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Concezione fondata sul riconoscimento del valore soltanto relativo,
e non oggettivo o assoluto, sia della conoscenza, dei suoi metodi e
criteri (r. gnoseologico ), sia dei principi e dei giudizi etici (r.
etico ), variando tutti da individuo a individuo, da cultura a
cultura, da epoca a epoca.
1. Dalle origini al pensiero moderno
Come orientamento filosofico il r. può essere fatto risalire a Protagora, che con la famosa formula dell’«uomo misura di tutte le cose» sottolineò il ruolo ineliminabile dell’opinione nella conoscenza umana, negando la possibilità di conseguire una conoscenza oggettiva e immutabile. Sia in Protagora sia nella sofistica il r. investe non soltanto l’ambito della conoscenza, ma anche quello dell’etica, dove si caratterizza per la negazione dell’esistenza di giudizi e principi morali validi in assoluto. Nel pensiero moderno il r. si ripropone soprattutto in connessione con lo scetticismo, come nel caso di Montaigne, che, sotto le suggestioni dei radicali mutamenti intervenuti nel sapere scientifico e delle recenti scoperte geografiche, metteva in evidenza da un lato la sostanziale precarietà e relatività storica di quelle che erano un tempo concepite come verità assolute, dall’altro la mancanza di reale oggettività dei giudizi sulle culture ‘barbare’ del Nuovo Mondo, fondati su un’illegittima assolutizzazione dei canoni di valutazione vigenti nella cultura europea.
Un r. conseguente e sistematico si sviluppò a partire dalla fine del 19° sec., entro la corrente di pensiero nota come storicismo. La relativizzazione storica di ogni manifestazione culturale e la molteplicità delle visioni del mondo (Weltanschauungen) rappresentano gli esiti più significativi dello storicismo di W. Dilthey, che intendeva così restituire ogni singola forma di vita, sistema di valori, religione e filosofia a quella dimensione storica, parziale e determinata, entro cui sorgono e si esauriscono. Tali esiti sarebbero poi stati radicalizzati da O. Spengler, per il quale ogni cultura è un organismo vivente, in quanto tale sottoposto a un ciclo vitale che va dalla nascita alla maturità alla decadenza. Nella prospettiva del rientra in qualche misura lo stesso M. Weber, che, pur teorizzando l’oggettività della conoscenza storica attraverso la delineazione di criteri epistemologici di derivazione positivistica, riconosceva tuttavia l’inevitabile relatività, o ‘politeismo’, dei valori.
Dopo l’esaurirsi dell’esperienza storicistica, il r. ha interessato altri settori culturali del 20° sec., come la sociologia, la filosofia analitica e la filosofia della scienza. Nella sociologia della conoscenza di K. Mannheim il r. si presenta nella forma del condizionamento storico e sociale dello stesso discorso conoscitivo. Relativistiche possono essere considerate anche le riflessioni di L. Wittgenstein sulla dipendenza dalle convenzioni, dalle pratiche sociali e dalle «forme di vita» dei vari «giochi linguistici» che presiedono alla comunicazione, alle relazioni interindividuali nonché alle procedure conoscitive e ai criteri di razionalità. In parte influenzate da Wittgenstein, ma non del tutto estranee alla sociologia della conoscenza e allo storicismo, sono poi le tesi sostenute da T. Kuhn, che, relativizzando la conoscenza scientifica ai contesti culturali e storicamente mutevoli dominati dai «paradigmi», è pervenuto a un’immagine della storia della scienza in cui ogni epoca ha propri presupposti metafisici, propri criteri conoscitivi, proprie procedure di verifica e proprie verità.
Un vivace dibattito ha caratterizzato la filosofia della scienza e del linguaggio più recenti, e il r. dei paradigmi, dei «quadri concettuali» e delle «forme di vita» è stato contestato da K.R. Popper, W.V.O. Quine, D. Davidson e H. Putnam, che hanno sottolineato in vario modo il suo carattere autoconfutante, che, mentre asserisce la relatività di ogni conoscenza, presupposto e valore, assume tuttavia l’oggettività e la validità incondizionata del suo punto di vista.
