Progresso
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Avanzamento in senso verticale, verso gradi o stadi superiori, con
implicito quindi il concetto del perfezionamento, dell’evoluzione,
di una trasformazione graduale e continua dal bene al meglio, sia
in un ambito limitato sia in un senso più ampio e totale.
In senso assoluto, lo sviluppo verso forme di vita più elevate e
più complesse, perseguito attraverso l’avanzamento della cultura,
delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, dell’organizzazione
sociale, il raggiungimento delle libertà politiche e del benessere
economico, al fine di procurare all’umanità un miglioramento
generale del tenore di vita e un grado maggiore di liberazione dai
disagi.
1. Il concetto di p. nel pensiero
occidentale
Il concetto di p. è strettamente
connesso a quello di storia: attribuire p. alla storia significa
individuare in essa un avanzamento, un continuo miglioramento.
Il concetto di p. è relativamente recente nella cultura
occidentale, essendo sorto agli inizi dell’età moderna, mentre
il mondo classico appare piuttosto legato da un lato alla
dottrina della mitica età dell’oro (Esiodo, Platone), in
confronto alla quale tutta la storia successiva si configura
come un processo di decadenza, dall’altro a quella del ritorno
ciclico degli eventi (tipica degli stoici). Il cristianesimo
rifiuta il tema del circolare ritorno degli eventi e prospetta
una concezione lineare della storia tesa dalla creazione e dal
peccato di Adamo verso l’incarnazione del Verbo (momento
centrale e irripetibile) e di qui verso la fine dei tempi. In
questa concezione il p. può essere inteso come realizzazione dei
piani provvidenziali.
Per un concetto di p. come ampliamento di conoscenze e conquista
degli uomini si dovrà arrivare alle soglie dell’età moderna. Il
senso del p. intrinseco alla storia si fa strada nel Rinascimento,
strettamente connesso con l’estendersi delle conoscenze storiche,
geografiche, scientifiche, tecniche e quindi con la nuova
consapevolezza della capacità di ascesa e di conquista della
natura umana.
Caratteristica testimonianza di questo nuovo atteggiamento è in
G. Bruno, secondo cui la possibilità dell’avanzamento della
scienza è proporzionale alle osservazioni compiute e agli anni
trascorsi: l’età recente ha maggiore esperienza dell’antica e, se
la sapienza è nella vecchiaia, i veri vecchi sono i moderni. Il
tema degli Antichi e moderni (➔) ritornerà lungo tutto il
Seicento, sempre più strettamente connesso con la constatazione
dei p. compiuti soprattutto nella conoscenza della natura e nel
distacco definitivo dalla cultura scolastica: così in T.
Campanella come in F. Bacone, in G. Galilei come in B. Pascal sino
alla Digression sur les anciens et les
modernes di B. de Fontenelle (1688).
Con l’Illuminismo si ha l’estensione del concetto di p.
dall’ambito conoscitivo a quello etico e sociale: il p. realizzato
nell’ambito scientifico e filosofico deve estendersi anche
all’organizzazione della società umana e ai modi del comportamento
morale, purché si sia capaci di rimuovere gli ostacoli che frenano
lo sviluppo della ragione e che sono soprattutto di ordine
dogmatico-religioso e politico; l’estensione dei ‘lumi’ della
ragione diviene di per sé strumento di p. che investe tutta
l’organizzazione politica e religiosa. Di questa fede nel p.
testimoniano quasi tutti i principali rappresentanti
dell’Illuminismo europeo: suoi assertori e teorizzatori più
espliciti sono per la Francia R.J. Turgot e Condorcet, per la
Germania G.E. Lessing e I. Kant.
In parte connesso all’Illuminismo, in questa fusione di p.
scientifico e p. etico, appare il positivismo. Tipico
rappresentante di questo orientamento è A. Comte, che elaborò il
concetto di p. nella forma della ‘legge dei tre stadi’
dell’evoluzione storica e scientifica. H. Spencer tese a estendere
il concetto di p. dall’evoluzione biologica a quella
storico-sociale secondo i medesimi principi di differenziazione e
organizzazione.
Di tipo diverso il concetto di p. nell’idealismo hegeliano, dove
appare connesso alla nozione di dialettica, per la quale ogni
momento del divenire della realtà è superato da un momento
successivo che conserva quanto lo precede. Costitutiva della più
profonda natura della realtà, la dialettica opera per G.W.F. Hegel
anche, e soprattutto, nella storia, concepita come un processo
dialettico teleologicamente orientato: da questo punto di vista il
p. dialettico è per Hegel fondamentalmente sviluppo dello spirito
attraverso l’opera anche inconsapevole degli individui e dei
popoli che di volta in volta lo incarnano («astuzia della
ragione») e il suo fine è la realizzazione della libertà, di cui
lo Stato ottocentesco è il maggior esempio.
Influenzato dal concetto hegeliano di dialettica, e poi anche
dalle concezioni positivistiche, è il marxismo che, almeno nelle
formulazioni dottrinarie, ha visto nella storia un’evoluzione
inevitabile, e orientata al meglio per quanto riguarda le
condizioni materiali e spirituali, verso la società comunista.
Il concetto di inevitabilità storica – a cui spesso è possibile
ricondurre la fede nel p., ma anche quella, a essa speculare,
nella decadenza delle civiltà (come nel caso di O. Spengler) – è
stato fortemente criticato, nel Novecento, da I. Berlin e,
soprattutto, da K.R. Popper, che ha raggruppato sotto il nome di
storicismo tutte le concezioni fondate sulla postulazione di
leggi di sviluppo della storia, mostrandone la carenza logica e
l’infondatezza scientifica e riconducendole a una comune matrice
utopistica.
Il ridimensionamento dell’idea di avanzamento verso il meglio è
stato anche determinato dalle disillusioni indotte dai conflitti
mondiali e dalle loro conseguenze alimentatrici di pessimismo sul
futuro della civiltà, mentre successivamente è apparso legato a
considerazioni di tipo ecologico-ambientale suggerite da quello
che viene avvertito come un eccessivo e poco accorto sviluppo
tecnologico. La cultura filosofica ha d’altra parte posto in
evidenza quanto il concetto di p. sia impregnato di valori e come
spesso rappresenti un’assolutizzazione di ideali propri del mondo
occidentale: da questo punto di vista va segnalata la riflessione
di J.-F. Lyotard su quella che ha definito la «condizione
postmoderna» (➔ postmoderno ) tipica della contemporaneità.
Gli sviluppi della storiografia scientifica e della filosofia
della scienza nel Novecento hanno avuto come esito la nascita di
un vasto dibattito sul concetto di p. scientifico , che ha visto
contrapporre alla tradizionale concezione cumulativa dello
sviluppo scientifico concezioni di tipo discontinuista, il cui
maggior rappresentante è T. Kuhn.
Dizionario di Filosofia (2009)
Concetto strettamente connesso a quello di storia: attribuire p.
alla storia significa individuare in essa un avanzamento, un
continuo miglioramento. Il concetto di p. è relativamente recente
nella cultura occidentale, essendo sorto agli inizi dell’età
moderna, mentre il mondo classico appare piuttosto legato, da un
lato, alla dottrina della mitica età dell’oro (Esiodo, Platone), in
confronto a cui tutta la storia successiva si configura come un
processo di decadenza, dall’altro, a quella del ritorno ciclico
degli eventi (tipica degli stoici). Il cristianesimo rifiuta il tema
del circolare ritorno degli eventi e prospetta una concezione
lineare della storia tesa dalla creazione e dal peccato di Adamo
verso l’incarnazione del Verbo (momento centrale e irripetibile) e
di qui verso la fine dei tempi. In questa concezione il p. può
essere inteso non come opera umana, ma come realizzazione dei piani
provvidenziali. Per un concetto di p. come ampliamento di
conoscenze, come conquista degli uomini, si dovrà arrivare alle
soglie dell’età moderna, non senza tuttavia ricordare il presentarsi
(nel sec. 12°, in rapporto ai nuovi orizzonti aperti dal ritorno dei
classici antichi) di un tema destinato a grande fortuna, quello per
cui i moderni sono «nani sulle spalle di giganti» (➔) e vedono più
lontano.
Dal Rinascimento all’Illuminismo. Il
senso del necessario p. intrinseco alla storia si fa decisamente
strada nel Rinascimento, dove appare strettamente connesso con
l’estendersi delle conoscenze storiche, geografiche, scientifiche,
tecniche e quindi con la nuova consapevolezza della capacità di
ascesa e di conquista della natura umana. Caratteristica
testimonianza di questo nuovo atteggiamento si ritrova in Bruno,
secondo il quale la possibilità dell’avanzamento della scienza è
proporzionale al numero delle osservazioni che si sono potute
compiere, e quindi a quello degli anni trascorsi: l’età recente ha
maggiore esperienza dell’antica, e, se la sapienza è nella
vecchiaia, i veri vecchi sono i moderni. Questo tema degli antichi
e dei moderni, con la consapevolezza della maggiore esperienza e
dei più larghi orizzonti di cui questi ultimi possono usufruire,
già presente nella letteratura del Rinascimento, sarà destinato a
ritornare lungo tutto il Seicento, sempre più strettamente
connesso con la constatazione dei p. realmente compiuti
soprattutto nella conoscenza della natura e nel distacco
definitivo dalla cultura scolastica: così in Campanella come in
Bacone, in Galilei come in Pascal sino alla Digression sur
les anciens et les modernes di Fontenelle (1688). Con
l’Illuminismo si assiste all’estensione del concetto di p.
dall’ambito conoscitivo a quello etico e sociale: il p. realizzato
nell’ambito scientifico e filosofico deve estendersi anche
all’organizzazione della società umana e ai modi del comportamento
morale, purché si sia capaci di rimuovere quegli ostacoli che
frenano lo sviluppo della ragione e che sono soprattutto di ordine
dogmatico-religioso e politico; l’estensione dei ‘lumi’ della
ragione diviene di per sé strumento di p. che investe tutta
l’organizzazione politica e religiosa. Di questa fede in un p.
totale testimoniano quasi tutti i principali rappresentanti
dell’Illuminismo europeo: come suoi assertori e teorizzatori più
espliciti possono in ogni modo essere citati per la Francia Turgot
e Condorcet, per la Germania Lessing e Kant.
L’idea di progresso nell’Ottocento. In
parte connesso all’Illuminismo, in questa fusione di p.
scientifico e p. etico, appare, poi, dopo l’idealismo, il
positivismo, che tuttavia, spinto dalle scoperte scientifiche e
tecniche a una fede entusiastica nel p., ne delineò, a differenza
dell’Illuminismo, una vera e propria metafisica connessa alle
nascenti idee evoluzionistiche. Tipico rappresentante di questo
orientamento è Comte, che elaborò il concetto di p. nella forma di
una «legge dei tre stadi» dell’evoluzione storica e scientifica.
Non meno metafisica appare la concezione di Spencer, che tese a
estendere il concetto di p. dall’evoluzione biologica a quella
storico-sociale secondo i medesimi principi di differenziazione e
organizzazione. Di tipo diverso, ma anch’esso profondamente
metafisico, era stato il concetto di p. nell’idealismo hegeliano,
dove appare connesso alla nozione di dialettica, per la quale ogni
momento del divenire della realtà è superato da un momento
successivo che conserva quanto lo precede. Costitutiva della più
profonda natura della realtà, la dialettica opera per Hegel anche,
e soprattutto, nella storia, concepita come un processo dialettico
teleologicamente orientato nel quale l’essere (Sein)
coincide con il dover essere (Sollen): da questo punto di
vista il p. dialettico è per Hegel fondamentalmente sviluppo dello
spirito attraverso l’opera anche inconsapevole degli individui e
dei popoli che di volta in volta lo incarnano («astuzia della
ragione») e il suo fine è la realizzazione della libertà, di cui
lo Stato ottocentesco è per Hegel il maggiore esempio. Influenzato
dal concetto hegeliano di dialettica, e poi anche dalle concezioni
positivistiche, è il marxismo, che, almeno nelle formulazioni
dottrinarie, ha visto nella storia un’evoluzione inevitabile, e
orientata al meglio per quanto riguarda le condizioni materiali e
spirituali, verso la società comunista, stadio finale che si
realizzerebbe con la rivoluzione proletaria soltanto dopo il
raggiungimento del maggiore livello di ricchezza, che è anche il
maggiore livello di sfruttamento delle forze di produzione, da
parte delle società industriali.
Critiche novecentesche del concetto di progresso.
Il concetto di inevitabilità storica – a cui spesso è possibile
ricondurre la fede nel p., ma anche quella, a essa speculare,
nella decadenza delle civiltà (come nel caso di Spengler) – è
stato fortemente criticato, nel Novecento, da Berlin e,
soprattutto, da Popper, che ha raggruppato sotto il nome di
storicismo (➔) tutte le concezioni (da Hegel e Marx a Comte e
Spencer a Stuart Mill) fondate sulla postulazione di leggi di
sviluppo della storia, mostrandone la carenza logica e
l’infondatezza scientifica e riconducendole altresì a una comune
matrice utopistica. Il ridimensionamento dell’idea di avanzamento
verso il meglio è stato inoltre anche determinato dalle
disillusioni indotte dai conflitti mondiali e dalle loro
conseguenze alimentatrici di pessimismo sul futuro della civiltà,
mentre più recentemente è apparso connesso a considerazioni di
tipo ecologico-ambientale suggerite da quello che viene avvertito
come un eccessivo e poco accorto sviluppo tecnologico. La cultura
filosofica del Novecento ha d’altra parte posto in evidenza quanto
il concetto di p. sia impregnato di valori e come spesso
rappresenti un’assolutizzazione di ideali propri del mondo
occidentale: da questo punto di vista va segnalata la riflessione
di Lyotard su quella che ha definito la «condizione postmoderna»
tipica della contemporaneità (La condition postmoderne,
1979; trad. it. La condizione postmoderna), che
segnerebbe la fine della modernità e dei suoi ideali di
derivazione settecentesca, tra cui, appunto, quello di p.,
rientrante nell’apparato concettuale dei grandi sistemi filosofici
(come quelli di Hegel e Marx), le cui pretese di fondazione si
sarebbero ormai dimostrate vane (➔ anche postmoderno). I notevoli
sviluppi della storiografia scientifica e della filosofia della
scienza nel Novecento hanno avuto come esito la nascita di un
vasto dibattito sul concetto di p. scientifico, che ha visto
contrapporre alla tradizionale concezione cumulativa dello
sviluppo scientifico concezioni di tipo discontinuista, il cui
maggiore rappresentante è Kuhn.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
di Pietro Rossi
di Pietro Rossi
Progresso
sommario: 1. Progresso e modernità. 2.
