garantire la protezione generale, solidale e socialmente equa contro la disoccupazione, la malattia, gli infortuni e la vecchiaia, e promosse un impegnativo programma di nazionalizzazioni nelle industrie di base (ferrovie e trasporti, acciaio, carbone).

Ricacciato all'opposizione nel 1951, il Labour ebbe un'evoluzione profonda dopo la sconfitta della sinistra interna di Aneurine Bevan e poi di Michael Foot. Ne fece fede il saggio The future of socialism, scritto da Anthony Crosland nel 1956, nel quale si sosteneva che il fondamento del socialismo era sociale più che economico, cioè volto a conseguire una più equa distribuzione delle ricchezze e un più razionale sistema educativo per ridurre le differenze di classe e la povertà, piuttosto che a interferire sui diritti di proprietà dei mezzi di produzione o addirittura a esasperare gli interessi di classe. A tali principî si ispirò la nuova leadership laburista negli anni 1955-1963, sotto la guida di Hugh Gaitskell (1906-1963), e poi, tra il 1963 e il 1976, di Harold Wilson. Con una campagna a favore della politica dei redditi e della 'rivoluzione tecnica e scientifica', in cui riecheggiavano le tesi non solo di Keynes e di Schumpeter ma anche di Burnham e di Galbraith, i laburisti tornarono al governo nel 1964-1970 e poi ancora nel 1974-1976 e, dopo le dimissioni di Wilson, con James Callaghan nel 1976-1979. Fece seguito un lungo periodo di opposizione, rotto infine dalla clamorosa vittoria elettorale del 1° maggio 1997, che ha portato al potere Tony Blair e ha attribuito al Labour 419 seggi su 659.In Svezia i socialdemocratici detennero il potere ininterrottamente per mezzo secolo (dal 1932) con Hansonn, Tage Erlander e Olof Palme (1927-1986), e per molti decenni in Norvegia e in Danimarca per poi alternarsi al potere con l'opposizione conservatrice. Il socialismo scandinavo accentuò l'obiettivo della coesione nazionale come proiezione del solidarismo dalla 'culla alla tomba', e della funzionalità fondata sulla 'parità delle occasioni' più che sull'uguaglianza.

In Germania l'evoluzione della SPD ebbe la sua consacrazione al congresso di Bad Godesberg, nel 1959, con la rinuncia al marxismo. Nel presupposto che una moderna società industriale non possa essere governata da un principio uniforme, il congresso delineò i tratti di un'economia mista e di una società fortemente pluralistica. L'istanza originaria della collettivizzazione venne tradotta nell'esigenza del controllo pubblico, e per la prima volta ci si dichiarò per la protezione e la promozione della proprietà privata e si accettò esplicitamente la logica della libera competizione economica tra pubblico e privato con la parola d'ordine "libertà finché possibile, pianificazione finché necessaria". Furono poste così le condizioni perché la SPD accedesse al governo nella grande coalizione con i democristiani negli anni 1966-1969, e poi tra il 1969 e il 1974 assumendo il cancellierato con Willy Brandt (1913-1992), già sindaco di Berlino negli anni 1957-1964 e poi ministro degli Esteri. Brandt avviò il processo di distensione con l'URSS e con la Repubblica Democratica Tedesca (Ostpolitik), e quando venne sostituito dal compagno di partito Helmut Schmidt, negli anni 1974-1982, si dedicò all'Internazionale socialista dilatandone l'area di intervento e rafforzandone il prestigio.In Austria il processo di secolarizzazione del partito fu portato a compimento negli anni cinquanta. Nel 1960 il presidente del partito, Bruno Pitterman, ebbe a dichiarare che "la professione di fede nel marxismo per i socialisti di oggi è una questione privata esattamente come la professione di una religione". I socialdemocratici dettero vita a una grande coalizione con i democristiani nel 1959-1966, sotto la guida di Bruno Kreisky (1911-1990) che, dopo aver ricoperto la carica di ministro degli Esteri nel 1959-1966, venne eletto cancelliere nel 1970.Anche in Francia i socialisti alla fine della guerra assunsero le massime cariche dello Stato con Vincent Auriol (1884-1966), primo presidente della IV Repubblica dal 1947 al 1954, e con Paul Ramadier, primo ministro di un governo tripartito, con la partecipazione dei comunisti, fino al maggio 1947.

