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Termine usato per connotare la condizione antropologica e culturale conseguente alla crisi e all’asserito tramonto della modernità nelle società del capitalismo maturo, entrate circa dagli anni 1960 in una fase caratterizzata dalle dimensioni planetarie dell’economia e dei mercati finanziari, dall’aggressività dei messaggi pubblicitari, dall’invadenza della televisione, dal flusso ininterrotto delle informazioni sulle reti telematiche. In connessione con tali fenomeni, e in contrasto con il carattere utopico, con la ricerca del nuovo e l’avanguardismo tipici dell’ideologia modernista, la condizione culturale p. si caratterizza soprattutto per una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo, e per l’abbandono dei grandi progetti elaborati a partire dall’Illuminismo e fatti propri dalla modernità, dando luogo, sul versante creativo, più che a un nuovo stile, a una sorta di estetica della citazione e del riuso, ironico e spregiudicato, del repertorio di forme del passato, in cui è abolita ogni residua distinzione tra i prodotti ‘alti’ della cultura e quelli della cultura di massa.
Rintracciabile fin dagli anni 1930 nella cultura di lingua spagnola (Antología de la poesía española e hispanoamericana. 1882-1932, a cura di F. de Onís, 1934), diffuso poi dagli anni 1950 nella cultura di lingua inglese e soprattutto negli USA nell’ambito degli studi estetico-letterari, il termine ha trovato poi una più precisa codificazione in architettura e nelle arti, anche dello spettacolo, ed è entrato nel linguaggio filosofico.
Il concetto di p. entra nel dibattito filosofico e culturale a partire dal 1979, anno in cui J.-F. Lyotard pubblica La condition postmoderne. L’età contemporanea vi è descritta come quella in cui la modernità ha raggiunto il suo termine con la delegittimazione dei «grandi racconti» (grands récits), ovvero delle prospettive filosofiche e ideologiche che, a partire dall’Illuminismo, hanno ispirato e condizionato le credenze e i valori della cultura occidentale: il ‘racconto’ del processo di emancipazione degli individui dallo sfruttamento, quello del progresso come indefinito miglioramento delle condizioni di vita, quello della dialettica come legittimazione del sapere in una prospettiva assoluta. Non più legata ai grandi progetti, l’età p. si caratterizzerebbe piuttosto per la pluralità dei discorsi pragmatici che pretendono soltanto una validità strumentale e contingente. In tale prospettiva si situano le riflessioni dello statunitense R. Rorty, che, in una conciliazione di temi della filosofia analitica e del pragmatismo, ha sottolineato il superamento del mito del discorso vero inteso come conformità a una realtà data e ha ridimensionato i progetti fondazionali delle filosofie del passato, contrapponendo a essi un atteggiamento che mira a dare risposte pragmatiche ai problemi dell’uomo.
In Italia, al concetto di p. ha dedicato attenzione G. Vattimo, elaborando la nozione di ‘pensiero debole’ per definire l’atteggiamento filosofico che ha preso atto della dissoluzione delle certezze e dei valori assoluti, dissoluzione che non porterebbe comunque a una totale negazione del passato, ma piuttosto a un sentimento di pietas nei confronti dei valori e degli ideali della tradizione.
La nozione di p. è entrata dagli anni 1980 nel dibattito critico-estetico, non senza fondate riserve per la sua indeterminatezza; con essa si allude al mutamento di sensibilità prodottosi nelle società del tardo capitalismo, cui corrisponderebbero, in letteratura, un ritorno della poesia all’immagine lirica e alla libera espressione dell’io, e della prosa al piacere della narrazione, mista di elementi storici e fantastici, nonché soprattutto la consapevolezza delle nuove generazioni di scrittori di venire ‘dopo’, e la volontà di andare ‘oltre’, i vari sperimentalismi che hanno caratterizzato il Novecento. Più sicure manifestazioni di un’estetica p. si sono avute nel teatro con le ricerche di gruppi (Magazzini criminali, La gaia scienza, Falso movimento ecc.) che negli anni 1970-80, sviluppando alcune intuizioni della più vivace sperimentazione teatrale, specie romana, hanno dato vita a una stilizzata contaminazione di generi e linguaggi (danza, performance, musica, pubblicità, cinema, video), detta ‘nuova spettacolarità’.