Avanzamento del sapere e superiorità dei 'moderni'. 3.
Perfettibilità dell'uomo e progresso dello spirito umano. 4. Le
utopie del progresso. 5. Il progresso come legge di sviluppo
dell'umanità e della realtà. 6. Trionfo e declino dell'idea di
progresso. 7. Tentativi di concettualizzazione. □ Bibliografia.
1. Progresso e modernità
L'idea di progresso nasce con la cultura moderna, tra Sei e
Settecento, e si diffonde largamente nell'epoca che va dalla
pubblicazione dell'Encyclopédie alla fine del secolo scorso. Non
sono mancati, è vero, tentativi di ritrovare una concezione del
progresso - o per lo meno sue anticipazioni - anche nel mondo
antico, più particolarmente nella cultura greca del V secolo a.C. e
poi nella cultura ellenistica; ma alla loro base vi sono indubbie
forzature o amplificazioni interpretative. Quella che si riscontra
in certe epoche dell'antichità è la consapevolezza del progresso che
le istituzioni politiche del presente comportano rispetto alle
istituzioni di un passato più o meno remoto, o del processo di
accrescimento del patrimonio tecnico reso possibile dal succedersi
di nuove invenzioni, o anche - al limite - della superiorità del
livello di vita raggiunto nel presente rispetto all'umanità
primitiva.
Ma l'inferenza da questa consapevolezza alla presenza di un'idea di
progresso, cioè dell'idea di una direzione 'positiva' del processo
storico riferita sia al passato che al futuro, non è soltanto
problematica; è semplicemente arbitraria.In primo luogo, infatti,
nel greco classico manca un termine per designare il progresso:
epídosis ha il significato (oltre che di 'elargizione' o 'offerta')
di 'crescita' o 'accrescimento', mentre prokopé, che indica il
'procedere in avanti' (al pari del verbo prokópto, da cui esso
deriva), e che Cicerone tradurrà letteralmente con progressio o
progressus, è un termine di origine ellenistica. Ma non si tratta
soltanto di assenza del veicolo linguistico. La concezione di un
progredire graduale dell'umanità da una condizione primitiva alla
vita civile si scontrava con due modelli interpretativi che la
cultura greca ereditava dal pensiero mitico o dalle cosmogonie
arcaiche: quello dell'esistenza di un'età dell'oro, di un'età di
Cronos (o, nel mondo latino, di Saturno) da cui l'umanità si era
venuta distaccando, e quello di un 'grande anno', di un ripetersi
ciclico della vicenda cosmica che coinvolgeva anche la storia umana.
Per Esiodo la storia è contrassegnata da un processo di
degenerazione definito dalla successione di quattro età - dell'oro,
dell'argento, del bronzo e del ferro - al cui termine vi è l'umanità
attuale. Questo schema sarà sovente ripreso, anche da Platone, e
troverà la sua trasposizione in termini politici nell'ottavo libro
della Repubblica, dove le diverse forme di costituzione -
aristocrazia, timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannide - si
collocano in una scala discendente, derivando l'una dall'altra in
virtù di un processo che vede l'emergere di tipi di uomini sempre
più distanti dal governo ideale dei 'filosofi'. A questo modello si
contrappone spesso la concezione - già presente in Empedocle, ma
anche nel Platone del Crizia e delle Leggi - di un 'grande anno', di
un ciclo cosmico nel quale la crescita è destinata a cedere il passo
alla senescenza, fino al momento in cui una deflagrazione universale
non porrà le premesse per l'inizio di un nuovo ciclo. Essa sarà alla
base della cosmologia stoica, e in seguito si trasmetterà alla
cultura romana dell'età imperiale, dove Virgilio le darà una
coloritura ottimistica preconizzando l'imminenza di un 'nuovo anno'.
Non di rado, poi, i due modelli coesistono nello stesso autore,
poiché l'età dell'oro viene spesso vista appunto come l'inizio del
ciclo attuale.In secondo luogo, la possibilità di interpretare la
storia come un cammino dell'umanità verso il meglio era preclusa
dalla considerazione delle sue conquiste come dono divino, o come
impresa straordinaria di 'eroi culturali' - emblematica è la figura
di Prometeo che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini, e che
perciò incorre in una pena eterna - oppure di saggi legislatori
quali Solone o Licurgo, o ancor prima i mitici re cretesi, a cui è
dovuta la fondazione o l'organizzazione delle città. Soltanto tra il
VI e il V secolo comincia a farsi strada una concezione delle
tecniche come prodotto dell'ingegno e dell'opera dell'uomo. In un
frammento spesso citato a sostegno della tesi che pretende di
rintracciare l'idea di progresso anche nel mondo greco (come ha
fatto soprattutto Ludwig Edelstein), Senofane dichiara che "non è
che da principio gli dei abbiano rivelato tutte le cose ai mortali,
ma col tempo essi cercando ritrovano il meglio".
Non c'è dubbio che la polemica senofanea segni la rottura con il
pensiero mitico e con la concezione antropomorfica della divinità di
cui esso era portatore, e quindi anche con l'affermazione
dell'origine divina delle invenzioni che hanno consentito all'uomo,
o più precisamente ai Greci, di migliorare le proprie condizioni di
vita. Ma che queste invenzioni siano il risultato di una ricerca
faticosa, e perciò anche graduale, non vuol dire ancora che si
dispongano in una sequenza 'progressiva'. Vuol dire semplicemente
che per Senofane la cultura è un prodotto umano, non diversamente
dagli ordinamenti politici della città. E in questo modo dev'essere
inteso anche il contrasto tra 'vecchio' e 'nuovo' largamente diffuso
nel corso del V secolo (documentato per esempio dalle tragedie di
Eschilo o di Sofocle), e il senso che spesso lo accompagna della
superiorità del presente rispetto al passato. Anche questo senso di
superiorità trova però non di rado un contrappeso nella
considerazione dello squilibrio tra miglioramento delle condizioni
di vita e declino morale, di uno squilibrio che richiede la
restaurazione dei costumi e, in ambito politico, il ritorno alla
costituzione originaria della città.Dal V secolo in poi lo sviluppo
scientifico e tecnologico favorirà la fiducia in un ulteriore
avanzamento della conoscenza e delle capacità degli uomini. Isocrate
attribuisce il merito di tale sviluppo all'impegno di coloro che,
insoddisfatti del presente, "hanno voluto migliorare e osato mutare
ciò che non andava bene"; Polibio e Posidonio guardano al progredire
delle singole discipline come a un processo non concluso, destinato
a proseguire; e gran parte della cultura ellenistica condivide
questa aspettativa. Ma la consapevolezza dello sviluppo scientifico
e tecnologico non si traduce mai in una visione del progresso
dell'umanità; spesso, anzi, essa coesiste con la convinzione che
questo sia destinato ad arrestarsi allorché una disciplina o una
tecnica abbia raggiunto la sua perfezione.
Significativo è il caso di Lucrezio, che nel quinto libro del De
rerum natura ha offerto un quadro del cammino degli uomini
dall'originario stato ferino alla civiltà. Lungi dall'essere
governato da un disegno provvidenziale o da una logica intrinseca,
questo cammino è frutto del caso; e pur essendosi compiuto "passo a
passo", è ormai prossimo a concludersi, poiché l'umanità è pervenuta
al suo culmine. Del resto, questo cammino non è valutato soltanto in
termini positivi: esso ha infatti condotto all'abbandono della vita
frugale e ha prodotto la ricchezza, e con questa l'ambizione al
dominio e la guerra. Per Seneca la conoscenza della natura è un
processo cumulativo che continuerà anche in futuro, in quanto la
verità non può venir colta compiutamente né dal singolo individuo né
dalla serie delle generazioni che si sono susseguite finora; ma a
esso fa riscontro il declino morale causato dal cattivo uso che
l'uomo fa dei beni che gli sono concessi dagli dei. Il cammino verso
la civiltà è quindi privo di una connotazione etica positiva. Ma
questo cammino è anche limitato nel tempo, in quanto il mondo è
destinato a essere distrutto e l'umanità a perire. Ancora una volta
la possibilità di un'interpretazione della storia in termini di
progresso è impedita dalla compresenza del modello ciclico, che
Seneca eredita dallo stoicismo.
Né l'idea del progresso appare compatibile con la visione cristiana
della storia, quale viene definita da Agostino e soprattutto da
Orosio. Il processo storico ha un inizio ma anche un termine finale:
ha avuto inizio (in conformità al racconto biblico) con la creazione
del mondo, con il peccato originale e con la cacciata dal paradiso
terrestre, e si concluderà con l'avvento del regno di Dio. Questa
prospettiva escatologica si combina con il riconoscimento di un
evento centrale, rappresentato dall'incarnazione di Cristo e dal suo
sacrificio, che riscatta l'umanità dal peso del peccato, aprendo una
possibilità di salvezza che può essere - secondo i casi - limitata
agli 'eletti' o estesa, almeno potenzialmente, a tutti gli uomini.
La vicenda storica dell'umanità si svolge secondo un piano
provvidenziale, al quale viene ricondotta anche la successione degli
imperi. La storia politica si collega in tal modo alla storia della
salvezza; ma lungi dal vedersi riconosciuto un valore autonomo,
risulta subordinata e funzionale alla realizzazione di quel piano.
In questo quadro l'Impero romano acquista un significato per la
fede, in quanto l'unificazione del mondo civile sotto il suo dominio
ha posto le premesse per la diffusione del messaggio cristiano. La
concezione della storia dell'umanità come realizzazione di un
disegno superiore non lasciava spazio al progresso, e anzi svalutava
come religiosamente irrilevante lo stesso sviluppo scientifico e
tecnologico.
2. Avanzamento del sapere e superiorità dei
'moderni'
Neppure la cultura umanistica conosce l'idea di progresso. Lo
precludeva la stessa considerazione dell'antichità come un modello
di perfezione da imitare o da emulare, e della sua cultura come un
patrimonio da recuperare dopo le 'tenebre' medievali. Ai testi
antichi è attribuito un valore esemplare; e il loro contenuto, pur
storicizzato, viene assunto come strumento di interpretazione valido
anche per il presente. Ciò spiega, tra l'altro, la recezione della
concezione ciclica che si può trovare in larga parte della
letteratura umanistica, e in particolare di quella politica. Per
Machiavelli, che sviluppa - sulla scorta di Tito Livio - la
riflessione sulla vita politica in riferimento alle vicende della
storia romana, ogni struttura politica percorre un ciclo dapprima
ascendente e poi di decadenza: così è avvenuto per Roma, così è
avvenuto per ogni altra città o per ogni altro impero. E alla
corruzione che inevitabilmente segue il successo è possibile
sottrarsi soltanto attraverso il ritorno ai principî, cioè mediante
la restaurazione dei costumi che avevano contrassegnato le origini
di un popolo. Anche in Jean Bodin, che scrive mezzo secolo dopo
avendo dinanzi agli occhi l'esperienza - estranea a Machiavelli - di
una grande monarchia nazionale come quella francese, e che respinge
la concezione di un'età dell'oro e di un graduale processo di
degenerazione dell'umanità, lo schema ciclico è ben presente: nelle
vicende degli Stati, ma anche nelle scienze, nelle lettere e nelle
arti, vi è un'alternanza continua di ascesa e di decadenza. E se nel
corso di queste vicende si può registrare un'ascesa complessiva,
dovuta al progredire delle invenzioni, nulla esclude che a essa
faccia seguito un declino futuro, com'è avvenuto con la decadenza
dell'Impero romano e il tramonto della civiltà antica.Il
riconoscimento dell'importanza delle invenzioni e delle scoperte
compiute in epoca moderna - l'invenzione della stampa, la scoperta
della polvere da sparo, e più ancora la bussola, che ha enormemente
ampliato i confini del mondo conosciuto - avrebbe però messo in
crisi, a lungo andare, la concezione ciclica; ma soprattutto avrebbe
fatto venir meno il valore esemplare attribuito alla cultura antica.
Questo passaggio è emblematicamente rappresentato da Francesco
Bacone.
Nel suo attacco frontale alla cultura antica Bacone respinge sia
Aristotele che Platone, accusati il primo di aver ridotto la
filosofia a sofistica e il secondo di averla contaminata con la
poesia e con la teologia; l'unica parte del pensiero greco che si
sottrae alla sua condanna è il pensiero presocratico, impegnato
nello studio diretto della natura. Ciò che ci è pervenuto
dell'antichità non è un patrimonio di sapere valido, ma un insieme
di relitti che si sono mantenuti alla superficie a causa della loro
leggerezza, mentre gli elementi più solidi e più consistenti
affondavano. Lungi dall'assolvere una funzione positiva, il tempo ha
quindi esercitato sul patrimonio culturale antico una selezione
negativa, conservandocene i prodotti peggiori. Ma al rifiuto della
tradizione filosofica, che coinvolge anche la cultura rinascimentale
e le scienze di cui essa è stata veicolo - l'astrologia, la magia,
l'alchimia - corrisponde, in Bacone, il richiamo a un'altra
tradizione, quella delle arti meccaniche, che si sono venute
sviluppando in virtù di una graduale accumulazione di risultati. Se
la filosofia naturale non è progredita, se le scienze fondate su di
essa si sono esaurite nelle controversie e smarrite nell'errore, le
arti meccaniche hanno proceduto da un'invenzione all'altra: nel loro
ambito si è realizzato - come suona il titolo del saggio che Bacone
ha pubblicato nel 1605 - un "avanzamento del sapere". Su questo
terreno anche il tempo assume un significato differente: esso
consente la crescita graduale della conoscenza che l'uomo acquisisce
dei processi naturali e il suo dominio sulla natura. Il sapere vero,
cioè il sapere utile all'umanità, è suscettibile di crescita, anche
se il suo progresso è stato limitato finora ad alcune epoche della
storia, a pochi secoli.
