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Dizionario di Filosofia (2009)
Dal gr. ψυχή, connesso con ψύχω «respirare, soffiare». Termine la
cui etimologia si riconduce all’idea del «soffio», cioè del respiro
vitale; presso i Greci designava l’anima in quanto
originariamente identificata con quel respiro; la storia del
concetto di p. viene quindi a coincidere con quella del concetto di
anima. Nella psicologia moderna (e anche nell’uso comune) la p. è
intesa come il complesso delle funzioni e dei processi che danno
all’individuo esperienza di sé e del mondo e che ne informano il
comportamento. Nel mondo classico, la p. fu frequentemente
rappresentata come un’immagine (εἴδωλον) di forme umane, nuda,
oppure come un essere alato, e già nella speculazione platonica
viene messa in rapporto con l’amore. In raffigurazioni ellenistiche
si vede Eros (Amore) che cattura, tormenta, brucia una farfalla
rappresentante l’anima; a volte in luogo della farfalla compare una
fanciulla con ali di farfalla (Psiche).
Universo del corpo (2000)
di Riccardo Zerbetto
L'etimologia del termine psiche (dal greco ψυχή, connesso con
ψύχω, "respirare, soffiare") si riconduce all'idea del
'soffio', cioè del respiro vitale; presso i greci designava l'anima
in quanto originariamente identificata con quel respiro; in questo
senso, la storia del concetto di psiche viene a coincidere con
quella del concetto di anima
.
Nella psicologia moderna (e anche nell'uso comune) la psiche è
intesa come il complesso delle funzioni e dei processi che danno
all'individuo esperienza di sé e del mondo e che ne informano il
comportamento.
Sommario: 1. Psiche e soma. 2. I modelli
della mente. 3. Il rapporto mente/cervello. 4. Il cervello. 5.
Sensibilità e percezione. 6. Apprendimento e intelligenza. 7.
Memoria. 8. Creatività. 9.Coscienza.
l. Psiche e soma
"I confini dell'anima (ψυχή) non li potrai trovare - afferma
Eraclito - quando pur li cercassi per ogni via, tanto profondo è il
suo λόγος". Tale profondità è forse la caratteristica che
più distingue, nel pensiero filosofico greco, l'essenza dell'anima
da ciò che invece viene riferito al corpo e alla materia,
contraddistinti, al contrario, dalla categoria del limite. La
differenziazione tra corpo e anima affonda le proprie radici negli
albori della cultura dell'Occidente se, già in Omero, ψυχή viene
considerata come l'alito vitale che spira dalla bocca (oppure dalla
ferita) di colui che muore per unirsi agli altri fantasmi (immagini
dei defunti) nel regno di Ade. Si può notare ancora, sempre nel
linguaggio omerico, come anche gli organi del corpo vengano
descritti separatamente e non come parti di un tutto che li unifica.
La parola σῶμα, infatti, che si riferisce all'intero corpo,
lo definisce in quanto privo di vita. Così anche le funzioni
psichiche vengono considerate come distinte in ψυχή,
appunto, θύμος, "emozioni", e νοῦς, "intelletto"
(Snell 1946).
Tale molteplicità delle funzioni viene ricondotta da Platone a un'unitarietà sotto forma di un principio, chiamato sempre ψυχή, cui si attribuisce tuttavia non più il significato di soffio collegato a un corpo vivente (da cui può appunto allontanarsi con la morte), ma di essenza trascendente il corpo stesso (e quindi da allora tradotto come anima) in quanto partecipe di una realtà sovramondana solo temporaneamente imprigionata nei limiti della corporeità. Nel Fedone Platone osserva, che fino a quando noi siamo in possesso del corpo e la nostra anima resta 'invischiata in un animale siffatto', non raggiungeremo mai ciò che 'ardentemente desideriamo', ossia la verità.
Tale scissione ontologica dell'anima dal corpo attraversa tutta la
storia dell'Occidente dal momento che la concezione platonica
finisce per assorbire, nella visione cristiana (e in particolare
paolina), il principio ebraico per il quale il male non è nel corpo
ma nella separazione dell'uomo da Dio, identificando, per citare la
ricostruzione fattane da U. Galimberti (1979, p. 95), ruah (spirito
divino) con l'anima, in quanto partecipe dell'essenza immateriale
divina, e nefes (indigenza) con lo stato di limite e di bisogno
collegato alla realtà corporea.
Ben diversa è la posizione di Aristotele, per il quale - nel
trattato De anima appunto - non si può parlare di un'esistenza della
stessa in quanto separata dal corpo, dal momento in cui tutte le sue
affezioni (coraggio, dolcezza, audacia ecc.) si producono come
fenomeni collegati al corpo e alle sue modificazioni. Delle
molteplici accezioni attribuite dal filosofo alla ψυχή
(principio vitale del corpo, principio della sua possibilità di
movimento e di realizzazione) particolarmente interessante appare
quella che la identifica come forma del corpo (μορϕή σώματος),
un principio cioè che implica la corporeità stessa da cui promana e
che nello stesso tempo la trascende come elemento unificante e
significante.
Ψυχή è quindi la forma di un corpo vivente, il principio che
ne sottende tutte le attività e, in quanto 'atto primario', è
inscindibile dal corpo, contrariamente al νοῦς che, in
quanto puro intelletto, può concepirsi come distinto da questo e di
carattere sovrapersonale. È interessante osservare infatti come
questa singolare parola, psiche, evochi tuttora nelle nostre menti
tutta la pregnanza dell'eterno quesito che a essa si associa: la
stessa rappresenta infatti il 'complesso' delle funzioni
psicologiche degli individui, come si può leggere nei vocabolari, ma
anche quel principio, pur connesso al corpo vivente, che in qualche
modo se ne distingue fino ad assumere (o a dare l'impressione che
così sia) una propria autonomia dallo stesso. La dialettica tra
queste due impostazioni, quella monistica che concepisce la psiche
come espressione mentale della realtà corporea e quella dualistica
che la concepisce al contrario come entità collegata ma pur
concettualmente distinta dal corpo stesso, rappresenta il fulcro del
dibattito filosofico e scientifico più acceso sui temi della
conoscenza e dell'identità dell'essere umano (Di Francesco 1996).