Nel più ampio settore antropologico si parla di a proposito degli orientamenti sviluppati dalla scuola di F. Boas che contrappongono l’analisi delle singole culture, storicamente e spazialmente determinate, alla loro analisi comparativa, finalizzata a individuare l’esistenza di principi comuni. Il riconoscimento della molteplicità culturale e delle differenze si traduce in un riconoscimento dell’importanza dei costumi (o della cultura) nell’organizzazione della vita e della società umana. Alla base del r. vi è una profonda diffidenza nei confronti dell’universalità di strutture psichiche o mentali, di ordine naturale, che accomunerebbero tutti gli uomini. Il r. non nega che esistano strutture di tal genere; ritiene tuttavia che esse rappresentino una componente per così dire minoritaria nell’organizzazione umana: più importante appare invece la dimensione culturale, con la sua inevitabile variabilità, per cui ciò che contraddistingue l’uomo nella sua vera essenza sarebbe proprio questa variabilità, anziché l’uniformità di leggi o strutture naturali.
Le maniere mediante cui si decide di addentrarsi negli universi culturali possono essere assai diverse e rispondere a criteri metodologici persino opposti; ma in generale il r. tenderebbe a fare propria la posizione di un antropologo come B. Malinowski, allorché affermava, a proposito dell’indigeno delle isole Trobriand, che occorre cogliere «la sua visione del suo mondo». L’acquisizione di una visione dall’interno – comunque questa venga poi perseguita – rappresenta il punto maggiormente produttivo del r., quello per il quale esso non si riduce soltanto a un atteggiamento di rilevazione della molteplicità e di rispetto della diversità culturale, ma si traduce in uno sforzo conoscitivo portato fino nell’intimo dell’alterità.
La propensione a valorizzare una visione dall’interno, elaborata mediante principi e categorie particolari e irripetibili, specifici di una società determinata, salda il relativismo culturale con il r. linguistico . Da Boas a E. Sapir, da questi a B.L. Whorf, riemerge nella cultura antropologica e linguistica del 20° sec. una tradizione di pensiero che risale a Herder e soprattutto a W. von Humboldt. Per Humboldt il linguaggio da un lato è «l’organo formativo del pensiero» e nel contempo dell’umanità, dall’altro non può che tradursi in una serie indefinita di lingue particolari, ciascuna delle quali esprime «non una diversità di suoni e di segni, ma una diversità di visioni del mondo». In simili formulazioni è possibile rintracciare una combinazione tra due principi: quello della relatività linguistica, esprimibile nella formula «Non esiste limite alla diversità strutturale delle lingue», e quello del determinismo linguistico («Il linguaggio determina il pensiero»). È il secondo principio che riesce a trasformare il r. da una semplice constatazione di diversità strutturali e di molteplicità irriducibili in un atteggiamento di ricerca globale.
6. Il dibattito sul relativismo
In ogni epoca il dibattito sul r. è stato sempre un argomento piuttosto acceso e animato, opponendo due schieramenti: quello dei relativisti , per i quali l’ammissione della molteplicità e il riconoscimento delle differenze comportano un’apertura verso le forme più diverse che l’umanità può assumere, non avvertendo in ciò un pericolo, ma semmai un arricchimento; quello degli antirelativisti , per i quali la tesi della molteplicità si configura invece come una minaccia portata verso lo stesso senso di unità degli uomini: se gli esseri umani fossero così culturalmente diversi e se la diversità culturale fosse tale da incidere così profondamente negli esseri umani, non sarebbe forse messa in discussione la stessa possibilità di intesa e dialogo tra individui, gruppi, società? I.C. Jarvie, filosofo formatosi sotto la guida di K. Popper, ha affermato che alle spalle del r. è possibile intravedere il nichilismo. Si può comprendere bene come a C. Geertz, uno dei più convinti sostenitori del r., questa presa di posizione appaia come l’evocazione del tutto infondata di uno ‘spettro’, di una ‘paura’ ingiustificata. E tuttavia è innegabile che il r. possa assumere aspetti inquietanti, a dimostrazione di come questo movimento di pensiero non presenti un unico volto, ma possa piegarsi a molteplici usi e interpretazioni.
Il relativismo nel pensiero moderno. Il r. si ripropone nel pensiero moderno, soprattutto in connessione con lo scetticismo, come nel caso di Montaigne, che, sotto le suggestioni dei radicali mutamenti intervenuti nel sapere scientifico e delle recenti scoperte geografiche, metteva in evidenza, da un lato, la sostanziale precarietà e relatività storica di quelle che erano un tempo concepite come verità assolute (precarietà che nulla impediva quindi di attribuire anche alle nuove conoscenze), dall’altro lato, la mancanza di reale oggettività dei giudizi sulle culture ‘barbare’ del Nuovo mondo, fondati su un’illegittima assolutizzazione dei canoni di valutazione vigenti nella cultura europea. Pur tuttavia questa forma di r. si arrestava di fronte alla fede, senza spingersi a mettere in discussione l’autorità della religione cattolica (è il caso del seguace di Montaigne, Charron).