Si tratta perciò di ricostruire il sapere su nuovi fondamenti, di
realizzare quella che Bacone chiama la instauratio magna, e di
sostituire alla scoperta casuale che si è avuta in passato una
ricerca sistematica dei processi naturali, basata sull'osservazione
e sull'esperimento, che si avvalga di una logica diversa da quella
aristotelica.Che il sapere sia suscettibile di avanzamento, che
questo si sia compiuto attraverso passi successivi, che esso possa
progredire ulteriormente conseguendo risultati nuovi che si
aggiungono a quelli già realizzati in passato, è una convinzione
destinata ad affermarsi e a diffondersi largamente nel corso del
Seicento. Ma questo sapere non era più il sapere della tradizione
scolastica, e neppure un sapere costruito sulla base del recupero
del patrimonio culturale dell'antichità; né era limitato all'ambito
delle arti meccaniche, come Bacone riteneva. Il sapere capace di
avanzamento era rappresentato dalla scienza moderna, dalla ricerca
sistematica delle leggi della natura che si andava sviluppando
nell'astronomia e nella fisica, e poco dopo anche nella chimica. E
per svilupparlo non occorreva una ricostruzione ab imis, che si
contrapponesse al passato: la nuova scienza definiva i propri
procedimenti nel corso stesso della ricerca.
La concezione di un progresso dell'uomo nella conoscenza della
natura e nel controllo dei suoi processi traduceva in termini
filosofici una realtà in atto, fornendo una base alla speranza in un
futuro migliore.Ciò comportava anche l'abbandono della tesi della
superiorità della cultura antica, degli 'antichi' rispetto ai
'moderni'. Già Bacone aveva osservato che l'antichità è l'infanzia
del mondo, quasi a giustificare il giudizio negativo espresso sulla
cultura antica, e che i veri antichi sono, in realtà, i moderni, i
quali possono avvalersi di un'esperienza più lunga e quindi di un
patrimonio di conoscenze più cospicuo. Lo dimostrava non soltanto
l'insieme delle invenzioni compiute all'inizio dell'età moderna, ma
anche il confronto tra le condizioni di vita dei popoli civilizzati
d'Europa e quelle dei popoli indigeni del Nuovo Mondo. In questa
prospettiva, anzi, egli asseriva che "la verità è figlia del tempo",
e che il tempo è "l'autore di tutti gli autori". Ma Bacone non era
affatto isolato; la convinzione della superiorità dei moderni era
destinata a diffondersi rapidamente. E numerosi erano gli argomenti
addotti in suo favore. Una prima prova era offerta dalla scoperta di
nuove terre, resa possibile dalla bussola e dalle nuove tecniche di
navigazione: non a caso Bodin aveva parlato, in riferimento a essa,
dell'avvento di una "repubblica universale" che abbraccia ormai il
globo intero. Da parte sua l'astronomia, con la teoria copernicana e
la scoperta dei movimenti dei corpi celesti, mostrava la capacità
del sapere di spingersi dove l'antichità non era pervenuta, di
sostituire alla tradizionale immagine geocentrica un nuovo quadro
dell'universo.
Non soltanto il Medioevo, ma anche l'antichità si presentava ora
come un'epoca dominata dall'ignoranza e dalla vana speculazione, o
almeno come un'epoca a cui era rimasta preclusa la conoscenza sia
dell'orbe terracqueo sia dei cieli. Veniva così meno il carattere
esemplare attribuito alla cultura antica: il sapere è frutto
dell'esperienza, e l'esperienza si accresce nel corso del tempo. Se
Cartesio riprendeva, seppure in una chiave diversa da quella di
Bacone, la critica del sapere tradizionale, andando anch'egli in
cerca di una fondazione ab imis, Pascal ricorreva al paragone tra la
vita del singolo e lo sviluppo del genere umano: come l'individuo si
istruisce incessantemente nel corso degli anni, così il genere umano
è impegnato in un "progresso continuo". Ma, a differenza
dell'individuo, il genere umano non soggiace all'invecchiamento; la
sua maturità è destinata a durare senza limite. O magari, quando gli
si attribuisce una vecchiaia, questa è vista come il culmine
dell'esperienza, e quindi del sapere.Il confronto tra antichi e
moderni volgeva perciò in favore di questi ultimi. E il momento
decisivo di tale confronto veniva a fine Seicento, nel corso della
querelle des anciens et des modernes: una disputa nata in sede non
scientifica ma letteraria, che però assunse ben presto un
significato più vasto. Già Alessandro Tassoni, nel 1620, aveva
sviluppato il confronto sul terreno della poesia, contrapponendo la
Gerusalemme liberata ai poemi omerici. E sul finire del secolo
Charles Perrault tracciava un Parallèle des anciens et des modernes,
affermando che, se la poesia moderna non è inferiore a quella degli
autori greci e romani, la scienza (e la stessa filosofia) ha fatto
grandi passi avanti in virtù di un processo di estensione dei suoi
confini; e di ciò attribuiva la causa al tempo, "il cui effetto
ordinario è di perfezionare le arti e le scienze".
Anche Perrault si avvaleva dell'analogia tra vita individuale e
sviluppo dell'umanità, e considerava i moderni - secondo
un'espressione che risale a Bernardo di Chartres - come "nani sulle
spalle di giganti". Può darsi benissimo che il genio degli antichi
sia stato maggiore di quello dei moderni; ma i moderni hanno potuto,
utilizzando i risultati conseguiti dall'antichità, sollevarsi al di
sopra di essa.Anche l'assunzione di una maggiore misura di capacità
concessa agli antichi era però destinata a essere ben presto
respinta, ad opera di Bernard de Fontenelle; e ciò in base a un
principio scientifico, quello della costanza dell'ordine della
natura, da lui esteso al mondo storico. Non diversamente dagli altri
processi naturali, anche la vita dell'umanità è governata da leggi
immutabili; e ciò induce a ritenere che la proporzione di geni nati
nelle diverse epoche sia sostanzialmente la stessa. Come Fontenelle
si esprime nella Digression sur les anciens et les modernes (1688),
"la natura non ha certamente formato Platone, Demostene e Omero con
un'argilla più fine né meglio preparata di quella con cui ha formato
i nostri filosofi, i nostri poeti": gli uomini di oggi non possono
quindi essere inferiori o peggiori rispetto agli uomini del passato.
Tra antichi e moderni vi è un'eguaglianza di natura, una
equidistribuzione di capacità.
E perciò le differenze devono avere origine da altre cause, in
particolare dal tempo. Ciò vuol dire che il succedersi delle
generazioni reca con sé un accrescimento continuo del sapere. Se nel
campo dell'eloquenza e della poesia gli antichi possono essere, al
massimo, eguagliati, ma non superati, nella scienza e nella
filosofia i moderni hanno compiuto invece enormi passi in avanti.
L'uomo moderno ha fatto proprio l'intero patrimonio di sapere delle
epoche precedenti; il suo ingegno "è, per così dire, composto da
tutti gli ingegni dei secoli precedenti". Né a questo processo si
può imporre un termine: dal momento che il genere umano conosce sì
delle età analoghe a quelle del singolo individuo, ma ignora la
vecchiaia, il suo progresso viene a configurarsi come un progresso
indefinito. Alla consapevolezza della superiorità dei moderni
rispetto agli antichi si affiancava così la fiducia in un cammino
ulteriore, al quale la natura non ha fissato alcun limite.
3. Perfettibilità dell'uomo e progresso dello
spirito umano
Il presupposto dell'immutabilità della natura umana, da cui
Fontenelle aveva preso le mosse per dimostrare la superiorità dei
moderni, sarà ben presto lasciato cadere. Lungi dal rimanere sempre
la stessa, la natura umana è intrinsecamente perfettibile; in ciò
risiede la sua specificità rispetto alla natura degli altri esseri.
Certamente, anche l'umanità e le sue vicende sottostanno alle leggi
generali della natura; si escludeva, anzi, la possibilità di
interventi soprannaturali o di un governo provvidenziale della
storia. Ma in luogo di essere ricondotto alla costanza dell'ordine
naturale, come aveva fatto Fontenelle, il perfezionamento dell'uomo
e delle sue condizioni di vita veniva ora ancorato a questa
caratteristica peculiare della natura umana, alla sua
perfettibilità. In tal modo il progresso non designava più soltanto
l'avanzamento del sapere; esso abbracciava anche i costumi dei
popoli e, in seguito, abbraccerà pure le istituzioni politiche e la
vita economica.Questo passaggio si è compiuto verso la metà del
XVIII secolo, soprattutto ad opera di Voltaire. Esso appare
strettamente connesso con l'affermarsi di una concezione della
storia imperniata sulla successione di tre epoche o condizioni di
vita dell'umanità: lo stato selvaggio, la barbarie e la civiltà.
L'antitesi tra popoli barbari e popoli civili era di lunga data, e
risaliva addirittura alla cultura greca; mentre l'introduzione di un
livello di esistenza anteriore alla stessa barbarie era, in larga
misura, il risultato dell'incontro con le popolazioni indigene del
Nuovo Mondo.
Così la tripartizione della vita dell'umanità in tre momenti si era
venuta diffondendo a partire dal Cinquecento, e veniva ora a offrire
uno schema concettuale all'idea di progresso. Ogni popolo -
sottolinea Voltaire nel saggio Philosophie de l'histoire (1765) -
procede da un'esistenza in piccole società che traggono il loro
sostentamento dalla caccia e dalla raccolta di frutti e di radici,
come i "selvaggi americani" dei quali Joseph-François Lafitau aveva
descritto i costumi in un libro apparso nel 1624, verso
un'organizzazione sociale di ampie dimensioni, regolata da leggi. Si
tratta di uno sviluppo quanto mai lento, che richiede molto tempo e
anche condizioni climatiche favorevoli, e che mette capo a una
crescente differenziazione tra i diversi popoli. Così lo sviluppo
dell'umanità può essere complessivamente caratterizzato come un
progresso che dallo stato selvaggio conduce alla barbarie, e da
questa alla civiltà. Ma la civiltà non rappresenta affatto una
condizione statica; una volta pervenuta ad essa l'umanità è
destinata a perfezionarsi ulteriormente, cioè a perfezionare i suoi
costumi. È bensì vero che la Cina, dopo esser giunta per prima "a
conoscere e a praticare tutto ciò che è utile alla società", dopo
aver dato vita alle scienze e aver posto le basi di una religione
che è la più vicina alla religione naturale, si è arrestata nel suo
sviluppo; ma la società europea si mostra in grado, dopo i lunghi
secoli della barbarie medievale, di perfezionarsi ulteriormente. A
tale scopo occorre eliminare gli ostacoli frapposti al progresso
dalle guerre e dalla religione, causa di superstizione, di fanatismo
e d'intolleranza; occorre sostituire ai culti che dividono il genere
umano una morale su base naturale, e una religione fondata sul
riconoscimento dell'esistenza di un essere supremo e
dell'immortalità dell'anima, incentrata sull'insegnamento della
virtù. Da questa prospettiva deriva, nell'Essai sur les moeurs et
l'esprit des nations (1756), la valutazione negativa del ruolo del
cristianesimo: nell'antichità esso è stato, insieme alle invasioni
barbariche, un fattore di rovina dell'Impero romano - secondo uno
schema interpretativo che sarà ripreso vent'anni dopo da Edward
Gibbon nella History of the decline and fall of the Roman empire
(1776-1788) -, mentre in seguito le dispute religiose a cui ha dato
luogo hanno alimentato le divisioni e le lotte tra i popoli. I
secoli in cui esso è prevalso, i secoli del Medioevo fino al momento
della ripresa della vita cittadina, hanno rappresentato, per la
società europea, un'epoca di interruzione del progresso, anzi
un'epoca di ricaduta nella barbarie.Così per Voltaire il progresso
era ben lontano dal costituire un processo ininterrotto, privo di
soluzione di continuità. Ma proprio su questo punto l'idea di
progresso era oggetto di interpretazioni contrastanti.
Se la maggior parte dei philosophes, soprattutto quelli più
impegnati nell'azione riformatrice e nella diffusione dei 'lumi',
condivideva la cautela di Voltaire, un altro filone tendeva a
concepire il progresso come un processo continuo, sia nel passato
sia soprattutto nel futuro. Già nel 1737 l'abate Castel de
Saint-Pierre aveva parlato di un "progresso continuo della ragione
universale", destinato ad approdare a una confederazione tra gli
Stati europei e alla realizzazione della pace perpetua; ma questa
fiducia era pur sempre limitata dalla constatazione dello scarto tra
la rapidità del progresso dei costumi e del sapere e la lentezza del
miglioramento compiuto in ambito morale e politico. All'inizio degli
anni cinquanta Turgot, il futuro esponente del movimento
fisiocratico e ministro di Luigi XVI, presentava un quadro della
storia europea alquanto diverso da quello che, pochi anni dopo, ne
avrebbe dato Voltaire: il Medioevo ha rappresentato sì, nel suo
insieme, un passo indietro rispetto all'antichità, ma nel corso di
esso la religione cristiana è riuscita a civilizzare popoli prima
barbari, e quindi a porre le premesse per un'estensione dell'ambito
geografico della civiltà. Ma, soprattutto, esso ha visto un
progresso continuo, sebbene lento, delle arti meccaniche: anche
quando lo sviluppo delle scienze e delle arti si è arrestato, queste
hanno continuato ad arricchirsi di nuove invenzioni, di nuovi
strumenti. Se è vero che progressi e decadenze si alternano, il
cammino del genere umano è destinato ogni volta a riprendere; e le
arti meccaniche sono una specie di tessuto connettivo che
garantisce, alla distanza, tale ripresa.Il problema della continuità
o discontinuità del progresso si intrecciava, in realtà, con quello
dei suoi ambiti, cioè del diverso 'ritmo' del progresso nelle arti e
nella poesia, nelle scienze e nelle tecniche, nei costumi, nella
politica, nell'economia. A un'analisi più ravvicinata, sulla base di
un'informazione storica sempre più ampia, lo sviluppo dell'umanità
non poteva più esser considerato come un processo uniforme non
soltanto tra i diversi popoli, ma neppure all'interno di uno stesso
popolo.
