Agostino, Aurelio santo
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Agostino, Aurelio (lat. Aurelius Augustinus), santo. - Dottore della
Chiesa, filosofo e teologo, vescovo d'Ippona e santo (Tagaste in
Numidia, od. Sūq-Ahras in Algeria, 13 nov. 354 - Ippona, od. Bona,
28 ag. 430); fu uno dei quattro grandi Dottori della Chiesa
occidentale, detto "il Dottore della Grazia". La sua opera ha
segnato la storia della religiosità e della filosofia europea.
Vita e opere
Figlio di un decurione, Patricio, ancora pagano, e della cristiana
Monnica, fu iscritto tra i catecumeni; compì gli studi in patria, a
Madaura, poi a Cartagine: periodo da lui descritto come di abbandono
alle passioni amorose. Da una concubina ebbe nel 372 un figlio,
Adeodato. La lettura dell'Hortensius ciceroniano lo attrasse,
diciannovenne, alla filosofia, e aderì presto al manicheismo,
presentatogli come spiegazione scientifica dell'universo. Se ne fece
anzi propagandista a Tagaste, dopo la morte del padre, e a Cartagine
ove ottenne qualche successo come retore, e scrisse il suo primo
libro, De pulchro et apto (perduto), in cui pare si sforzasse a dare
veste filosofica al manicheismo, nel quale era però rimasto semplice
uditore. Passò poi, abbandonando la madre, a Roma; quindi, su
raccomandazione di Simmaco, come professore ufficiale di retorica
(autunno 384), a Milano, ove maturò la crisi spirituale, in seguito
alla quale, dimessa la concubina e rinunciando al matrimonio
vantaggioso per cui insisteva Monnica, si decise ad abbracciare il
cristianesimo, che gli si palesava, allora, come in pieno e perfetto
accordo con la filosofia neoplatonica e la predicazione di s.
Ambrogio. A Cassiciacum (probabilmente Cassago, in Brianza),
dimessosi dalla cattedra, scrisse le prime opere pervenuteci (i
dialoghi Contra academicos, De vita beata, De ordine e Soliloquia) e
cominciò a comporre una serie di manuali delle arti liberali; fu
battezzato da s. Ambrogio la notte del sabato santo (24-25 aprile)
del 387.
Trascorse a Roma l'inverno (Monnica morì ad Ostia nel novembre) e
tornò a Tagaste, continuando, nella vita monastica, la sua attività
di scrittore. Nel 391 fu ordinato sacerdote a Ippona, ove, tra la
fine del 395 e il 396, fu consacrato come successore dal vescovo
Valerio già prossimo a morte; lo stesso fece poi (426) A. col prete
Eraclio. Le reliquie, portate in Sardegna da s. Fulgenzio e altri
vescovi esuli nel 486, furono dopo l'invasione saracena trasportate,
per opera del re Liutprando, a Pavia ove gli fu eretto il monumento:
ma che fossero di lui quelle ritrovate nel 1695 fu contrastato dal
Muratori e da altri.
Nei 34 anni di episcopato lo tennero occupato, oltre le cure
costanti dedicate alla sua chiesa, la copiosa corrispondenza (ci
sono giunte 218 lettere di A., oltre i trattatelli in forma
epistolare, e 53 dirette a lui), la predicazione (i sermoni
conservati e noti finora sono più di 500), i concilî e le eresie e
scismi, la lotta contro i quali assorbì grandissima parte
dell'attività letteraria, che ha reso A. proverbiale come uno non
solo dei più dotti e profondi, ma dei più fecondi scrittori mai
esistiti.
Appunto le polemiche, insieme con la conversione, l'ordinazione e la
consacrazione, contrassegnano, all'ingrosso, anche periodi dello
svolgimento del pensiero di lui. Con la conversione comincia la
polemica contro i manichei, già accennata nei "Dialoghi di
Cassiciaco" e continuata in una serie di scritti per lo più
filosofico-religiosi (per es. De quantitate animae, De libero
arbitrio, il libro VI De musica, De magistro, De vera religione, De
utilitate credendi), in cui vediamo A. passare gradatamente
dall'affermazione della superiorità essenziale della ragione sulla
fede, a quella dell'utilità e ragionevolezza dell'affidarsi
all'auctoritas fondata sulla rivelazione e universalmente
riconosciuta, della Chiesa; ed elaborare insieme la sua
caratteristica dottrina della conoscenza. La felicità, cui gli
uomini aspirano, non si consegue senza il possesso della verità.
