Pragmatismo
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Enciclopedia online
Indirizzo di pensiero sorto negli USA intorno al 1870 e diffusosi
più tardi in Europa,
dove ebbe il maggior successo nei primi decenni del Novecento.
1. C.S. Peirce:
dal pragmatismo al pragmaticismo
Il termine (pragmatism) deriva, come
disse il fondatore di questa corrente C.S. Peirce, dalla ripresa
della distinzione kantiana tra pratico (il razionale nella sua
autonomia come principio a priori della legge morale) e
pragmatico (il razionale come mezzo per raggiungere uno scopo).
Tuttavia la concezione pragmatica della ragione è usata qui in
un contesto del tutto diverso da quello kantiano e fortemente
influenzato dalla teoria dell’evoluzione e dalla concezione
della coscienza come forma di comportamento volto alla difesa e
all’affermazione della vita. La ricerca si configura quindi come
la risposta a una sorta di ‘irritazione’, ossia al turbamento di
una credenza a cui corrispondeva un’abitudine, per realizzare
una nuova credenza capace di fondare una nuova abitudine più
adeguata ed efficace. Così il p. rivolge una critica radicale al
pensiero cartesiano, soprattutto al criterio di verità secondo
cui sarebbe possibile cogliere intuitivamente il carattere
chiaro e distinto delle idee.
Come dice il celebre saggio di Peirce How to make our ideas clear
(1878), il problema è esattamente l’opposto, e cioè di rendere
chiare le nostre idee, e questo non può avvenire mediante
l’intuizione e l’introspezione. Si tratta invece di definire il
significato di un’idea, scoprendo quali abitudini o conseguenze
essa produca. Emergono così due aspetti essenziali del metodo
pragmatistico: da un lato la ‘pubblicità’ della verità e dei suoi
criteri, nel senso che si tratta d’individuare nessi razionali
verificabili intersoggettivamente; dall’altro l’importanza
determinante della dimensione temporale o più esattamente del
futuro, in quanto il significato di un’idea non può mai essere
ritrovato nella sua conformità a un fatto antecedente (anche i
cosiddetti ‘dati’ dell’esperienza e le idee ‘semplici’ di cui
parlava l’empirismo tradizionale sono il risultato di operazioni
di ricerca), ma soltanto nelle conseguenze a cui può dar luogo la
sua adozione.
Alle critiche rivolte al p. da quanti vollero scorgere in questa
filosofia un’esaltazione indiscriminata del successo connessa ai
caratteri utilitaristici della società americana di fine
Ottocento, Peirce reagì non soltanto proponendo un nuovo nome per
la sua teoria, e cioè il termine ‘pragmaticismo’ (The issues of pragmaticism e What pragmatism is, 1905), ma
soprattutto sottolineando come il p. non sia affatto la
glorificazione di fini empirici o particolari, bensì la ricerca di
una sempre maggiore razionalità dell’esperienza e del
comportamento.
2. Da
W. James a J. Dewey
Se le precisazioni di Peirce sul
carattere fondamentalmente logico e metodologico della
concezione pragmatistica ebbero un seguito nel Novecento, è
anche vero che alla fine dell’Ottocento con l’opera di W.
James e di F.C.S. Schiller il p. accentuò i suoi aspetti
etici e vitalistici. Interessato soprattutto a problemi
psicologici, morali e religiosi, James
dette infatti al p. una svolta che doveva accostarlo
maggiormente alle filosofie della vita e dell’intuizione che si
andavano allora diffondendo in Europa. Per James quello che
conta è il carattere personale e continuo della coscienza, anzi
della ‘corrente di coscienza’ ai cui caratteri deve
primariamente rifarsi ogni ricerca. Il campo di riferimento
principale del p. si sposta così dalla logica alla psicologia e
si afferma una concezione sempre più aperta e complessa
dell’esperienza. Oggetto dell’esperienza non sono più soltanto
le entità di cui è possibile un concetto determinato, ma anche
le relazioni, gli stati di tendenza, di attesa, insomma tutta
una serie di sfumature che a una prospettiva intellettualistica
sono irrimediabilmente destinate a sfuggire. Su questa linea,
che per altro verso porta a un ‘empirismo radicale’ (svolto da
James in alcuni scritti degli ultimi anni della sua vita),
s’innesta il tema della ‘volontà di credere’, ossia del fatto
che, rispetto a certi problemi essenziali, veramente decisiva
non è la conoscenza, ma l’azione o quanto meno l’atteggiamento,
la decisione dell’uomo. Tipico
caso il dilemma tra determinismo e indeterminismo, che non potrà
mai essere deciso da considerazioni puramente teoretiche e dal
quale non c’è scampo se non in senso pratico, e cioè
riconoscendo che l’indeterminismo, l’affermazione della libertà,
è una concezione più favorevole a promuovere un’azione che dia
maggiore significato alla vita. Analogamente non c’è possibilità
di decisione puramente teoretica tra ottimismo e pessimismo
circa il senso complessivo dell’universo, ma è possibile e
auspicabile invece una forma di ‘migliorismo’, ossia la
convinzione che il bene dell’universo non è indipendente dal
modo in cui l’uomo si impegna per esso.
Da questo punto di vista infine, ancora con James, il p. giunge a
elaborare una concezione specifica della religione connettendola,
da un lato, con la volontà di credere, con il migliorismo, per cui
la stessa divinità è intesa come principio attivo, ancora aperto,
non compiuto, con cui l’uomo può e deve collaborare, e dall’altro
con il concetto particolarmente ampio di esperienza, per cui viene
riconosciuta la legittimità e irriducibilità non solo
dell’esperienza religiosa in generale, ma anche delle varie forme
di esperienza religiosa. L’accentuazione del momento pratico per
la comprensione della stessa verità logica all’interno del p. ha
avuto poi la sua formulazione forse più radicale nell’‘umanismo’
dell’inglese Schiller, dove il criterio di scelta in base a valori
e interessi umani è considerato determinante per risolvere non
solo i problemi di cui non è possibile una decisione strettamente
teorica, ma per l’intero processo di pensiero e di conoscenza.
Se l’accentuazione dell’aspetto pratico e operativo del p. poteva
portare a tendenze addirittura attivistiche come quelle che si
diffusero in Italia a
opera di G.
Papini soprattutto nei primi decenni del Novecento, non
mancarono anche in Italia richiami a una concezione più sobria e
rigorosa del p. come metodo di ricerca capace di andare oltre
tanto al positivismo quanto all’idealismo. In questo senso è di
particolare importanza l’opera di G.
Vailati, che non solo insistette sugli aspetti logici e
metodologici più specifici del p. di Peirce, ma mise in luce
numerosi punti di contatto tra il metodo del p. e gli sviluppi più
recenti della logica matematica, sottolineando il carattere
ipotetico delle proposizioni generali e mostrando interesse per lo
sviluppo storico delle ricerche scientifiche.
Tuttavia la ripresa più importante del p. nel Novecento è
costituita dallo ‘strumentalismo’ di J. Dewey,
anche per le sue vastissime implicazioni etiche, politiche e
pedagogiche e per l’influenza esercitata in campo mondiale a
favore della diffusione di una ‘scuola attiva’. L’essenza del p.
consiste nel riconoscere la funzione operativa del pensiero, per
cui nulla in astratto è un ‘dato’ o è un ‘problema’, ma quello che
in una certa situazione disturbata, indeterminata, è un problema,
una volta chiarito e risolto, può diventare un dato in un’altra
situazione e viceversa. Il p. si pone quindi in una posizione
diversa tanto da quella dell’empirismo quanto da quella
dell’idealismo. Contro l’empirismo, il p. nega la riduzione del
pensiero a induzione o a convenzione e afferma che nulla ci è mai
dato in modo discreto, separato, oggettivo, ma che gli oggetti
sono eventi dotati di una funzione evidenziale in quanto inglobati
in un nesso di relazioni che corrispondono a progetti operativi.
Contro l’idealismo di tipo trascendentale il p. rivendica invece
il carattere evolutivo del pensiero e il suo nesso con una
situazione indeterminata di cui è la soluzione mediante la
simbolizzazione di comportamenti atti a determinarla, per cui non
ci può essere nessuna serie di forme o categorie a priori
rigidamente definite. Contro l’idealismo di tipo platonico e
contro ogni ontologia di carattere assoluto il p. obietta che
l’ipostatizzazione dei risultati della ricerca in idee eterne e
immutabili o in strutture assolute della realtà e la loro
contrapposizione al mondo concreto dell’esperienza impediscono di
cogliere il carattere operativo del pensiero e non fanno altro che
riprodurre inconsapevolmente una situazione sociale di divisione
storica e classista del lavoro. Se dunque con Dewey il p.
ripropone in campo logico-epistemologico la rivendicazione della
continuità della ricerca e della sua capacità di autorettificarsi
a qualsiasi livello, proprio per il suo carattere sperimentale e
strumentale insieme, in campo etico questa rivendicazione si
traduce in una vigorosa polemica contro ogni possibile divisione a
priori, ontologica, tra fini e mezzi come se ci fossero valori
costituiti in sé e per sé e all’uomo non restasse che
subordinarvisi.