2. I modelli della mente
Da quando l'uomo ha preso a interrogarsi su sé stesso si è
confrontato con il quesito relativo al dove risiedesse la sede della
propria identità e della capacità di pensare, e al come potessero
operarsi le meraviglie dei propri processi di pensiero. Le risposte
a tali complessi interrogativi si sono evolute generalmente in
collegamento con altri modelli funzionali che via via l'uomo andava
scoprendo. Solo per restare nella tradizione dell'Occidente, ci
imbattiamo in un vizio di partenza relativo a un errore compiuto da
Aristotele il quale, osservando come una gallina fosse in grado di
muoversi e di camminare pur essendo stata decapitata, ne arguì che
la sede più importante del principio vitale non fosse il cervello ma
il cuore. L'autorevolezza del filosofo sopravvisse sotto diverse
forme sino in età prescientifica, nonostante le argomentazioni assai
più consistenti di Galeno fondate su esperimenti di compressione del
cervello in animali domestici e sugli esiti di traumi cranici dei
gladiatori di cui era medico a Pergamo.
La concezione predominante in epoca ellenistica era che tutti i
viventi partecipassero di un unico flusso vitale, il πνεῦμα,
che, assunto attraverso gli alimenti e passando attraverso il fegato
e il cuore, giungeva infine nelle cavità vuote del cervello, i
ventricoli cerebrali. Qui si trasformava in 'spirito animale' per
giungere a tutti gli organi attraverso microscopici tubicini
contenuti nei nervi. Al fine di verificare tale impostazione, anche
Leonardo da Vinci si adoperò nello studio attento sia dei nervi sia
degli stessi ventricoli, avanzando l'ipotesi che il primo ventricolo
fosse deputato al senso comune, il secondo al ragionamento e il
terzo alla memoria. Il primato del cuore sul cervello sopravvisse
nel Seicento a Vesalio, che pure descrisse in modo dettagliato tutto
il sistema nervoso centrale e periferico, e anche a W. Harvey, che
dimostrò la teoria della circolazione del sangue.
Anche laddove gli uomini di scienza non si appellavano più a entità
metafisiche, quali l'anima e lo spirito, per legittimare i poteri
della mente e del libero arbitrio, veniva ciononostante invocato in
ogni caso un intervento di realtà astrali o di 'spiriti vitali'. Con
il succedersi delle scoperte di N. Copernico, G. Galilei e I. Newton
la visione spiritualistica del cosmo lasciò posto a una concezione
fondata sulle leggi fisiche intrinseche alla materia. La meccanica,
che in quei secoli polarizzava la grande attenzione della scienza,
venne invocata quale modello per spiegare i meccanismi, appunto,
della mente.
La 'pascalina', prima macchina in grado di svolgere operazioni
matematiche progettata da B. Pascal, venne presa quindi a modello
delle operazioni svolte dal cervello. Già G.W. Leibniz, tuttavia,
contestava il fatto che il cervello, immaginato come un gigantesco
mulino pieno di ingranaggi, potesse produrre una percezione, cioè
un'esperienza sensoriale collegata a un vissuto personale. Al
primato della meccanica successe nell'Ottocento quello
dell'idraulica e dell'elettricità e anche queste discipline vennero
invocate per spiegare il funzionamento della mente. Mentre sul
modello idraulico S. Freud appoggiò molte delle sue metafore
relative alla teoria degli istinti e delle pulsioni (blocco,
congestione, canalizzazione, scarica ecc.), le stimolazioni della
corteccia cerebrale con deboli scariche elettriche consentirono in
effetti di compiere le prime mappature del sistema nervoso centrale,
individuando le prime aree deputate a funzioni specifiche.
La scoperta e lo sviluppo del telegrafo e del telefono offrirono
ovviamente un nuovo modello analogico che ipotizzava il cervello
come un'intricata centralina alle prese con miriadi di connessioni
interneuroniche (Oliverio-Oliverio Ferraris 1989). Il modello che in
età recente si è proposto con più forza è quello computazionale
(Churchland-Sejnowski 1992). Il sistema nervoso sarebbe cioè
assimilabile a un potentissimo computer in grado di svolgere
operazioni che, seppure più complesse di quelle usualmente
eseguibili con i computer, non se ne discosterebbero in linea di
principio.
3. Il rapporto mente/cervello
Con il suo sbalorditivo numero di neuroni e soprattutto di
connessioni sinaptiche il cervello non può essere paragonato che in
modo assai riduttivo a una centrale telefonica o a un computer per
quanto potente. Al di là del dato quantitativo, il modello
computazionale utilizzato negli studi sull'intelligenza artificiale
implica infatti che un computer sia dotato di un hardware, o
struttura portante, e di un software, o programma operativo, che gli
consentano di svolgere le sue funzioni. Sia l'uno sia l'altro sono,
tuttavia, programmati dall'uomo e svolgono quindi una funzione
esecutiva di compiti, mentre, almeno allo stato attuale, non sembra
che un computer possa essere dotato della prerogativa più distintiva
dell'essere umano identificata nell'intenzionalità, ossia la
capacità della mente di essere soggetto dei propri agiti e non solo
risposta a stimoli esterni.
Quale che sia il modello invocato dal mondo della fisica e della
tecnologia, resta irrisolto il quesito di fondo: se cioè le funzioni
del sistema nervoso possano essere ricondotte alle leggi della
fisica e della biologia o se non si debba invece ipotizzare un
elemento che in qualche modo le trascende sotto il profilo
qualitativo. A tale quesito, come è noto, R. Descartes cercò di dare
una risposta avanzando una concezione dualistica contraddistinta da
una componente biologica, denominata res extensa, distinta da una
componente spirituale, denominata res cogitans, tenute in
comunicazione da un anello di congiunzione identificato nella
ghiandola pineale. Tale organo, situato nel centro dell'encefalo, è
in realtà deputato a tutt'altra funzione: quella neuroendocrina, di
produzione di melatonina. Cerchiamo adesso di delineare, seppur
sinteticamente, alcune prerogative di questa sofisticatissima
macchina sulla quale, a mo' di guidatore, si instaura la facoltà
della coscienza.
