www.treccani.it
Enciclopedia online
Filosofia dell’azione o del fare, nella sua distinzione dalla
filosofia teoretica o del conoscere. Tale distinzione risale a
Socrate e alla sofistica, ma si fa esplicita propriamente in
Platone, che distingue in generale la scienza in πρακτική (riferita alla πρᾶξις, all’azione) e γνωστική (riferita alla γνῶσις, alla conoscenza) e anche più
in Aristotele, che alle scienze teoretica (ϑεωρητική) e pratica aggiunge anche
quella poetica (ποιητική, riferita
alla ποίησις, all’azione
produttiva). Il termine p., che i postaristotelici avevano
sostituito con quello di etica, torna in uso nella terminologia
medievale della scolastica.
Nel sistema kantiano si chiarisce la distinzione della p.
dall’etica o morale: la prima concerne in generale il mondo
dell’azione e la seconda determina, in seno a questo mondo, la
sfera dell’attività moralmente valida.
Filosofìa pràtica Settore delle scienze filosofiche le cui origini poggiano sulla distinzione operata da Socrate e dalla sofistica ed esplicitata in Platone, il quale distingue in generale la scienza in πρακτική (riferentesi alla πρᾶξις, l'azione), e γνωστική (riferentesi alla γνῶσις, la conoscenza), e più compiutamente in Aristotele, che alle scienze teoretica (ϑεωρητική) e pratica aggiunge anche quella poetica (ποιητική, cioè riferentesi alla ποίησις, l'azione produttiva). Il termine pratica, che i postaristotelici avevano sostituito con quello di etica, torna in uso nella terminologia medievale della scolastica. Nel sistema kantiano, imperniato sul binomio della ragion teoretica e della ragion pratica, si chiarisce la distinzione della pratica dall'etica o morale, la prima concernendo in generale il mondo dell'azione e la seconda determinando, in seno a questo mondo, la sfera dell'attività moralmente valida. Tale distinzione, ripresa nel pensiero postkantiano, è stata vanificata dall'idealismo attualistico di G. Gentile, che concepisce la teoria stessa come prassi e nega la possibilità di un'autonoma filosofia della pratica. Dalla seconda metà del 20° sec. la distinzione è stata riabilitata e riproposta dalle principali scuole filosofiche tedesche, su istanza di una rinnovata riflessione critica sui temi dell'agire e della razionalità politica.
Enciclopedia del Novecento (1998)
di Franco Volpi
Sommario: 1. Che cos'è la ‛filosofia
pratica'? 2. La ‛riabilitazione della filosofia pratica' in
Germania. 3. Temi, problemi ed esponenti dell'odierno
neoaristotelismo tedesco. a) La riabilitazione della
ϕρόνησις in Gadamer. b) La riabilitazione della
πρᾶξις nella Arendt. c) La riabilitazione del metodo
topico-dialettico in Hennis e Bubner. d) La
riabilitazione dell'ἕθος in Ritter. 4. La tradizione
della filosofia pratica. 5. Le intuizioni epistemiche del
neoaristotelismo. 6. Filosofia pratica e neoaristotelismo nelle aree
di lingua francese, italiana e anglo-americana. a) L'analisi
della ‛prudenza' in Aubenque. b) Le
critiche alla riabilitazione della filosofia pratica nella Scuola
di Padova. c) Elementi di ‛filosofia
pratica' nella cultura filosofica anglo-americana.
7. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Che cos'è la ‛filosofia pratica'?
Tra i problemi maggiormente dibattuti nel pensiero filosofico
contemporaneo un posto di primo piano è occupato da quelli relativi
all'agire e alle sue forme di razionalità. Essi riguardano l'uomo
nelle sue scelte di vita individuali, nel suo partecipare alla vita
della società civile e nel suo essere membro di una comunità
politica, e afferiscono dunque ai campi disciplinari dell'etica, del
diritto e della politica. Fino a poco più di due secoli fa,
all'incirca fino a poco prima di Kant, tutti questi problemi
rientravano nell'ambito di competenza della cosiddetta philosophia
practica, distinta dalla philosophia theoretica e
dalla philosophia mechanica, secondo quanto insegnava una
articolazione scolastica del sapere di origini vagamente
aristoteliche. Dopo Kant, e in tempi più recenti, con lo sviluppo
delle scienze umane e sociali e con la crescita della loro
autonomia, i problemi relativi all'agire sono stati trasferiti
nell'orizzonte della considerazione epistemica propria di tali
discipline. La convinzione oggi largamente diffusa è che in questo
modo anche il sapere concernente l'agire umano abbia finalmente
assunto un carattere scientifico, ossia constatativo e descrittivo,
e che tale tipo di sapere sia attuato in modo assai più efficace e
affidabile dalle scienze umane che non dalla filosofia. Questo
perché le scienze umane, meglio della filosofia, sono in grado di
descrivere le azioni dell'uomo così come avvengono e sono, e non
come dovrebbero essere.
Nel frattempo, tuttavia, ci si è accorti che tale sviluppo non ha
pienamente corrisposto alle aspettative che aveva suscitato agli
inizi e, anzi, ha lasciato sostanzialmente insoluti molti problemi
che riguardano soprattutto l'autocomprensione metodologica delle
discipline umane. Quasi prima ancora di ottenere il riconoscimento
epistemologico di sapere scientifico, le scienze umane sono entrate
in quella che potremmo chiamare una vera e propria ‛crisi' dei loro
fondamenti.
In ragione di ciò si è assistito a una rinascita di interesse per il
tipo di competenze che la riflessione filosofica può offrire, in
particolare in relazione ai problemi dell'agire e del sapere che lo
governa. E in questo campo si è tornati a guardare con una qualche
aspettativa a quella che, con un termine ripescato dalla
summenzionata tradizione scolastica, viene oggi chiamata nuovamente
‛filosofia pratica'. Uno tra i segnali più consistenti di questo
fenomeno è stata la cosiddetta ‛riabilitazione della filosofia
pratica' (Rehabilitierung der praktischen Philosophie) che
si è avuta in Germania.
2. La ‛riabilitazione della filosofia pratica' in
Germania
Con tale designazione si è intesa originariamente la ripresa di
alcune intuizioni della filosofia pratica aristotelica e la
rivendicazione della loro attualità da parte di alcuni pensatori
contemporanei. Costoro si sono richiamati, da punti di vista
metodologici e disciplinari diversi, al sapere pratico così come
Aristotele lo definisce in relazione alle sue finalità, al suo
oggetto e alla sua epistemicità specifica, e ne hanno tratto spunti
e motivi per una critica della comprensione dell'agire nel pensiero
etico e politico contemporaneo. La pluralità delle prospettive
secondo le quali essi si sono rifatti ad Aristotele - peraltro nella
consapevolezza dell'impossibilità di una restaurazione pura e
semplice - ha conferito alla ripresa della filosofia pratica, e al
suo originario nucleo neoaristotelico, contorni piuttosto sfumati e
non riducibili a una definizione unitaria, tanto più che il fenomeno
va compreso nel contesto di una più generale presenza di Aristotele
nel pensiero del Novecento e va inoltre differenziato a seconda
delle aree linguistiche in cui si è sviluppato (v. Berti, 1992).
