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Proprietà che caratterizza una persona, un animale o qualsiasi
essere, una cosa ecc., come specifico modo di essere, soprattutto
in relazione a particolari aspetti o condizioni, attività,
funzioni e utilizzazioni.
In filosofia, il concetto di q. assume valori diversi nelle varie correnti di pensiero e nei vari pensatori, fino a perdere rilievo nelle correnti contemporanee.
La prima esplicita definizione della nozione di q. risale ad Aristotele, che distingueva due significati del termine. Nel primo significato la q. è la caratteristica che distingue una sostanza all’interno di un genere (per es., l’essere bipede è la q. dell’uomo in quanto animale, l’essere quadrupede lo è del cavallo); in questo senso la q. corrisponde alla differenza specifica. Nell’altro significato la q. è uno dei modi che può assumere una sostanza e Aristotele poneva la q. così intesa tra le categorie in una posizione subordinata rispetto alla sostanza, intendendo con essa la classe più generale entro cui rientrano tutti i predicati designanti ciò che inerisce in modo non essenziale o non necessario a una sostanza, ossia le caratteristiche accidentali in virtù delle quali una sostanza è simile, diversa o contraria rispetto a un’altra. È soprattutto questo secondo significato, definito da Aristotele nelle Categorie, che si sarebbe tramandato nella filosofia scolastica, insieme con la distinzione aristotelica della q. in quattro gruppi: gli abiti e le disposizioni; le capacità; le forme o figure, ossia le determinazioni geometriche; le affezioni, ossia le caratteristiche e le alterazioni sensibili della sostanza, che sono le q. sensibili. Relativamente a quelli che chiamava sensibili (αἰσϑητά), corrispondenti alle qualità sensibili del Medioevo, Aristotele aveva inoltre distinto, nel De Anima, le q. proprie, oggetto di uno solo dei cinque sensi, e le q. comuni, oggetto di più sensi.
Anche questa ulteriore distinzione rimase pressoché invariata nella scolastica, la quale, nel suo periodo più tardo, introdusse l’ulteriore distinzione tra q. sensibile (o manifesta) e q. occulta, concepita, quest’ultima, come un potere interno alle cose che non cade sotto i sensi ma si coglie soltanto attraverso i suoi effetti. La nozione di q. occulta, che è in larga misura alla base delle ricerche magico-alchimistiche e naturalistiche del Rinascimento, doveva suscitare polemiche nella nascente scienza seicentesca di orientamento meccanicistico, che vedeva nella fisica qualitativa di origine aristotelica soltanto pseudospiegazioni.
Nell’età moderna, inoltre, si assiste a una profonda trasformazione del concetto di q.: a partire da una prospettiva empiristica lo schema aristotelico sostanza-q. viene sostituito da schemi interpretativi meccanicistici e matematici (quantitativi) il cui esito è rappresentato dalla distinzione tra q. primarie (oggettive, reali) ritenute proprie dell’oggetto e suscettibili di determinazione quantitativa (grandezza, figura, moto), e q. secondarie, essenzialmente soggettive in quanto ritenute effetto delle q. primarie sugli organi di senso (colori, odori, sapori, suoni). Questa distinzione, implicita nell’atomismo greco, fu riaffermata in età moderna da G. Galilei, T. Hobbes, P. Gassendi, R. Boyle e J. Locke, al quale se ne deve soprattutto la diffusione.
Il problema della misurazione e, più in generale, della riduzione all’ambito matematico delle q. sensoriali è stato al centro degli interessi della psicofisica fin dal 19° sec., benché la differenza tra tipi di sensazioni, diversamente dalle variazioni di intensità all’interno di uno stesso tipo, abbia sempre rappresentato un argomento a favore della loro natura irriducibilmente qualitativa.
Dizionario di Filosofia (2009)La speculazione aristotelica e scolastica. La prima esplicita definizione della nozione di q. risale ad Aristotele, che nel libro 5° della Metafisica distingueva due significati del termine: la q. come «differenza della sostanza» e la q. come «affezione». Nel primo significato la q. è la caratteristica che distingue una sostanza all’interno di un genere (per es., l’essere bipede è la q. dell’uomo in quanto animale, l’essere quadrupede lo è del cavallo); in questo senso la q. corrisponde alla differenza specifica. Nell’altro significato la q. è uno dei modi che può assumere, più o meno stabilmente, una sostanza e Aristotele poneva la q. così intesa tra le categorie in una posizione subordinata rispetto alla sostanza, intendendo con essa la classe più generale entro cui rientrano tutti i predicati designanti ciò che inerisce in modo non essenziale o non necessario a una sostanza, ossia le caratteristiche accidentali in virtù delle quali una sostanza è simile, diversa o contraria rispetto a un’altra. È soprattutto questo secondo significato, definito da Aristotele nelle Categorie, che si sarebbe tramandato nella filosofia scolastica, insieme con la distinzione aristotelica della q. in quattro gruppi: gli abiti e le disposizioni (habitus, dispositiones), i primi indicanti q. più stabili delle seconde; le capacità o facoltà, in senso positivo o negativo (potentia, impotentia); le forme o figure (formae o figurae), ossia le determinazioni geometriche; le affezioni o passioni (passiones o patibiles qualitates), ossia le caratteristiche e le alterazioni sensibili della sostanza, che sono le q. sensibili. Relativamente a quelli che chiamava sensibili (αἰσϑητά), corrispondenti alle qualità sensibili del Medioevo, Aristotele aveva inoltre distinto, nel De anima (trad. it. Sull’anima) (➔), le q. proprie, oggetto di uno solo dei cinque sensi, e le q. comuni, oggetto di più sensi. Anche questa ulteriore distinzione rimase pressoché invariata nella scolastica, la quale, nel suo periodo più tardo, introdusse l’ulteriore distinzione tra q. sensibile o manifesta e q. occulta, quest’ultima essendo concepita come un potere interno alle cose che non cade sotto i sensi ma si coglie soltanto attraverso i suoi effetti.