L’aspetto sociologico-antropologico e quello
epistemologico-linguistico del p. hanno avuto interessanti
sviluppi rispettivamente con l’opera di G. Mead e con quella di
C.W. Morris.
Con Mead il p. si configura come ‘behaviorismo sociale’, in quanto
la società è considerata come condizione per il sorgere del ‘sé’,
ossia della mente individuale, attraverso il linguaggio. Con
Morris invece si ha l’incontro tra il p. e il neopositivismo:
muovendo dalla concezione pragmatistica del linguaggio e della
scienza come formulazioni simboliche di possibili operazioni,
Morris approfondisce lo studio della semiotica connettendola con
la pragmatica, inserendola così in un campo più vasto di quello
dell’analisi linguistica in senso stretto.
3. Il
p. nel Novecento
Benché il p. abbia concluso la sua
parabola nella prima metà del Novecento, molte sue istanze
rimangono vive soprattutto in quei settori della filosofia della
scienza statunitense che dovevano trarre alimento dall’incontro
tra p. e positivismo logico. Notevoli e influenti, da questo
punto di vista, le riflessioni di W.V.O. Quine sui criteri che
informano l’elaborazione e il controllo delle teorie
scientifiche, criteri di semplicità, fecondità e rispondenza
agli scopi predittivi ed esplicativi piuttosto che di riduzione
(secondo gli originari obiettivi neopositivistici) ai dati
osservativi. Da segnalare anche, su un piano più generale, il
‘neopragmatismo’ di R.
Rorty e H. Putnam, i quali hanno messo in discussione
soprattutto la tradizionale concezione corrispondentistica della
verità a favore di un’immagine della conoscenza come corpus di
enunciati e credenze che trova i suoi fondamenti
nell’intersoggettività. A Rorty, inoltre, si deve il tentativo
di una sistematizzazione storica di quella che ha chiamato la
«graduale pragmatizzazione del positivismo logico e della filosofia
analitica», consistente soprattutto nella concezione del
linguaggio come strumento piuttosto che come raffigurazione di
un mondo dato da catturare nella sua reale natura.
Dizionario di Filosofia (2009)
Dall’ingl. pragmatism, der. dal gr. πρᾶγμα -ατος «cosa,
fatto». Indirizzo di pensiero sorto negli Stati Uniti intorno al
1870 e diffusosi più tardi in Europa, dove ebbe il maggior successo
nei primi decenni del Novecento.
Il pragmatismo di Peirce. Il fondatore
di questa corrente, Peirce , ha fatto derivare il termine p.
dalla ripresa della distinzione kantiana tra «pratico» (il
razionale nella sua autonomia come principio a priori della
legge morale) e «pragmatico» (il razionale come mezzo per
raggiungere uno scopo). Tuttavia la concezione pragmatica della
ragione è usata qui in un contesto del tutto diverso da quello
kantiano e fortemente influenzato dalla teoria dell’evoluzione e
dalla concezione della coscienza come una forma di comportamento
volto alla difesa e all’affermazione della vita. La ricerca si
configura quindi come la risposta a una sorta di «irritazione»,
vale a dire al turbamento di una credenza a cui corrispondeva
un’abitudine, per realizzare una nuova credenza capace di fondare
una nuova abitudine più adeguata ed efficace. Così il p. rivolge
una critica radicale al pensiero cartesiano, e non soltanto al
dubbio assoluto, dovendo invece, per il p., ogni dubbio scaturire
da un problema concreto e determinato, ma soprattutto al criterio
di verità secondo cui sarebbe possibile cogliere intuitivamente il
carattere chiaro e distinto delle idee. Come dice il titolo di un
saggio di Peirce rimasto celebre (How to make our ideas clear,
1878; trad. it. Come rendere chiare le nostre idee), il
problema è esattamente l’opposto, ossia rendere chiare le nostre
idee, e ciò non può avvenire affatto mediante l’intuizione e
l’introspezione. Si tratta invece di definire il significato di
un’idea, scoprendo quali abitudini o conseguenze essa produca.
Emergono così due aspetti essenziali del metodo pragmatistico: da
un lato, la «pubblicità» della verità e dei suoi criteri, nel
senso che si tratta d’individuare nessi razionali verificabili da
tutti e in comune, e, d’altro canto, l’importanza determinante
della dimensione temporale o più esattamente del futuro, in quanto
il significato di una idea non può mai essere ritrovato nella sua
conformità a un fatto antecedente (anche i cosiddetti «dati»
dell’esperienza e le idee «semplici» di cui parlava l’empirismo
tradizionale sono risultato di operazioni di ricerca), ma soltanto
nelle conseguenze a cui può dar luogo la sua adozione. Questi
aspetti del p. furono ben presto occasione di malintesi, per cui
si volle scorgere in questa filosofia un’esaltazione
indiscriminata del successo connessa ai caratteri utilitaristici
della società americana di fine Ottocento. Contro questo tipo di
accuse Peirce reagì non soltanto proponendo un nuovo nome per la
sua teoria – un nome così brutto che fosse al riparo dai «ladri di
bambini» – e cioè il termine «pragmaticismo» (The issues of
pragmaticism e What pragmatism is, 1905), ma
soprattutto sottolineando come il p. non sia affatto la
glorificazione di fini empirici o particolari, bensì la ricerca di
una sempre maggiore razionalità dell’esperienza e del
comportamento; per il p. infatti il pensiero non è astratta o
inerte contemplazione, ma quel «filo di melodia» che può cucire in
modo armonico le nostre esperienze altrimenti disorganiche e non
controllate né controllabili.
L’apporto di James e Schiller. Se le
precisazioni di Peirce sul carattere fondamentalmente logico e
metodologico della concezione pragmatistica del pensiero erano
senz’altro esatte e dovevano essere ampiamente riprese nel
Novecento da Dewey in America e da Vailati in Italia, è però
innegabile che alla fine dell’Ottocento, con l’opera di James e
dell’inglese F.C.S. Schiller, il p. accentuò i suoi aspetti etici
e vitalistici fino a riportare a essi gli stessi criteri logici ed
epistemologici. Interessato soprattutto a problemi psicologici,
morali e religiosi, James dette infatti al p. una svolta che
doveva accostarlo maggiormente alle filosofie della vita e
dell’intuizione che si andavano diffondendo in Europa in quel
tempo. Per James infatti quello che conta è il carattere personale
e continuo della coscienza, anzi della «corrente di coscienza» ai
cui caratteri deve primariamente rifarsi ogni ricerca. Il campo di
riferimento principale del p. si sposta così dalla logica alla
psicologia sulla scorta anche di suggestioni derivanti
dall’evoluzionismo, e si afferma così una concezione sempre più
aperta e complessa dell’esperienza. Oggetto dell’esperienza non
sono infatti soltanto le entità di cui è possibile un concetto
determinato (che una volta James paragonò efficacemente ai nodi di
una canna di bambù, per indicarne la continuità nell’esperienza),
ma anche le relazioni, gli stati di tendenza, di attesa, insomma
tutta una serie di sfumature che a una prospettiva
intellettualistica sono irrimediabilmente destinate a sfuggire.
All’ampliamento quantitativo e qualitativo del concetto di
esperienza corrisponde un’ulteriore critica di ogni concezione
intellettualistica o comunque puramente teoretica della verità,
appunto perché assai più complesso è il campo di riferimento delle
idee o più esattamente della funzione delle idee, della loro
capacità d’influire sull’ulteriore sviluppo dell’esperienza, in
modo da renderla più soddisfacente per i nostri bisogni e le
nostre aspirazioni. Proprio su questa linea, che per altro verso
porta a un «empirismo radicale» – svolto da James in alcuni
scritti degli ultimi anni della sua vita – s’innesta il tema della
«volontà di credere», ossia del fatto che, rispetto a certi
problemi essenziali, veramente decisiva non è la conoscenza, ma
l’azione o quanto meno l’atteggiamento, la decisione dell’uomo.