Ciò che può essere indicato con sufficiente precisione sono le
origini del movimento: esso si è sviluppato nell'area linguistica
tedesca in un ampio e articolato dibattito a partire dagli inizi
degli anni sessanta. L'espressione ‛riabilitazione della filosofia
pratica' fu usata per la prima volta da Karl-Heinz Ilting (v.,
1963-1964, 1964-1965 e 1983, p. 7), ma si affermò perché fu adottata
da Manfred Riedel come titolo di due volumi, da lui curati, che
costituiscono la prima documentazione d'insieme del dibattito (v.
Riedel, 1972-1974; v. Oelmüller, 1978-1979; v. Apel e altri,
1980-1984). Si possono distinguere nella riabilitazione della
filosofia pratica alcune fasi principali, e poi individuare con
maggior chiarezza, entro l'articolazione che ne risulta, il fenomeno
del neoaristotelismo.
1) La riabilitazione della filosofia pratica, in particolare
l'iniziale fermento ‛neoaristotelico', ha una sua preistoria. Essa
fu preparata, sia pure in modo indiretto e da lontano, nei corsi su
Aristotele che il giovane Martin Heidegger tenne a Friburgo
(1919-1923) e Marburgo (1923-1928). Nello sviluppare il programma
filosofico di una ‟ermeneutica della fatticità" e di una ‟analitica
dell'esistenza", che si prefiggeva di cogliere la vita umana nella
sua dinamica propria, Heidegger adottò come filo conduttore
Aristotele, in particolare l'Etica Nicomachea. Le sue
lezioni, che mettevano magistralmente in luce l'attualità delle
intuizioni di Aristotele contro la tradizione teoreticistica
moderna, furono seguite allora, tra gli altri, da Hans-Georg
Gadamer, Hannah Arendt, Joachim Ritter, in parte anche da Leo
Strauss, cioè da autori che con i loro scritti furono in seguito i
principali ispiratori o promotori della riabilitazione della
filosofia pratica e del neoaristotelismo.
2) Un secondo fermento che indirettamente contribuì a preparare il
fenomeno fu la riscoperta, negli anni cinquanta, della filosofia
politica classica da parte di alcuni filosofi della politica
tedeschi emigrati in America, cioè Strauss (v., 1950, 1959 e 1964),
Eric Voegelin (v., 1952 e 1959) e la già ricordata Arendt (v.,
1958). In generale essi rivendicarono l'attualità della filosofia
politica di Platone e Aristotele, da loro intesa come un sapere
normativo finalizzato alla realizzazione della buona costituzione,
contro la scienza politica moderna intesa invece come mera indagine
descrittiva e neutrale dei fatti politici.
3) Preparato da questi prodromi, il dibattito sulla riabilitazione
della filosofia pratica si sviluppò in Germania negli anni sessanta
in seguito all'influenza di testi come Wahrheit und Methode
di Gadamer (v., 1960), Vita activa della Arendt (v., 1958
e 1960), Politik und praktische Philosophie di Wilhelm
Hennis (v., 1963), Metaphysik und Politik di Ritter (v.,
1969). Ciascuno a suo modo, questi scritti contribuirono alla
riscoperta della concezione aristotelica del sapere pratico, che
veniva rievocata e messa in campo sia contro alcuni esiti
unilaterali della scienza politica moderna, quali il positivismo e
lo storicismo, sia contro le concezioni moderne dell'etica che
separano virtù e felicità e che restringono l'etica a una mera
dottrina della virtù. Parallelamente alla riscoperta di Aristotele
si ebbe anche una riconsiderazione del pensiero etico, giuridico e
politico di Kant, riproposto come modello da seguire vuoi in
alternativa ad Aristotele, vuoi in combinazione con Aristotele (v.
Held, 1981; v. Ilting, 1994; v. Riedel, 1975, 1988 e 1989; v. Höffe,
1971, 1979 e 1987; v. Vollrath, 1977 e 1987).
4) Il rinnovato riferimento a questi due paradigmi classici è
sfociato negli anni settanta in una discussione corale in merito
all'attualità dei problemi dell'agire e della razionalità pratica.
In tale dibattito hanno preso la parola tutte le principali scuole
filosofiche tedesche, in particolare: a) la vecchia Scuola di
Francoforte di ispirazione hegeliano-marxista, attraverso Theodor
Wiesengrund Adorno e il giovane Jürgen Habermas; b) il razionalismo
critico, rappresentato in Germania da Hans Albert, Hans Lenk e, in
una certa misura, anche da Ernst Topitsch; c) l'ermeneutica
filosofica, sostenuta in primis da Gadamer e dai suoi
allievi diretti (Rüdiger Bubner, Jürgen-Eckhardt Pleines), ma anche
da Ritter e dalla sua scuola (Hermann Lübbe, Odo Marquard, Willi
Oelmüller, Günther Bien, Reinhart Maurer), nonché da un pensatore
versatile come Riedel; d) il costruttivismo della cosiddetta Scuola
di Erlangen, fondata da Paul Lorenzen, sviluppata da Friedrich
Kambartel, Jürgen Mittelstrass e Oswald Schwemmer, poi però
disunitasi; e) infine, la nuova Scuola di Francoforte - di Karl-Otto
Apel e dell'ultimo Habermas - che ha sviluppato il programma di
un'etica del discorso (o della comunicazione) fondata su una
pragmatica trascendentale (o universale).
Lo sviluppo teorico-sistematico del dibattito, qui distinto per
comodità dall'originaria riscoperta di Aristotele e di Kant, può
essere fatto cominciare al più tardi dal 1969, cioè dalla data del
IX Congresso tedesco di filosofia. In tale occasione - nelle
relazioni di Lorenzen (Das Problem des Szientismus), di
Habermas (Bemerkungen zum Problem der Begründung von
Werturteilen) e di Richard M. Hare (Wissenschaft und
praktische Philosophie): in proposito, v. Landgrebe, 1972 -
la discussione dei problemi riscoperti e riproposti dalla
‛riabilitazione della filosofia pratica' fu sganciata dal
riferimento ai paradigmi tradizionali, quello aristotelico e quello
kantiano, per essere esplicitamente sviluppata da prospettive e
posizioni filosofiche odierne. Fu in questa fase che si prese piena
consapevolezza del carattere ‛neoaristotelico' degli spunti di
Gadamer, Ritter, Arendt, Hennis. E a tal proposito va detto che la
designazione ‛neoaristotelismo' fu messa in circolazione da Habermas
e Apel, che la usarono specialmente per criticare la posizione
etico-politica propria dell'ermeneutica, sostenitrice dell'attualità
della prudenza e della corrispondente concezione della felicità,
alla quale essi contrapponevano il programma postkantiano di
un'etica del discorso, dal carattere universalistico, deontologico e
formalistico.