4. Il cervello
I neuroni del cervello umano adulto, le cellule cioè che
costituiscono la struttura portante del sistema nervoso centrale,
sono nell'ordine di svariati miliardi. Ai neuroni si affiancano le
cellule gliali che svolgono una funzione nutritiva e di supporto. Il
numero dei neuroni è già praticamente completo alla nascita e non è
quindi suscettibile di aumento se non (come si è dimostrato di
recente) nel corso di processi riparativi. Il numero dei neuroni,
tuttavia, rappresenta solo un aspetto che incide sulla complessità
del sistema nervoso. L'altro elemento sono le sinapsi o connessioni
tra i neuroni stessi. Il numero di queste, valutato attorno a un
milione di miliardi, rende ragione del fatto che nessun calcolatore
attualmente disponibile è ancora in grado di assemblare l'insieme
delle funzioni che un cervello è capace di svolgere. Il peso del
cervello alla nascita rappresenta solo un quarto del peso che
raggiungerà nel periodo tardoadolescenziale allorché raggiungerà la
sua piena maturità funzionale.
A livello di circuiti cerebrali e quindi di arricchimento del
bagaglio della memoria, dell'esperienza e dell'elaborazione dei
concetti, il cervello potrà ovviamente continuare a evolversi,
magari a spese di altre competenze che con l'età tenderanno a essere
meno valide, quali la memorizzazione di eventi recenti, le abilità
motorie, le acuità sensoriali ecc. (Manuale di neuropsicologia
1996). L'immaturità dell'encefalo alla nascita, seppure comporta un
handicap per il neonato nella sua condizione di incapacità di
provvedere ai propri bisogni essenziali, rappresenta una condizione
indispensabile per garantire la complessità delle funzioni che in
seguito sarà in grado di svolgere. Soltanto una parte delle
connessioni tra i neuroni dei vari circuiti nervosi è infatti
predeterminata da un programma genetico alla nascita. La maggior
parte delle connessioni si costituirà nel corso delle tumultuose
fasi di crescita della prima infanzia e, con un ritmo meno
frenetico, in quelle successive, allorché l'individuo verrà esposto
a stimoli adeguati in grado di rendere operanti le connessioni
predisposte a livello potenziale.
La massa dei geni necessaria per predeterminare tale infinita rete
di connessioni risulterebbe infatti un bagaglio insostenibile per i
complessi meccanismi che sono legati alla trasmissione del
patrimonio genetico (esposto oltretutto a possibili errori di
mutazione nei processi di replicazione). Il ruolo determinante
svolto dall'apprendimento, e quindi dallo sviluppo delle connessioni
intersinaptiche, rispetto alla trasmissione genetica è anche
all'origine dell'ampia diversità individuale riscontrabile nell'uomo
rispetto alle altre specie animali (Oliverio 1995). Il volume medio
del cervello umano è di circa 1300 cm3, tre volte più grande di
quello dei Primati più evoluti che, assieme ai Cetacei e ai delfini,
rappresentano gli animali con maggiore massa cerebrale relativa.
'Relativa' in quanto il volume assoluto è ovviamente collegato alla
massa corporea nel suo insieme. Un elefante è dotato infatti di un
cervello di dimensioni quattro volte superiori a quelle dell'uomo,
ma va detto che, in proporzione, sono le specie più piccole di
Mammiferi ad avere un cervello con più alto peso percentuale
rispetto alla massa corporea. Questo, sempre nell'uomo, corrisponde
al 2%, mentre nei ratti, nei pipistrelli e in altre specie più
piccole di Mammiferi può superare anche di dieci volte tale
percentuale (Martin 1995).
Dove i Primati superano gli altri concorrenti nella scala
filogenetica è tuttavia nella dimensione encefalica durante lo
sviluppo fetale che rappresenta il 12% del peso corporeo nei
confronti del 6% della media degli altri animali, evidenziando in
tal modo il maggior peso svolto nei Primati dai processi di
apprendimento rispetto alla dotazione di competenze innate (Schatz
1992). Tornando ai rapporti tra i Primati e l'uomo, è noto come il
cervello di quest'ultimo abbia raggiunto le attuali dimensioni a
seguito di una progressiva crescita lungo le diverse fasi
dell'ominazione. È stato valutato infatti che la dimensione
cerebrale media in Australopithecus africanus fosse di 440
cm3 (paragonabile a quella delle grandi scimmie attuali come il
gorilla), di 640 in Homo habilis, di 940 in Homo erectus,
e di 1230 in Homo sapiens.
Enigmatica resta la questione relativa alle dimensioni maggiori
riscontrate in Homo neanderthalensis, dal momento che nel
corso degli ultimi 20.000 anni, periodo in cui più vistosamente si è
espresso il processo di civilizzazione dell'uomo, si è determinata
un'inversione di tendenza nel rapporto tra crescita della massa
cerebrale e sviluppo delle potenzialità intellettive. Inevitabile, a
questo punto, è interrogarci su quali siano stati verosimilmente i
fattori che hanno portato allo sviluppo del neopallio, di quella
parte dell'encefalo cioè che, a partire dalle strutture più
arcaiche, come l'archipallio e il paleopallio, consente le funzioni
intellettive e associative più sofisticate.
Un primo collegamento sembra potersi stabilire con il tipo di
alimentazione. Anche tra le scimmie, infatti, quelle che si cibano
di risorse alimentari più povere e facilmente procacciabili, come le
foglie, sono dotate di masse cerebrali inferiori a quelle che si
cibano di frutti e di insetti. L'apporto alimentare più ricco e
diversificato si accompagna inoltre alla formazione di gruppi più
ampi e all'intrecciarsi di una più complessa gamma di interazioni
sociali. Il territorio di caccia, poi, tende a essere più vasto e
questo comporta l'esposizione degli animali a una maggiore messe di
stimoli e quindi all'apprendimento di maggiori abilità di
adattamento all'ambiente.