Tra questi diversi ambiti quello delle arti e della poesia si
presentava come il meno suscettibile di un ulteriore perfezionamento
rispetto all'antichità, anzi come il più refrattario alla
possibilità di individuare una linea di sviluppo: già per Perrault e
Fontenelle gli antichi potevano sì venir eguagliati ma non superati,
e Turgot ne condivideva il giudizio. Lo stesso Voltaire,
individuando nel Siècle de Louis XIV (1751) "le quattro età felici
che hanno conosciuto la perfezione delle arti", le poneva sotto tale
aspetto sul medesimo piano. Diverso era invece il caso della
filosofia e delle scienze, dove la superiorità dell'ultima di queste
età, il secolo di Luigi XIV, gli appariva ben netta, anche se essa
si era manifestata non tanto nella cultura francese quanto al di là
della Manica. Analogamente, anche Turgot riteneva che il progresso
del sapere fosse - al pari di quello delle arti meccaniche - privo
di limiti, essendo inesauribile la natura che ne costituisce
l'oggetto. E al miglioramento delle scienze e delle tecniche si
collegava strettamente, in quanto sua conseguenza, il progredire dei
costumi, della politesse o delle 'maniere' proprie della società di
corte o dei ceti nobiliari, ma suscettibili di diffondersi ad altri
strati sociali.Posteriore, e sovente formulato in maniera
problematica, sarà il riconoscimento del progresso in ambito
politico o economico. Nell'Esprit des lois (1748) Montesquieu aveva
contrapposto la libertà dei governi moderati dell'Europa al
dispotismo asiatico, connotando quindi la libertà in termini
geografici; ma l'idea di progresso gli era del tutto estranea.
Proprio richiamandosi a quell'antitesi si poteva tuttavia
introdurre, tra le diverse forme di governo, un ordine sequenziale,
e scorgere nel passaggio dal dispotismo alla libertà la direzione
del loro sviluppo.
Così Turgot collegava il dispotismo - da lui considerato, come da
Montesquieu, la forma di governo propria dei grandi imperi asiatici
- alla barbarie, e i governi moderati alla civiltà. Del resto, anche
per Voltaire l'organizzazione politica più primitiva era
rappresentata dalla teocrazia, cioè dal dominio del ceto
sacerdotale; in seguito teocrazia e dispotismo saranno attribuiti ai
popoli non ancora pervenuti al livello dell'esistenza civile, spesso
postulando - come faceva Nicolas-Antoine Boulanger nelle Recherches
sur l'origine du despotisme oriental (1761) - la derivazione del
dispotismo dalla teocrazia, considerata come la forma originaria di
dominio. Questo collegamento si compiva soprattutto nella cultura
inglese e scozzese della seconda metà del Settecento, nella quale il
progresso delle scienze e delle tecniche è ormai universalmente
riconosciuto, mentre l'attenzione si portava appunto sul progresso
politico ed economico, o più precisamente socioeconomico. In realtà,
già Turgot aveva parlato della successione di popoli cacciatori,
popoli pastori e popoli agricoltori, correlando il nomadismo dei
secondi con il dispotismo asiatico e, indirettamente, con la
barbarie. Nell'Essay on the history of civil society (1767) Adam
Ferguson accoglieva la tripartizione dello sviluppo dell'umanità in
stato selvaggio, barbarie e civiltà, presentandolo non soltanto come
passaggio da un'esistenza in piccoli gruppi a un'organizzazione
sociale complessa, ma anche e soprattutto in termini di crescente
divisione del lavoro.
Lo stato selvaggio conosce solamente il lavoro in comune di tutti i
membri del gruppo sociale, in vista del procacciamento delle risorse
alimentari necessarie; la barbarie comporta la nascita della
proprietà privata, ancorché non garantita né regolata da leggi, e
con essa una differenziazione all'interno della società - in
particolare, una distinzione tra 'liberi' e schiavi - che si
accompagna all'affermarsi della divisione del lavoro; la società
civile è caratterizzata da una divisione in classi che si accompagna
alla progressiva divisione del lavoro. Lo sbocco di questo processo
è una società differenziata al suo interno, in cui ogni individuo
appartiene a un 'rango', cioè ha un posto nella gerarchia sociale
determinato dai beni che possiede. Il progresso coincide perciò con
la formazione della società civile, di una società fondata sul
riconoscimento giuridico della proprietà privata e su un governo
libero, che consenta il soddisfacimento dei bisogni individuali: se
nell'epoca della barbarie l'individuo è subordinato alla società, la
società civile è invece organizzata in funzione degli individui.
Come poi anche in Adam Smith, divisione del lavoro e affermazione
della libertà politica si presentano come processi concomitanti e
collegati tra loro.Ma il problema della continuità o discontinuità
del progresso ne richiamava anche un altro: quello del fine del
progresso, in senso sia teleologico che temporale. E sovente la
soluzione che ne veniva offerta non era priva di ambiguità. Per
l'abate Castel de Saint-Pierre il progresso della ragione era sì
continuo, ma comportava pur sempre una meta: la pace perpetua. In
generale, dove l'accento era posto sullo sviluppo delle scienze e
delle tecniche, o anche dei costumi, si tendeva a concepire il
progresso come indefinito, non suscettibile di un limite; quando
invece veniva in primo piano la dimensione politica, allora emergeva
anche un termine finale, additato in un governo libero o nella
stessa società civile, che però doveva consentire - in virtù della
divisione del lavoro - una crescita ulteriore dei beni prodotti e
quindi un miglioramento delle condizioni di vita. Sarà Condorcet,
sul finire del secolo, ad affrontare il problema nell'Esquisse d'un
tableau historique des progrès de l'esprit humain (1793).
Più che allo sviluppo passato, realizzatosi con ritmo via via più
accelerato nel corso delle prime nove epoche della storia, egli
guardava al futuro, alla decima epoca, per determinarne le tendenze.
Consapevole dei limiti attuali del processo di incivilimento, del
fatto che intere classi sociali e interi popoli sono tuttora esclusi
dall'ambito di influenza dei 'lumi', Condorcet indicava la direzione
del progresso futuro dell'umanità nella distruzione della
diseguaglianza tra le nazioni e anche all'interno di uno stesso
popolo, cioè nell'estensione dei 'lumi' a tutti i popoli e a tutte
le classi sociali; ma affermava anche la possibilità di un
perfezionamento della stessa natura umana, sia per quanto riguarda
le condizioni esterne - dal miglioramento della salute al
prolungamento della durata della vita - sia per quanto concerne le
capacità intellettuali e la sensibilità morale dell'uomo. Il
progresso dell'umanità si presenta come indefinito; o, se di un
limite si può parlare, questo coincide con "la durata del pianeta su
cui la natura ci ha collocati". Esso appare ormai inarrestabile, e
destinato a prevalere sulle forze che, nei secoli passati, si sono
contrapposte ad esso.
4. Le utopie del progresso
L'idea di progresso, quale si configura nel XVIII secolo,
riveste indubbiamente una carica utopica: essa esprime non soltanto
la consapevolezza del cammino compiuto da un certo popolo, o
dall'umanità nel suo insieme, e del perfezionamento che si era
realizzato nel corso di esso, ma anche la fiducia nella possibilità
di un perfezionamento ulteriore. Ma le utopie del progresso
segnavano, nello stesso tempo, un netto distacco dalle utopie
tradizionali, e in particolare da quelle formulate all'inizio
dell'età moderna. Nell'opera di Thomas More che ha dato il nome a
questo fortunato genere letterario l'utopia era infatti la
descrizione di una società immaginaria, più o meno alternativa a
quella esistente, collocata in uno spazio immaginario: non a caso lo
stesso termine 'utopia' esprime intenzionalmente l'ambivalenza tra
eutópos (luogo felice) e ou-tópos (nessun luogo), quasi a
sottolinearne l'irrealtà, il carattere puramente immaginario. E la
stessa cosa vale per la Città del Sole di Campanella o la New
Atlantis di Bacone, nonostante il rilievo del tutto nuovo che in
quest'ultima assume il processo di invenzione e di produzione. La
società ideale, che viene contrapposta a quella esistente per
poterla criticare, si situa in un luogo immaginario, ma è priva di
una dimensione temporale: essa esiste in un presente che non è meno
irreale del paese che Raphael Hythloday incontra dopo il naufragio
della sua nave.
A partire dalla metà del Settecento gli autori di utopie tendono a
cambiare la collocazione della società ideale: essi la pongono non
più in uno spazio immaginario, in un'isola al di fuori delle rotte
consuete o in una terra sconosciuta al resto del mondo civilizzato,
come l'impero dei Sevarambi di Denis Veiras, o ancora negli "imperi
della luna" e negli "imperi del sole" di Cyrano de Bergérac, ma in
un tempo differente dal presente. E questo tempo è di solito - a
differenza dell'antica Atlantide, quella di cui parla Platone nel
Crizia - non il passato, ma il futuro. Questo è il caso, per
esempio, de L'an 2440 di Louis-Sébastien Mercier (1770), ma anche di
numerose utopie posteriori, che al viaggio nello spazio affiancano o
sostituiscono quello nel tempo. Nel fortunato romanzo di Mercier la
società ideale è infatti collocata non in un luogo lontano, bensì
nella stessa Parigi, ma in una Parigi futura, quale si presenterà
trasformata a quasi settecento anni di distanza.Accanto al mutamento
di collocazione - nel tempo anziché nello spazio, in un futuro
immaginario anziché in un passato altrettanto fittizio - l'utopia
subiva un'altra trasformazione, ancor più importante: diventava
un'utopia realizzabile. La società ideale manteneva il significato
di un modello alternativo rispetto alla società reale in cui
l'autore si trovava a vivere; ma il solco tra i due termini veniva
meno, o tendeva ad attenuarsi. La società ideale si presentava
infatti come il termine ad quem di un processo che la società reale
è destinata a compiere in un tempo più o meno lungo.
L'utopia cessava di costituire la descrizione di una società
immaginaria per indicare la direzione di uno sviluppo destinato a
metter capo, se non alla società perfetta, certamente a una società
più perfetta di quella esistente. Tra la realtà e la società ideale
non c'è più una frattura temporale, bensì un rapporto di continuità.
La Parigi del futuro, quale la raffigura Mercier, è il risultato di
un processo che muove dal presente, di un processo di diffusione dei
'lumi' che conduce gradualmente all'instaurazione della libertà e
dell'eguaglianza, all'eliminazione della povertà, al miglioramento
delle condizioni sanitarie e della salute dei cittadini. Tra il
presente e il futuro immaginario c'è, in altri termini, un rapporto
di continuità: entrambi sono momenti successivi di una medesima
storia.Ma l'utopia non si limitava a esprimersi in veste romanzesca;
essa assumeva sovente, a partire da Castel de Saint-Pierre, la forma
del progetto legislativo. Dopo l'età del bronzo e quella
dell'argento l'umanità sta entrando nell'età dell'oro, in un 'secolo
illuminato' che ha le sue condizioni nell'incremento del commercio e
dell'industria, nello sviluppo delle scienze, nell'invenzione della
stampa e nella diffusione dell'educazione; ma perché quell'età si
realizzi compiutamente occorre portare il progresso anche sul piano
politico. L'"alleanza perpetua" tra gli Stati cristiani vagheggiata
da Saint-Pierre deve porre appunto le premesse per la pace
universale, che costituisce lo scopo ultimo - realizzabile - dello
sviluppo dell'umanità. Utopia e prospettive riformatrici
s'intrecciano strettamente nella cultura illuministica, e lo
spartiacque che le separa è spesso difficile da percepire. Se le
prospettive riformatrici sono di preferenza legate all'idea di un
dispotismo illuminato, incarnato in un principe saggio impegnato
nella diffusione dei 'lumi' (sia egli Federico II o la grande
Caterina), l'utopia tende a farsi portatrice di prospettive più
radicali, per approdare verso fine secolo a esiti esplicitamente
rivoluzionari.
Emblematico è il caso del Testament de Jean Meslier, composto
probabilmente tra il secondo e il terzo decennio del Settecento, e
pubblicato in estratto da Voltaire nel 1762; e non meno
significativi sono gli scritti di autori come dom Deschamps o
Morelly, in cui l'utopia sfocia nella critica della proprietà e
nella denuncia del carattere menzognero della religione, assorbendo
anche motivi di origine rousseauiana. Alla base di queste
prospettive vi è però sempre il presupposto della perfettibilità
della natura umana, e della tendenza dell'umanità verso il proprio
perfezionamento. Lo si ritrova ancora nello scritto kantiano Zum
ewigen Frieden, pubblicato nel 1795, in piena Rivoluzione. Kant
indicava le condizioni per l'instaurazione della pace perpetua nella
realizzazione di una costituzione repubblicana, l'unica conforme al
contratto originario su cui deve fondarsi la società, e di una
federazione di popoli organizzati in Stati liberi. Egli riprendeva
dall'Esprit des lois l'antitesi tra governi moderati e dispotismo,
riconducendo i primi al governo repubblicano, contrassegnato dalla
forma rappresentativa e dalla separazione tra potere legislativo e
potere esecutivo; ma lungi dall'identificarlo con la democrazia,
denunciava l'inevitabile tendenza di quest'ultima al dispotismo. E
su questo richiamo a Montesquieu egli innestava la visione di una
cooperazione di popoli riuniti in una confederazione pacifica,
rivolta ad assicurare la libertà degli Stati che la compongono. Così
intesa, la pace perpetua si presentava anch'essa come un'utopia
realizzabile, che trovava la sua garanzia, se non in un disegno
provvidenziale, certo in un disegno della natura che si avvale delle
inclinazioni egoistiche dell'uomo per costringerlo a una convivenza
regolata da leggi, e dello stesso spirito commerciale per promuovere
relazioni pacifiche tra i popoli.