5) Come un ulteriore sviluppo di tale dibattito può essere
considerata la discussione intorno all'‛etica della responsabilità',
che si è sviluppata più tardi in riferimento al libro di Hans Jonas
Das Prinzip Verantwortung (v., 1979), il quale, nelle sue
argomentazioni fondative preliminari, opera con alcuni assunti di
derivazione aristotelica (v. Volpi, Le ‟paradigme
perdu"..., 1993). In connessione con la discussione circa le
possibili applicazioni del ‛principio responsabilità' (v. Jonas,
1985) e, inoltre, con lo sviluppo delle cosiddette ‛etiche
applicate' - come l'etica della medicina, l'etica dell'ambiente o
l'etica economica - il concetto di ‛filosofia pratica' è stato
impiegato - in una accezione molto dilatata, e distorta rispetto
alle sue origini e alla sua semantica specifica - per indicare in
generale l'etica applicata (v. Bayertz, 1991; un equivoco analogo in
Pontara, v., 1988).
3. Temi, problemi ed esponenti dell'odierno neo
aristotelismo tedesco
La complessità del dibattito e la sua irriducibilità a un
denominatore comune rendono difficile una valutazione d'insieme. Da
un punto di vista generale, comunque, si può dire che la
riabilitazione della filosofia pratica si sia sviluppata
nell'orizzonte di una istanza ‛neofondativa', nel senso che essa
mirava a ridefinire un quadro filosofico-concettuale e un modello di
razionalità pratica che consentissero di uscire dall'impasse
in cui avevano condotto alcune idee vincenti del pensiero
sociologico post-weberiano, prima fra tutte la convinzione che la
comprensione dell'agire umano messa in atto dalle scienze sociali
debba essere ‛avalutativa', ossia neutrale rispetto ai valori. In
generale, contro o a correzione dell'unità monologica dell'idea
moderna di ragione, tale istanza neofondativa si è tradotta nella
dichiarazione programmatica della necessità di differenziare i
paradigmi della razionalità in corrispondenza della polimorfia degli
ambiti considerati, e quindi anche di ritagliare un paradigma di
razionalità pratica omogeneo e adeguato all'agire e alla sua
peculiarità. In questo senso la ‛riabilitazione della filosofia
pratica', che peraltro solo raramente è andata oltre la mera
dimensione programmatica, è stata più un fenomeno di reazione alla
modernità che non una riappropriazione di Aristotele e
dell'aristotelismo politico.
Per sviluppare un'analisi dei contenuti e delle diverse proposte in
essa emerse, bisognerebbe indagare quali ragioni abbiano provocato
questo movimento di reazione, nella comprensione dell'agire e del
sapere che lo concerne, rispetto alle tendenze più proprie della
modernità. E a tal fine bisognerebbe non solo riconsiderare le
diverse tradizioni alle quali nella genesi e nello svolgimento del
dibattito si è fatto rispettivamente riferimento, ma, risalendo
storicamente più indietro, bisognerebbe esaminare altresì come in
epoca moderna, in seguito alla identificazione della scientia
con la theoria e all'affermarsi dell'ideale unitario del
metodo, la comprensione dell'agire e del sapere corrispondente abbia
subito una profonda trasformazione, e come in ragione di ciò siano
venute meno la possibilità e l'idea stessa di una ‛scienza pratica'.
Sarebbe inoltre interessante studiare in quale misura questa
tendenza di sviluppo abbia successivamente condotto a una crisi del
moderno ideale unitario di razionalità e di sapere scientifico, per
mostrare poi come il ricorso alla cosiddetta tradizione della
filosofia pratica sia interpretabile come una reazione a tale crisi.
Comunque stiano le cose in merito alle origini della riabilitazione
della filosofia pratica e ai fattori che ne hanno promosso lo
sviluppo, la spinta iniziale più consistente venne da posizioni
filosofiche che furono designate con il termine generale di
‛neoaristotelismo' (v. Schnädelbach, 1986; v. Volpi, Che cosa
significa..., 1988, e Réhabilitation de la...,
1993). Per quanto diversi siano stati i modi di riferirsi ad
Aristotele, e per quanto tale riferimento sia stato condizionato da
aspettative odierne, è certo che agli inizi del dibattito si
verificò una forte convergenza nel riconsiderare il paradigma di
sapere definito dall'etica e dalla politica di Aristotele. In questo
senso agli inizi degli anni sessanta i lavori dianzi citati di
Gadamer, Arendt, Hennis e Ritter hanno fornito una serie di spunti
di riflessione importanti per la riconsiderazione della
determinazione aristotelica del sapere pratico, sia quello della
saggezza pratica (ϕρόνησις), sia quello della scienza pratica
(ἐπιστήμη πρακτική).
a) La riabilitazione della ϕρόνησις in Gadamer
L'impulso forse più significativo è venuto dalla riabilitazione
della ϕρόνησις proposta da Gadamer in Wahrheit und Methode,
e poi sviluppata in vari saggi successivi. In un significativo e
fortunato capitolo dell'opera, Gadamer rivendica con decisione
l'‟attualità ermeneutica dell'etica aristotelica", riferendosi in
particolare a quella forma di conoscenza pratica che Aristotele
definisce come ϕρόνησις, cioè saggezza pratica, che è appunto il
sapere di tipo pratico-morale capace di orientare l'agire alla sua
riuscita, vale a dire al bene (v. Gadamer, 1985-1995, vol. I, pp.
317-329). In verità, dall'impianto dell'opera e dall'argomentazione
ivi sviluppata risulta chiaro che lo scopo principale cui Gadamer
mira è quello di trovare un modello per definire il sapere all'opera
nel processo ermeneutico del comprendere, e che egli è convinto di
poterlo trovare nella concezione aristotelica del sapere pratico, al
quale si riferisce in termini generici senza troppo preoccuparsi di
distinguere tra saggezza e scienza pratica. Secondo Gadamer,
infatti, il sapere pratico teorizzato da Aristotele, in cui
universale e particolare si compenetrano, offre un paradigma per
risolvere il problema ermeneutico dell'applicazione, in cui è in
gioco fin dagli inizi un reciproco condizionarsi di universale e
particolare. È questo il tipo di sapere che Gadamer, sulla scia di
Heidegger, considera proprio della comprensione (Verstehen),
intesa come la struttura stessa dell'‟essere nel mondo e nella
storia" che caratterizza la vita umana. L'ermeneutica filosofica
pensa di trovare nel concetto aristotelico di ϕρόνησις un ausilio
per definire quel sapere in cui tale struttura si fa trasparente.