Tipico caso è il dilemma tra determinismo e indeterminismo, che
non potrà mai essere deciso da considerazioni puramente
teoretiche, e dal quale non c’è scampo se non in senso pratico, e
cioè riconoscendo che l’indeterminismo, l’affermazione della
libertà, è una concezione più favorevole a promuovere un’azione
che dia maggiore significato alla vita. Analogamente non c’è
possibilità di decisione puramente teoretica tra ottimismo e
pessimismo circa il senso complessivo dell’Universo, ma è
possibile e auspicabile invece una forma di «migliorismo», ossia
la convinzione che il bene dell’Universo, poco o tanto che sia,
non è indipendente dal modo in cui l’uomo si impegna per esso. Da
questo punto di vista, infine, ancora con James, il p. giunge a
elaborare una concezione specifica della religione connettendola
appunto, da un lato, con la volontà di credere, con il
migliorismo, per cui la stessa divinità è intesa come principio
attivo, ancora aperto, non compiuto, con cui l’uomo può e deve
collaborare, e dall’altro lato, con il concetto particolarmente
ampio di esperienza, per cui viene riconosciuta la legittimità e
irriducibilità non soltanto dell’esperienza religiosa in generale,
ma delle varie forme di esperienza religiosa in quanto
testimoniano un contatto con poteri più alti a cui ci si sente
legati per il proprio destino personale. L’accentuazione del
momento pratico per la comprensione della stessa verità logica
all’interno del p. ha avuto poi la sua formulazione forse più
radicale nell’«umanismo» di Schiller, dove il criterio di scelta
in base a valori e interessi umani è considerato determinante per
risolvere non soltanto i problemi di cui non è possibile una
decisione strettamente teorica, ma anche per l’intero processo di
pensiero e di conoscenza. In questo senso anzi il p. viene inteso
come una sorta di ripresa dell’antico detto di Protagora: l’uomo è
la misura di tutte le cose, per cui l’essenziale è l’accertamento
dell’utilità delle conoscenze rispetto alle esigenze pratiche
umane.
L’influenza del pragmatismo in Italia.
Se poi l’accentuazione dell’aspetto pratico e operativo, e quindi
anti-intellettualistico, del p. poteva portare a tendenze
addirittura attivistiche come quelle che si diffusero in Italia a
opera di G. Papini soprattutto nei primi decenni del Novecento,
non mancarono anche in Italia, come già si è accennato, richiami a
una concezione più sobria e rigorosa del p. come metodo di ricerca
capace di andare oltre, rispetto sia al positivismo sia
all’idealismo. In questo senso è di particolare importanza l’opera
di Vailati, che non solo insistette sugli aspetti logici e
metodologici più specifici del p. di Peirce, ma mise in luce
numerosi punti di contatto tra il metodo del p. e gli sviluppi più
recenti della logica matematica. Tra i vari punti di contatto: la
rinuncia a considerare i postulati tali per una sorta di «diritto
divino» garantito dalla loro evidenza, concependoli invece come
proposizioni dello stesso genere di tutte le altre, la cui scelta
è determinata dagli scopi a cui mira la ricerca e dall’efficacia
con cui consentono di raggiungerli; la ripugnanza per tutto ciò
che è vago e impreciso e la riduzione dei problemi complessi a
connessioni tra fatti rispetto ai quali le proposizioni generali
hanno carattere ipotetico; l’interesse per lo sviluppo storico
delle ricerche scientifiche sì da considerarle non più in modo
«statico» come «animali impagliati nelle vetrine di un museo, in
atteggiamenti convenzionali, e con gli occhi di vetro», ma come
organismi viventi in sviluppo o addirittura come sequenze
cinematografiche che si trasformano logicamente le une nelle
altre.
Lo «strumentalismo» di Dewey. Lo
sviluppo e la ripresa più importante del p. nel Novecento è
costituita dallo «strumentalismo» di Dewey, anche per le sue
vastissime implicazioni etiche, politiche e pedagogiche e per
l’influenza esercitata in campo mondiale a favore della diffusione
di una «scuola attiva». Dewey, formatosi per un verso in un clima
idealistico di stampo hegeliano e per l’altro molto attento agli
sviluppi della psicologia dell’epoca, concepisce il pensiero come
qualcosa di non puramente individuale, ma di interazionale, come
risposta a problemi posti dall’ambiente (prima naturale e poi
anche sociale) all’organismo, intendendo però il principio
evoluzionistico in senso «emergente», e cioè come formazione e
comparsa di nuovi livelli di comportamento il cui valore e la cui
funzione non sono riducibili a quelli dei livelli inferiori da cui
sono derivati. Diventa allora possibile tagliare alla radice tutte
le obiezioni più o meno semplicistiche rivolte al p. di essere una
filosofia che subordina il pensiero all’azione, o peggio a scopi
estrinseci, utilitaristici o addirittura di semplice profitto, in
quanto il fatto che il pensiero sia sorto per riordinare una
situazione organica disturbata non vuole affatto dire che sia
rimasto sempre tale. Al contrario, come dimostrano le scienze, il
rapporto tra l’azione immediata e il pensiero, come insieme di
simboli di azioni differite in modo da valutare il nesso tra mezzi
e fini, si è rovesciato giacché l’esperimento è subordinato
all’ipotesi scientifica, serve a trasformarla in legge, e quindi è
un tipo di azione e di comportamento che non è scopo ma mezzo. In
altri termini, quello che permane costante nel pensiero è il fatto
di essere risposta a una situazione precaria, indeterminata (e in
questo senso il p. implica una metafisica naturalistica, ossia una
concezione aperta e problematica degli eventi e dei loro esiti
possibili), in modo da trovare regole di comportamento atte a
trasformarla in una situazione più stabile e determinata. Ma tutto
questo non avviene sempre necessariamente in campo fisico,
biologico o esistenziale, ma anche in campo simbolico,
concettuale, dove tanto il problema quanto la soluzione sono
costituiti da termini non più immediatamente esistenziali.
L’essenza del p. consiste cioè nel riconoscere la funzione
operativa del pensiero, per cui nulla in astratto è un «dato» o è
un «problema», ma quello che in una certa situazione disturbata,
indeterminata, è un problema, una volta chiarito e risolto, può
diventare un dato in un’altra situazione e viceversa. Il p. si
pone quindi in una posizione diversa tanto da quella
dell’empirismo quanto da quella dell’idealismo o ancora da ogni
forma di platonismo. Contro l’empirismo il p. nega la riduzione
del pensiero a induzione o a convenzione e afferma che nulla ci è
mai dato in modo discreto, separato, oggettivo, ma che gli oggetti
sono eventi dotati di una funzione evidenziale (per es., la luce
di un semaforo) in quanto inglobati in un nesso di relazioni che
corrispondono a progetti operativi la cui formula più universale e
astratta è lo schema «se… allora». Contro l’idealismo di tipo
trascendentale il p. rivendica invece il carattere evolutivo del
pensiero e il suo nesso con una situazione indeterminata di cui è
la soluzione mediante la simbolizzazione di comportamenti atti a
determinarla, per cui non ci può essere nessuna serie di forme o
categorie a priori rigidamente definite. Contro
l’idealismo di tipo platonico e contro ogni ontologia di carattere
assoluto il p. obietta che l’ipostatizzazione dei risultati della
ricerca in idee eterne e immutabili o in strutture assolute della
realtà, e la loro contrapposizione al mondo concreto
dell’esperienza impedisce di cogliere il carattere operativo del
pensiero e non fa altro che riprodurre inconsapevolmente una
situazione sociale di divisione storica e classista del lavoro. Se
dunque con Dewey il p. ripropone in campo logico-epistemologico la
rivendicazione della continuità della ricerca e della sua capacità
di autorettificarsi a qualsiasi livello, proprio per il suo
carattere sperimentale e strumentale insieme, in campo etico
questa rivendicazione si traduce in una vigorosa polemica contro
ogni possibile divisione a priori, ontologica, tra fini
e mezzi come se ci fossero valori costituiti in sé e per sé e
all’uomo non restasse che subordinarvisi. Il p. consiste invece
nel riconoscere la funzione imprescindibile dell’intelligenza come
capacità di rinnovamento e di superamento di contrapposizioni
indebite e paralizzanti, in modo da avere un’esperienza sempre più
organica e sempre più armonica; per questo verso la concezione
pragmatistica dell’intelligenza presenta importanti aperture verso
il problema estetico, giacché il carattere qualitativo, estetico
dell’esperienza è proprio il principio che guida e orienta
l’intelligenza nella sua ricerca di una soluzione più adeguata dei
problemi che via via si aprono nell’esperienza.
Il pragmatismo di Mead e Morris.