Dal 1946 al 1968, sotto la guida di Guy Mollet (1905-1975) che aveva sconfitto la corrente di destra di Blum, favorevole a una più radicale revisione programmatica in nome di un umanesimo socialista, la SFIO si collocò come la troisième force tra comunisti e gaullisti. Essa tornò in primo piano solo nel 1956-1957 con il governo Mollet. Quest'ultimo però fu travolto dalla crisi algerina e di Suez lasciando aperta la strada alla soluzione della V Repubblica. Il socialismo francese piombò, come in passato, in una fase critica di divisioni e di polemiche interne da cui uscì solo con il congresso di Epinay del giugno 1971, sotto la guida di François Mitterrand (1916-1996). Con la firma del programma comune delle sinistre nel giugno 1972, Mitterrand pose le condizioni della scalata alla presidenza della Repubblica, che infine ottenne nel 1981 e poi ancora nel 1988, nel primo caso trascinando al successo elettorale i socialisti che formarono un governo con la partecipazione dei comunisti, nel secondo in coabitazione con il governo Chirac. Nel giugno 1997 le elezioni anticipate hanno sancito una nuova vittoria socialista, che ha portato alla formazione del governo presieduto da Lionel Jospin.

In Italia la revisione programmatica dei socialisti fu più lenta e si compì con la svolta autonomista e democratica del 1956 e soprattutto con i governi di centro-sinistra degli anni sessanta. La vicenda socialista fu qui dominata dai rapporti con il più forte partito comunista del mondo occidentale, rapporti che determinarono nel 1947 la scissione tra il Partito Socialista di Pietro Nenni (1891-1980) e il Partito Socialista Democratico Italiano di Giuseppe Saragat (1898-1988), e nel 1964 quella dell'ala sinistra che dette vita al Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria (PSIUP); nonché con la Democrazia Cristiana, grande partito di centro di ispirazione cattolica. Partito di cerniera del sistema politico nonostante le dimensioni modeste (10-14% dell'elettorato), e dunque con un forte potere di coalizione, il PSI assunse un ruolo di primo piano negli anni ottanta, sotto la dinamica segreteria di Bettino Craxi, che fu presidente del Consiglio tra il 1983 e il 1987, e con la popolare presidenza della Repubblica di Sandro Pertini (1896-1990) tra il 1978 e il 1985; anche per questo subì i contraccolpi più pesanti nella crisi della cosiddetta 'prima Repubblica' negli anni 1992-1994, fino alla frantumazione in piccoli gruppi la cui sopravvivenza è stata resa difficile dal passaggio dal sistema elettorale proporzionale a quello maggioritario.

Mentre negli anni ottanta il 'consenso socialdemocratico' si indeboliva per la prima volta nei paesi centroeuropei e scandinavi (dove l'elettorato era stabilmente oltre il 35%), nei paesi dell'Europa meridionale esso si andava affermando in maniera vistosa. Oltre alla Francia e all'Italia, i casi più significativi furono quelli dei paesi usciti da regimi autoritari: in Grecia il Panellino Sosialistiko Kinima (PASOK) di Andréas Papandreu andò al governo nel 1981; in Spagna il PSOE di Felipe Gonzales nel 1982; in Portogallo il Partido socialista di Mario Soares nel 1983. Al governo per molti anni (anche nel decennio successivo), questi partiti esercitarono un ruolo importante di stabilizzazione sociale consolidando le nuove istituzioni democratiche e portando a compimento l'inserimento dei propri paesi nella Comunità Europea. Al tempo stesso essi spostarono il baricentro dell'area di diffusione del socialismo dai centri tradizionali dell'Europa centro-occidentale, scandinava e britannica all'Europa meridionale, tanto che si è parlato di un socialismo mediterraneo, caratterizzato da un più accentuato pragmatismo e dalla tendenza al leaderismo. Oltre alla compiuta integrazione politica e sociale dei partiti socialdemocratici nell'Europa occidentale, e tralasciando l'esperienza del socialismo reale nei paesi dell'Est (riconducibile però alla storia del comunismo, ivi compreso quello non allineato e autogestionario della Iugoslavia), l'altro fatto nuovo del secondo dopoguerra fu lo sviluppo del socialismo nel Terzo Mondo in condizioni molto diverse da quelle della 'culla europea'.