Con un lento meccanismo a circolo virtuoso, l'andatura bipede, le
conseguenti premesse anatomiche per la discesa della laringe, la
possibilità di articolare in modo più ricco e differenziato il
linguaggio, la progressiva utilizzazione della mano grazie
all'opposizione del pollice e quindi l'acquisizione della capacità
di fabbricare utensili hanno congiuntamente contribuito allo
sviluppo del sistema nervoso e delle sue funzioni specifiche
(Barucci 1997). Se il cervello è andato progressivamente
sviluppandosi, è evidente che, in una logica evolutiva, si è
dimostrato utile allo sviluppo della specie. Tali vantaggi si
associano tuttavia a un costo che, in un equilibrio dinamico, non va
sottovalutato. Il "partorirai con dolore", che il racconto della Genesi
ricorda, rimanda indubbiamente alle difficoltà che le madri
della specie umana affrontano più di ogni altra specie nel
partorire, considerate le dimensioni sproporzionate del capo nel
neonato. E questo nonostante il bambino, al momento della nascita,
si trovi in una fase relativamente immatura dello sviluppo, con gli
stessi processi di mielinizzazione non ultimati.
Né le funzioni sensoriali né quelle motorie consentono infatti a un
neonato di provvedere minimamente a sé stesso, contrariamente a
quanto avviene in altre specie laddove il cucciolo è già in grado di
mantenere attivamente la vicinanza alla madre per difendersi dai
predatori e di indirizzarsi ai capezzoli per alimentarsi. Il
cervello del neonato, inoltre, è sottoposto a un frenetico processo
di sviluppo: consuma fino al 60% delle risorse caloriche fornitegli
dalla madre (Martin 1995). Questa, a sua volta, è costretta a un
notevole sforzo alimentare, tanto da non essere, di norma, in grado
di nutrire più di un nuovo nato per un periodo di tempo
relativamente lungo. Seppure le dimensioni dell'encefalo sono
ovviamente collegate allo sviluppo di funzioni intellettive
superiori, non è dato tuttavia dimostrare, almeno nell'uomo in
assenza di chiare forme di patologia, una relazione diretta tra
dimensioni del cervello e prestazioni intellettuali, stando a
verifiche sperimentali condotte attraverso i test di intelligenza
attualmente disponibili (v. cervello).
5. Sensibilità e percezione
Camminiamo per la strada e a un tratto, tra la folla, ci sembra di
scorgere un volto conosciuto. La nostra reazione, specie se la
persona è significativa per noi, può essere intensa e coinvolgere un
insieme di risposte sensoriali, intellettive, emotive e anche
corporee. Il nostro passo può inavvertitamente rallentare, il cuore
battere più forte e possiamo avvertire un aumento della sudorazione.
È anche possibile che spezzoni di immagini si affastellino in
fulminee sequenze nella nostra mente. Quel viso, che magari ancora
non riusciamo a contestualizzare nelle coordinate di tempo e spazio
che ce lo rendono noto, può richiamare sequenze archiviate nella
memoria, collegarsi a frasi dette o che potremmo pronunciare in un
possibile incontro ed evocare, infine, una reazione comportamentale
che ci orienti sulla scelta tra il richiamare l'attenzione di questa
persona oppure di far finta di nulla per evitare di incontrarla.
È un esempio, tratto dalla nostra esperienza quotidiana, che ci dà
un'idea di come il dato sensoriale, nel nostro caso l'aver scorto un
volto conosciuto (ma analogo discorso potrebbe farsi per un odore,
un sapore, un suono, una carezza ecc.), non ci perviene in modo
isolato, ma si integra già dal suo nascere a un insieme di
riverberazioni che coinvolgono sistemi sensopercettivi ed
elaborazioni cognitive, i quali rimandano alla memoria, al
linguaggio, agli schemi comportamentali e infine ai processi
associativi più complessi coinvolgenti il sistema dei valori etici e
delle scelte esistenziali.
Contrariamente a una concezione primitiva, detta associazionistica,
che ipotizzava la giustapposizione in sequenza dei differenti dati
sensoriali relativi a un oggetto percepito, si è progressivamente
fatta strada una concezione olistica ispirata alla cosiddetta
psicologia della forma (v. forma).
Secondo questa impostazione, è l'insieme, la Gestalt, che viene
colto fin dall'inizio e non la somma dei suoi elementi costitutivi.
La Gestalt 'mela', per fare un esempio, viene attivata nel suo
insieme e non dalla sommatoria dei suoi connotati di sapore, colore,
profumo, consistenza ecc.
Tale concezione, sviluppata già nel primi del Novecento dalla scuola
tedesca di W. Köhler, K. Koffka e altri, ha trovato conferme
sperimentali dallo studio delle reti neurali, evidenziate attraverso
l'uso di sofisticate metodologie di indagine, prime fra tutte la
tomografia a emissione di positroni (PET, Positron emission
tomography), che consente di evidenziare i circuiti cerebrali in
stato di attivazione grazie alla localizzazione di glucosio
radioattivo e in grado, quindi, di impressionare una lastra
fotografica a colori. Attraverso tali strumenti di indagine, si è
potuto constatare come l'immagine visiva di un oggetto non rimanga
confinata a una rete locale di connessioni neuroniche, ma inneschi
una serie di circuiti riverberanti di quantità e complessità
proporzionate al significato dell'esperienza personale collegata al
rapporto con l'oggetto stesso (Freeman 1991).
Studi approfonditi sui processi visivi, i maggiormente studiati,
hanno confermato come il processo dell'appercezione sensoriale e del
riconoscimento cognitivo, pur coinvolgendo reti neurali diverse (i
corpi genicolati e la corteccia occipitale per i primi e la
corteccia prestriata per i secondi), avvengano in modo
contemporaneo, e quindi parallelo, e non sequenziale. Lesioni della
componente deputata alla decodifica simbolica possono dare luogo al
mancato riconoscimento dell'oggetto visto, mentre lesioni della
componente corticale possono dare luogo alla 'visione cieca'. Il
soggetto, cioè, pur essendo cieco e quindi non in grado di cogliere
informazioni sensoriali visive, può tuttavia ricostruire in modo
inferenziale attributi visivi come movimenti di oggetti in un campo
o le diverse lunghezze d'onda collegate ai colori.