L’aspetto sociologico-antropologico e quello
epistemologico-linguistico del p. hanno avuto poi interessanti
sviluppi rispettivamente con l’opera di Mead e con quella di
Morris. Con Mead il p. si configura come «behaviorismo sociale»,
in quanto la società è considerata come condizione per il sorgere
del «sé», ossia della mente individuale, attraverso quel potente
strumento di socialità che è il linguaggio; proprio il linguaggio
infatti consente all’uomo di vivere in un ambiente simbolico e di
dare agli altri organismi umani risposte non puramente animali e
realizzarsi in un comportamento in cui permane continuamente
aperta una tensione funzionale tra uomo e società, individuo e
istituzioni. Con Morris invece si ha l’incontro tra il p. e il
neopositivismo: muovendo dalla concezione pragmatistica del
linguaggio e della scienza come formulazioni simboliche di
possibili operazioni, Morris approfondisce lo studio della
semiotica connettendola con la «pragmatica» come scienza che
esamina l’origine, gli usi e gli effetti dei segni in rapporto al
comportamento in cui essi hanno luogo, inserendola quindi in un
campo più vasto di quello dell’analisi linguistica in senso
stretto. Il p. può dunque essere considerato come un movimento che
ha, sì, concluso la sua traiettoria nella prima metà del
Novecento; tuttavia è innegabile che molti dei suoi temi e delle
sue esigenze sono stati incorporati vitalmente nel pensiero
contemporaneo e vi continuano a operare seppure non più in veste
autonoma.
Enciclopedia delle Scienze
Sociali (1996)
Pragmatismo
Enciclopedia delle
Scienze Sociali (1996)
di Tiziano Bonazzi
di Tiziano Bonazzi
Pragmatismo
sommario: 1. Origini e significato. 2. Il
contesto storico-sociale: il 'decollo' americano e i suoi problemi
(1870-1900). 3. Pragmatismo ed epistemologia: C. Wright e C. Peirce.
4. Il pragmatismo come conciliazione di scienza e filosofia: W.
James. 5. Pragmatismo, democrazia ed educazione: lo strumentalismo
di J. Dewey. 6. Pragmatismo e psicologia sociale: G.H. Mead. 7.
Pragmatismo e scienza politica: A.F. Bentley. 8. Osservazioni
conclusive. □ Bibliografia.
1. Origini e significato
Il pragmatismo è un movimento filosofico che, sorto negli
Stati Uniti negli ultimi decenni dell'Ottocento, vi ha conosciuto
una vasta fortuna fino alla seconda guerra mondiale, soprattutto
attraverso l'opera di William James e John Dewey, per poi subire
un'eclisse dalla quale lo hanno ultimamente riscattato filosofi
morali e della politica come Richard Rorty.Il pragmatismo ebbe
origine nelle discussioni fra gli amici che nel 1871-1872, a
Cambridge nel Massachusetts, diedero vita al 'Metaphisical club',
una delle molte associazioni culturali sorte nel periodo di irruenta
trasformazione e di acuta crisi che gli Stati Uniti attraversarono
nei decenni successivi alla guerra civile. Le figure principali di
quello che più che un club era un gruppo informale di amici erano
sei, tre scienziati-filosofi, Chauncey Wright, Charles Peirce e
William James, e tre giuristi, Oliver Wendell Holmes jr., Nicholas
St. John Green e Joseph Bangs Warner. Giovani - Wright, il più
anziano, aveva una quarantina d'anni - , appartenevano all'élite
intellettuale bostoniana e avevano tutti studiato a Harvard. Fu nel
corso dei loro dibattiti che - sotto la spinta dell'evoluzionismo di
Wright, leader intellettuale riconosciuto del gruppo, e alla luce
della 'teoria predittiva del diritto', sostenuta sia da Green che da
Holmes come applicazione delle teorie dello psicologo britannico
Alexander Bain - Peirce formulò e presentò agli amici la 'massima
pragmatica'. La cosa non ebbe un seguito diretto, in quanto il club
ben presto si sciolse e nella memoria stessa dei protagonisti quanto
era avvenuto divenne uno sbiadito e incerto ricordo; ma il metodo di
indagine sorto a Cambridge continuò a svilupparsi, ad opera sia
degli iniziatori - personaggi pur molto distanti fra loro per
interessi e mentalità -, che di altri intellettuali come i filosofi
di Chicago John Dewey e George H. Mead, che completano il nucleo
storico dei pragmatisti dei quali si intende trattare in questa
sede.
2. Il contesto storico-sociale: il 'decollo'
americano e i suoi problemi (1870-1900)
La guerra civile del 1861-1865 segna uno spartiacque nella
storia americana sia perché, oltre che alla fine della schiavitù,
portò alla sconfitta e all'acrimonioso isolamento del Sud, sia
soprattutto in quanto il trionfo del Nord significò il trionfo del
capitalismo nordista, che negli ultimi decenni del secolo fece degli
Stati Uniti la prima nazione industriale del mondo. Un paese che si
era venuto costruendo su migliaia di comunità locali autocentrate e
su regioni socioeconomiche fortemente autonome e che non aveva
classi sociali omogenee assistette, in soli quarant'anni,
all'unificazione e alla verticalizzazione sia del mercato che della
società. Ai primi del Novecento l'economia era ormai dominata da
grandi gruppi oligopolistici industriali e finanziari, la lotta di
classe era divenuta una realtà, le vecchie élites venivano
soppiantate da geniali 'uomini nuovi' legati al più scoperto
arrivismo economico; negli stessi anni l'opinione pubblica scopriva
lo squallore e la miseria degli slums proletari nelle grandi città
divenute simbolo della nuova età e si sentiva messa in pericolo
dalle ondate di immigrati provenienti dall'Europa sudorientale e,
nell'estremo ovest, dalla Cina e dal Giappone.In tale situazione
entrò in crisi la cultura politica e sociale prebellica, incentrata
sull'idea che gli Stati Uniti fossero una nazione prediletta da Dio,
destinata a restare immune dai mali dell'Europa, e il cui progresso
economico - fondato sui principî protestanti dell'etica del lavoro,
dell'uguaglianza delle possibilità e dell'individualismo - implicava
un continuo progresso morale.
Uno dei sintomi più evidenti di questa crisi fu il feroce dibattito
sull'evoluzionismo che si sviluppò durante gli anni sessanta e
settanta. Accettare il darwinismo implicava negare quel ruolo di
guida verso Dio, attraverso lo studio empirico della natura, che la
cultura americana, con la mediazione della filosofia del realismo
scozzese, aveva assegnato alla scienza e che era anche alla base
della visione morale dello sviluppo economico. L'evoluzionismo
darwiniano, infatti, era una scienza senza assoluti, non
riconducibile a una visione religiosa e teleologica del mondo,
insopportabile, quindi, non solo per l'opinione pubblica colta, ma
per gli stessi scienziati, tanto legati all'empirismo baconiano e
milliano quanto profondamente religiosi.Il darwinismo poté essere
accolto solo quando si riuscì a ricondurlo, servendosi soprattutto
di Herbert Spencer, a una sorta di metafisica positivistica in cui
l'evoluzione diveniva una legge dello sviluppo storico tendente al
progresso civile e morale dell'uomo e alla realizzazione di un
disegno divino.
Teorie di questo genere conciliarono scienza e religione e diedero
un senso al caos sociale e morale del periodo; ma vennero anche
usate dai cosiddetti 'darwinisti sociali' per sostenere l'ordine
capitalistico esistente contro ogni tentativo di riforma, che a loro
parere in realtà finiva, aiutando gli emarginati, con l'aiutare i
'non adatti', coloro che il processo della selezione naturale
giustamente eliminava.Fra i membri della 'nuova classe media' -
ossia tra gli esperti e i tecnici indispensabili a una matura
società industriale - si verificò una dura reazione contro questa
vulgata evoluzionistica. Eredi dei valori dell'etica protestante, ma
educati al metodo scientifico, molti di loro ritenevano che il caos
sociale ed economico non fosse il prodotto dell'evoluzione, ma il
frutto di quella concezione che - interpretando le leggi
scientifiche come meccanismi automatici sui quali non era dato
intervenire - aveva finito per separare scienza e morale,
giustificando in tal modo le pretese di dominio e l'egoismo dei più
forti. Di conseguenza essi abbracciarono progetti di riforma per lo
più a sfondo tecnocratico e contribuirono in modo decisivo alla
nascita del 'movimento progressista', che culminò nelle presidenze
di Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson agli inizi del Novecento.
Momento essenziale di questo moto riformatore, che rappresentò anche
una fase di ricostruzione di strumenti intellettuali, fu la nascita
e la rapida affermazione delle scienze sociali.