Contro gli scettici, egli usa l'argomento principe: se dubito, so di
dubitare, dunque di essere; se sbaglio, sono (motivo che da taluni
storici della filosofia viene indicato tra gli antecedenti del
dubbio cartesiano: non sfugge comunque il diverso contesto). Ma la
verità va cercata in me stesso: è la dottrina neoplatonica del
ritorno su sé stessa dell'anima, che, riconosciuta la mutevolezza
del mondo esteriore, percepito dai sensi, e la sua propria, si avvia
a ricercare la verità immutabile, per cui è vero ogni ragionamento
vero, e che è Dio medesimo. I sensi, dunque, e anche le parole del
maestro, non fanno se non ridestare idee, che sono già nell'anima:
non però nel senso della dottrina platonica della reminiscenza, ma
in quanto in interiore homine habitat veritas, parla cioè, in fondo
all'anima, il Maestro interiore, il Verbo divino; nell'uomo (in
interiore homine) brilla la luce del vero che dona a ciascuno le
rationes aeternae, principio e fondamento di ogni giudizio.
È questa la teoria detta dell'illuminazione, che, non del tutto
chiarita da A., si presta a varie interpretazioni (secondo che le
rationes aeternae si intendano come "idee innate", o come
"categorie" del giudizio); essa si collega alla dottrina del
"maestro interiore", il Verbo, il solo vero maestro: sicché
l'insegnare degli uomini è solo un preparare ad ascoltare la voce
del Verbo divino. Queste dottrine furono da A. mantenute anche in
opere posteriori ma il primitivo entusiasmo per Platone, Plotino e i
"platonici" (che, se fossero vissuti ora, - dice - si sarebbero
fatti cristiani) e per i neoplatonici si affievolì col tempo. La
polemica antimanichea venne continuata in altri scritti (per es.
Contra Adimantum, Contra epistolam Manichaei quam vocant fundamenti)
fino al voluminoso Contra Faustum e ad altri opuscoli fino al 405
circa, poi sporadicamente in un paio di opuscoli e, in parte, nel
trattatello contro tutte le eresie (De haeresibus, 428-29).
L'ordinazione sacerdotale obbliga A. a spiegare al popolo i libri
sacri; egli partecipa più intimamente della vita della Chiesa e
viene a conoscere lo scisma che tormenta la Chiesa africana.
Comincia così la polemica contro il donatismo, con l'interessante
Psalmus abecedarius contra partem Donati, primo esempio degli
scritti popolareggianti di A. (versi di 16 sillabe, abbandono della
prosodia e metrica classica, assonanza in e), poi con una serie di
opere (Contra epistolam Parmeniani, De baptismo, Contra litteras
Petiliani, Contra Cresconium) fino alla grande "conferenza" di
Cartagine (411; Breviculus collationis cum donatistis) quindi, con
minor frequenza di scritti, sino al Contra Gaudentium (420 circa).
In questa polemica, che lo portò a occuparsi dell'ecclesiologia, A.
segue s. Cipriano e s. Ottato mantenendo fermissimo il principio
della validità ed efficacia obiettiva (ex opere operato) dei
Sacramenti, la cattolicità e l'unità della Chiesa, fuori della quale
non v'è salvezza e che è corpus permixtum: ne fanno parte cioè grano
e zizzania, buoni e malvagi, che soltanto Gesù Cristo ha diritto di
separare nel giorno del Giudizio. Ma mentre all'inizio, e ancora nel
411, A. non voleva ricorrere ad altro mezzo che la persuasione
attraverso la discussione, tuttavia, con le leggi di Onorio contro
gli scismatici e di fronte alla loro ostinazione, cambiò parere: e
come dalla netta distinzione tra scisma ed eresia passò a definire
questa quale "scisma inveterato", così ammise la legittimità e
necessità della coercizione e del ricorso all'autorità civile,
fissando altresì il dovere per il sovrano cristiano di attenersi al
magistero della chiesa.