6. Apprendimento e intelligenza
Il peso rilevante giocato dai comportamenti legati all'apprendimento
nei confronti di quelli predeterminati a livello biologico comporta
tuttavia il prezzo di condizioni svantaggiose per quei soggetti che,
specie nelle prime fasi della maturazione psicofisica, sono esposti
ad ambienti privi dei necessari stimoli evolutivi. Bambini
ospedalizzati in età precoce, e che hanno trascorso il primo anno di
vita in una culla, mostrano infatti uno sviluppo psicofisico molto
più ritardato rispetto ai loro coetanei che hanno goduto di
situazioni più stimolanti. Anche lo studio di bambini allevati da
animali e fuori dal contesto umano ha evidenziato come le facoltà
intellettive e del linguaggio rimangano a uno stadio primitivo
mentre, per converso, la velocità nella corsa o nel muoversi a
quattro zampe risulti assai potenziata.
Tale svantaggio può venire in parte recuperato nell'uomo grazie alle
proprietà di plasticità dell'encefalo, mentre risulta congelato
irreversibilmente negli animali che si situano a livelli più bassi
della scala evolutiva. In questi infatti il periodo dell'imprinting,
scoperto dal premio Nobel K. Lorenz, risulta molto definito e
vincolante. Nell'esperienza classica, gli anatroccoli seguono come
madre sostitutiva qualunque oggetto si muova davanti a loro, nel
breve periodo stabilito geneticamente per l'apprendimento di tale
comportamento; una volta che tale periodo sia passato senza
un'esposizione allo stimolo che lo rende operante, il comportamento
non verrà più appreso. Analogamente un agnellino separato dalla
madre svilupperà la cosiddetta sindrome dello stone ship: rimarrà
cioè pietrificato e senza possibilità di recuperare le sue capacità
di socializzazione all'interno del gregge.
L'importanza degli stimoli ha portato a enfatizzare l'opportunità di
offrire ambienti iperstimolanti, al fine di accelerare
l'acquisizione di competenze e possibilità di apprendimento.
Nell'esperienza forse più nota, quella introdotta da G. Doman
fondatore dell'Institute for the achievement of human potential di
Filadelfia, i bambini sono esposti a stimoli crescenti a partire
dagli 8 mesi di età. Con tale metodo è stato possibile insegnare
loro a tradurre dal giapponese all'inglese e a far di conto già
all'età di 3 anni (Oliverio-Oliverio Ferraris 1989).
Studi più approfonditi, tesi a verificare la maturazione complessiva
dei soggetti, hanno tuttavia evidenziato gli svantaggi di tali
metodi di iperstimolazione, in particolare per quanto riguarda la
maturazione emozionale. I bambini superdotati infatti risultavano
marcatamente dipendenti dalle figure genitoriali e incapaci di
assumere iniziative autonome. Analogamente a quanto si sostiene
attualmente nel campo della dieta alimentare, la formula migliore
sembra essere quella di un ambiente variato di stimoli, senza
indurre forzatamente apprendimenti precoci che vanno a scapito di
una maturazione più armoniosa della personalità.
7. Memoria
"Cantami o diva del pelide Achille l'ira funesta". Con questa
invocazione omerica a Mnemosine, la dea della memoria, possiamo dire
che si inaugura la storia cosciente dell'Occidente. Che cosa ha
caratterizzato infatti il conflitto sotto le mura di Troia se non la
traccia lasciata nella memoria collettiva? Gli atti acquistano
spessore, tridimensionalità allorché depositano un segno che permane
nel tempo, che può essere colto e riconosciuto da altri viventi e
rappresentare la premessa di un sapere condiviso, quindi di cultura.
Nessuna prerogativa, come quella della memoria,
ci rende unici tra i viventi, dotati cioè di quella caratteristica
della conoscenza che, sempre per i greci, la rende divina: capace
cioè di comprendere sia la dimensione del presente sia del passato
e, a partire da questo, del futuro. La memoria costituisce ancora
l'elemento che rende la nostra attitudine al conoscere
ineluttabilmente personalizzata. Accanto a un sapere vincolato alla
specie, denominato memoria filetica, in nessun vivente come
nell'uomo si innesta un sapere connesso all'esperienza personale
sotto forma di conoscenza soggettiva e correlata con una storia
individuale.
Tale forma di accumulazione del sapere, legata quindi a un processo
di apprendimento e non di trasmissione genetica, è resa possibile
dalla grande disponibilità di zone associative della corteccia
cerebrale e ha la caratteristica di non presentarsi come un
patrimonio di conoscenza aperto a un continuo processo di
modellamento, in funzione dei vissuti squisitamente personali cui il
soggetto si espone nei suoi percorsi conoscitivi. Gli animali che si
trovano ai livelli inferiori della scala evolutiva sono dotati quasi
unicamente di memoria filetica, quel bagaglio cioè di conoscenze che
consente alla specie di adattarsi all'ambiente e di perpetuarsi in
modo relativamente uguale a sé stessa nel susseguirsi delle
generazioni.
La comparsa della corteccia, che si sviluppa progressivamente nelle
specie più evolute, consente capacità crescenti di apprendimento e
memorizzazione. Anche nella maturazione del bambino, nell'ambito del
cosiddetto processo ontogenetico che in qualche modo ripercorre le
tappe del processo filogenetico, avviene qualcosa di simile. Già da
prima della nascita il feto è in grado di memorizzare informazioni
di qualche tipo, per es. le caratteristiche della voce materna che
saprà distinguere, già alla nascita, da voci estranee.