La storia del pragmatismo classico va dunque situata nel quadro di
quelle innovazioni intellettuali che permisero di superare la crisi
sociale e culturale che caratterizzò gli Stati Uniti sul finire
dell'Ottocento. Se non l'autocoscienza del riformismo progressista
del primo Novecento, il pragmatismo potrebbe essere considerato
almeno il suo frutto migliore, quello che fornì al progressismo il
modello sociale più innovativo e al tempo stesso maggiormente in
grado di riallacciarsi ai valori e ai miti fondatori della nazione
americana. Ciò non significa, tuttavia, che il pragmatismo possa
essere considerato l'ispiratore del progressismo o la filosofia
delle scienze sociali fra i due secoli; sia l'uno che le altre sono
infatti fenomeni molto complessi di cui il pragmatismo non
rappresenta che uno degli elementi, anche se forse si tratta di
quello che meglio ne esprime lo spirito e gli ideali. A ciò si
aggiunga che il pragmatismo, come il progressismo, dovette
soccombere all'ondata politicamente conservatrice degli anni venti,
mentre le scienze sociali si incamminavano verso un sempre più
rigido scientismo che non poteva certo riconoscere nel pragmatismo
una fonte di ispirazione diretta.
3. Pragmatismo ed epistemologia: C. Wright e C. Peirce
Le caratteristiche del pragmatismo nei primi anni settanta,
quando le trasformazioni che abbiamo appena illustrato erano nella
loro fase iniziale, sono del tutto interne ai travagli dello scontro
sull'evoluzionismo. Lo dimostra il pensiero di Chauncey Wright
(1830-1875), le cui idee e la cui posizione nel Methaphysical club
consentono di considerarlo l'ispiratore del pragmatismo. Wright era
una personalità ribelle e singolare che non riuscì mai a inserirsi
nel mondo accademico. Valente matematico, positivista convinto,
avversario del trascendentalismo di cui non comprendeva le spinte
mistiche e l'intuizionismo, impostò le problematiche che furono poi
alla base della "massima pragmatica" definita da Peirce. Wright si
inserì nel complesso dibattito sulla critica di John Stuart Mill a
William Hamilton - il filosofo del realismo scozzese più seguito
negli Stati Uniti di metà Ottocento - a proposito dei limiti del
conoscere, giungendo alla conclusione che, data l'impossibilità di
arrivare al noumeno, la conoscenza è limitata agli effetti di questo
su di noi. La filosofia non può, quindi, essere che 'filosofia
dell'esperire'. Una posizione con cui egli intese separare - e al
tempo stesso garantire reciprocamente - religione e scienza, in
quanto il metodo scientifico costituisce l'unica forma corretta di
esperienza, ma l'esperienza non riguarda i problemi della
fede.L'associazionismo, su cui si fondavano sia la psicologia dei
filosofi scozzesi che quella dell'utilitarismo, non gli consentiva,
però, di spiegare adeguatamente il passaggio dalle sensazioni
primarie alla coscienza e metteva in forse tutti i suoi sforzi. Da
qui la sua entusiastica adesione al darwinismo, che gli permise di
formulare in termini scientificamente più soddisfacenti la tesi
secondo cui conosciamo solo gli effetti della 'cosa in sé'.
Alla luce dell'evoluzionismo, infatti, le idee non sono degli
assoluti, bensì dei 'piani di azione' essenziali alla lotta per la
sopravvivenza, che nascono in risposta alle sfide ambientali e si
evolvono a partire da fenomeni psichici elementari attraverso la
mediazione delle funzioni 'segniche' della memoria e
dell'immaginazione.Charles Peirce (1839-1914) andò oltre Wright,
criticandone quello che considerava un residuo dell'empirismo
classico e della psicologia associazionista, vale a dire la tesi
secondo cui nell'intraprendere una ricerca filosofica o scientifica
occorre avere una totale neutralità rispetto a ogni ipotesi o teoria
o pregiudizio precedente, una sorta di tabula rasa mentale. A suo
parere un simile agnosticismo è impossibile, perché gli esseri umani
esistono immersi nei fatti e ogni atto conoscitivo consiste
nell'inserirsi in un processo di esperienze in corso che analizziamo
interpretandole. Peirce non ritiene accettabile la neutralità di
Wright perché non esiste un punto di partenza assoluto del processo
conoscitivo, né a livello psicologico - i dati sensoriali primari
degli associazionisti sono irrintracciabili - né logico, in quanto
ogni atto di conoscenza è un'analisi di fenomeni che per essere
compresi debbono essere concettualizzati sulla base di fenomeni
precedenti, i quali rimandano alla concettualizzazione di altri in
una regressione infinita che non giunge mai a un primum. A partire
da ciò Peirce costruì una logica svincolata da ogni considerazione
ontologica e basata invece sulle relazioni segniche che ci
consentono di concettualizzare i dati sensoriali - una semiotica che
costituisce il retaggio forse più fecondo della sua filosofia. Tale
logica è però anche uno dei passaggi essenziali per la formulazione
della massima pragmatica.
Da un punto di vista epistemologico esperire significa conoscere per
mezzo di una costruzione concettuale effettuata attraverso la mai
terminata catena segnica; ma si tratta di una costruzione che muove
necessariamente dalla realtà empirica, in quanto a essere compresi
sono fenomeni che hanno conseguenze pratiche. Il conoscere è un
processo che all'infinito tende al vero, in quanto, al di là di ogni
fenomeno conosciuto, ve ne sono altri sconosciuti, ma conoscibili;
l'essere, per Peirce, coincide con la conoscibilità. In base allo
stesso ragionamento la nostra conoscenza di un fenomeno è conoscenza
dei suoi effetti pratici; da qui la massima pragmatica secondo cui
"la nostra concezione di questi effetti è l'intera concezione
dell'oggetto": la realtà è l'insieme degli effetti dei fenomeni che
esperiamo.
Peirce, figlio di uno dei più illustri matematici americani,
ricevette un'accurata educazione scientifica e i suoi lavori in
campo geodetico e astronomico gli diedero notorietà internazionale.
Sebbene dubitasse delle conclusioni dell'evoluzionismo, egli
riteneva che Darwin avesse impostato il discorso scientifico in modo
tale da consentire quasi un'identificazione fra filosofia e scienza,
facendo in ogni caso di quest'ultima il baluardo contro ogni forma
di soggettivismo. Il conoscere, infatti, è individuale e
processuale, interminabile e non ancorabile all'essere, onde non
esistono metri assoluti con cui verificarne il grado di verità;
tuttavia il metodo scientifico ci consente di controllare la
conoscenza e, attraverso il consenso della comunità dei ricercatori,
ci dà l'unica forma - una forma pubblica - di verifica del fatto che
il nostro "pensiero in azione" procede in direzione del vero. Scopo
della filosofia è stabilire i modi corretti del belief, del credere.
Essa ci assicura che la scienza fornisce una garanzia
dell'adeguatezza delle nostre norme e abitudini di vita, ma anche
una ragione per modificarle quando si forma un nuovo e diverso
consenso scientifico. È questo il meccanismo di quell'infinita
approssimazione al vero che Peirce pone al centro dell'epistemologia
pragmatista e di cui parla come di un evolutionary love che pervade
l'intero universo.
L'austero pragmatismo di Peirce appare legato al dibattito sulla
natura del conoscere filosofico e scientifico più che a quello sul
ruolo di filosofia e scienza nella vita individuale e sociale; tanto
che lo stesso Peirce si affrettò a chiamare la propria teoria
"pragmaticismo" quando, sotto la spinta di James, il pragmatismo
prese direzioni che non condivideva. È tuttavia innegabile che egli
propose una teoria in cui la capacità umana di verificare nella
pratica il proprio agire sostituiva ogni ricerca di verità assolute
e proponeva il modello di una società aperta costantemente
autoriformantesi.
4. Il pragmatismo come conciliazione di scienza e
filosofia: W. James
Con William James (1842-1910) ci veniamo a trovare, in
effetti, in un universo intellettuale del tutto diverso. Scienziato
anch'egli, ma in campo medico, non fisico-matematico, James
accettava le idee di Peirce nell'ambito delle scienze fisiche; ma
riteneva che, per quanto riguarda l'esperire e il conoscere
quotidiano, le conclusioni cui giungere dovessero essere diverse. Lo
scienziato, infatti, interviene in una realtà che è 'piena' per
portarvi ordine; ma per farlo deve selezionare e scegliere dati,
finendo di necessità col cogliere solo un frammento della verità.
Per di più, egli parte da ipotesi di lavoro che sono 'atti di fede'
non diversi da quelli che regolano la vita di ognuno di noi. Di
conseguenza, pur se il metodo scientifico è essenziale, la scienza
non è l'unico strumento del conoscere e non può essere elevata a
'idolo della tribù' umana. William James, cresciuto in una famiglia
patrizia bostoniana, fratello del famoso scrittore Henry James,
ricevette dal padre, un eccentrico intellettuale-gentleman,
un'educazione fondata sull'unione di fede e scienza in una visione
religiosa legata al misticismo di Swedenborg. Per vari anni egli fu
soggetto a gravissime crisi psicologiche che nascevano dal suo senso
di impotenza di fronte ai problemi del rapporto fra religione e
scienza, in particolare al dilemma del come l'agire possa essere
libero e avere valore morale in un mondo che la scienza interpreta
senza far ricorso alla religione e quindi, così gli pareva, in modo
deterministico. Qualunque fosse la natura delle sue crisi, James
cominciò a uscirne quando, sulle orme di Renouvier, il maggior
filosofo kantiano francese, riuscì a compiere l'atto di volontà di
credere nel proprio libero volere.