Si è parlato di p. anche per la danza, con riferimento alle nuove forme di teatro-danza e alla post-modern dance statunitense, la quale peraltro trova la sua più precisa definizione in rapporto all’evoluzione della modern dance.
Nella riflessione estetica e nella filosofia contemporanea, termine usato per connotare la condizione antropologica e culturale conseguente alla crisi e all’asserito tramonto della modernità nelle società del capitalismo maturo, entrate, a partire circa dagli anni Sessanta del Novecento, in una fase caratterizzata dalle dimensioni planetarie dell’economia e dei mercati finanziari, dall’aggressività dei messaggi pubblicitari, dall’invadenza della televisione, dal flusso ininterrotto delle informazioni sulle reti telematiche. In connessione con tali fenomeni, e in contrasto con il carattere utopico, con la ricerca del nuovo, con lo specialismo e l’avanguardismo tipici dell’ideologia modernista, la condizione culturale postmoderna, secondo l’interpretazione prevalente, si caratterizza soprattutto per una disincantata rilettura della storia, definitivamente sottratta a ogni finalismo, e per l’abbandono dei grandi progetti per l’uomo, elaborati a partire dall’Illuminismo e fatti propri dalla modernità, dando luogo, sul versante creativo, più che a un nuovo stile, a una sorta di estetica della citazione e del riuso, ironico e spregiudicato, del repertorio di forme del passato, in cui è abolita ogni residua distinzione tra i prodotti ‘alti’ della cultura e quelli della cultura di massa. Rintracciabile fin dagli anni Trenta nella cultura di lingua spagnola (Antología de la poesía española e hispanoamericana. 1882-1932, a cura di F. de Onís, 1934), diffuso quindi, dagli anni Cinquanta, nella cultura di lingua inglese e soprattutto negli Stati Uniti nell’ambito degli studi estetico-letterari, il termine p. ha trovato una più precisa codificazione in architettura, in contrapposizione a (movimento)moderno, e nelle arti, anche dello spettacolo, ed è statosuccessivamente impiegato anche nel linguaggio filosofico.
La riflessione filosofica sul postmodernismo. Il concetto di p. diviene materia di dibattito sia filosofico sia culturale a partire dal 1979, anno in cui Lyotard pubblica La condition postmoderne (trad. it. La condizione postmoderna). L’età contemporanea è descritta da Lyotard come quella in cui la modernità ha raggiunto il suo termine con la delegittimazione dei «grandi racconti» (grands récits), ossia delle prospettive filosofiche e ideologiche che, a partire dall’Illuminismo, hanno ispirato e condizionato le credenze e i valori della cultura occidentale: il «racconto» del processo di emancipazione degli individui dallo sfruttamento, quello del progresso come indefinito miglioramento delle condizioni di vita, quello della dialettica come legittimazione del sapere in una prospettiva assoluta. Non più legata ai grandi progetti, l’età postmoderna si caratterizzerebbe piuttosto per la pluralità dei discorsi pragmatici che pretendono soltanto una validità strumentale e contingente. In una tale prospettiva si situano anche le riflessioni dello statunitense Rorty, che, in una conciliazione di temi della filosofia analitica (soprattutto di Wittgenstein, Quine e D.H. Davidson) e del pragmatismo, ha sottolineato il superamento del mito del discorso vero inteso come conformità a una realtà data e ha ridimensionato i progetti fondazionali delle filosofie del passato, contrapponendo a essi un atteggiamento che mira a dare risposte pragmatiche, contingenti e non sistematiche ai problemi dell’uomo. In Italia, al concetto di p. ha dedicato attenzione Vattimo: in una prospettiva nietzschiana e heideggeriana, egli ha elaborato la nozione di «pensiero debole» per definire l’atteggiamento filosofico che ha preso atto della dissoluzione delle certezze e dei valori assoluti, dissoluzione che non porterebbe comunque a una totale negazione del passato, ma piuttosto a un sentimento di pietas nei confronti dei valori e degli ideali della tradizione.