Affinché il processo del riconoscimento diventi consapevole, si
richiederanno tuttavia alcuni mesi. Se a 5-6 mesi un bambino sarà in
grado di riconoscere il volto di un fratellino, acquisterà di fatto
la capacità di rievocarlo solo a partire dagli 8-12 mesi. A questa
età si renderanno infatti evidenti le modifiche dell'espressione
allorché un volto conosciuto verrà messo a confronto con volti che
non lo sono (Oliverio-Castellano 1996). Anche la durata della
memoria collegata al riconoscimento di un oggetto, che viene fatto
sparire dopo essere stato mostrato, aumenterà progressivamente in
misura del processo di mielinizzazione dei neuroni e della loro
capacità di intessere reti neuroniche deputate allo strutturarsi di
circuiti di riverberazione.
Il presupposto neurobiologico che consente la memorizzazione è la
strutturazione di un loop, di un circuito tra diversi neuroni che
insieme configurano la traccia mnesica. Diversamente da quanto
ipotizzato sino alla metà degli anni Settanta del 20° secolo, quando
si riteneva che la memoria riflettesse in una o più cellule il
modello dell'impressione fotografica, si è appurato, specie con
l'indagine PET, che la memoria è un evento squisitamente
connessionale. La strabiliante capacità di ritenzione, archiviazione
e richiamo delle immagini può essere spiegata solo in base
all'infinito numero di sinapsi che i neuroni intessono tra di loro e
non al numero degli stessi che, seppure elevato, è comunque
infinitamente più modesto.
La nostra esperienza quotidiana ci dice inoltre che esistono due
tipi di memoria: una più labile, che si riferisce a eventi che per
il loro scarso significato non lasciano una traccia permanente (e
sarebbe un inutile appesantimento del bagaglio informativo se lo
facessero), e una più stabile, che può sopravvivere anche
all'invecchiamento, a traumi cranici o a scosse di elettroshock che,
come è noto, fanno dimenticare eventi passati. Tale distinzione,
intuita inizialmente dallo psichiatra italiano E. Tanzi, venne
ripresa e sviluppata negli anni Cinquanta da D. Hebb che sviluppò
l'ipotesi della cosiddetta doppia traccia.
Secondo questa impostazione, attualmente suffragata da dati
sperimentali, un'impressione recente innesca un circuito cerebrale
che tende, come l'onda sulla superficie dell'acqua, a esaurirsi
entro breve tempo. Se lo stimolo è sufficientemente forte o
ripetuto, si verifica al contrario un rinforzo della traccia mnesica
sino a produrre cambiamenti strutturali sui collegamenti
intersinaptici dei neuroni interessati al particolare tipo di
esperienza. La memoria, infatti, investe tutto il cervello potendo
interessare dati di carattere sia sensoriale sia cognitivo e motorio
(Fuster 1998). Alcune sostanze, denominate calpine, hanno la
prerogativa di distruggere e di ricostituire connessioni sinaptiche
agendo sugli ioni del calcio attraverso un processo continuo di
rielaborazione plastica.
La memoria non è qualcosa di statico e inerte, ma è soggetta a un
continuo processo di rielaborazione in funzione delle nuove
esperienze alle quali il soggetto si trova esposto. Un'esperienza
ricordata come traumatica, e che quindi produce un comportamento
evitativo, può infatti essere successivamente rielaborata attraverso
una differente prospettiva e quindi integrata dal soggetto sotto una
luce che ne modifica le caratteristiche di negatività.
Sulla plasticità dell'encefalo si fonda anche la possibilità di
agire attraverso la psicoterapia che, come è noto, contempla un
richiamo delle esperienze passate, anche se traumatiche, nella
prospettiva di una rielaborazione delle stesse attraverso una
possibilità di integrazione in un quadro di riferimento più evoluto
e meglio raccordato alla realtà attuale del soggetto.
Un elemento attivatore, nei processi di memorizzazione, è la
componente emotiva collegata agli aspetti cognitivi dei vissuti.
L'amigdala e l'ippocampo, strutture sottocorticali implicate nei
processi emozionali, sono le strutture che danno appunto coloritura
emozionale e incisività al processo mnesico e che, se lesionate da
traumi incidentali o disturbi della circolazione, maggiormente
determinano la perdita di tali capacità. Riguardo all'intensità
emozionale non va trascurato il fatto, tuttavia, che un'eccessiva
intensità emotiva può giocare un ruolo inibitorio. Per un meccanismo
difensivo, infatti, la psiche tende a rimuovere i ricordi dolorosi.
In realtà, come la ricerca psicoanalitica ha ampiamente dimostrato,
non si tratta di un'effettiva scomparsa dalla memoria dell'evento
traumatico, ma di una sua rimozione dalla sfera della coscienza.
Attraverso un graduale - anche se talvolta può presentarsi come
subitaneo - dissotterramento dei reperti archeologici (come nella
metafora freudiana si usa richiamare) è spesso possibile far
riemergere alla superficie della coscienza fatti che la psiche aveva
rimosso nelle pieghe del cosiddetto inconscio. La vicenda di Edipo,
re di Tebe che si unì alla regina madre avendo rimosso il fatto che
l'uomo da lui ucciso potesse essere il padre, indica in modo
emblematico l'attitudine della mente a rimuovere fatti traumatici o
incompatibili con la nostra coscienza morale. Tali ricordi possono
successivamente emergere sotto la pressione di eventi che non
possiamo eludere, oppure grazie allo sviluppo di una coscienza più
matura e quindi più aperta ad affrontare la ricostruzione degli
eventi collegati alla nostra storia passata.
La riappropriazione della nostra storia e quindi la narrazione, a
noi stessi e/o ad altri, del filo che collega in una rete di
significati plausibili i diversi frammenti della nostra vicenda
personale rappresenta forse uno dei momenti più significativi del
processo di riconoscimento e di conquista di quell'identità
personale unica e irripetibile che contraddistingue l'essere umano.