La sua personale esperienza, il postkantismo di Renouvier, le lunghe
discussioni con Wright e Peirce, assieme agli studi medici e alla
lunga pratica scientifica in campo psicologico, costituiscono le
basi del pensiero di James. Per quanto riguarda la pratica
scientifica, occorre notare che negli Stati Uniti fino agli anni
sessanta la psicologia veniva trattata come parte della filosofia
morale, vale a dire come una sorta di scienza dell'anima che,
attraverso l'analisi delle sensazioni, delle emozioni e della
volontà, serviva a corroborare empiricamente i principî etici che
dovevano guidare il comportamento individuale e sociale. A
fondamento della psicologia venivano inoltre poste teorie
associazioniste dei processi mentali, che portavano a considerare la
mente come uno strumento passivo, azionato dal meccanismo
stimolo-risposta. Era questa passività della mente, e la conseguente
immagine dell'uomo come un automaton privo di libero volere, che
James intese combattere a livello scientifico, servendosi della
nuova psicologia sviluppata in Germania. Studiosi quali Wilhelm
Wundt e Hermann Helmholtz avevano separato la psicologia dalla
filosofia, fondandola sulla fisiologia umana e facendone così una
branca delle scienze naturali. La psicologia scientifica a base
fisiologica consentiva di interpretare l'attività mentale, in chiave
evolutiva, come uno strumento dell'adattamento umano all'ambiente,
che aveva sviluppato, con la formazione della coscienza, la capacità
strategica di scegliere fra comportamenti alternativi. Su queste
basi James poté fare della mente un organo attivo, capace di volere
e di conoscere ai fini pratici della sopravvivenza. A questo punto
la psicologia torna, per James, a incontrarsi con la filosofia e
serve a costruire un'epistemologia di tipo pragmatista.
Non è un caso che, dopo avere per qualche tempo insegnato
fisiologia, nel 1875 James desse vita a Harvard al primo corso
americano di psicologia scientifica, per passare successivamente
alla filosofia - disciplina che insegnava quando, nel 1890, apparve
il suo opus magnum, i Principles of psychology.La psicologia
scientifica, fondata sull'analisi empirica del singolo, diede un
indirizzo individualista al pensiero di James, che si allontanò da
Peirce, anche se i suoi bersagli polemici furono per tutta la vita
la metafisica naturalista di Spencer e il sensismo meccanicistico.
Entrambe queste teorie, a suo parere, impedivano una corretta
interpretazione dei modi e dei fini del conoscere, in quanto
legavano il singolo a leggi universali e a processi automatici
annullandone ogni autonomia. Da una prospettiva pragmatista, invece,
l'evoluzione coinvolge sì la specie, ma è l'individuo che,
selezionando i dati dell'esperienza per ottenere una conoscenza che
gli consenta di sopravvivere, crea nuovi fini e risultati
evolutivamente utili.Nei Principles James affermò che il cervello è
un organo il cui equilibrio interno muta continuamente, soggetto
com'è a un'incessante corrente di stimoli che ne alterano
fisiologicamente la struttura cellulare, la composizione neurologica
e le onde cerebrali. Tale mutazione comporta anche un continuo
processo di selezione fra gli stimoli, operata dal cervello sia a
livello di attività non coscienti come la respirazione, che a
livello cosciente. La 'coscienza', anzi, ricomprende entrambi e
manipola tutte le percezioni per elevarle a concetti e idee in grado
di pianificare l'azione a beneficio del soggetto. È questo lo stream
of consciousness, il flusso della coscienza in cui il soggetto è
immerso e che al tempo stesso gli dà continuità e identità.La
coscienza non è tuttavia sufficiente. Essa prepara l'azione,
individua fini utili alla sopravvivenza elaborando le impressioni
ricevute dall'esterno, consente di concepire un mondo più adatto di
quello presente ai nostri fini; ma non è il momento 'telico' più
alto della mente, che consiste nella volontà. La volontà, che ha
fondamento empirico in quanto è legata all'intero processo della
coscienza, è libera nel momento in cui compie la scelta finale fra i
piani d'azione predisposti ai livelli precedenti o addirittura
formula nuovi fini e ordina di agire. In questo senso è "volontà
creativa".A partire dagli ultimi anni dell'Ottocento, James sviluppò
su tali basi il principio del practicalism, che riagganciò alla
massima pragmatica. Ogni individuo, per James, può infatti
autonomamente ottenere una 'perfetta chiarezza' di pensiero se
considera gli effetti pratici che un determinato oggetto ha su di
lui e le sensazioni e le reazioni che ne derivano.
Con questo procedimento James fece della descrizione scientifica del
processo psicologico del conoscere la risposta al quesito filosofico
cosa sia la verità e superò al tempo stesso il dualismo mente-corpo,
ponendo l'accento sul primato della persona che, agendo, definisce
se stessa e il proprio ambiente.Il pragmatismo di James non
contraddice la linea epistemologica di Peirce, anche se ne
costituisce uno sviluppo più che un'applicazione. Dal punto di vista
di Peirce l'individualismo jamesiano corre il rischio del
relativismo, perché non può servirsi - e non si serve - del
principio regolatore del consenso della comunità degli studiosi. Ciò
che interessa James, tuttavia, è fondare la conoscenza sulla volontà
creativa del singolo, una volontà libera che pone a rischio se
stessa - perché le idee possono provocare conseguenze addirittura
deleterie -, ma che dà vita a un universo umano aperto e
pluralistico, il quale cerca la propria validazione nell'intreccio
dei piani d'azione degli individui. A suo parere, d'altronde, il
pragmatismo non è affatto relativista, in quanto è legato sia ai
fondamenti empirici della coscienza che al postulato evolutivo
dell'adattamento.L'influenza di James sulla cultura americana fu
enorme e con lui il pragmatismo acquistò una visibilità nazionale,
anche se non ebbe conseguenze dirette sul movimento riformatore
progressista, perché James non aveva preoccupazioni politiche o
sociali. Egli si considerava un filosofo che aveva trovato il modo
di coniugare scienza e filosofia e che, in Varieties of religious
experience (1902), aveva individuato la base empirica del bisogno di
fede religiosa dell'uomo dando alla fede un ruolo nel processo del
conoscere. Ciononostante il suo pensiero fornì l'orizzonte teorico
entro il quale si mosse buona parte dei progressisti, poiché
concetti quali la centralità dell'individuo che agisce e il
'migliorismo' giustificavano l'idea che la società va continuamente
adeguata ai bisogni dei singoli dall'interagire degli individui
sulla base del mutare delle circostanze ambientali.
5. Pragmatismo, democrazia ed educazione: lo
strumentalismo di J. Dewey
È, però, attraverso John Dewey (1859-1952) e la cosiddetta
'Scuola di Chicago' che il pragmatismo divenne parte attiva del
pensiero riformatore. Dewey proveniva dal Vermont, ottenne il
dottorato in filosofia alla nuovissima e innovativa Johns Hopkins
University di Baltimora e insegnò per diversi anni all'Università
del Michigan prima di approdare all'appena fondata Università di
Chicago nel 1894. In questo periodo aveva dovuto affrontare, come i
pragmatisti di Boston, il lacerante problema del divorzio fra
scienza e religione e fra scienza e morale, oltre a quelli ereditati
dalla cultura calvinista del New England - in particolare i dualismi
mente-corpo e Dio-natura.Da questi travagli Dewey ereditò
quell'avversione per ogni forma di dualismo che caratterizza tutto
il suo pensiero e che nel periodo giovanile risolse servendosi
dell'idealismo hegeliano. Il neoidealismo del suo insegnante alla
Johns Hopkins, G. Sylvester Morris, era però influenzato
dall'evoluzionismo e attento agli sviluppi scientifici, il che
spinse Dewey a seguire i corsi di psicologia di Stanley Hall e a
convertirsi alla nuova disciplina. Nel Michigan 'scoprì' poi la
psicologia di James e il pragmatismo di Peirce, che gli consentirono
quella che egli chiama la sua "transizione dall'assolutismo allo
sperimentalismo".