Ma con l'ordinazione A. si dedica anche con maggiore intensità allo
studio della Bibbia: specialmente del Genesi, passando
dall'interpretazione strettamente allegorica (De Genesi adversus
Manichaeos, 388-90) a quella letterale, e insieme di valore
filosofico (De Genesi ad litteram liber imperfectus), e di s. Paolo
(Expositio quarundam propositionum ex Epistola ad Romanos, Epistolae
ad Romanos expositio inchoata, Expositio Epistolae ad Galatas,
parecchie delle questioni trattate nel De diversis quaestionibus
octogintatribus). Cogliamo qui un momento importantissimo nello
svolgimento del pensiero teologico di A., e oggetto di molte
discussioni. Egli si è sforzato di mantenere in primo luogo la
giustizia di Dio, che premia i buoni, cioè coloro che credendo si
acquistano un merito, e che punisce i malvagi. Ma, dopo un lungo
sforzo, A. viene a riconoscere che il momento iniziale dell'atto di
fede, l'initium fidei, che è initium salutis, non è opera dell'uomo
ma viene da Dio: al quale non si può tuttavia rimproverare alcuna
ingiustizia, se, gratuitamente, fa grazia ad alcuni; mentre gli
uomini tutti, in cui sopravvive il peccato originale, non meritano
se non la condanna. Questi concetti appaiono per la prima volta con
tutta chiarezza, nel primo scritto posteriore all'episcopato di A.,
il De diversis quaestionibus ad Simplicianum. Frutto di questa
conquista del suo pensiero, che lo induce a rimeditare sulla sua
vita, si possono considerare le Confessioni (398 circa), nelle
quali, altresì, sono ripresi altri due temi che lo appassionano:
quello della cultura cristiana e quello dei principî che presiedono
all'interpretazione della Scrittura.
La prima questione è da lui affrontata sotto l'aspetto teorico nel
De doctrina christiana (interrotto, ma ripreso e terminato nel 426):
come anche nelle Confessioni A. è sensibile ai pericoli della
cultura tradizionale, pagana, ma vuole salvarne il buono, che va
assunto e fatto proprio dal cristianesimo. Così, conchiudendo una
lunga controversia, A. assicura col peso della sua autorità la
trasmissione della cultura antica. Ma nelle Confessioni il problema
della memoria (in essa è la misura del tempo) trascina seco quello
della creazione. A. la ritiene avvenuta nel tempo, anzi col tempo,
dal nulla, e per tutte le cose simultaneamente, ma non allo stesso
modo: ché alcune furono create da Dio non in atto e nella loro forma
perfetta, ma solo in potenza, o in germe (rationes seminales,
energie latenti destinate a svilupparsi nel tempo e a produrre, al
momento opportuno per ciascuno, i diversi esseri). A queste
conclusioni A. è portato da un nuovo studio dei primi 3 capitoli del
Genesi (De Genesi ad litteram libri XII, tra il 401 circa e il 415
circa). Accanto al quale, tra le opere esegetiche, vanno ricordati
il De consensu evangelistarum (400 circa), le Enarrationes in
Psalmos, e i Tractatus in evangelium Iohannis, raccolte di sermoni
su questi libri. Ma nelle Confessioni A. ha inserito anche
un'istruzione catechetica (proprio con il commento al Genesi),
affine a quella da lui data in un'altra operetta, il De
catechizandis rudibus (400 circa).
E il motivo della memoria, che appare nelle Confessioni, diventa
importantissimo in un altro trattato su cui A. si affaticò lungo
(400 circa -416 circa): il De Trinitate. L'anima è un pensiero
(mens) da cui nasce una conoscenza (notitia), e nel suo rapportarsi
a questa conoscenza nasce l'amore che essa si porta (amor).