Alla domanda "se il genere umano sia in costante progresso verso il
meglio" (che dà il titolo a uno scritto del 1798) Kant forniva
quindi una risposta positiva, anche se formulata in termini
problematici, collegando il progresso alla tendenza morale della
specie umana e indicando nella Rivoluzione francese l'evento epocale
che ne aveva mostrato l'esistenza.In Kant, come del resto anche in
Condorcet, il progresso non si presentava come un processo
necessario. Kant gli attribuiva soprattutto un significato
regolativo, mentre Condorcet riteneva che il progresso fosse capace
di autoconsolidamento, e che ogni passo in avanti compiuto
dall'umanità potesse diventare fattore di ulteriore progresso; la
sua visione della decima epoca si presenta, nella sostanza, come una
previsione scientifica, fondata sull'estrapolazione di tendenze di
sviluppo osservabili nel presente. L'affermazione della necessità
del progresso sarà fatta valere più tardi, quando l'utopia verrà a
configurarsi come lo stato definitivo dell'umanità, e la storia
dell'umanità sarà interpretata come un processo destinato a sfociare
in esso. Di questo genere saranno le teorie che vedono nella società
industriale il punto di arrivo dello sviluppo dell'umanità, ma anche
le teorie che preconizzano l'avvento di una società fondata sulla
soppressione della proprietà privata e sull'eguaglianza tra gli
uomini.
5. Il progresso come legge di sviluppo
dell'umanità e della realtà
All'indomani della caduta di Napoleone, Saint-Simon formulava
un programma di riorganizzazione della società europea, che trovava
la propria base in una concezione del suo sviluppo articolato in tre
epoche - un'epoca di 'organizzazione' coincidente con il dominio
incontrastato della fede cristiana nel Medioevo, un'epoca di
'disorganizzazione' culminante nella Rivoluzione, e infine un'epoca
in cui la società si sarebbe 'riorganizzata' in un nuovo sistema
sociale. Saint-Simon non guardava al cammino dell'umanità
considerata nel suo insieme, ma modellava la sua visione della
storia sullo sviluppo europeo. Alla tradizionale successione di
stato selvaggio, barbarie e civiltà egli sostituiva la
contrapposizione tra vecchio e nuovo sistema sociale, introducendo
come momento di trapasso dall'uno all'altro un sistema 'intermedio'
o 'transitorio' a cui veniva attribuita più una funzione
dissolutrice nei confronti del primo che non un ruolo preparatorio
nei confronti del secondo. Il vecchio sistema sociale, avente come
fine la conquista, era connotato come un sistema teologico sotto
l'aspetto spirituale e come un sistema feudale sotto quello
temporale, mentre il nuovo sistema orientato verso la produzione -
che stava sorgendo dopo il periodo rivoluzionario - sarebbe stato
fondato per un verso sul sapere positivo, per l'altro verso
sull'industria.
Pochi anni dopo, nel Prospectus des travaux scientifiques
nécessaires pour réorganiser la société (1822) e poi nel Cours de
philosophie positive (1830-1842), Auguste Comte generalizzerà lo
schema interpretativo di Saint-Simon enunciando la legge dei tre
stati: lo stato teologico o "fittizio", lo stato metafisico o
"astratto" e infine lo stato scientifico o "positivo". A ognuno di
questi stati corrisponde, secondo Comte, un diverso tipo di
spiegazione dei fatti, e quindi una diversa forma di sapere, ma
anche un diverso sistema sociale.Lo sviluppo del sapere si
presentava quindi non tanto come un processo di accumulazione,
quanto come una successione di momenti eterogenei, contrassegnati
rispettivamente dal ricorso a esseri soprannaturali o a 'forze'
astratte o a leggi generali come base del procedimento esplicativo.
Analogamente, anche lo sviluppo della società veniva ad articolarsi
in una successione di sistemi che trovavano il loro fondamento in un
insieme organizzato di credenze; cosicché il passaggio dal vecchio
al nuovo sistema sociale veniva fatto coincidere con il passaggio da
un sapere fittizio al sapere positivo. In questo quadro la società
industriale, fondata su quest'ultimo, diventava la forma definitiva
di organizzazione della società: una forma suscettibile sì di essere
perfezionata, ma soltanto in virtù del 'completamento' dell'edificio
del sapere positivo e dell'instaurazione di un'autorità morale
fondata su di esso, e quindi riconosciuta da tutti. Nella società
industriale il progresso si salderà con l'ordine, realizzando
l'indispensabile sintesi tra l'ordine statico della "dottrina dei
re", su cui poggiava il vecchio sistema, e il progresso dissolutore
della "dottrina dei popoli", che aveva ispirato l'ideologia del
sistema transitorio e la sua pretesa di una illimitata libertà di
coscienza.La concezione positivistica del progresso si distaccava
perciò da quella illuministica, proponendo un ideale sociocratico
destinato a realizzarsi in una società resa definitiva dal carattere
incontrovertibile del sapere positivo.
Ma anche le utopie socialistiche formulate nei primi decenni del
secolo contrapponevano al presente, alle diseguaglianze sociali rese
più acute dall'industrializzazione incipiente, una società armonica
realizzabile attraverso il superamento della civiltà e la
soppressione della proprietà privata. Così François-Marie-Charles
Fourier - in una fantasiosa costruzione che pur pretendeva di
fondarsi su una "meccanica sociale" - pronosticava, nella Théorie
des quatre mouvements et des destinées générales (1808), l'avvento
di una società fondata non sulla repressione ma sul soddisfacimento
delle passioni, che dovrà procedere al di là della civiltà e in cui
gli uomini si uniranno tra loro non più sulla base della struttura
familiare ma sulla base di "sette". Da ciò la visione, delineata nel
Nouveau monde industriel et sociétaire (1829) con ossessiva
preoccupazione dei dettagli, di un'organizzazione economica per
"falangi" e "falansteri", a cui farà riscontro un nuovo sistema di
relazioni amorose, fondato non più sul matrimonio monogamico ma
sulla "corporazione amorosa". Anche il movimento saint-simoniano,
richiamandosi all'ultimo periodo della produzione del maestro, in
particolare al Nouveau Christianisme (1825), riteneva che lo
sviluppo dell'umanità dovesse condurre a una nuova epoca organica
che recuperasse l'insegnamento morale cristiano e realizzasse
l'"associazione universale", la pacifica convivenza di tutti gli
uomini e di tutti i popoli. E Pierre-Joseph Proudhon, collegandosi a
Babeuf e a Buonarroti, raffigurava la società futura come la sintesi
tra la comunità e la proprietà, come un terzo tipo di organizzazione
sociale che doveva coniugare eguaglianza e anarchia, consentendo la
partecipazione di tutti alla formazione della volontà generale.
Il progresso acquistava così un carattere di necessità; diventava,
in altri termini, la legge di sviluppo generale della storia, una
legge scientificamente dimostrabile sulla base del corso finora
compiuto dall'umanità, o per lo meno dall'umanità europea. Ma esso
veniva caratterizzato anche da un termine ultimo, da uno stato
definitivo di organizzazione sociale di cui la storia intera
rappresenta la preparazione. Questa stessa nozione si ritrova, per
quanto formulata in termini assai diversi, nell'opera di Marx. Lo
sviluppo dell'umanità si realizza attraverso una successione di
formazioni economiche della società che sono qualitativamente
diverse, in quanto contrassegnate da un diverso tipo di rapporti di
produzione e da un diverso tipo di proprietà, anche se il loro
motore è costituito dal processo della divisione del lavoro; e
ognuna di tali formazioni nasce dalla dissoluzione e dal superamento
di quella che la precede. Questo processo ha anche un termine.
Trasferendo nel futuro il carattere organico che Saint-Simon e Comte
avevano attribuito alla nascente società industriale, Marx indicava
infatti nella società senza classi, prodotto dell'inevitabile crollo
del capitalismo, la fine della storia dell'umanità o - per meglio
dire - il suo passaggio dalla preistoria alla storia. E in questa
società scorgeva la liberazione dell'uomo dall'alienazione, il
recupero dell'essenza umana.
Al pari che in Fourier ma anche negli esponenti del socialismo
utopistico da lui aspramente criticati, lo stato ultimo dello
sviluppo dell'umanità veniva a coincidere con la realizzazione della
natura dell'uomo.L'interpretazione della storia dell'umanità in
termini di progresso necessario accomunava infatti posizioni per il
resto assai distanti tra loro. Ad essa dava un sostegno decisivo la
concezione dello sviluppo storico come sviluppo dialettico, che Marx
ereditava da Hegel. E proprio la visione hegeliana della "storia
universale", delineata nelle Grundlinien der Philosophie des Rechts
(1821) ed esposta in maniera più articolata nelle lezioni berlinesi,
offriva un esempio emblematico di tale interpretazione. È bensì vero
che Hegel preferiva parlare di sviluppo anziché di 'progresso'; ma
tale sviluppo si configurava come la realizzazione dello "spirito
del mondo" in una successione di "spiriti dei popoli", ognuno dei
quali rappresentava un grado più alto rispetto al precedente. In
questa maniera la storia universale si presentava come l'attuazione
di un piano provvidenziale, come il "progresso nella coscienza della
libertà"; e la coscienza della libertà diventava lo scopo finale
dello sviluppo dello "spirito del mondo". In tale maniera le diverse
epoche della storia - geograficamente determinate dal procedere da
oriente a occidente - erano contrassegnate dal costante progredire
di tale coscienza: se il mondo orientale, in cui lo spirito rimane
ancora legato alla natura, conosce la libertà di uno solo, del
signore, se il mondo greco e il mondo romano pervengono alla
coscienza della libertà ma limitandola ad alcuni, ai liberi
contrapposti agli schiavi, il mondo germanico sorto dal
cristianesimo perviene a riconoscere nella libertà l'attributo
costitutivo dell'uomo in quanto uomo.
E proprio la realizzazione di questa libertà in forme istituzionali,
cioè nella forma dello Stato moderno, segna il culmine del processo
storico, ancorché Hegel non escluda il successivo trasmigrare dello
spirito nel "mondo del futuro", nell'ancora immaturo continente
americano.Ma lo "spirito del mondo" di cui Hegel parla non è altro
che lo spirito stesso, considerato nella sua determinatezza spaziale
e temporale; e questo spirito è l'idea ritornata a sé, dopo essersi
estraniata nella natura. Il movimento dialettico che costituisce il
processo storico è quindi lo stesso movimento che sta a base
dell'intera realtà, e che produce il passaggio dalle sue
determinazioni puramente logiche alle determinazioni proprie della
natura e dello spirito.
Lo sviluppo storico, pur essendo un processo peculiare della storia
dell'umanità, ha perciò la propria base nella struttura
logico-metafisica della realtà, e ne costituisce una specificazione.
Esso si pone infatti in un rapporto di continuità con i momenti
precedenti dello sviluppo della realtà; ne costituisce, per così
dire, la prosecuzione anche se in forma nuova. Alla versione
idealistica di questa impostazione, che Hegel ha in comune con
Schelling e con gran parte della cultura romantica, fanno riscontro
altre versioni, formulate su altra base. La prima è la versione
materialistica di Friedrich Engels, che nella dialettica della
natura vede la premessa indispensabile dello sviluppo storico.
Un'altra è la versione formulata sulla base della teoria
dell'evoluzione e della ricerca di una legge generale
dell'evoluzione, che Herbert Spencer ha elaborato a partire dagli
anni cinquanta del secolo scorso, prima ancora della pubblicazione
della darwiniana Origin of species, e che ha avuto larga risonanza
nella cultura ottocentesca.
Per Spencer l'evoluzione è mutamento dall'omogeneo all'eterogeneo, e
in quanto tale comporta una crescente differenziazione ma anche una
corrispondente combinazione e integrazione tra le parti componenti.
Questo mutamento è comune al mondo inorganico, a quello organico e a
quello superorganico, cioè alla società; lo si può riscontrare,
anche se con modalità diverse, nella formazione del sistema solare o
nello sviluppo dell'organismo o ancora nello sviluppo del corpo
sociale. L'evoluzione è quindi riconducibile a una legge comune; ma
l'evoluzione superorganica presenta anche caratteristiche
specifiche, differenti da quelle delle fasi che la precedono. Sia
nel progredire complessivo dell'umanità sia nel progresso di una
singola tribù o nazione l'organizzazione diventa più complessa, le
strutture e le funzioni del corpo sociale si differenziano tra loro,
e ognuna acquista una fisionomia sempre più definita. Se in ciò
l'evoluzione superorganica prosegue i processi in atto
nell'evoluzione precedente, tra l'organismo biologico e l'organismo
sociale sussiste tuttavia una differenza fondamentale: il primo è
infatti un "tutto concreto", le cui parti sono tra loro fisicamente
unite, mentre il secondo è un "tutto discreto", le cui parti sono
non soltanto separate ma anche, in qualche misura, libere l'una
dall'altra. Ciò mette capo non soltanto a una pluralità di sistemi
indipendenti sebbene reciprocamente coordinati, ma anche a una
successione di forme di società sempre più complesse che però
concedono all'individuo un margine crescente di autonomia e di
libertà. In questo quadro Spencer poteva riformulare la distinzione
comtiana tra l'antico e il nuovo sistema sociale nella successione
tra tipo militare e tipo industriale di società, fondati
rispettivamente sulla cooperazione forzata e sulla cooperazione
volontaria, e farne due momenti del processo evolutivo destinati a
cedere il posto, in futuro, a un terzo tipo di società, nel quale la
vita sociale non sarà più subordinata alla produzione ma questa sarà
posta al servizio degli individui.La necessità del progresso trovava
così, in Spencer non meno che in Hegel (e nell'ultimo Engels), il
proprio fondamento in una visione dinamica dell'intera realtà.