Questa precisa limitazione, da parte di Gadamer, nello sfruttamento
della filosofia pratica aristotelica, non ha impedito che le sue
argomentazioni circa l'attualità della ϕρόνησις fossero recepite in
un senso più ampio, e venissero dunque sganciate dallo specifico
contesto ermeneutico in relazione al quale erano state avanzate. È
avvenuto così che l'ermeneutica gadameriana - in congiunzione con
l'interesse suscitato anche dai ricordati studi di Arendt, Hennis e
Ritter - desse un contributo decisivo alla riabilitazione della
filosofia pratica. Non è esagerato dire che essa abbia svolto la
funzione di punto di riferimento per gran parte delle riprese e dei
riferimenti all'etica e alla politica di Aristotele che si sono
avuti, oltre che in filosofia, anche in altri campi disciplinari, e
che sono stati designati come ‛neoaristotelismo'.
Va aggiunto inoltre che l'interesse dell'ermeneutica per la
filosofia pratica aristotelica non è stato occasionale ed episodico,
ma ha radici profonde. Oggi, dopo la pubblicazione dei corsi
universitari del giovane Heidegger, abbiamo la possibilità di
constatare in quale misura la riscoperta gadameriana della ϕρόνησις
dipenda dall'interpretazione di Aristotele proposta da Heidegger
nelle lezioni di Friburgo e Marburgo, che, come si è detto, pongono
le lontane condizioni della ‛riabilitazione della filosofia
pratica'. Oggi sappiamo, tra l'altro, che le idee contenute nel
summenzionato capitolo di Wahrheit und Methode erano già
state elaborate da Gadamer in un saggio, scritto nel 1930 ma
pubblicato solo di recente (v. Gadamer, 1985), dal titolo Praktisches
Wissen, nel quale è compendiata e sviluppata
l'interpretazione dell'Etica Nicomachea proposta nei corsi
universitari heideggeriani.
Negli scritti successivi a Wahrheit und Methode Gadamer ha
ulteriormente enfatizzato il richiamo alla filosofia pratica
aristotelica, facendone uno dei motivi di fondo sui quali ha
insistito nel presentare la prospettiva filosofica dell'ermeneutica.
Ciò è avvenuto specialmente nei saggi Hermeneutik als
praktische Philosophie (1972), Die Idee des Guten
zwischen Plato und Aristoteles (1978), Vom Ideal der
praktischen Philosophie (1980), dove Gadamer ha precisato in
che senso ed entro quali limiti sia da intendere la sua ripresa di
Aristotele, nella consapevolezza di non poter proporre una semplice
ripetizione e quindi nella volontà di impegnarsi in un rapporto
critico con il grande filosofo greco. La disposizione di fondo nella
quale Gadamer si è rifatto alla filosofia pratica aristotelica è
stata dunque quella di una libera interpretazione che ha trasformato
alcune intuizioni fondamentali di Aristotele per applicarle a
problemi e aporie del pensiero contemporaneo.
b) La riabilitazione della πρᾶξις nella Arendt
Nelle analisi critiche che la Arendt ha svolto in Vita activa
è riconoscibile una ‛riabilitazione della πρᾶξις'. Preoccupata degli
esiti patologici ai quali è giunto il mondo moderno, organizzato
secondo gli imperativi del lavoro e della tecnica, la Arendt ha
attirato l'attenzione sul concetto aristotelico di πρᾶξις e sulla
sua funzione di paradigma nella comprensione dei caratteri genuini e
originari del ‛politico' (distinto dalla politica), mettendone in
luce l'utilità per l'analisi delle varie forme della pluralità umana
e per la critica delle istituzioni politiche che le corrispondono.
Al pari della riabilitazione gadameriana della ϕρόνησις, anche la
riscoperta arendtiana della πρᾶξις dipende, nelle sue motivazioni di
fondo, dall'insegnamento del giovane Heidegger. Per quanto ciò possa
stupire - tanto più in considerazione dell'ottusità politica che
Heidegger manifestò nel 1933 - fu proprio lui a insegnare che il
carattere originario della vita umana è l'agire, la prassi intesa
nel senso aristotelico di azione, distinta dalla produzione e dalla
teoria. Fu Heidegger a far vedere come il tradizionale privilegio
accordato alla teoria e il corrispondente primato della presenza
avessero fatto della prassi, vale a dire della vita umana, un
oggetto lì presente, una cosa tra le cose, da osservare e
descrivere. Analogamente, la Arendt mira a decostruire il
‛teoreticismo' del pensiero politico tradizionale, che ingabbia il
carattere aperto dell'azione entro la stabilità di categorie e
schemi teorici a essa estranei, oggettivanti e reificanti. La sua
convinzione è che il pensiero politico occidentale occulti il
carattere di possibilità dell'agire politico e lo ri(con)duca
nell'orizzonte del mero produrre. Tale tendenza verrebbe portata
all'estremo nel mondo moderno: qui ogni attività umana viene ridotta
a lavoro; qui il ‛politico' è ormai soltanto amministrazione
politica, cioè tecnica per la conservazione e la gestione del
potere. L'eclissi dei caratteri autentici e originari del ‛politico'
è allora totale. È questa, per la Arendt, la radice più profonda
della moderna desertificazione del mondo e della fuga dell'individuo
‟dal mondo del deserto, dalla politica, verso... non importa dove"
(v. Arendt, 1993; tr. it., p. 183).
Per opporsi a tale tendenza la Arendt proclama l'urgenza di
rivalutare i caratteri dell'agire politico screditati dalla
tradizione: la sua pluralità e imprevedibilità, la sua
irripetibilità e irreversibilità, la sua originalità nel duplice
senso di novità e inizialità: in una parola, la sua libertà. L'agire
politico è un agire senza scopi perché conosce soltanto finalità
disinteressate: la gloria (che ci è nota dal mondo omerico), la
libertà (testimoniata dalla Atene del periodo classico), la
giustizia e anche l'uguaglianza, intese come ‟convinzione della
originaria dignità di tutti coloro che hanno volto umano". Se
Heidegger aveva riscoperto la prassi, racchiudendola però
nell'orizzonte di un rigido solipsismo della decisione in cui
l'esistenza sta sola di fronte al suo nudo destino, la Arendt
riprende l'intuizione heideggeriana ma la rovescia, esaltando il
carattere intersoggettivo, plurale, pubblico, ossia politico,
dell'agire (v. Volpi, 1987).
c) La riabilitazione del metodo topico-dialettico in Hennis e
Bubner
Confrontandosi con la crisi di identità metodologica della scienza
politica, in Politik und praktische Philosophie Hennis ha
individuato la causa principale di tale crisi nel prevalente
orientamento della scienza politica moderna secondo l'ideale del
metodo analitico. Esso risulta eterogeneo e riduttivo, dunque alla
lunga inapplicabile, rispetto alla peculiare natura delle azioni
umane. Se nondimeno viene loro applicato, ciò accade al prezzo di
trasformare le azioni in processi o eventi che, al pari di quelli
naturali, possono essere osservati e descritti nella loro meccanica.