Si affermò l'idea che nella seconda metà del XX secolo la rivoluzione, o il grande mutamento, appartenesse alla campagna piuttosto che alle fabbriche e alla città, e si collegasse ai processi di decolonizzazione del Terzo Mondo e di formazione di nuovi Stati indipendenti, che si affermavano per lo più dopo lunghe e sanguinose guerre di liberazione contro le antiche potenze coloniali. Il 'modello socialista' sembrò rappresentare meglio le esigenze della modernizzazione e dello sviluppo rispetto a quello del capitalismo industriale e finanziario, e parve in grado di soddisfare la ricerca da parte delle élites dominanti, spesso guidate da un leader carismatico, di un'identità sociale e culturale che superasse in senso comunitario e al tempo stesso nazionalistico le divisioni tribali, etniche e religiose. Esso di solito si identificò nella prospettiva della nazionalizzazione delle industrie di base e nella creazione di partiti-regime.Così, in Egitto, Giamāl 'Abd an-Nāṣir (Nasser, 1918-1970), che salì al potere nel 1952 con un colpo di Stato militare e assunse tutti i poteri nel 1954 con il titolo di rais e poi come presidente della Repubblica, dopo la crisi di Suez del 1956 intensificò la lotta contro il capitale straniero avviando una politica di nazionalizzazione di larghi settori dell'economia e promuovendo la riforma agraria. Egli fece dell'Egitto una delle nazioni guida del non allineamento, indicando al Terzo Mondo il socialismo nazionale come la terza via allo sviluppo rispetto al socialismo reale dei paesi dell'Est e al capitalismo occidentale. In Siria, nel 1953, fu fondato il partito Ba'th come "movimento nazionale, populista e rivoluzionario" impegnato nel conseguimento dell'unità araba, della libertà e del socialismo. Il nazionalismo non era qui circoscritto a uno Stato arabo in particolare, ma esteso al 'popolo arabo' nel suo complesso, di cui si rivendicava la crescita spirituale e materiale, in una visione laica, non religiosa né tribale. Il Ba'th andò al potere in Siria nel 1970, con un colpo di Stato diretto da Hafiz Assad. Si è parlato poi di 'socialismo algerino' con Ahmed Ben Bella e con Houari Boumedienne, e negli anni sessanta di 'socialismo tunisino' con al-Habib Burghiba.
I
n Africa, tra le diverse ideologie della liberazione e del potere, ebbe un ruolo significativo la concezione del 'socialismo africano' e della 'negritudine' dello scrittore francofilo Léopold Sédar Senghor, capo di Stato dell'ex Senegal francese dal 1960 al 1980. Ispirandosi al pensiero comunitario e umanistico premarxista francese (ma anche di Léon Blum), Senghor parlò di una 'terza' rivoluzione, dopo quella capitalista e comunista, destinata a esaltare l'apporto dei popoli di colore alla nuova 'civiltà planetaria'. Partendo da una valutazione negativa dell'assimilazione coloniale egli riscoprì le tradizioni autoctone e l'anima collettiva negra, non in contrapposizione ma a completamento dei valori universali della civiltà europea. Fautore di una concezione dirigistica e di 'una dittatura democratica' fu invece Sekú Turé, presidente della Guinea dopo l'indipendenza conseguita nel 1958. Convinto assertore di un 'socialismo panafricano' (e non nazionale) fu infine il capo di Stato prima del Tanganica (1962) e poi della Tanzania (1964) Julius Nyerere. Cattolico, dopo avere compiuto gli studi in Inghilterra questi delineò un progetto di socialismo fondato sull'espansione della tradizionale famiglia allargata, allo scopo di pervenire a una comunità in cui la proprietà privata venisse limitata e fosse concessa la libertà di espressione, ma non l'organizzazione del dissenso. Un'ulteriore applicazione di una democrazia dirigista nazionalista, legata al non allineamento internazionale, è riconducibile a Sukarno (1901-1970), primo presidente dell'Indonesia nel 1945. Un esempio raro (a parte l'eccezione giapponese) di una dinamica democratico-parlamentare per l'accesso al governo fu dato in Cile nel 1970 dall'elezione alla presidenza della Repubblica di Salvador Allende (1908-1973). Alla testa della coalizione di Unidad Popular, composta da socialisti, comunisti, radicali e cattolici di sinistra, egli governò per tre anni prima di essere rovesciato da un colpo di Stato militare.

5. Verso il XXI secolo

Al suo XX congresso del 9 settembre 1996, a New York, l'Internazionale socialista ha vantato l'adesione di oltre 140 partiti membri rispetto ai 110 nel 1992 (20 nel 1951 e 40 nel 1976). I partiti che si riconoscevano nell'Internazionale socialista erano al governo in 13 paesi su 15 della Comunità Europea. Nell'Europa orientale erano diventati complessivamente la prima forza politica, dopo la conversione degli ex partiti comunisti e l'efficace opposizione ai nuovi nazionalismi etnici. Fuori dell'Europa erano al governo in Giappone, Pakistan, Nepal, India, Cile, Giamaica, Costa Rica, Columbia e in moltissimi paesi dell'Africa. Anche se l'Internazionale si configurava come un luogo di incontro di partiti sulla base di criteri di adesione abbastanza larghi (conformità agli ideali di democrazia, sviluppo, pace; consistenza reale; gestione interna democratica), la sua crescita attesta pur sempre che il socialismo era, più che mai dopo il crollo del comunismo, una grande forza evocatrice in tutto il mondo. L'espansione geografica del socialismo sembrava finalmente concretizzarne l'aspirazione universalistica, presente fin dalle origini, e l'ambizione di farsi interprete dei processi di democratizzazione dei paesi già governati da regimi dittatoriali o totalitari. L'esito di tale sfida, tuttora in corso, coinciderà con le possibilità di affermazione nel Terzo Mondo dei valori di tolleranza, di rispetto della persona, di uguaglianza dei diritti politici e sociali propri della civiltà occidentale, ma anche di efficaci politiche di sviluppo, in grado tra l'altro di disinnescare la 'bomba' demografica.