La storia dell'umanità - sia essa concepita come il cammino dello
"spirito del mondo" verso la coscienza della libertà, o come lo
svincolarsi dell'individuo dai rapporti di dominio e di
subordinazione e l'allargamento progressivo della sfera
dell'iniziativa individuale, o ancora come il passaggio da una
società fondata sulla lotta di classe a una società senza classi -
diventava la fase terminale, l'ultimo episodio di un processo che
affonda le sue radici nello sviluppo del mondo naturale. L'incontro
dell'idea di progresso con la filosofia romantica della natura, o
con una traduzione della teoria dell'evoluzione in termini
metafisici, le conferiva una dimensione 'cosmica' assente nelle sue
formulazioni sei-settecentesche. Non più l'umanità soltanto, ma la
realtà diventava il soggetto del progresso. E da ciò poteva trarre
alimento quella che già nel 1833 Heinrich Heine chiamava la "fede
nel progresso", una fede che si contrapponeva alle religioni
tradizionali in virtù del suo presunto fondamento 'scientifico'.
6. Trionfo e declino dell'idea di progresso
L'Ottocento è dunque il secolo del trionfo dell'idea di
progresso, della sua diffusione e della sua generale accettazione.
Ed è anche il secolo in cui essa assume una connotazione politica
sempre più marcata. Nel corso degli anni trenta, ma soprattutto in
occasione della rivoluzione europea del 1848, il progresso veniva a
designare un orientamento politico di carattere riformistico o
rivoluzionario, che vuole interpretare le esigenze dell'epoca e
adeguare a esse le istituzioni politiche e le strutture sociali. In
questo ambito il progresso si definisce in virtù della
contrapposizione a termini alternativi: alla conservazione o al
ritorno alla società di ancien régime, al mantenimento dello status
quo imposto dalla Santa Alleanza dopo la caduta di Napoleone o al
'regresso'. Per tutto il secolo, e ancora nel corso del Novecento,
l'idea di progresso verrà impiegata per qualificare posizioni
politiche liberali o democratiche o anche socialistiche, per
prestare sostegno alla rivendicazione della libertà del cittadino
contro il potere dello Stato assoluto e del suo apparato
burocratico, e quindi di un governo costituzionale e
rappresentativo, oppure alla richiesta di un assetto sociale più
giusto. Essa diventerà sinonimo di opposizione alla reazione,
all'assolutismo, al permanere dei privilegi feudali, e in seguito al
dominio oppressivo della borghesia accusata di far valere una
concezione puramente formale della libertà. È significativo il fatto
che nel 1851 Proudhon pubblicasse una Philosophie du progrès, e che
molte altre opere di quei decenni fornissero, se non una teoria
compiuta, almeno delle considerazioni sul tema del progresso.
Pur nella sua indeterminatezza, e nel variare dei contenuti positivi
che di volta in volta lo riempivano, il progresso diventerà un
termine-chiave del lessico politico, acquistando una carica
valutativa dirompente.A questo significato se ne accompagnava spesso
un altro, talvolta complementare ma anche concorrente: quello di
progresso in senso tecnico e, più latamente, in senso 'materiale'.
Il vecchio sogno baconiano dell'instaurazione del regnum hominis,
del dominio dell'uomo sulla natura attraverso la scoperta e
l'utilizzazione dei suoi processi, sembrava infatti avverato o in
procinto di avverarsi. La trasformazione delle tecniche di
produzione iniziata con la rivoluzione industriale aveva modificato
profondamente, e in meglio, le condizioni di vita degli uomini,
almeno nelle regioni centro-occidentali del continente europeo e
negli Stati Uniti, mettendo a disposizione risorse nuove e in
quantità crescente.
D'altra parte la diffusione della stampa e soprattutto della
scolarizzazione elevava il livello educativo medio di questi popoli.
Certamente, permanevano tuttora i limiti che Condorcet aveva
indicato nel processo di incivilimento: larghi strati sociali
vivevano al di sotto o si ponevano poco al di sopra della soglia di
povertà, e la loro istruzione doveva ancora fare i conti con un
diffuso analfabetismo, mentre intere regioni del globo rimanevano -
nonostante il processo di formazione di un mercato mondiale - ai
suoi margini. Ma l'accelerazione del ritmo del progresso poteva far
bene sperare, aprendo prospettive concrete di un costante aumento
della produzione e di una graduale elevazione del tenore di
vita.Tuttavia nell'interpretazione del progresso in termini di
progresso 'materiale' erano già insite le ragioni della crisi
dell'idea di progresso. Il progresso 'materiale' si presentava
dissociato dal progresso autentico, quello 'morale', se addirittura
non appariva una minaccia per quest'ultimo. L'aumento della
produzione, la disponibilità crescente di beni, il miglioramento
delle condizioni di vita non comportavano - contrariamente a quanto
aveva ritenuto Condorcet - un perfezionamento della natura
dell'uomo. Lo aveva già affermato Rousseau nel suo primo discorso,
rispondendo negativamente nel 1750 alla questione proposta
dall'Accademia di Digione "se il ristabilimento delle scienze e
delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi": il progresso
scientifico e artistico-letterario allontana l'uomo dalla purezza
originaria dei costumi dell'umanità, ed è quindi dannoso per la
virtù. Perché l'uomo possa salvarsi dalla corruzione attuale occorre
far piazza pulita delle istituzioni create dal processo di
incivilimento, e sostituirle con un modello alternativo di società.
Rousseau condivideva il presupposto della perfettibilità dell'uomo;
ma tra il perfezionamento 'morale' e la strada percorsa dall'umanità
nel dar vita a una società fondata sulla diseguaglianza vedeva
un'antitesi radicale.Rousseau non negava quindi la possibilità del
progresso morale, ma la collegava al recupero della "virtù"
offuscata dallo stesso processo di incivilimento, all'instaurazione
di una società fondata sul "contratto sociale" e sulla
partecipazione di tutti i cittadini alla formazione della volontà
generale, nonché a un'educazione "naturale" rivolta a produrre un
nuovo tipo di uomo. Sulla base di presupposti differenti, la cultura
romantica contrapporrà al progresso scientifico e tecnico il valore
dello spirito, di uno spirito collettivo radicato nella peculiare
natura di ogni popolo e manifestantesi nel corso del suo sviluppo. E
andrà in cerca delle radici storiche del linguaggio come della
poesia, esaltando le epoche primitive e rivalutando, contro
l'immagine negativa che ne avevano dato Voltaire e Gibbon, il
Medioevo. Decisiva a questo scopo è la distinzione, poi
trasformatasi in contrapposizione, tra Zivilisation e Kultur:
l'accrescimento del sapere scientifico, del patrimonio tecnico,
delle risorse disponibili vien fatto rientrare nell'ambito della
civiltà, cioè di un processo esteriore e 'meccanico'. A differenza
di questa, la cultura non conosce alcun progresso: essa si esprime
creativamente in forme 'organiche'.
La cultura trovava così il proprio fondamento nella comunità, mentre
la civiltà veniva fatta coincidere con la società intesa come una
forma di organizzazione della vita su base meccanica. Questa
antitesi sarà enunciata in maniera emblematica nel titolo di uno dei
primi testi classici della sociologia contemporanea, Gemeinschaft
und Gesellschaft di Ferdinand Tönnies (1887). E ancora all'inizio
degli anni venti del Novecento Alfred Weber - nel delineare il
programma di una sociologia della cultura - distingueva il movimento
culturale, da cui nascono mondi simbolici tra loro eterogenei,
dall'incivilimento tecnico-scientifico. Il progresso si collocava
sul versante opposto a quello della creazione culturale propria di
forme come l'arte, la letteratura, la religione, la
filosofia.Parallelamente al diffondersi dell'idea di progresso, la
cultura ottocentesca ne sviluppa la critica, sia in sede filosofica
che nella letteratura. Un contributo decisivo in tal senso viene
dalla diagnosi in termini negativi dell'epoca presente, spesso
intrecciantesi con il rifiuto della nascente società industriale e
con il vagheggiamento nostalgico della vita contadina, polemicamente
contrapposta ai mali dell'urbanesimo, che stava alla base di quella
che è stata chiamata l'ideologia 'ruralistica'. Questa critica
trovava sostegno in un pessimismo cosmico che nella storia non
scorge alcuna razionalità, e neppure un 'senso'.
Già alla vigilia del 1848 Arthur Schopenhauer, in polemica con
Hegel, non soltanto respingeva la pretesa di ricondurre la storia a
un piano prestabilito, ma relegava al dominio dell'apparenza la
diversità dei fenomeni storici, contrapponendo a essa l'identità
della volontà che è alla radice dell'agire degli uomini. Ma la
critica al progresso trovava alimento anche in due altri filoni: da
un lato nella polemica antirivoluzionaria, nella denuncia degli
errori della Rivoluzione francese, che ne investiva i presupposti
ideologici, dall'altro nella constatazione delle condizioni di
miseria delle masse operaie, esposte alle ricorrenti crisi
economiche.La vera svolta verrà però intorno al 1870, quando la
società di massa comincerà a mostrarsi anche nei suoi aspetti più
apertamente negativi. Nelle Weltgeschichtliche Betrachtungen,
scritte tra il 1868 e il 1873, Jakob Burckhardt sottolineava il
carattere unico della 'crisi' contemporanea, e lo attribuiva appunto
alla spinta verso l'eguaglianza di cui le masse sono portatrici: il
futuro si presentava perciò gravido di pericoli. Non il progresso ma
la decadenza, la perdita dei valori sui quali la società si era
retta nel passato, gli appare l'esito inevitabile del processo di
democratizzazione. Pochi anni dopo Friedrich Nietzsche, nel
tracciare la genealogia della morale, riprenderà radicalizzandola
tale diagnosi. L'avvento di una società democratica comporta il
livellamento degli individui, la loro riduzione alla mediocrità;
essa rappresenta l'ultima fase di quel processo di sostituzione di
una "morale da schiavi" alla "morale da signori" che è stato
inaugurato dal cristianesimo con la sua predicazione dell'umiltà e
della rinuncia, e che ha fatto sì che in tutta Europa si affermasse
una morale del gregge. Lungi dall'essere contrassegnata dal
progresso, la storia ha condotto alla perdita dei valori originari
dell'uomo, che sono quelli della società aristocratica e della sua
"volontà di potenza"; è cioè decadenza.
E se di progresso si vuol ancora parlare, allora lo si deve
concepire in rapporto alla volontà di potenza, vale a dire come un
"cammino inteso a una più grande potenza [...] a spese di
innumerevoli potenze più piccole", come sacrificio dell'umanità in
funzione del fiorire di "una singola specie umana più forte". Come
già per Schopenhauer, anche per Nietzsche non è possibile parlare di
un progresso nel senso di un'evoluzione dell'umanità verso uno stato
migliore o più elevato, già per la ragione che l'umanità, in quanto
tale, non esiste: quelli che esistono sono i singoli individui con i
loro bisogni e con le loro aspirazioni, dettate dalla volontà di
potenza. L'idea di progresso gli appariva "un'idea moderna, cioè
un'idea falsa"; e per dimostrarne la falsità poneva in luce
l'inferiorità dell'uomo d'oggi rispetto all'uomo del Rinascimento.
In termini più generali, uno sviluppo non può essere inteso come
"elevazione, potenziamento, consolidamento"; lo diventa soltanto
quando riesce a produrre un tipo superiore di uomo, il che è
precisamente il contrario di quanto sta avvenendo nel mondo
contemporaneo. Come l'uomo non rappresenta un progresso rispetto
all'animale - sosteneva Nietzsche in un frammento della primavera
1888 - così l'avvento del cristianesimo costituisce una decadenza
nei confronti della cultura antica; in quanto alla Rivoluzione
francese, essa ha addirittura distrutto la possibilità stessa della
società. La critica della democrazia e della società di massa
metteva così capo al rifiuto dell'idea di progresso. E all'inizio
del nuovo secolo, nel 1908, Georges Sorel dedicherà un libro a
denunciare Les illusions du progrès, smascherando l'idea del
progresso come prodotto dell'ideologia borghese.Questa critica è
stata largamente ripresa dalla filosofia del Novecento, la quale ha
il più delle volte rifiutato in modo esplicito l'idea del progresso,
contrapponendo a essa una visione ciclica della storia o la
prospettiva di una decadenza inevitabile, destinata a sfociare -
secondo la formula di Oswald Spengler - nel "tramonto
dell'Occidente".
Su tale rifiuto ha pesato in maniera decisiva la prima guerra
mondiale, e dopo di essa la diffusa consapevolezza di una crisi
della civiltà, o per lo meno della civiltà europea. E questa
consapevolezza è spesso sfociata nella critica della società
industriale, che nel progresso tecnico ha visto non già un fattore
di maggiori possibilità per l'esistenza umana ma un processo di
disumanizzazione, spesso combinandosi con la polemica contro la
modernità. Da postulato interpretativo del processo storico o da
parola d'ordine il progresso è perciò diventato sempre più un mito,
un mito per un verso ingannevole e per l'altro verso pericoloso.