In alternativa a ciò egli ha proposto una ‛riabilitazione del metodo
topico-dialettico'. Teorizzato per la prima volta da Aristotele e
mantenutosi vivo attraverso varie trasformazioni nella tradizione
della retorica, tale metodo ha perduto in età moderna la sua
importanza venendo soffocato dall'affermarsi del metodo analitico
cartesiano - pur con importanti eccezioni come quelle di
Giambattista Vico e di Edmund Burke. Hennis propone di considerarlo
- pensando di potersi richiamare su questo punto ad Aristotele -
come il metodo adatto a quella scienza pratica che è la politica, il
cui oggetto mutevole non è passibile di conoscenza esatta (v.
Hennis, 1963; v. Kuhn, 1974; v. Pöggeler, 1974).
Una riabilitazione della topica quale forma di argomentazione
efficace nell'ambito del sapere pratico è stata proposta, nel quadro
di una generale rivalutazione del pensiero antico, anche da Bubner
(v., 1990). Va detto, infine, che a rinnovare l'attenzione dei
filosofi per la tradizione della retorica e della dialettica ha
contribuito in misura decisiva l'importanza che è stata assegnata a
tali discipline nell'ambito della teoria dell'argomentazione
giuridica (v. Viehweg, 1953; v. Perelman e Olbrechts-Tyteca, 1958).
d) La riabilitazione dell'ἕθος in Ritter
Con studi svolti nell'arco di due decenni e mezzo e riuniti nel 1969
in Metaphysik und Politik, e con indagini da lui promosse
nella sua scuola (v. Bien, 1973; v. Marquard, 1973; v. Oelmüller,
1978-1979; v. Spaemann, 1977), Ritter ha proposto una
‛riabilitazione dell'ἕθος'. Operando un connubio tra l'idea
aristotelica del sapere pratico e la determinazione hegeliana della
Sittlichkeit - ovvero l'eticità concreta contrapposta
all'universalità astratta della Moralität, cioè alla virtù
che va contro il corso del mondo - egli ha sottolineato il
necessario compenetrarsi della ragione pratica con il contesto
concreto della sua attuazione e, criticando gli intellettualismi
etici e gli utopismi politici contemporanei, ha assegnato la
preminenza, nella valutazione dell'agire, alla riuscita di una forma
di vita, cioè di un ἕθος concreto, rispetto al criterio
dell'osservanza di principî universali astratti.
Tutti questi spunti, focalizzando l'interesse sul pensiero
aristotelico, ne hanno innescato una ripresa assai diffusa, che in
generale è partita però da esigenze metodologiche o epistemiche
contemporanee, dunque estranee al pensiero aristotelico, e che solo
raramente è maturata dallo studio diretto della filosofia pratica
aristotelica nella sua specifica strutturazione e nella sua
diversità rispetto alla concezione moderna del sapere. Si sono così
avute incursioni rapsodiche e occasionali, la cui finalità di fondo
è stata principalmente quella di ricavare da Aristotele spunti e
intuizioni da sfruttare nel dibattito contemporaneo. Peraltro, più
che ad Aristotele stesso, ci si è genericamente richiamati alla
cosiddetta ‛tradizione della filosofia pratica' - mantenutasi viva
nel sistema scolastico-universitario dell'area tedesca - e ad alcune
intuizioni epistemiche fondamentali che insieme a essa si sarebbero
trasmesse, prima fra tutte la differenziazione di sapere teoretico,
pratico e poietico, messa in campo contro la moderna unità del
metodo e contro il corrispondente ideale di scientificità.
4. La tradizione della filosofia pratica
In effetti, indipendentemente da un riferimento preciso e rigoroso
ad Aristotele, nella storia dei sistemi del sapere e della sua
trasmissione è possibile rintracciare la presenza di una continuità
disciplinare della cosiddetta philosophia practica,
tripartita in etica, economia e politica, e più tardi in etica,
diritto e politica, che viene distinta dalla philosophia
theoretica e dalla philosophia mechanica. Si è
anche affermata la consuetudine, sul piano della storia del pensiero
politico, di parlare di ‛aristotelismo politico' per indicare la
relativa continuità - dall'antichità al Medioevo, e sino agli inizi
dell'età moderna - di alcune dottrine di provenienza aristotelica,
come l'assunto della natura politica dell'uomo, la distinzione tra
la comunità domestica e la comunità politica, la teoria delle
diverse forme di costituzione e dei loro mutamenti.
In verità, la tripartizione della filosofia pratica in etica,
economia e politica non risale propriamente ad Aristotele, il quale
distingue semmai soltanto diverse forme di ϕρόνησις in relazione
all'agire nella πόλις, all'agire nell'οἶκος e all'agire individuale
(v. Etica Nicomachea, VI, 8), ma non tre forme di ἐπιστήμη
πρακτική, giacché questo termine non indica delle discipline, ma una
modalità del sapere. La tripartizione fu introdotta e si affermò
solo più tardi, nella cultura latina, specialmente con Boezio, che
ne parla nel suo commento all'Isagoge di Porfirio. La si
ritrova poi, nelle variazioni più diverse, nelle principali
enciclopedie medievali come il De artibus ac disciplinis
di Cassiodoro, le Etymologiae di Isidoro di Siviglia, lo Speculum
quadruplex di Vincenzo di Beauvais, il Didascalicon
di Ugo di San Vittore, il De divisione philosophiae di
Domenico Gundisalvi, il De ortu scientiarum di Roberto di
Kilwardby.
Ma come si giunse alla formazione e all'affermazione di una
filosofia pratica autonoma? Dalla metà del XIII secolo in poi, con
la riscoperta dell'Etica e della Politica di
Aristotele, la tendenza sino allora dominante a trattare la morale e
la politica come dipendenti dalla teologia fu progressivamente
abbandonata: fu così che incominciò a costituirsi una autonomia,
almeno disciplinare, della philosophia practica. Nella
facoltà parigina delle arti, l'etica cominciò a essere insegnata
come disciplina autonoma già intorno al 1215 (v. Wieland, 1981).