8. Creatività
Pur con infinite varianti legate alle diverse tradizioni
cosmogoniche, l'uomo ha da sempre ipotizzato che nulla possa nascere
da nulla e che quindi il mondo e l'universo siano scaturiti da un
potere primigenio e sovramondano. Si noti come il concetto di
evoluzione non faccia parte del pensiero primitivo e come l'ente
creatore, considerato generalmente come perfetto, non possa creare
che esseri perfetti. Tale idea, detta preformazionista, per la quale
il cavallo, creato dal nulla, è già un purosangue e non il risultato
di un lungo processo di perfezionamento, si ritrova in qualche modo
anche nella nozione corrente di creatività estesa alle attività
dell'uomo.
A ben vedere, al contrario, la creazione umana implica sempre una
sintesi tra un bagaglio di esperienze e di informazioni precedenti e
un quid novi che il genio creativo riesce a innestare sul già noto.
In ambito sia scientifico sia artistico possiamo infatti osservare
come niente nasca dal niente e come, al contrario, l'atto creativo
si definisca come innovativo e quindi evolutivo rispetto a un
insieme di premesse che ne rappresentano gli indispensabili
presupposti. Analogamente ai processi sintropici osservabili in
natura, per i quali da elementi più semplici si passa a elementi più
complessi ed evoluti, anche per i processi riscontrabili nella
creatività umana sembra realizzarsi, seppure a un livello di
maggiore consapevolezza, un processo evolutivo morfogenetico.
La Gestaltung, o processo di evoluzione delle forme, sembra avvenire
per virtù propria, quasi servendosi degli esseri umani che vi
partecipano analogamente a quanto i geni tendono a riprodursi e a
perfezionarsi servendosi degli individui che li veicolano, secondo
la teoria evolutiva di Ch. Darwin successivamente ripresa e
sviluppata da R. Dawkins. Nel caso di esseri dotati non solo di un
patrimonio genetico-biologico ma anche di capacità di elaborare e
trasmettere informazioni, Dawkins propone di affiancare il termine
di 'meme' a quello di gene. La trasmissione del patrimonio
informativo consente cioè il perpetuarsi e il continuo evolversi dei
sistemi conoscitivi e quindi dei prodotti che da questi possono
derivare.
9. Coscienza
La coscienza rappresenta forse il Santo Graal della ricerca
scientifica, l'oggetto inafferrabile e sempre sfuggente non soltanto
per la sua tremenda complessità ma per il fatto stesso di essere,
nella sua essenza, il cuore della soggettività stessa. Sappiamo che
il metodo scientifico, codificato in particolare da Galileo,
consiste nella possibilità di definire correttamente un campo di
osservazione nel quale inserire un oggetto il cui studio possa,
appunto, divenire patrimonio di un sapere condiviso e oggettivo.
A parte la difficoltà estrema di applicare i metodi dell'indagine
scientifica a un oggetto misterioso come la coscienza, emerge il
paradosso che ci impone di studiare tale entità all'interno di una
nuova categoria, quella appunto della soggettività. Questo sembra
essere infatti, al di là della sofisticatezza di alcune funzioni
specifiche, l'elemento che distingue qualitativamente il cervello
dotato di coscienza da un computer per quanto potente e
multifunzionale: la coscienza di sé come soggetto.
Costruito un computer, se ne potrebbero ovviamente costruire infatti
molti altri di uguali. Tale evenienza si rende assai più improbabile
per l'essere umano che, come abbiamo visto, possiede alla nascita
una vasta porzione della corteccia associativa non programmata
geneticamente ma esposta a plasmarsi in funzione delle esperienze
squisitamente individuali a cui il soggetto sarà esposto.
L'elaborazione che a partire dal patrimonio genetico e dalle
successive esperienze si svilupperà in termini di concetti, valori,
tonalità emotive, spunti creativo-adattativi si configurerà come un
originale Sé, Da-sein o modo-di-essere-nel-mondo che, come
sottolinea la filosofia fenomenologico-esistenziale, si presenterà
ogni volta come unico e irripetibile.
Tale dimensione, tragica e sublime insieme, si accompagna ad altre
prerogative che differenziano l'uomo da una macchina. Tra queste
l'intenzionalità, intesa da F. Brentano come fenomeno mentale
irriducibile ad altri fenomeni della psiche, e da E. Husserl come
ciò che caratterizza la coscienza in senso pregnante e come
'capacità di orientarsi in un orizzonte di significati'. La persona
- secondo M. Heidegger - è sempre data come esecutrice di 'atti
intenzionali, raccolti in una unità di senso'. Le macchine -
sostiene anche J.R. Searle (1996) - sono in grado di manipolare
simboli, ma non di interpretarli e dare loro un significato.
La mente umana sarebbe inoltre capace di superare una semplicistica
logica binaria (del tipo sì/no) propria del computer attraverso una
capacità, definita logica fuzzy (sfumata), per la quale le scelte
umane hanno più spesso a che fare con le sfumature di grigio che con
il bianco e nero; coinvolgono stati cognitivi ed emotivi, come i
desideri, il piacere, le credenze (Carli 1997). A questi pensatori
si contrappongono teorici come il Nietzsche di Così parlò
Zarathustra (con la sua nota asserzione: "corpo io sono in tutto e
per tutto e null'altro; e anima non è altro che una parola per
indicare una parte del corpo") e altri che sostengono un più
radicale monismo orientato a un'impostazione, postfilosofica
(intendendo filosofia come campo dell'investigazione prescientifica)
e rigorosamente fondato sul tentativo di ricondurre tutti i fenomeni
della coscienza a leggi fisico-biologiche, che unicamente
rappresentano il fondamento scientifico della conoscenza.
Tutti i fenomeni mentali sono strettamente connessi a fenomeni
fisici per J.A. Fodor (1987), che definisce 'fisicalismo'
l'impostazione, per la quale tutti gli eventi mentali sono identici
a (o composti da) eventi fisici. Secondo D.C. Dennett (1996), il
teorico della concezione computazionale della mente che rappresenta
forse la punta avanzata di tale orientamento, non esistono una
materia spirituale, una res cogitans separata dai nostri corpi, né
il cosiddetto hard problem dell'irriducibilità della mente a
qualcos'altro. Solo risolvendo i soft problems, cioè gli aspetti
meccanici e tecnologici del cervello e della mente, sarà risolto
anche il problema della coscienza.