Più difficile è prevedere quante delle esperienze del socialismo nazionale nelle aree di sottosviluppo preludano a un'effettiva nuova via che valorizzi le risorse indigene e con ciò arricchisca anche il modello socialdemocratico originario nella globalizzazione delle relazioni economiche e sociali.Eppure, nei paesi europei e anglosassoni, cioè nell'area storicamente propulsiva del socialismo, si sono fatte oggi più frequenti le voci sulla vetustà o addirittura sul declino della socialdemocrazia. La mondializzazione economica e la rivoluzione tecnologico-informatica, l'esplosione demografica e la pressione immigratoria, le politiche di risanamento dei bilanci pubblici mettono in discussione il 'compromesso' socialdemocratico su cui sono stati fondati il Welfare State e il keynesismo, e perfino la tradizionale struttura a tre stadi imperniata sul rapporto partito-sindacato-associazionismo collaterale. Più correttamente si dovrebbe parlare di conclusione di un ciclo, fondato sul binomio classe operaia-nazione, iniziato oltre un secolo fa, nell'epoca dell'industrializzazione diffusa. Nel codice genetico del socialismo (europeo) il futuro apparteneva al lavoro dipendente, del quale il proletariato di fabbrica sarebbe stato il nucleo aggregante e significativo, tanto più perché destinato a diventare più omogeneo, più diffuso, più acculturato e più consapevole.

Era un socialismo che faceva riferimento al lavoro manuale, e quando si rivolgeva ad altri ceti (impiegati, quadri, intellettuali, contadini) li coinvolgeva in quanto, nei comportamenti e nelle attitudini, si rendevano 'popolo' o 'proletariato'. Nelle società postindustriali, il futuro appartiene al terziario avanzato, sempre più informatizzato, piuttosto che al settore secondario. E rispetto al lavoro, una volta termine di partenza e di arrivo della vita, uno spazio crescente viene assunto dal tempo di non lavoro o 'libero'. D'altra parte l'affermazione preponderante dell''io' e del privato sul pubblico parrebbe imporsi sulle pratiche di socializzazione e classiste, e perfino comunitarie. La trasformazione del partito socialdemocratico da partito di classe in partito catch-all ('pigliatutto') fa temere che ne vengano minate irrimediabilmente le 'radici sociali' e vanificato il potere mobilitante dell'ideologia.

Sono ridimensionati gli itinerari tipici di acculturazione della massa dei lavoratori (quartieri, luoghi di ritrovo, linguaggio) che rendevano omogenea la classe; e lo stesso processo produttivo tende a 'individualizzarsi', con la flessibilità, il decentramento e l'informatizzazione. Il frazionamento degli interessi facilita la promozione di movimenti monotematici e di gruppi di pressione, mentre diviene più incisiva la presenza di organismi politico-economici e monetari sovranazionali: il partito nazionale di grande apparato e di massa, in grado di intermediare la domanda, per giunta inarticolata, registra una costante, inarrestabile flessione.

La percezione della chiusura di un ciclo pare comunemente avvertita, cosicché per il socialismo sul finire del XX secolo si parla sempre più di un passaggio dalle nazionalizzazioni al mercato; dalla fiducia nel progresso lineare alla prospettiva di uno sviluppo compatibile o sostenibile; dallo statalismo alla valorizzazione delle associazioni non profit e alla responsabilità dei cittadini; dalla lotta contro l'ingiustizia sociale a quella contro l'esclusione e contro presunte nuove ineguaglianze, quali quelle prodotte nelle città dal degrado ambientale, dalla diffusione della droga, dalla criminalità organizzata e dall'immigrazione. L'obiettivo è quello di portare la cittadinanza al livello della quotidianità.

Ai socialisti è affidato il compito, davvero difficile e dall'esito incerto, di adattare ai problemi attuali il modello ricevuto dai padri in un secolo di lotte per l'uguaglianza dei diritti e per la protezione sociale dell'individuo.