Fu però negli anni di Chicago che Dewey sviluppò la propria versione
del pragmatismo, lo strumentalismo, che venne formulata nel 1903,
poco prima del suo trasferimento alla Columbia University a New
York, nel saggio Logical conditions of a scientific treatment of
morality e nel manifesto della nuova scuola filosofica, il volume
collettaneo Studies in logical theory da lui curato.Lo
strumentalismo nacque dal bisogno di superare i dualismi di teoria e
pratica, scienza e morale. Risultato che Dewey intese ottenere
dimostrando che il giudizio scientifico è uguale nella sua struttura
logica a quello etico e, più precisamente, che non è vero che la
scienza si serva di giudizi universali mentre la morale si serve di
giudizi particolari. Coerentemente pragmatista nel suo approccio,
egli sostenne che i due tipi di giudizio non possono essere trattati
in astratto, ma vanno contestualizzati nel concreto mondo
dell'azione e che, se considerati da questo punto di vista, essi
appaiono come ponti che consentono di passare da un'esperienza
particolare a un'altra. I giudizi della scienza servono a forgiare
strumenti per l'esperienza, e quelli etici sono piani d'azione per
risolvere problemi. Al centro della logica, per Dewey, vi è pertanto
l'inquiry, la ricerca, vi sono uomini concreti che scelgono problemi
e costruiscono strumenti per risolverli. Il valore logico e
scientifico di una proposizione dipende allora da ragioni pratiche
che comportano scelte e sono quindi morali: la verità, anche per lui
e in modo più cogente che per gli altri pragmatisti, è
'verificazione'.
Dewey fa discendere dalla logica strumentalista conseguenze storiche
e sociali molto precise. La nascita della scienza moderna, egli
scrive, basata sull'unità di teoria e pratica e sul fondamento etico
di tale unità, ha posto fine alla contrapposizione di origine greca
fra mondo delle idee e mondo dei fenomeni, fra contemplazione e
lavoro, che non era solo errata, ma portava a un'organizzazione
sociale gerarchica incapace di far fruttare le potenzialità umane.
La democrazia è una conseguenza necessaria dello sviluppo
scientifico e il pragmatismo può renderla cosciente dimostrando che
conoscere non è contemplare, ma richiede un coinvolgimento nella
modificazione della realtà. Conoscere significa partecipare con gli
altri a rendere il mondo un luogo meno precario per l'uomo, è una
continua opera di riforma dell'ambiente, cioè della società.
La teorizzazione dello strumentalismo andò di pari passo con la
creazione di un nuovo metodo pedagogico, che costituisce il
contributo più noto e durevole di Dewey alle scienze sociali. A
Chicago, infatti, egli istituì presso l'Università una scuola
elementare, che divenne il luogo in cui sperimentò le sue teorie
psicologiche e pedagogiche, servendosene al tempo stesso per
sviluppare la logica dell'azione. Al centro della pedagogia di Dewey
vi era l'applicazione di quelli che sarebbero diventati i principî
dello strumentalismo, vale a dire l'uso dell'impulso del bambino ad
agire per insegnargli a risolvere problemi e, al tempo stesso, per
insegnargli a farlo assieme agli altri, perché sono il rispetto per
gli altri e la collaborazione con gli altri che consentono al
bambino di esprimere se stesso. La scuola diventa così una sorta di
comunità fondata sul lavoro, il modello di quell'individualismo
socializzato che costituisce il nucleo del pensiero democratico e
dell'azione politica di Dewey.
Non si può a tal proposito non ricordare che questo è il modello
comunitario che ritroviamo in molta parte del progressismo e che
costituisce un Leitmotiv della cultura sociale statunitense, con
origini che risalgono al calvinismo settecentesco del New England,
successivamente incrociatosi con il protestantesimo evangelico della
frontiera. Un comunitarismo che intende recuperare le radici sia
emotive che spirituali della socialità, della quale sono
responsabili gli individui stessi, e non lo Stato, sempre visto come
potenzialmente tirannico, in un difficile equilibrio fra
individualità e società, dove la seconda è chiamata a fornire ai
singoli il supporto di una cultura e di una struttura dei rapporti
umani in grado di spingerli a realizzare se stessi.Questo ideale,
espresso in modo definitivo in Democracy and education del 1916,
trova riscontro nell'insistente rifiuto di ogni etica utilitarista e
nella concezione globale e unitaria dell'esperire che Dewey sviluppò
negli anni fra le due guerre mondiali, quando rafforzò lo
strumentalismo con una coerente prospettiva naturalistica. Nelle
opere del periodo - di cui Logic, the theory of inquiry (1938)
rappresenta il culmine - Dewey recupera la logica di Peirce e la sua
teoria del belief - anche se preferisce l'espressione "asseribilità
giustificata" - per teorizzare il carattere pubblico del conoscere
fondato sulla convergenza dei risultati delle indagini. È questo
carattere pubblico, e pertanto sociale, la garanzia non solo
pratica, ma logica della teoria pragmatica secondo la quale sono i
risultati operativamente efficaci a verificare la verità delle
proposizioni.
Pur lontanissimo dallo scientismo, così come dall'utilitarismo,
Dewey andò progressivamente individuando una profonda unità di
metodo fra scienza e filosofia, e fra scienze fisiche e umane
(Theory of valuation, 1939), giungendo a fare della filosofia una
sorta di scienza sociale orientata alla prassi, in grado di
esercitare un controllo razionale sulla vita umana. In contrasto con
molti scienziati sociali, che da prospettive di questo tipo traevano
conseguenze tecnocratiche, egli vide nella scienza un'applicazione
specializzata dell'intelligenza pragmatica disponibile a tutti e
capace di diventare il fulcro del processo democratico, attraverso
quello che egli chiamava "social sensorium", la cosciente e
paritaria interazione tra individui mediata dal linguaggio.A causa
del loro specifico approccio teorico, Dewey e gran parte dei
pragmatisti furono attivi sia nel campo delle scienze sociali che
dell'azione pubblica. Lo strumentalismo deweyano, ad esempio, è
incomprensibile se non si pone attenzione sia allo stretto rapporto
di collaborazione che Dewey instaurò a Chicago con Jane Addams - una
delle figure chiave del progressismo, fondatrice
dell'importantissimo movimento dei social settlement, i centri
sociali che operavano negli slums urbani - sia alla sua successiva,
intensa attività in campo pedagogico e sociale a New York.
Lo strumentalismo sfociò pertanto in una teoria politica che
conteneva gli elementi essenziali della democrazia americana del
Novecento: una visione progressista della storia, un modello di
società aperta in cui individuo e comunità si armonizzano, e una
teoria dinamica dei processi sociali che tende a sottovalutare
strutture e istituzioni a favore di un approccio psicosociologico al
problema della piena realizzazione di una società armonica. Sebbene
definitivamente formulata solo negli anni venti e trenta, e
nonostante in questi anni l'influsso diretto del pragmatismo nel
campo delle scienze sociali fosse ormai tramontato, la spinta
democratica intrinseca allo strumentalismo consentì a Dewey di
assurgere al ruolo di saggio della democrazia americana, anche se i
suoi tentativi di costituire un nuovo movimento politico che andasse
al di là del New Deal conobbero una cocente sconfitta.
6. Pragmatismo e psicologia sociale: G.H. Mead
La tendenza del pragmatismo a incarnare aspetti centrali
della cultura democratica americana del Novecento trova conferma
nella psicologia sociale del meno noto (ma per le scienze sociali
probabilmente del più importante) tra i membri del gruppo storico
dei pragmatisti, George Herbert Mead (1863-1931). Nato nel
Massachusetts, egli studiò a Harvard con James e Josiah Royce, per
poi specializzarsi a Berlino ove subì l'influenza della psicologia
di Wilhelm Wundt; all'Università del Michigan strinse una forte e
duratura amicizia con Dewey e andò con lui a Chicago, dove rimase
per tutta la vita. Mead fu un pensatore sotto molti aspetti assai
avanzato rispetto ai propri tempi, tanto che la sua originalità sia
come filosofo che come psicologo sociale venne riconosciuta solo
negli ultimi anni della sua vita, pur essendo nota la profonda
influenza che egli aveva esercitato su Dewey.Mead prese le mosse
dalla psicologia sociale genetica di James M. Baldwin e si dedicò
per tutta la vita al problema dell'emergere dell'intelligenza - la
mente - dal comportamento irriflesso. Il suo approccio è quindi di
tipo comportamentista, anche se non nel senso restrittivo di John B.