Dapprima l'insegnamento si basò sulla traduzione dei libri II e III,
1 dell'Etica Nicomachea, cioè sulla cosiddetta Ethica
vetus, comprendente la dottrina della virtù; poi anche sulla
successiva traduzione del libro I, ossia sulla cosiddetta Ethica
nova, contenente la dottrina della felicità e la connessione
dell'etica con la politica. Infine sull'intera Etica Nicomachea,
che nel frattempo, intorno al 1246-1247, era stata messa in latino
da Roberto Grossatesta. Lo sforzo di conciliare l'etica aristotelica
con la teologia divenne particolarmente arduo dopo la traduzione
dell'Ethica nova, poiché essa poneva il Medioevo cristiano
faccia a faccia con la dottrina aristotelica della felicità intesa
in senso terrestre, cioè pagano. Si ebbe allora, per prima cosa, un
ridimensionamento dell'idea aristotelica dell'εὐδαιμονία, che venne
subordinata alla beatitudo caelestis. Ma questo sforzo di
conciliazione condusse anche a un'interpretazione teoreticistica
dell'etica aristotelica, la quale venne intesa sempre più come ethica
docens piuttosto che come ethica utens (v. Delhaye,
1988; v. Wieland, 1981). In ogni caso, l'insegnamento della
filosofia nelle università incominciò a essere organizzato in modo
tale che, oltre alle lezioni dell'organicus che trattava la
logica secondo i libri dell'Organon, e oltre a quelle del philosophus
naturalis e del metaphysicus, furono previste anche
le lezioni di un ethicus, che trattava l'Etica e
la Politica e più tardi anche l'economia e la
crematistica.
In tal modo la tradizione della filosofia pratica si costituì e si
mantenne viva nella cultura scolastico-medievale delle università e
delle enciclopedie, venendo tuttavia intesa di volta in volta in
maniera assai diversa, a seconda del contesto particolare nel quale
si collocava. L'insegnamento della philosophia practica
secondo la tripartizione in etica, economia e politica si mantenne
vivo a lungo, sia pure soltanto nella forma, e in Germania lo si
ritrova fino alla fine del XVIII secolo.
Molteplici e complesse sono le ragioni di questo perdurare della
filosofia pratica e della sua articolazione in Germania: un primo
fattore determinante fu la vasta influenza della aristotelizzazione
del pensiero riformato a opera del praeceptor Germaniae,
Filippo Melantone (v. Petersen, 1921). Un ruolo importante ebbe poi
la refrattarietà della cultura politica tedesca nei confronti della
espansione dell'idea moderna di politica, teorizzata da Machiavelli
e da Hobbes, che rappresentava l'antitesi più potente alla
concezione aristotelica della politica come sapere pratico
strettamente connesso all'etica. Funse da argine anche la
circostanza che la penetrazione in Germania di elementi innovativi e
antitetici alla tradizione della philosophia practica,
come il pensiero giusnaturalistico e successivamente la
cameralistica, non soppresse la vecchia tradizione, ma si innestò
piuttosto sul suo tronco (v. Sellin, 1978; v. Riedel, 1975; v.
Maier, 1966 e 1985).
In questa tradizione propria dell'insegnamento
scolastico-universitario, cui si contrappose la nuova idea di scientia
formatasi e diffusasi specialmente nell'ambito ‛laico' delle
accademie, il trattato di Christian Wolff, Philosophia practica
universalis (1738-1739), può essere considerato l'ultima
significativa presenza della strutturazione formale della philosophia
practica, ormai ben lontana e diversa dalla ἐπιστήμη πρακτική
aristotelica. La filosofia pratica era detta da Wolff ‛universale'
perché stava alla base della tripartizione formale delle discipline
pratiche, cioè della Philosophia moralis sive Ethica,
dell'Oeconomica e della Philosophia civilis sive
Politica. Se in questa tripartizione formale è riconoscibile
l'influenza della tradizione scolastico-medievale della philosophia
practica, va subito aggiunto che l'analogia rimane del tutto
esteriore. In realtà, fin dagli anni giovanili Wolff si era
interessato al nuovo metodo matematico e si era prefisso di
applicarlo a tutto lo scibile umano, quindi anche all'etica,
all'economia e alla politica. Nel 1703, presentando il primo
progetto della Philosophia practica universalis annunciava
nel sottotitolo che la trattazione era mathematica methodo
conscripta - un'idea, questa, in stridente contrasto con il
concetto aristotelico di filosofia pratica.
Tracce della trasmissione dell'etica e della politica aristotelica
si possono riconoscere anche in canali della trasmissione del sapere
diversi da quelli della tradizione scolastico-universitaria, di cui
Wolff è l'ultimo esponente di rilievo. Sarebbero da indagare in
questa prospettiva generi letterari come la trattatistica degli
‛specchi del principe', la manualistica del buon comportamento e
della ‛conversazione civile' da Castiglione e Della Casa fino a
Gracián, Knigge e alla cosiddetta ‛letteratura dei padri di casa' (Hausväterliteratur:
v. Curtius, 1948; v. Brunner, 1949 e 19682; v. Frühsorge,
1974; v. Bonfatti, 1979).
5. Le intuizioni epistemiche del neoaristotelismo
La recente riabilitazione della filosofia pratica, nel suo nucleo
caratterizzante neoaristotelico, si è richiamata alla menzionata
tradizione scolastico-universitaria, risultata perdente nella
modernità, e all'idea di philosophia practica in essa
conservata, rievocandola come alternativa rispetto alla tradizione
vincente della modernità, quella del metodo analitico e dell'idea
unitaria di scienza. Da tale tradizione, più ancora che da
Aristotele stesso, i ‛neoaristotelici' hanno ripreso alcune
intuizioni fondamentali che hanno fatto valere nel dibattito
filosofico contemporaneo sulla crisi della modernità e dell'idea di
ragione scientifica che in essa si sviluppa.
1) Essi hanno asserito la necessità di riaffermare l'autonomia della
πρᾶξις rispetto alla θεωρία, contro la subordinazione moderna
dell'agire a una considerazione di tipo teoreticistico, quindi
descrittivo e constatativo. Le comprensioni moderne dell'etica e
della politica soffrirebbero appunto, nella loro interpretazione
dell'agire, di questa subordinazione e di questa riduzione.
2) I ‛neoaristotelici' hanno poi cercato di individuare gli elementi
specifici che contraddistinguono la πρᾶξις dalla ποίησις, cioè
l'agire dal produrre, e corrispondentemente la ϕρόνησις dalla τέχνη,
il sapere pratico-morale dal sapere pratico-tecnico. Si tratta di
una distinzione importante, giacché costringe a riconsiderare il
problema dell'agire etico e politico, liberandolo da una serie di
sedimentazioni e occlusioni concettuali che ingombrano la sua
comprensione nel pensiero moderno e contemporaneo.