7. Tentativi di concettualizzazione
Non sono mancati, nel corso dell'Ottocento, i tentativi di
tradurre l'idea di progresso in un concetto definito attribuendo a
esso un ruolo strategico all'interno della sociologia o
dell'antropologia. Per Comte il progresso è, insieme all'ordine, uno
dei due concetti-chiave della "fisica sociale"; come la statica
sociale è una dottrina dell'ordine, così la dinamica sociale è una
dottrina del progresso. Per Spencer il progresso è sinonimo di
evoluzione; e lo è, in maniera peculiare, a livello dell'evoluzione
superorganica, dove il passaggio dal tipo militare al tipo
industriale di società, e da questo a un tipo ancora incipiente che
segnerà l'inversione del rapporto tra lavoro e vita sociale, si
presenta come un processo chiaramente 'progressivo'. E alla
sociologia di Spencer, variamente combinata con la teoria
darwiniana, si richiamerà spesso la prima generazione dei sociologi
americani. Non diversamente per Lewis Henry Morgan l'evoluzione
della cultura umana dallo stato selvaggio alla barbarie, e da questa
alla civiltà, comporta un progresso costante che, seppure limitato
finora a due grandi famiglie dell'umanità - quella dei popoli
semitici e quella dei popoli ariani - è però destinato a investire
le popolazioni rimaste ancora indietro nel processo evolutivo.
Come per Spencer, evoluzione e progresso sono, in fondo, sinonimi.La
sociologia di Comte, al pari di quella di Spencer, era però
soprattutto una teoria generale della società, a metà strada tra
filosofia e analisi scientifica, e - per quanto riguarda il processo
di trasformazione in atto - tra interpretazione e utopia della
società industriale. In questo contesto anche la nozione di
progresso non poteva che risultare quanto mai generica, nonostante
lo sforzo compiuto da Spencer per definirla in termini di
differenziazione e di integrazione di strutture e di funzioni
all'interno del corpo sociale. Si può quindi comprendere come lo
sviluppo della sociologia a partire dagli ultimi decenni
dell'Ottocento - a partire, cioè, da Tönnies e da Durkheim -
conducesse al suo graduale abbandono. Nell'antropologia, poi, essa
veniva coinvolta nella crisi dell'impostazione evoluzionistica,
sostituita dal riconoscimento dell'individualità delle singole
culture e dallo sforzo di descriverne le caratteristiche specifiche.
All'inizio del XX secolo il progresso come indicazione del 'senso'
complessivo dello sviluppo della società e della cultura umana aveva
ormai perduto diritto di cittadinanza nell'ambito delle scienze
sociali.Nel 1917, in un saggio dedicato al problema
dell'avalutatività delle scienze sociali, Max Weber affrontava anche
il problema della legittimità dell'uso della nozione di progresso. E
la sua analisi metteva in luce la natura inevitabilmente valutativa
di questa nozione, se impiegata per asserire non soltanto un
"progredire nella differenziazione" ma anche un accrescimento di
valore nel corso di un determinato processo. Con riferimento
soprattutto alla storia dell'arte e della musica, Weber concludeva
che l'unico significato legittimo di progresso nelle scienze sociali
è quello di progresso tecnico, comportante una crescente
disponibilità di 'mezzi' per la soluzione dei problemi che l'artista
o il musicista si trova ad affrontare nel corso della sua creazione.
Inferire dal progresso della tecnica artistica o musicale un
progresso dell'arte o della musica, in termini di 'valore'
dell'opera prodotta, risulta perciò del tutto arbitrario: opere
prodotte con una tecnica primitiva possono infatti risultare di
eguale o anche di superiore dignità estetica rispetto a opere che si
avvalgono di una raffinata tecnica razionale. E un'analoga
conclusione vale, per Weber, anche a proposito della filosofia. Ma
se l'accresciuta razionalità dei mezzi non comporta né si accompagna
a un accrescimento di valore, le scienze sociali possono parlare di
progresso soltanto in senso tecnico. Solamente il progresso tecnico,
misurabile in termini di adeguatezza dei mezzi rispetto a
determinati fini, può essere infatti oggetto di constatazione
empirica.Weber perveniva in tal modo a delimitare la portata della
nozione di progresso, contestualizzandola e collegandola nello
stesso tempo a qualche criterio che ne consentisse la misurazione.
Il progresso cessava così di designare la direzione della storia
dell'umanità; perdeva cioè quel carattere globale che ne aveva
contrassegnato fin allora il significato. Esso veniva a indicare un
processo all'interno di un ambito determinato, definito per lo più
mediante 'indicatori' quantitativi o suscettibili di essere
quantificati. Non a caso il termine richiedeva, se impiegato in
senso positivo, di essere qualificato con un aggettivo che ne
specificasse appunto il campo di riferimento.
Così è avvenuto, in primo luogo, per il progresso tecnico o - com'è
stato di preferenza chiamato - tecnologico, che è stato analizzato
in termini di scoperta e di diffusione di nuove tecnologie rese
possibili dallo sviluppo della ricerca scientifica. Ma, rispetto
alla tradizionale visione di un'accumulazione continua di sapere e
quindi di tecniche, tale analisi ha posto in rilievo la
discontinuità del processo di innovazione, la compresenza di settori
produttivi 'maturi' e di altri in sviluppo, l'alternarsi di periodi
di sviluppo e di periodi di stasi. Analogamente, la storia della
scienza ha sostituito alla visione di un sapere sempre progrediente
quella di uno sviluppo discontinuo che si attua mediante
'rivoluzioni', cioè mediante mutamenti di paradigmi che subentrano
quando la concezione precedente si rivela inadeguata o incapace di
risolvere le difficoltà incontrate, e ai quali fa seguito, una volta
compiuta la 'rivoluzione', un periodo più o meno lungo
caratterizzato dal permanere del nuovo paradigma, cioè un periodo di
'scienza normale'. Ciò ha condotto al graduale abbandono del
concetto di progresso e alla sua sostituzione con concetti più
neutrali, meno carichi di implicazioni valutative, quali quelli di
mutamento o di sviluppo. Così si parla ormai non più di progresso ma
di mutamento tecnologico, contrassegnato da un lato dalla
trasformazione dei metodi di produzione, ossia da quella che è stata
chiamata l'innovazione di processo, e dall'altro dalla creazione di
nuovi prodotti, ossia dall'innovazione di prodotto. Il carattere
'progressivo' di tale mutamento appare perciò dipendere dalla massa
e soprattutto dall'importanza delle innovazioni che si affermano in
uno o più settori produttivi, innovazioni che possono essere - e di
solito sono - di carattere settoriale, oppure possono rappresentare
un 'salto' che investe l'intero apparato produttivo, com'è avvenuto
nel caso dell'introduzione dell'elettronica e dell'informatica.
Anche nella letteratura economica il concetto di progresso è stato
sempre più sostituito da altri, in particolare da quelli di sviluppo
o di crescita, che si prestavano a essere ricondotti a indici
quantitativi come quelli di reddito pro capite o di reddito globale
di un paese. Se ancora nel 1940 Colin Clark poteva dare a un suo
libro il titolo di Conditions of economic progress, nel secondo
dopoguerra la letteratura economica internazionale tendeva sempre
più a parlare, in modo spesso interscambiabile, di growth o di
development: così Walt W. Rostow pubblicava nel 1952 The process of
economic growth e nel 1960 The stages of economic growth. Nella sua
neutralità, spesso tuttavia pregiudicata dall'assunzione acritica
del modello occidentale di sviluppo, il nuovo termine si prestava a
usi plurimi: da un lato si contrapponeva alla stagnazione o al
declino di un'economia 'matura', dall'altro trovava la sua antitesi
nel sottosviluppo di paesi non ancora pervenuti
all'industrializzazione o che si trovavano soltanto alla soglia di
essa. Ma, soprattutto, il ricorso alla nozione di sviluppo appariva
compatibile con la teoria dei cicli economici, qual era stata
formulata da Schumpeter. Lo stesso Schumpeter, del resto, aveva fin
dal 1912 elaborato una teoria non del progresso ma dello sviluppo
economico, caratterizzando quest'ultimo sulla base di un processo di
innovazione che, sorto all'interno di un determinato settore
produttivo, si diffonde poi anche negli altri trasformando l'intero
apparato produttivo e quindi l'economia complessiva di un paese, se
non addirittura - com'era accaduto nella rivoluzione industriale -
del mondo. Il collegamento tra lo sviluppo economico e l'esistenza
di cicli di durata più o meno ampia consentiva di individuare,
all'interno di ogni ciclo, periodi di crescita e periodi di
congiuntura negativa, e di far posto alle crisi ricorrenti nel
sistema economico.
Così lo sforzo per tradurre l'idea di progresso in un concetto
utilizzabile dalle scienze sociali ha finito - contrariamente
all'intento perseguito dalla sociologia e dall'antropologia
ottocentesche - per condurre all'abbandono di quel concetto; e ciò
proprio per il carattere di continuità (e di irreversibilità) che lo
connotava. Di progresso si parla ancor oggi, in verità, soprattutto
nel lessico politico, per designare la conquista di una misura
crescente di libertà, o l'estendersi dei diritti riconosciuti
all'individuo, o ancora l'acquisizione di un maggiore grado di
giustizia e di sicurezza sociale. Ma si tratta, appunto, di un uso
ideologico o, se si vuole, filosofico del termine, che per quanto
diffuso nel linguaggio comune si colloca al di fuori del terreno
delle scienze sociali.
Dizionario di Storia (2011)
di Giuseppe Bedeschi
progresso
Il progresso
Nel Settecento e nell’Ottocento la cultura occidentale ha
nutrito, con poche eccezioni, una ferma fede nel progresso: essa
ha creduto, cioè, che il cammino della civiltà europea fosse un
cammino ascendente e inarrestabile, che avrebbe accumulato
conquiste (non solo scientifiche e tecniche, ma anche morali e
politiche) sempre più elevate, che avrebbero configurato prima o
poi una sorta di età perfetta e definitiva. Secondo questa
concezione prometeica, l’umanità occidentale non avrebbe
incontrato ostacoli insuperabili a conclusione della sua
millenaria avventura.
Nel Settecento l’idea di progresso si impone largamente grazie a
Voltaire, R.-J. Turgot e M.-J.-A. Condorcet. Per Voltaire la
storia registra una successione di tre epoche o condizioni di vita
dell’umanità: lo stato selvaggio, la barbarie, la civiltà. Per
Turgot, essendo il progresso del sapere umano illimitato, anche i
costumi sarebbero progrediti senza sosta e tali costumi superiori
si sarebbero diffusi in tutti gli strati sociali. Per Condorcet (Esquisse
d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, del
1793, ma pubblicato dopo la sua morte) il futuro dell’umanità è
caratterizzato sempre più dalla distruzione della disuguaglianza
tra le nazioni, e anche della disuguaglianza al loro interno,
sicché i «lumi» si sarebbero estesi a tutti i popoli e a tutte le
classi sociali».
Nell’Ottocento l’idea di progresso si rafforza, costituisce il
fulcro di alcune importanti dottrine e finisce per dominare quasi
tutte le manifestazioni della cultura occidentale. Una tipica
concezione della storia come progresso continuo è quella di G.W.F.
Hegel, che tanto influsso ha esercitato sulla cultura europea e
secondo il quale, per intendere davvero la storia il pensiero
umano deve servirsi essenzialmente di tre categorie. La prima è
quella del mutamento, poiché «noi vediamo un enorme quadro di
eventi e di azioni, d’infinitamente varie formazioni di popoli,
Stati, individui, in un succedersi instancabile». Certo, questa
idea del mutamento ci arreca dolore, e non può non deprimerci il
fatto che la formazione più ricca, la vita più bella, trovino
nella storia il loro tramonto. «Tutto appare caduco, nulla
stabile. Ogni viaggiatore ha sentito questa malinconia. Chi
avrebbe potuto fermarsi tra le rovine di Cartagine, Palmira,
Persepoli, Roma, senza essere mosso a considerazioni sulla
caducità dei regni e degli uomini, a rimpianto per la forte e
ricca vita di un tempo?» Senonché, questo rimpianto è attenuato
dal fatto che alla categoria del mutamento è connessa anche l’idea
che dalla morte sorge nuova vita. Hegel richiama l’immagine della
fenice, «della vita naturale che eternamente prepara a sé il suo
rogo e vi si consuma, in modo che dalla sua cenere eternamente
risorga, nuova giovane e fresca, la vita». Da questo processo lo
spirito riappare più alto e come trasfigurato. Nel senso che «esso
insorge, certo, contro se stesso, distrugge la forma che aveva
assunta e si eleva così a una costituzione nuova. Ma, spogliandosi
della veste della sua esistenza, non solo esso passa in un’altra
veste, ma esce come spirito più puro dalla cenere della sua
precedente forma». Qui ci appare la seconda categoria dello
spirito: il ringiovanimento. Essa sta a significare che, nel
passaggio da una forma all’altra, lo spirito non distrugge solo
una vecchia forma per crearne una nuova, ma, con ciò, realizza una
sorta di catarsi, una «rielaborazione di sé». Adempiendo il suo
compito, lo spirito si crea nuovi compiti, moltiplicando la
materia del suo lavoro. Questa considerazione ci conduce alla
terza categoria, quella della ragione stessa, la quale è in
continuo movimento, crea e distrugge per creare di nuovo, e domina
il divenire storico.