Nell'anima o, meglio, nella memoria, nell'intelletto e nella
volontà, nella parte cioè più alta e nobile di essa, che ricorda,
comprende e ama sé stessa, ma soprattutto ricorda, conosce e ama
Dio, A. scorge le "vestigia" della Trinità divina. Di essa,
criticando talvolta le formule di s. Ilario di Poitiers, egli mette
in rilievo l'unità di sostanza, insistendo sull'uguaglianza delle
tre Persone: le operazioni ad extra sono l'opera indistinta di
tutte, ciò che si dice di ciascuna quanto alla sostanza, e anche
alla sapienza e altri attributi, è comune, uguale, identico e
numericamente uno in tutte; mentre esse si distinguono e si
oppongono secondo le loro relazioni reciproche. Teoria che,
chiarendo la processione dello Spirito Santo principaliter, sì, dal
Padre, ma anche dal Figlio, divenne importantissima per lo
svolgimento della teologia occidentale, cui A. ha legato il
carattere "cristocentrico", conforme alla tendenza fondamentale del
suo pensiero, aggirantesi intorno alla persona e all'opera del
Cristo ed alla redenzione dell'uomo dal peccato, mercé la grazia.
Intorno a questi temi scoppiò la polemica con Pelagio, già
scandalizzatosi in Roma per l'invocazione delle Confessioni a Dio:
da quod iubes et iube quod vis e ora rifugiatosi in Africa con il
suo compagno Celestio (che, denunciato da Paolino di Milano, venne
condannato nel 411 da un concilio locale, a Cartagine).
Si possono distinguere in essa varie fasi: quella iniziale, in cui
A. combatte ancora soltanto le dottrine, non gli uomini, che sa
molto stimati (De peccatorum meritis et remissione, a Marcellino, il
l. III composto dopo che A. ebbe conosciuto il commento di Pelagio a
s. Paolo; De spiritu et littera ad Marcellinum e, a complemento, per
asserire la necessità delle opere buone accanto alla fede, De fide
et operibus; nonché il De bono viduitatis, dedicato a Giuliana,
madre di Demetriade, in occasione della monacazione di questa);
quella della polemica diretta, provocata dalle vicende di Pelagio in
Oriente fino alla condanna da parte del papa Innocenzo I (con la
celebre affermazione che, dopo tanti concilî, anche Roma locuta est;
causa finita est; utinam aliquando finiatur error) e, dopo il grande
concilio di Cartagine (418) da papa Zosimo (De natura et gratia
contra Pelagium, De perfectione iustitiae hominis, contro Celestio,
De gestis Pelagii, De gratia Christi et peccato originali); quella
della lotta contro i pertinaci difensori di Pelagio (De nuptiis et
concupiscentia ad Valerium comitem, Contra duas epistolas
Pelagianorum, Contra Iulianum, e Contra secundam Iuliani
responsionem, il cosiddetto Opus imperfectum, contro lo stesso
Giuliano di Eclano, interrotto per la morte di A.), intesa al tempo
stesso a chiarire la sua dottrina ai monaci di Adrumeto (De gratia
et libero arbitrio, e De correptione et gratia, dedicati all'abate
Valentino) e a combattere i "semipelagiani" della Gallia
meridionale, insorti contro questi scritti (De praedestinatione
sanctorum e De dono perseverantiae).
Questa dottrina agostiniana del peccato originale, della grazia e
della predestinazione, precisatasi ma anche irrigiditasi e spinta
alle estreme conseguenze nell'ardore della polemica, si è prestata a
varie e contrastanti interpretazioni. A. prende le mosse dalla
condizione di Adamo, creato esente dalla morte (posse non mori,
diverso da non posse mori proprio degli esseri spirituali) e dalla
concupiscenza, capace quindi di non peccare (il posse non peccare,
diverso dal non posse peccare degli eletti), e nella piena libertà
di optare per il bene conformandosi a una ragione che aveva il
perfetto predominio sui sensi, capace altresì di perseverare nel
bene, grazie all'aiuto (adiutorium sine quo non) concessogli da Dio.
Avendo Adamo peccato, la sua colpa si trasmise all'intero genere
umano, divenuto così massa damnata; peccato di origine, che A.
dimostra, fra l'altro, in base all'uso della Chiesa di amministrare
agli infanti il battesimo che annulla la concupiscenza in quanto
reato, ma la lascia sopravvivere actu, così che l'uomo, pur
conservando il libero arbitrio, è privato di quella libertas ...
quae in Paradiso fuit (Enchir. 26-27). Per poter resistere cioè alla
concupiscenza, occorre ora un aiuto divino maggiore di quello dato
ad Adamo: la grazia è dunque necessaria per avere la fede, e questa
perché vi sia quell'amore di Dio, in quanto sommo bene, senza di che
non esiste né beatitudine né vera moralità (e non vi sono pertanto
vere virtù fra i pagani). Ma questo soccorso (adiutorium quo) non è
concesso a tutti: Dio, senza alcuna ingiustizia, ma per un suo
gratuito atto di misericordia, prepara per alcuni i mezzi,
pienamente efficaci, per condurli alla salvezza cui li ha
predestinati ab aeterno.