Watson.In linea con i fondamenti del pragmatismo, Mead non ritiene
che la mente sia un presupposto dell'esperienza, ma che si formi con
questa a partire dal "gesto", vale a dire attraverso la
comunicazione sociale. Un gesto è un movimento o un suono che indica
agli altri le intenzioni o le emozioni di una persona e che, quando
acquista per loro significato, diventa un simbolo. L'attività
comunicativa per mezzo di simboli, il più importante dei quali è il
linguaggio, dà vita a un "atto sociale". L'esperienza è quindi un
processo comunicativo costituito da atti sociali, che ha natura
teleologica in quanto ogni atto tende a eliminare la sensazione di
disturbo - che Mead chiama 'impulso' - provocata da un mancato
aggiustamento fra il singolo e il suo milieu.
La natura sociale degli atti implica che l'individualità si sviluppi
socialmente, in quanto gli impulsi di ognuno non possono trovare
soluzione se non con la cooperazione degli altri e quindi attraverso
un ruolo attivo nel gruppo. Ciò è sperimentalmente riscontrabile
nello sviluppo del bambino, che comincia ad assumere ruoli
immaginari imitando gli adulti nel gioco (play), ma sviluppa la
propria individualità solo quando partecipa a giochi organizzati
(game) in cui assume ruoli impersonali guidati da regole. Giochi,
cioè, in cui impara a rappresentarsi la risposta dell'altro, vale a
dire a far proprio un punto di vista generale e comune a ogni membro
del gruppo - il cosiddetto "altro generalizzato" (generalized
other). In termini teorici, secondo Mead, la coscienza del Sé emerge
quindi attraverso una serie di aggiustamenti in cui ognuno risponde
a impulsi sia propri che altrui, in un processo in cui passa da una
percezione convenzionale e astratta di sé (il 'me') a una concreta
('io'), reagendo in modo pratico agli impulsi ai quali il 'me' viene
sottoposto dall'ambiente.
È questa la teoria dell'interazionismo simbolico, che ha avuto
grande importanza per lo sviluppo della psicologia sociale, nonché
per la pedagogia, la sociologia e la linguistica, e che si fonda su
una esatta comprensione e approfondimento dei principî del
pragmatismo. Mead, infatti, usa la teoria del segno di Peirce
riconoscendo la natura nominalistica del simbolo; ma correttamente
ritiene che ogni simbolo fa parte di un atto che assurge a
'oggettività sociale' attraverso il consenso generato
dall'assunzione di ruoli impersonali e quindi dalla cooperazione che
così si instaura per la soluzione di problemi concreti dei singoli.
Tale oggettività, indipendente dal punto di vista di ciascuno anche
se non di natura metafisica, costituisce il nucleo del metodo
scientifico, che diviene così garante della correttezza del pensare
anche al di fuori delle scienze fisiche e addirittura momento di
partenza della riflessione morale.
7. Pragmatismo e scienza politica: A.F. Bentley
Il pragmatismo, come si è detto all'inizio, non fu una scuola, ma un
movimento la cui influenza sulla cultura sociale americana fu più di
indirizzo che di contenuti. Se possiamo infatti ritenere
l'epistemologia pragmatista quasi il modello, se non addirittura
l'autocoscienza e al tempo stesso il limite, del moto riformatore
che gettò le basi del Novecento americano, di questo moto essa fu
solo una componente, perché il pluralismo della cultura statunitense
impediva a una singola teoria di assumere un ruolo egemone.Nel campo
specifico delle scienze sociali, inoltre, a partire dagli anni venti
si venne affermando un sempre più rigido scientismo che considerava
il pragmatismo debole nel metodo ed eccessivamente vago nelle
conclusioni. In effetti, se il pragmatismo aveva fornito la
giustificazione filosofica di una società aperta che aveva la
scienza come principale strumento regolatore, le esigenze di
controllo e di ingegneria sociale che esso evocava, e che affidava
alla scienza piuttosto che alla politica, rendevano necessari metodi
e tecniche che lo scavalcavano. Ciò è riscontrabile nella scienza
politica, ove l'innovatrice opera di Arthur F. Bentley (1870-1957)
ebbe un influsso tanto vasto quanto lontano dalla sua ispirazione
originaria. Laureato in economia e influenzato dal marginalismo di
Carl Menger, Bentley, per molti anni giornalista a Chicago, intese
individuare la più semplice unità sociale osservabile per costruire
su di essa una teoria sociale empirica. Molto legato a Dewey, egli
definì i fenomeni sociali in puro stile pragmatista come delle
'attività' socialmente situate e aventi un fine pratico.
L'elemento unificatore della ricerca sociale è pertanto l'attività
sociale e, dal momento che essa è sempre attività di gruppo, i
gruppi vengono a essere le unità primarie di analisi, da studiare
empiricamente esaminandone la composizione, le tecniche e i
rapporti.In The process of government (1908), opera che ebbe un
effetto culturale dirompente, Bentley mise i gruppi al centro
dell'analisi politica. Essi agiscono in vista di fini che sono i
loro 'interessi' ed esercitano l'uno sull'altro delle 'pressioni'
che costituiscono l'essenza della vita politica. In ogni società, ma
soprattutto in quelle democratiche, i gruppi politici sono mutevoli
e intessono una rete di rapporti che può essere studiata solo come
un processo, al pari della società.
La teoria di Bentley, realista e del tutto antinormativa, fa dello
Stato un semplice momento organizzativo del processo politico e
afferma l'impossibilità di individuare un 'bene pubblico' comune a
tutti i gruppi. Il che non provoca un'anarchia istituzionale o di
valori, in quanto l'interazione fra i gruppi, se libera, dà
automaticamente vita a un sistema in grado di mantenersi in uno
stato di equilibrio dinamico. L'aumentare degli interessi con lo
sviluppo della società fa crescere l'attività dei gruppi accrescendo
l'interazione e l'individualità, in quanto permette agli individui
di partecipare attivamente a una pressoché infinita serie di 'sfere
sociali', vale a dire di associazioni e raggruppamenti volontari. In
questo modo il processo politico partecipa del processo sociale e
con esso si sviluppa evolutivamente.La scienza politica americana si
rifece a Bentley per teorizzare la interest groups politics, la
politica dei gruppi di interesse, all'interno della quale la
democrazia finì per essere identificata con un sistema di regole
procedurali diretto a permettere la libera attività dei gruppi. Si
trattava di una teoria realista, che consentiva analisi empiriche in
chiave comportamentistica; ma inficiata dall'idea che, almeno negli
Stati Uniti, la costituzione di gruppi di pressione fosse collegata
solo alle capacità e alla volontà dei singoli e non limitata dalle
strutture di potere economico e sociale effettivamente esistenti.
8. Osservazioni conclusive
Dewey, Mead e Bentley indicano che nella prima metà del
Novecento la spinta delle scienze sociali americane a trasformare le
teorie fondate sulle strutture sociali in altre rette dall'idea di
processo è almeno in parte riconducibile all'influenza del
pragmatismo, anche se forse sarebbe più corretto dire che esso
incarnò e specificò la tendenza della cultura americana a dare la
precedenza ai rapporti interpersonali rispetto alle istituzioni. In
ogni caso il pragmatismo è nato al centro di una complessa temperie
storica in cui gli Stati Uniti riuscirono a risolvere con successo
una difficile transizione che li avrebbe potuti portare a una vera e
propria crisi. Giudicare tale soluzione positivamente come una
"rivolta contro il formalismo", secondo la suggestiva e fortunata
formula di Morton White, uno storico che si iscrive nella tradizione
progressista, oppure negativamente come una riaffermazione
dell'eccezionalismo americano legata all'egemonia capitalista - si
veda la storiografia della scuola corporatista e quanto recentemente
scritto da Dorothy Ross - non è compito di queste pagine. Qui
occorre rilevare come l'influenza e l'interscambio fra pragmatismo e
scienze sociali furono una necessità intrinseca alla metodologia
dell'uno e delle altre e come il panorama della cultura sociale
americana ne uscì profondamente mutato. Basti pensare, ad esempio,
alla sociological jurisprudence di Roscoe Pound (1870-1964), basata
sul superamento del formalismo giuridico attraverso la teoria
giuridica degli 'interessi', o alla sociologia urbana della Scuola
di Chicago di William I. Thomas (1863-1947) e Robert Park
(1864-1944), che si rifaceva alla visione processuale di Dewey e
Bentley.
Il pragmatismo negli Stati Uniti ha avuto una funzione cospicua
nella formulazione di una cultura sociale che superò il trauma del
'disincantamento del mondo' e accettò il confronto con il mutamento
considerandolo umanamente controllabile, anche se non intelligibile,
attraverso l'uso del metodo scientifico. Un confronto probabilmente
viziato da forti limiti ideologici, ma i cui risultati, soprattutto
per quanto riguarda i fondamenti epistemologici di una società
aperta e la natura sociale e storica del conoscere, continuano a
essere utili e suggestivi anche nell'odierno dibattito sull'avvento
della società postmoderna.