Lo storicismo. Un r. conseguente e sistematico non si svilupperà che a partire dalla fine dell’Ottocento, entro la corrente di pensiero nota come storicismo (➔). La relativizzazione storica di ogni manifestazione culturale e la molteplicità delle visioni del mondo (Weltanschauungen) rappresentano gli esiti più significativi dello storicismo di Dilthey, che con esse intendeva distruggere la fede nella validità universale e assoluta di qualsiasi singola forma di vita, sistema di valori, religione e filosofia, restituendoli a quella dimensione storica, parziale e determinata, entro cui sorgono e si esauriscono. Tali esiti sarebbero poi stati radicalizzati da Spengler entro una prospettiva metafisica per molti versi estranea a quella diltheyana: ogni cultura è per Spengler un organismo vivente, in quanto tale sottoposto a un ciclo vitale che va dalla nascita alla maturità alla decadenza; incomunicabili nei loro universi simbolici, tali organismi storico-culturali vivono ciascuno la durata della loro vita con i loro irriducibili sistemi di valori. Nella prospettiva del r. storicistico rientra in qualche misura lo stesso Weber, che, pur teorizzando l’oggettività della conoscenza storica attraverso la delineazione di criteri epistemologici di derivazione positivistica, riconosceva tuttavia l’inevitabile relatività, o «politeismo», dei valori.
La riflessione novecentesca. Dopo l’esaurirsi dell’esperienza storicistica, il r. ha interessato altri settori culturali del Novecento, come la sociologia, la filosofia analitica e la filosofia della scienza. Nella sociologia della conoscenza di Mannheim il r. si presenta nella forma del condizionamento storico e sociale dello stesso discorso conoscitivo, sicché non si darebbero conoscenze vere in assoluto, ma soltanto in relazione ai contesti storico-sociali e culturali. Relativistiche possono essere considerate anche le riflessioni del secondo Wittgenstein sulla dipendenza dalle convenzioni, dalle pratiche sociali e dalle «forme di vita» dei vari «giochi linguistici» che presiedono alla comunicazione, alle relazioni interindividuali nonché alle procedure conoscitive e ai criteri di razionalità. In parte influenzate da Wittgenstein, ma non del tutto estranee alla sociologia della conoscenza e allo storicismo, sono poi le tesi sostenute da Kuhn, che, relativizzando la conoscenza scientifica ai contesti culturali e storicamente mutevoli dominati dai «paradigmi» (➔ paradigma), è pervenuto a un’immagine della storia della scienza in cui ogni epoca ha propri presupposti metafisici, propri criteri conoscitivi, proprie procedure di verifica e proprie verità. Le tesi di Kuhn sono apparse a molti eccessive in quanto ritenute distruttive dell’idea stessa di razionalità scientifica. Un vivace dibattito ha caratterizzato la filosofia della scienza e del linguaggio nella seconda metà del 20° sec., e il r. dei «paradigmi», dei «quadri concettuali» e delle «forme di vita» è stato contestato da Popper, Quine (che pure ne è considerato un ispiratore), D.H. Davidson e Putnam, i quali hanno sottolineato in vario modo il suo carattere autoconfutante, che, mentre asserisce la relatività di ogni conoscenza, presupposto e valore, assume tuttavia l’oggettività e la validità incondizionata del suo punto di vista. Il r. ha interessato anche la linguistica e l’antropologia del Novecento. In ambito linguistico (e più propriamente etno-linguistico), va segnalata la cosiddetta ipotesi Sapir-Whorf (dai nomi di Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf), secondo la quale la struttura grammaticale di una lingua condizionerebbe il sistema cognitivo dei parlanti, sicché a lingue radicalmente diverse corrisponderebbero diverse concezioni del mondo. Nel più ampio settore antropologico si parla di r. culturale a proposito degli orientamenti di R. Benedict e M.J. Herskovits, entrambi allievi di F. Boas. In opposizione agli orientamenti antropologici, interessati alle analisi comparative delle varie culture al fine di individuare l’esistenza di principi comuni a tutte le società, il r. antropologico ha elaborato una prospettiva di studio che fa dell’analisi delle singole culture, storicamente e spazialmente determinate, il perno della ricerca antropologica. Da questo punto di vista ogni cultura va compresa come sistema olistico: i comportamenti, i valori e le credenze delle varie comunità vanno interpretati come parti di un autonomo sistema che conferisce loro significato. Di qui l’esigenza teorica, e insieme etica, di un atteggiamento intellettuale che eviti categorie estranee ai sistemi culturali studiati e giudizi di tipo etnocentrico.