Accusato dai pelagiani di manicheismo, A. tuttavia, come si vede,
non considera come malvagia la stessa natura umana, e non condanna
la procreazione: nel matrimonio, il male è la concupiscentia carnis;
e anche questo può essere rivolto a un fine buono, la generazione
dei figli congiunta alla volontà della loro rigenerazione attraverso
il battesimo. Ma i bambini morti senza di questo, secondo A., non si
sottraggono alla pena eterna. Poiché la trasmissione del peccato
originale si spiegava più facilmente mediante la teoria secondo cui
l'anima è generata, spiritualmente, da quella dei genitori
(traducianismo), mentre, più conforme alla sua dottrina
dell'illuminazione, era l'altra teoria, della creazione di ogni
anima da Dio (creazionismo), A. rimase incerto fino all'ultimo (De
anima et eius origine, 419-20). E poiché è ignoto chi siano gli
eletti, la concezione agostiniana della predestinazione coincide con
quella della Chiesa come corpus permixtum (v. sopra).
La scossa profonda data a tutto il mondo romano dall'incursione di
Alarico, le querimonie dei pagani additanti nel cristianesimo la
causa di tutti i mali del mondo, indussero A. a meditare sulla
storia, e a scrivere l'altra delle sue opere maggiori e più celebri
dopo le Confessioni: il De civitate Dei. Nel corso della storia
procedono unite le due città (Civitas Dei e Civitas terrena), nate
l'una dall'amor Dei usque ad contemptum sui, l'altra dall'amor sui
usque ad contemptum Dei e predestinate, la prima a regnare in eterno
con Dio, l'altra a subire l'eterno supplizio. Neppure quest'opera è,
in fondo, davvero sistematica; cosciente dello sviluppo del proprio
pensiero, A. sembra invitare i lettori a imitarlo nello sforzo di
progredire: del resto volle egli stesso correggere i suoi errori (ma
anche dimostrare, specie contro i manichei, la sua fondamentale
coerenza) in quella originalissima rassegna dei suoi scritti che
sono le Retractationes (426-27). Va menzionato ancora, breve e
bellissimo compendio della dottrina cristiana, l'Enchiridium ad
Laurentium (De fide, spe, charitate, 421); e va almeno accennato il
valore letterario dei suoi scritti, specie delle Confessioni. Festa,
28 agosto.
L'interesse educativo di A. non è limitato ai problemi pedagogici
più dibattuti dalla Patristica, e cioè all'utilizzazione della
cultura pagana nella formazione dei ragazzi, ed ai modi e metodi
dell'educazione religiosa. Esso si connette piuttosto ad un tema
filosofico fondamentale nella sua speculazione, quello della "verità
interiore" e quindi con la dottrina dell'illuminazione. Il processo
educativo consiste nel trarre alla luce la verità, nel ritrovare
Dio-maestro nel profondo dell'anima (Christus intus docet). Il
maestro vero è quindi solo Cristo, i maestri terreni non possono far
altro che stimolare la riscoperta della verità stessa che è in noi
come segno della presenza di Dio. Dal punto di vista didattico A.
accoglie la necessaria propedeutica delle "arti liberali", ma la
cultura per sé non è indispensabile, poiché le virtù cristiane si
realizzano anche al di fuori di esse. Necessaria è invece la cultura
religiosa da impartire anche alle menti più rozze: nel De
catechizandis rudibus Agostino parla di tale opera educativa,
ponendo in rilievo la funzione fondamentale che ha in essa l'amore
con cui il maestro discende al livello dell'educando (così come
Cristo ha fatto per l'uomo facendosi uomo) e vivifica anche gli
aspetti più elementari e consueti del fatto educativo.