3) Infine, contro l'idea moderna di una razionalità meramente
descrittiva, neutrale e strumentale, i neoaristotelici hanno
affermato l'esigenza di ricomprendere i caratteri propri del sapere
connesso all'agire, cercandoli nel modello alternativo offerto dal
sapere fronetico o prudenziale di Aristotele, cioè da quel sapere
concreto, capace di orientare e guidare l'agire umano verso il suo
successo (εὐ πράττειν), ossia verso la scelta di vita migliore (εὐ
ζῆν) e la realizzazione del bene (ἀγαθόν). In ragione di questa
considerazione si capisce anche perché i neoaristotelici abbiano
criticato l'intellettualismo etico e politico così diffuso tra i
filosofi contemporanei. Essi hanno sostenuto in linea di principio
l'esigenza di riconnettere il momento cognitivo-razionale con quello
attuativo-decisionale dell'agire, riabilitando il momento della
scelta e della decisione (cioè di quella che Aristotele chiama
προαίρεσις), che nell'orizzonte della moderna comprensione
dell'agire è stato spesso demonizzato come irrazionale (Habermas) o,
al contrario, esaltato come sua essenza costitutiva (Carl Schmitt).
Contro questi due estremi, per i neoaristotelici si tratta piuttosto
di riconciliare ragione e decisione, e ciò diventa più facile se nel
contempo si ricompone anche la divaricazione tipicamente moderna tra
la razionalità universalistica dei principî dell'agire e la
contestualità storica delle consuetudini e delle istituzioni
concrete nelle quali l'agire si realizza.
6. Filosofia pratica e neoaristotelismo nelle aree
di lingua francese, italiana e anglo-americana
Queste e altre ragioni hanno fatto sì che la riabilitazione della
filosofia pratica e il neoaristotelismo tedeschi siano stati seguiti
con attenzione e interesse anche al di fuori della Germania, in
particolare in Francia e in Italia.
a) L'analisi della ‛prudenza' in Aubenque
In Francia, già agli inizi degli anni sessanta e con un approccio
autonomo rispetto al dibattito tedesco, Pierre Aubenque ha svolto
una sua indagine intorno alla ϕρόνησις aristotelica, sottolineando,
pur senza professarsi neoaristotelico, l'importanza che essa può
avere come modello di sapere pratico (v. Aubenque, 1963). Egli ha
assunto però un atteggiamento critico nei confronti delle troppo
facili e immediate trasposizioni della ‛prudenza' antica nel
contesto dei problemi moderni, e ha invitato a considerare con
attenzione le trasformazioni che tale concetto subisce, rispetto
all'archetipo aristotelico, già nel mondo tardo antico e poi in
quello medioevale e moderno fino a Kant (v. Aubenque, 19863
e 1993). Le sue precisazioni, in particolare il risalto da lui dato
alla differenza tra la ϕρόνησις, quale capacità di agire bene, e la
ἐπιστήμη πρακτική, cioè la ‛scienza pratica' quale modalità del
sapere etico e politico che si occupa in maniera scientifica di ciò
che si può fare (πρακτόν), aiutano a capire quante precisazioni
siano necessarie per non cadere in quei richiami generici ad
Aristotele che caratterizzano il neoaristotelismo tedesco.
Contestualmente, Aubenque ha messo in guardia dalle illusioni
riposte nella riscoperta del sapere fronetico, che rimane legato
alla prospettiva dell'individuo singolo e risulta inefficace nelle
situazioni del mondo complesso della tecnica e delle moderne società
di massa (v. Aubenque, 1993).
b) Le critiche alla riabilitazione della filosofia pratica
nella Scuola di Padova
La riabilitazione della filosofia pratica è stata oggetto di una
particolare attenzione in Italia, dove il centro principale della
discussione è stata la Scuola di Padova, costituitasi intorno a
Enrico Berti. Lo studio di Aristotele, che vanta nell'Università
patavina una tradizione secolare, ha favorito il maturare di
un'attenzione specifica per i problemi della filosofia pratica e del
neoaristotelismo etico-politico (v. Berti, 1992 e 1993; v. Natali,
1989; v. Pacchiani, 1980; v. Volpi, 1980, 1986, 1990 e 1992; v.
anche, dello stesso autore, Che cosa significa..., 1988 e
Réhabilitation de la..., 1993).
Proprio in ragione dello studio più approfondito di Aristotele, in
Berti e nei suoi allievi, alla speciale attenzione per la filosofia
pratica e il neoaristotelismo sono seguite la presa di distanze e la
critica. Si è rilevato, per esempio, che nel riprendere le
intuizioni portanti della filosofia pratica il neoaristotelismo le
ha scorporate dal quadro epistemico complessivo di Aristotele, e ciò
ha finito per rendere problematiche e inefficaci le singole
riabilitazioni della ϕρόνησις, della πρᾶξις, dell'ἕθος o del metodo
topico-dialettico.
Rispetto alla proposta di Gadamer, che riabilita il sapere pratico
della ϕρόνησις come risorsa contro la crisi dell'idea moderna di
ragione e la sua incapacità di indicare senso e finalità ultime
all'agire, si è fatto notare che il sapere fronetico è in Aristotele
un sapere relativo ai mezzi e non al fine stesso (che è invece
presupposto dalla ϕρόνησις). E se ciò che manca al mondo moderno,
nella sua ‛imprudenza', non sono certo i mezzi, che la scienza mette
a disposizione in misura sempre maggiore, bensì i fini, non si vede
allora come possano venire dalla saggezza pratica indicazioni sul da
farsi. In Aristotele la ϕρόνησις poteva garantire l'equilibrio tra
l'efficacia dei mezzi e la qualità morale dei fini, e quindi la
riuscita dell'agire, perché era pensata nel quadro specifico
tracciato dalla scienza politica. Nell'ermeneutica, invece, la
riabilitazione della ϕρόνησις manca il suo scopo, perché non è in
grado di ricostruire un quadro di riferimento analogo a quello
aristotelico. Nell'assenza di un siffatto quadro, la ϕρόνησις perde
la sua qualificazione morale e - come già era accaduto in età
moderna alla prudencia o arte dell'ingegno di Baltasar
Gracián - diventa mera abilità calcolativa dell'utile e del
vantaggioso (per dirla con Aristotele, semplice δεινότης). Essa
rischia peraltro di diventare un'ideologia, e precisamente, come
alcuni sostengono, l'ideologia di un moderato relativismo culturale
di stampo conservatore, come sarebbe appunto quello di Gadamer.