A dimostrazione della stretta interdipendenza tra cervello e
personalità viene spesso riferito il caso emblematico di un operaio
trafitto da una sbarra metallica che, entratagli a grande velocità
dalla parte inferiore dello zigomo sinistro, gli uscì dalla parte
superiore della fronte. Lo stesso, pur stordito per il violentissimo
trauma, non perse neppure coscienza e anzi cominciò a parlare poco
dopo. Con il passare dei giorni i compagni di lavoro si accorsero
tuttavia che 'non era più lui'. Pur conservando intatte le sue
capacità motorie e sensoriali, da collega affidabile e capace era
diventato bizzarro, insolente e irresponsabile (Damasio 1994).
Tra i ricercatori sul tema della coscienza spiccano le figure di
scienziati spesso insigniti del premio Nobel in diverse discipline e
che si sono dedicati in seguito alle nuove sfide conoscitive
sollevate dalle neuroscienze. Per F. Crick (1994), Nobel per la
scoperta del DNA nel 1953, la coscienza rappresenta la
consapevolezza immediata e soggettiva del mondo e di noi stessi, un
fenomeno cioè in cui si combinano attenzione e memoria a breve
termine. Coerentemente alla sua visione rigorosamente materialistica
egli sostiene che "le vostre gioie e i vostri dolori, i vostri
ricordi e le vostre ambizioni, il vostro senso di identità personale
e di libero arbitrio, in effetti non sono altro che il comportamento
di un gruppo molto numeroso di cellule nervose e delle molecole ad
esse associate" (Crick 1994, trad. it., p. 95).
Tali reti nervose, secondo G. Edelman (1987), Nobel nel 1972 per
studi sull'immunologia, sarebbero il risultato di un fenomeno di
competizione, definito 'darwinismo cellulare', per il quale le
infinite connessioni potenziali che si presentano nelle prime fasi
dello sviluppo cerebrale si autoselezionano progressivamente in
funzione degli stimoli di rinforzo cui un soggetto si espone nel suo
impatto con il mondo circostante. Gli infiniti rami (dendriti
appunto) che emergono dal tronco del neurone cadranno
progressivamente come rami secchi, lasciando spazio solo a quelli
che vengono rafforzati dalla linfa rappresentata dall'esperienza e
dal suo consolidamento. La tessitura di tali reti sinaptiche
costituirà quindi dei circuiti riverberanti, già menzionati a
proposito della percezione e della memoria, a cui un altro Nobel, F.
von Hayek (in questo caso in economia), ha dato il nome di 'mappe
neurali'.
Gli stessi neuroni, infine, si presenterebbero a un'approfondita
osservazione come dotati di un'intricata rete di microtubuli
proteici, abilitati a trasmettere le informazioni sia all'interno
della singola cellula sia, attraverso la rete sinaptica, da una
cellula all'altra. Mutuando concetti derivati dalla meccanica
quantistica e dal principio di indeterminazione di W.K. Heisenberg,
R. Penrose (1989), Nobel nel campo della chimica, sostiene che né la
fisica classica, né l'informatica, né le neuroscienze, assunte
isolatamente, sono in grado di sciogliere i nodi hard della
coscienza.
Tale prospettiva riflette il noto teorema di K. Gödel, il quale
sostiene come nessun sistema di assiomi abbastanza complesso sia
capace di sostenere la veridicità di un enunciato restando confinato
all'interno del proprio orizzonte concettuale di riferimento. Pur
ritenendo che l'obiettivo dell'intelligenza artificiale è quello di
imitare quanto più possibile attraverso delle macchine, normalmente
elettroniche, l'attività mentale umana, Penrose ritiene che si renda
necessaria 'una nuova teoria fisica', in grado di fare da ponte tra
la meccanica quantistica e quella classica e che 'vada oltre la
computazione'. Per rimanere ancorati alle funzioni biologiche
dell'encefalo, è interessante riportare il dato sottolineato
dall'anestesista S. Hameroff che si riferisce alla perdita della
coscienza, che viene indotta appunto dall'anestesia attraverso
l'inibizione del movimento di elettroni all'interno dei microtubuli
(Horgan 1998, p. 94). Questi, infine, rappresenterebbero la
trabecolatura connessionale nella cellula e tra le cellule,
analogamente a come un computer, con i suoi circuiti interni, si
collega tramite la rete di Internet a un numero potenzialmente
illimitato di altri computer sino a formare interconnessioni
virtualmente infinite e organizzabili in sottosistemi in un continuo
processo di ristrutturazione.
Riprendendo ancora Edelman, in conclusione, pur accettando che la
mente è solo materia e coincide con il cervello e rinunciando quindi
a ricercare il cosiddetto ghost in the machine, quell'anima
immateriale che abiti il cervello, è pur vero che la scienza del
cervello e della mente deve necessariamente stabilire delle
relazioni con la filosofia, nel senso di una 'comune ricerca di
armonie e consonanze' tra concezioni diverse. Pur avendo progettato
NOMAD (Neurally organized multiply adaptive device), il primo
oggetto non vivente in grado di 'apprendere' dall'esperienza
attraverso telecamere, sensori, antenna e collegamento televisivo e
radiofonico bidirezionale collegato a un supercalcolatore dotato di
un sistema di simulazione del cervello e di reti neurali, con
possibilità di operare scelte in funzione di valori dati come
istruzioni di base, lo stesso scienziato ritiene che la sua
creazione, anche se ulteriormente perfezionata, rappresenti
comunque, rispetto all'uomo, un 'falso analogo', dal momento che non
potrà identificarsi in una storia individuale, unica e irripetibile,
dal momento che la mente non può concepirsi al di fuori del mondo e
delle interazioni sociali.
Secondo la teoria biologica della mente di Edelman (1992),
un'epistemologia biologicamente fondata non potrà probabilmente dare
una risposta alla singolarità dell'individuo, alla sua capacità di
creare, di provare emozioni, e di produrre opere artistiche,
poetiche, musicali, pittoriche o idee scientifiche, ma certamente
'contribuirà a rendere la nostra vita più ricca'.