In che senso la ragione domina il divenire storico? Nel senso che
la storia è storia di popoli, i quali, proprio come gli individui,
nascono, crescono, invecchiano e muoiono. Quando un popolo
raggiunge il punto più alto del proprio vigore, esprime un
principio, una forma di vita sociale ed etico-politica, una
civiltà. Esprimere questo principio è stata la sua funzione nella
storia del mondo. Ma, una volta che abbia espresso tale principio
in tutta la sua intensità e ricchezza, quel popolo ha esaurito il
proprio compito e si avvia verso l’esaurimento delle proprie forze
vitali, verso il proprio tramonto. Non è detto che quel popolo
muoia immediatamente (si pensi a Cartagine), la sua morte può
manifestarsi sotto forma di nullità politica. Comunque, esso non
ha più un ruolo da protagonista, ruolo che passa a un altro
popolo, «e così ha luogo un processo, un sorgere, un avvicendarsi
dei principi dei popoli». Ma questo processo è ascendente: procede
cioè dal principio di un popolo al principio superiore di un altro
popolo, che comprende in sé tutte le conquiste, tutti i principi
dei popoli precedenti (nulla va perduto nella storia), ma in una
sintesi nuova e più ricca, cioè, appunto, superiore. Ed è un
processo non solo ascendente, ma tendente anche a una meta, a un
fine ultimo. Il fine della storia del mondo, infatti, è che lo
spirito universale giunga al sapere di ciò che esso è veramente,
cioè raggiunga la piena consapevolezza di sé, in quanto libertà.
Nel mondo orientale uno solo era libero; nel mondo greco-romano
solo alcuni erano liberi; nel mondo cristiano-germanico tutti sono
liberi e sono consapevoli di esserlo. Ma per giungere a questo
risultato, per toccare questa meta, è stato necessario un lungo e
aspro cammino, scandito in momenti distinti, secondo modi o forme,
incarnatisi nei diversi popoli, questi attori della storia
universale.
In Die deutsche Ideologie (1845) K. Marx sferra un duro
attacco alla filosofia hegeliana della storia. Hegel, dice Marx,
ha potuto concepire la storia come dominio delle idee (o dei vari
principi che stanno a fondamento dei vari popoli e delle varie
epoche storiche), perché ha separato le idee dominanti dai loro
portatori, le classi dominanti, nonché dai rapporti che sono
propri di un dato stadio della produzione. Dopo aver fatto ciò,
Hegel ha messo un ordine ideale in quelle idee e le ha considerate
come autodeterminazioni dell’«autocoscienza». Marx invece, per
intendere la storia, parte dalla produzione materiale della vita,
cioè dai rapporti di produzione e dai connessi rapporti sociali
che sono propri di una certa società, e poi studia la
«sovrastruttura», cioè il complesso delle istituzioni
giuridico-politiche e delle ideologie che sono state generate da
quei rapporti economico-sociali. La successione dei vari modi di
produzione e delle varie società perde così ogni finalismo
storico. Apparentemente. Dico apparentemente, perché, a veder
bene, il tipo di considerazione storica che Marx delinea in Die
deutsche Ideologie (e in tutte le sue opere) può essere
definito a buon diritto «dialettico» (nel significato hegeliano di
questa parola). E infatti tutto lo sviluppo storico appare a Marx
come «una serie coerente di forme di relazioni, la cui connessione
consiste in questo, che al posto della forma di relazioni
precedente, divenuta un intralcio, viene sostituita una nuova,
corrispondente alle forze produttive più sviluppate, […] e questa
forma a sua volta diventa poi un intralcio e quindi viene
sostituita con un’altra». Al centro dello sviluppo storico, quale
suo «motore» fondamentale, è dunque la dialettica tra forze
produttive e rapporti di produzione (o «forme di relazioni»). A
causa di continui accrescimenti quantitativi, le forze produttive
di una società entrano a un certo punto in contraddizione con i
rapporti di produzione, e ciò determina una fase di rivoluzione e
il passaggio a un organismo economico-sociale qualitativamente
diverso.
In questa concezione marxiana dello sviluppo storico come «serie
coerente di forme di relazioni», è evidente il motivo dialettico.
Ma esso si manifesta anche nel fatto che la successione storica
dei vari organismi sociali procede dall’inferiore al superiore. La
nuova società che si afferma è per Marx sempre superiore a quella
che l’ha preceduta, poiché corrisponde «alle forze produttive più
sviluppate e quindi al modo più progredito di manifestazione
personale degli individui». Inoltre, tale sviluppo da un organismo
sociale inferiore a uno superiore, per Marx (come già per Hegel)
tende inevitabilmente a un fine, a uno stadio ultimo e assoluto:
mentre infatti tutte le società passate erano fondate sul dominio
dell’uomo sull’uomo (schiavismo, servitù della gleba, sfruttamento
del lavoro salariato), la società comunista abolisce ogni forma di
dominio, sopprime tutte le classi e realizza una completa
eguaglianza, ovvero una comunità di eguali che, per la prima volta
nella storia, prende sotto il proprio controllo le proprie
condizioni di esistenza. La concezione marxiana della storia è
dunque interamente basata sull’idea di progresso.
La convinzione che le nazioni occidentali siano sicuramente
avviate a un avvenire di progresso e di felicità, è presente anche
nella filosofia «positiva» francese. C.-H. Saint-Simon è convinto
che alla fine del Settecento e nei primi decenni dell’Ottocento
l’Europa sia entrata in una grande crisi storica, dovuta al
passaggio da un’età a un’altra, da una civiltà a un’altra, da una
società a un’altra, ovvero dal sistema feudale e teologico al
sistema industriale e scientifico. Finché il sistema
feudale-militare fu in pieno vigore, la società fu organizzata in
un certo modo, perché essa aveva uno scopo chiaro e definito,
quello di esercitare una grande azione bellica; tutte le parti del
corpo politico erano coordinate a questo scopo. Ma poi il sistema
feudale-militare entrò in un processo di decadenza, e nel suo seno
si svilupparono pian piano, ma inesorabilmente, le nuove forze
dell’industria, del commercio, della banca. Queste forze avevano
ormai preso il sopravvento nella società, e il loro obiettivo
legittimo era quello di dirigerla, ovvero di assumerne il governo.
Tale passaggio dal sistema militare e teologico al sistema
industriale e scientifico viene concepito da Saint-Simon come
assolutamente necessario: è il progresso ineluttabile della storia
che spinge in questa direzione. Egli dice infatti: «Ora, non ho
paura di affermarlo arditamente, per chiunque abbia osservato con
attenzione il cammino della civiltà, appare dimostrato in pieno
che il sistema verso cui il genere umano ha sempre teso fino a
oggi nell’Europa occidentale, quello che deve oggi sostituire il
regime feudale e teologico, è il sistema industriale e
scientifico; vale a dire quello che stabilirà un nuovo potere
temporale affidato ai capi dei lavori dell’agricoltura, della
produzione industriale e del commercio, e un nuovo potere
spirituale affidato agli scienziati».
Un disegno molto simile di filosofia della storia fondato
sull’idea di progresso si trova in A. Comte, che di Saint-Simon fu
discepolo e collaboratore. Per Comte lo spirito umano ha una
storia evolutiva scandita in tre stadi, i quali corrispondono a
tre diversi atteggiamenti mentali, ma ai quali corrispondono
altresì tre diversi tipi di società, di organizzazione sociale e
politica. Nel primo stadio, che è quello teologico, gli uomini
spiegano i fatti che osservano in base a elementi inventati, cioè
ricorrendo ad alcune idee soprannaturali (dei o demoni). Nel
secondo stadio, che è quello metafisico, gli uomini collegano i
fatti a «idee che non sono più completamente soprannaturali e non
sono ancora interamente naturali» (si pensi alle dottrine
giusnaturalistiche). Nel terzo stadio, che è quello positivo o
scientifico, «i fatti vengono collegati in base a idee o leggi
generali di carattere completamente positivo, suggerite o
confermate dai fatti stessi, e che sovente sono semplici fatti
abbastanza generali per diventare dei principi» (così procedono
l’astronomia e la fisica moderna).
Come abbiamo detto, a questi tre stadi mentali corrispondono tre
grandi tipi di organizzazione sociale che si sono succeduti nella
storia (sicché la legge dei tre stadi è a tutti gli effetti una
vera e propria legge dello sviluppo storico): «tre grandi epoche,
o stadi di civiltà, che presentano un carattere perfettamente
distinto sia sotto l’aspetto temporale sia sotto quello
spirituale». Si tratta dell’«epoca teologica e militare»,
dell’«epoca metafisica e giuridica», e dell’«epoca scientifica e
industriale». In quest’ultima il potere è esercitato dagli
scienziati e dagli industriali, e i conflitti tra lavoratori e
industriali trovano composizione grazie al prevalere dello
«spirito d’insieme», che caratterizza la nuova guida politica
imbevuta di filosofia positiva. L’epoca scientifica e industriale
è dunque la fase suprema tanto dello sviluppo mentale dell’umanità
quanto del suo sviluppo sociale e politico. I tre stadi
costituiscono quindi un processo necessario e ascendente, un
progresso intellettuale, sociale e politico, che tende
ineluttabilmente alla propria meta.
Questa fede nel progresso continuo della storia umana viene meno
nella cultura europea alla fine dell’Ottocento e nel Novecento. La
figura esemplare di questa nuova temperie culturale è quella di
F.W. Nietzsche: per lui tutta la storia occidentale a partire dal
cristianesimo, fino all’affermarsi della democrazia con la
Rivoluzione francese e al dilagare del socialismo, è un processo
di decadenza e di involuzione: alla vita terrena viene
contrapposta la vita celeste; alle grandi individualità eroiche,
ai superuomini, vengono contrapposti i deboli, gli sconfitti, i
derelitti; agli «uomini d’eccezione», ai «dominatori» vengono
contrapposte le «masse», mediocri e anonime. La società
industriale democratica, plasmata dalla Rivoluzione francese e dal
socialismo, è appunto il regno delle «masse» e la scomparsa di una
vera vita eroica. Ma soprattutto O. Spengler, nel suo Die
untergang des Abendlandes (il cui primo volume apparve nel
1918, riscuotendo un enorme successo in Germania, e non solo), ha
espresso l’idea che le civiltà sono organismi che, come nascono,
crescono e vigoreggiano, così decadono, invecchiano e muoiono:
un’idea, questa, che, come sappiamo, era stata espressa anche da
Hegel, solo che per Spengler non c’è nessun rapporto fra le varie
civiltà (anche se esse attraversano analoghi cicli di sviluppo), e
la nostra civiltà europea è sul punto di estinguersi. Essa si
trova (come tutte le civiltà che hanno esaurito il loro corso) in
una fase di Zivilisation: la religione è scomparsa, e
ciò determina il tracollo di tutti i valori del passato;
all’anima, ormai morta, è subentrato l’intelletto come
putrefazione dell’anima; nella democrazia il popolo si è ormai
dissolto in una massa amorfa e manipolata; la politica non dirige
più l’economia ma è subordinata a essa; il denaro è divenuto la
suprema potenza della società.
Ma anche pensatori che, a differenza di Nietzsche e di Spengler,
si richiamano a valori umanistici, esprimono la convinzione che la
civiltà occidentale sia giunta a un punto di non ritorno. Così M.
Weber, che vedeva il processo di
burocratizzazione/razionalizzazione proprio della nostra civiltà
culminare in una «gabbia d’acciaio», che uccide qualunque
spontaneità e quindi ogni creatività. V. Pareto, a sua volta,
rifiutava tutte le filosofie della storia, sia quelle ispirate
dall’idealismo sia quelle ispirate dal materialismo storico.
L’unica cosa che la storia ci mostra, egli diceva, è la
successione delle élite, la loro continua
trasformazione, la loro decadenza, la loro scomparsa (più o meno
rapida, più o meno violenta). Questa successione di élite
non è regolata da nessuna legge storica, da nessuna scansione
dialettica; in essa si manifesta solo una sorta di «moto ondoso»,
nel senso che le varie élite si formano, vigoreggiano,
si decompongono e ricadono come le onde del mare. Era una visione
sconsolata, quella di Pareto, ma che si sarebbe manifestata anche
in pensatori che per interi decenni erano stati gli alfieri
dell’idea del progresso storico. È il caso di B. Croce, che a
lungo aveva sostenuto che la decadenza non può essere mai assunta
dallo storico a oggetto di indagine, in quanto essa, a ben vedere,
non esiste. Certo, le opere degli uomini, le loro creazioni e
costruzioni, decadono e muoiono, ma, in quello stesso momento,
cominciano già a delinearsi nuove opere, nuove creazioni e
costruzioni umane. La storia degli uomini passa quindi da un’opera
all’altra, da una creazione all’altra, da una costruzione
all’altra, e quella che a un osservatore superficiale può apparire
come decadenza, è solo il passaggio dal vecchio al nuovo, da ciò
che sta per perire a ciò che sta per nascere. Le varie età, le
varie civiltà hanno trasmesso ciascuna le proprie conquiste e i
propri problemi irrisolti, alla successiva, in una scansione senza
fine, in cui nulla di vero e di importante è andato mai perduto.
Senonché, negli ultimi anni della sua riflessione, si impose al
vecchio filosofo una visione assai diversa: «talvolta – egli
scrisse – popoli civili si imbarbariscono, si inselvatichiscono,
si animalizzano o ridiventano bestie feroci, e tornano nella
natura». Era quindi una illusione che «la civiltà umana sia la
forma a cui tende e in cui si esalta l’universo, e che la natura
le faccia da piedistallo»; da questa illusione bisognava passare a
una visione assai diversa (anche se ciò «richiedeva uno sforzo
penoso»): a quella della civiltà umana «come il fiore che nasce
sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire […]».
Il fatto è, diceva Croce, che c’è in noi un «Anticristo,
distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non
potere costruire altro che non sia il processo sempre più
vertiginoso di questa distruzione stessa, il negativo che vuol
comportarsi come positivo ed essere come tale non più creazione
ma, se così si potesse dire, dis-creazione». L’Anticristo
preparava una età di «impoverimento», di «imbarbarimento», di
«inselvatichimento», di «fremente bellum omnium contra omnes».
Questa conclusione drammatica e sconsolata si imponeva al vecchio
filosofo dopo due guerre mondiali e dopo orrendi regimi totalitari
che, nel corso del Novecento, avevano perpetrato strazianti
genocidi.