La filosofia moderna: la critica del nesso sostanza-qualità. La nozione di q. occulta, che è in larga misura alla base delle ricerche magico-alchimistiche e naturalistiche del Rinascimento, doveva suscitare enormi polemiche nella nascente scienza seicentesca di orientamento meccanicistico, che vedeva nella fisica qualitativa di origine aristotelica (di cui quella nozione era una conseguenza) soltanto delle pseudospiegazioni. Nell’età moderna, inoltre, si assiste a una profonda trasformazione del concetto di q.: a partire da una prospettiva empiristica tipica innanzitutto della scienza moderna (ma non va trascurato che q. occulta fu talvolta polemicamente considerata la stessa attrazione newtoniana) lo schema aristotelico sostanza-q. viene sostituito da schemi interpretativi meccanicistici e matematici (cioè quantitativi) il cui esito è rappresentato dalla distinzione tra q. primarie (oggettive, reali), ritenute proprie dell’oggetto e suscettibili di determinazione quantitativa (grandezza, figura, moto), e q. secondarie, essenzialmente soggettive in quanto ritenute effetto delle q. primarie sugli organi di senso (colori, odori, sapori, suoni). Questa distinzione era già implicita nell’atomismo greco ed è stata riaffermata in età moderna da Galileo, Hobbes, Gassendi, Boyle e Locke, al quale se ne deve soprattutto la diffusione. Il modo stesso in cui Locke aveva posto il problema, comunque, suscitò l’ulteriore questione se il processo di soggettivazione delle q. dovesse arrestarsi alla sfera delle secondarie e non estendersi invece anche alle primarie. Tale estensione fu effettivamente operata da Berkeley e Hume, che, mostrando come le q. primarie non siano in concreto mai percepibili se non attraverso la mediazione delle secondarie, ne conclusero che le stesse q. primarie non sono che «idee» soggettive connesse alla percezione.
La qualità nelle scienze dell’Ottocento e Novecento. Il concetto di q. sarebbe passato in secondo piano a causa dei trionfi della scienza moderna e dei suoi procedimenti quantitativi. Sul piano filosofico si ha una chiara idea dell’attrattiva suscitata dai metodi quantitativi della scienza moderna nel concetto kantiano di «quantità intensive», con cui Kant intendeva riferirsi alle sensazioni in quanto contrapposte alle «quantità estensive» spazio-temporali; essendo caratterizzate da un «grado», le sensazioni rientrerebbero anch’esse nel dominio dei fenomeni trattabili quantitativamente. Il problema della misurazione e, più in generale, della riduzione all’ambito matematico delle q. sensoriali è stato peraltro al centro degli interessi della psicofisica sin dall’Ottocento, benché la differenza tra tipi di sensazioni (per es., il caldo e il freddo, il dolce e l’amaro), diversamente dalle variazioni di intensità all’interno di uno stesso tipo, abbia sempre rappresentato un argomento a favore della loro natura irriducibilmente qualitativa. Sempre maggiore importanza, inoltre, dovevano acquisire, tra il 19° sec. e il 20°, i metodi statistici in psicologia e nelle scienze sociali. D’altra parte, un ritorno alla considerazione qualitativa è stato spesso avvertito tanto nelle scienze umane (per es., in antropologia e in sociologia), dove gli approcci basati su metodi statistici non sempre sono ritenuti in grado di fornire adeguate spiegazioni delle specificità culturali; e nelle stesse scienze fisico-chimiche e biologiche, nelle quali, per quanto su un piano più speculativo che strettamente scientifico, la nozione di q. si è riproposta attraverso il vecchio problema del rapporto tra le parti e il tutto, dove quest’ultimo venga considerato non completamente riducibile alla distribuzione delle parti e implicante pertanto la formazione di proprietà qualitativamente diverse rispetto agli aggregati.