In rischi e fraintendimenti analoghi incorre la ‛riabilitazione
della πρᾶξις' operata dalla Arendt. Per quanto importanti siano i
frutti che ella ha ricavato dalla riscoperta di questo concetto
aristotelico, specialmente per la critica del concetto moderno di
lavoro, bisogna nondimeno osservare che il suo fortunato libro Vita
activa ha avallato in qualche misura un equivoco circa
l'importanza attribuita da Aristotele all'agire e alla vita pratica:
Aristotele infatti non intende esaltare la πρᾶξις e il βίος
πολιτικός, ma vuole piuttosto creare, mediante la scienza politica,
le condizioni che consentano la realizzazione di quella forma
suprema di πρᾶξις che è la θεωρία.
Quanto poi alla ‛riabilitazione dell'ἕθος' a opera di Ritter, anche
in questo caso va osservato che l'aspirazione di Aristotele
all'ideale della vita contemplativa segnala che la sua filosofia
pratica non è affatto una celebrazione dell'ἕθος vigente nella πόλις
- quello della vita pratico-politica che mira agli instabili onori -
ma aspira alla realizzazione di una forma di vita che garantisca una
felicità duratura, quella che può offrire la vita
teoretico-contemplativa, considerata privilegio di pochi iniziati,
cioè dei filosofi.
Infine, circa la riabilitazione del metodo topico-dialettico, essa è
già stato oggetto di critiche in Germania (v. Kuhn, 1974; v.
Pöggeler, 1974). La principale obiezione cui essa va incontro è che
per Aristotele la dialettica non è una scienza, come per Platone; è
piuttosto la capacità di discutere e argomentare che risulta utile a
diversi scopi, tra i quali quello di favorire le scienze
filosofiche, aiutando a distinguere meglio in ogni questione il vero
dal falso e insegnando a trovare le proposizioni prime dalle quali
parte la dimostrazione apodittica della scienza. In quanto
preliminare alla scienza vera e propria, la dialettica non può
essere il metodo di una scienza quale è la ἐπιστήμη πρακτική.
c) Elementi di ‛filosofia pratica' nella
cultura filosofica anglo-americana
Anche nella cultura filosofica anglo-americana, in particolare in
due dibattiti importanti per l'etica e la politica, è possibile
rintracciare un interesse per Aristotele, che può essere messo a
confronto con la riscoperta neoaristotelica della filosofia pratica,
pur non essendovi alcuna contiguità tra i due fenomeni.
Il primo di tali dibattiti ha avuto per tema il cosiddetto
‛ragionamento pratico' (practical reasoning) o ‛inferenza
pratica' (practical inference) e ha richiamato l'attenzione
sul fatto che Aristotele, con la sua dottrina del ‛sillogismo
pratico', fornisce un valido paradigma per tale tipo di
ragionamento. Il problema da cui ha preso le mosse la discussione
era stato posto dall'ultimo Wittgenstein, il quale si interrogava su
come fosse possibile descrivere adeguatamente le azioni umane, dal
momento che il loro senso e le loro finalità sfuggono a una
descrizione che colga semplicemente la sequenza meccanica di causa
ed effetto. Per esempio, l'azione del pompare acqua per innaffiare
un giardino non è adeguatamente descritta se ci si limita a
registrare i movimenti del braccio come un semplice movimento di
leve. Oltre l'aspetto fisico esteriore dell'azione bisogna cogliere
il suo senso, cioè la finalità che l'agente si propone di
raggiungere ragionando circa i mezzi opportuni per farlo. Ebbene,
Elizabeth Anscombe ha cercato di dimostrare che il sillogismo
pratico descritto da Aristotele fornisce a tal fine un modello di
spiegazione efficace (v. Anscombe, 1957; v. Müller, 1982). Georg
Henrik von Wright ha sviluppato queste analisi ricavandone una
teoria dell'azione e distinguendo in prospettiva metodologica due
tipi di approccio conoscitivo per cogliere e descrivere azioni ed
eventi, cioè la ‛spiegazione' (explaining) e la
‛comprensione' (understanding). Estendendo poi questa
distinzione alla storia della scienza, egli ha sostenuto che la
prima operazione conoscitiva sarebbe propria della scienza moderna,
la seconda invece sarebbe vicina alle intuizioni epistemiche di
Aristotele (v. von Wright, 1971; v. Apel 1979).
L'altro dibattito che, per i problemi toccati e per il suo
contrapporsi alle concezioni etiche e politiche della modernità, può
essere messo a confronto con la riabilitazione della filosofia
pratica neoaristotelica, è quello sul cosiddetto ‛comunitarismo'. Il
termine è stato introdotto da Michael Sandel per indicare una
concezione della società opposta a quella individualistica del
liberalismo, ed è diventato la designazione di un movimento di
pensiero che si è sviluppato soprattutto negli Stati Uniti ed è poi
stato recepito e discusso anche in Europa. Nel contrapporsi al
liberalismo individualistico, in campo etico il comunitarismo ha
criticato soprattutto l'inefficacia dell'universalismo della maggior
parte delle fondazioni postkantiane della morale, sostenendo che
imperativi e principî universali rimangono astratti e non sono
sufficienti a produrre virtù. Quest'ultima può nascere soltanto nel
contesto di forme concrete di vita - con le quali l'individuo può
identificarsi - sviluppate in una comunità reale. Per il
comunitarismo, quindi, la riuscita dell'agire non dipende tanto
dalla conformità a principî universali ai quali l'uomo nel suo agire
dovrebbe tendere, bensì dall'inserimento organico di chi agisce in
una comunità nella quale norme e massime di comportamento vengono
assunte come valide con il riconoscimento della propria appartenenza
alla comunità stessa. Le riflessioni più significative del
comunitarismo, nella prospettiva delle affinità con la filosofia
pratica, sono quelle di Alasdair MacIntyre (v., 1981) in After
virtue e di Martha Nussbaum (v., 1990 e 1993), la quale ha
parlato di un ‟aristotelismo socialdemocratico".
7. Conclusione
Pur nella consapevolezza della necessità di un giudizio
differenziato che tenga conto delle molteplici forme in cui la
‛riabilitazione della filosofia pratica' è stata interpretata, si
può dire che essa ha avuto un merito fondamentale: quello di
riproporre alcune intuizioni epistemiche fondamentali per la
determinazione del sapere pratico, richiamando l'attenzione su una
comprensione dell'agire e del corrispettivo sapere alternativa a
quella moderna, e mettendo in evidenza le perdite che, sotto questo
aspetto, la modernità ha comportato. Essa ha così risvegliato una
consapevolezza critica nei confronti dei paradigmi etico-politici
della modernità e, mostrando le conseguenze implicite
nell'identificazione paleomoderna e moderna di scientia e
theoria, ha posto le condizioni per capire più
approfonditamente quali siano state le radici storico-filosofiche e
le ragioni epistemiche che hanno determinato il venire meno, in età
moderna, della possibilità di un'etica e di una politica intese come
‛filosofia pratica' o scienza pratica.