www.treccani.it
Enciclopedia online
Indirizzo filosofico del 19° sec., il cui iniziatore è il francese
A. Comte e i cui maggiori rappresentanti sono in Inghilterra J. S.
Mill e H. Spencer, e in Italia R. Ardigò. Più in generale, il
termine indica una cultura il cui atteggiamento fondamentale è
riconducibile ai principi elaborati da tale indirizzo filosofico.
Ne parteciparono scienziati, storici, letterati, nel quadro della
situazione europea caratterizzata dagli sviluppi della società
industriale e dalla crescita delle scienze e della tecnica. I
filosofi positivisti sono pienamente consapevoli di essere
interpreti di questo tempo e tracciano anche il disegno di una
società industriale razionale, ossia regolata secondo criteri
scientifici.
1. Le accezioni del termine positivo
Diverse sono le accezioni elencate da Comte nel Discours sur l’esprit positif (1844). La prima è quella di reale, in opposizione a chimerico; e con questo si indica il volgersi della nuova filosofia a ricerche accessibili all’intelligenza umana, con esclusione dei misteri impenetrabili di cui si occupava la filosofia anteriore. La seconda accezione è quella di utile, in contrapposizione a ozioso; indica cioè il carattere pragmatico della nuova filosofia, rivolta al miglioramento della condizione dei singoli e della società. In una terza accezione il termine indica l’opposizione tra certezza e indecisione, ossia l’attitudine della filosofia positiva a costituire «l’armonia logica nell’individuo e la comunione spirituale nella specie», in luogo di perseguire i continui dubbi delle filosofie precedenti. Una quarta accezione è quella di preciso in contrapposizione a vago, e designa la tendenza della filosofia positiva a raggiungere il grado di precisione compatibile con la natura dei fenomeni e con l’esigenza dei nostri bisogni, mentre la vecchia filosofia conduceva a nozioni vaghe che potevano diventare patrimonio comune attraverso una disciplina imposta e fondata su un’autorità soprannaturale). La quinta accezione designa il positivo in contrapposizione al negativo, e indica che la filosofia positiva non ha il compito di distruggere ma di organizzare. Tali definizioni possono valere come caratterizzazione dello stadio più avanzato dello sviluppo intellettuale (e storico) dell’uomo, il raggiungimento della sua piena maturità. Questo stadio viene chiamato da Comte appunto ‘positivo’, ed è il terzo stadio dopo quello teologico e quello metafisico. Tale successione è per Comte la legge dei tre stadi che ha validità universale ed è verificabile sia nel corso storico (con riferimento particolare alla storia europea), sia nello sviluppo delle scienze, sia infine nello sviluppo psicologico individuale. Raggiungere lo stadio positivo significa liberarsi da criteri non scientifici nella considerazione dei fenomeni; significa non ricorrere più a entità immaginarie soprannaturali come nello stadio teologico, o ad astrazioni personificate come nello stadio metafisico. Nello stadio positivo l’intelletto si limita rigorosamente ai fatti e alle loro relazioni: alla causa subentra la legge, alla ricerca del perché la ricerca del come, all’assoluto subentra il relativo. Il nuovo mondo comtiano realizza l’imperativo dell’altruismo ed è aperto a una religione il cui dio è l’Umanità e che non lascia alcun posto al trascendente.
2. I maggiori esponenti
Con J.S. Mill il p. assume una configurazione diversa da quella conferitogli da Comte. In realtà Mill si collega alla tradizione empiristica inglese e in sostanza ha in comune con Comte soprattutto la parte negativa della sua filosofia, il rifiuto di ogni ricorso a spiegazioni teologiche o metafisiche: il suo System of logic (1843) si fonda sul più rigoroso sperimentalismo. Sul piano politico la concezione di Mill è individualistica e liberale, mentre lo Stato di Comte è rigidamente organizzato. Mill è vicino a Comte in fatto di filosofia della religione, anche se poi svolge diversamente questo punto comune. Si è visto che Comte non esclude il sentimento religioso, e anzi prospetta una sua espansione nello stadio positivo. Neppure Mill lo esclude. Nei suoi Three essays on religion (postumi, 1874) parla di un dio finito, ossia non onnipotente, un principio buono non assoluto, che dunque deve fare i conti con il mondo materiale e le sue leggi spesso crudeli: l’uomo è così un collaboratore di questa divinità finita e il sentimento religioso rafforza la speranza di realizzare le sue esigenze morali. Sia in Comte sia in Mill il presupposto antropologico è quello sentimentale (l’uomo non è soltanto e neppure prevalentemente ragione); il presupposto teorico (e in Mill più ancora che in Comte) è la propensione agnostica: la spiegazione razionale non esclude un certo margine di non-sapere e di inverificabilità.
Un atteggiamento analogo si riscontra anche in altri pensatori che si richiamano al positivismo. C. Bernard nella sua Introduction à l’étude de la médecine expérimentale (1865) è sostenitore di un rigoroso sperimentalismo e respinge quello che egli chiama il ‘sistema’, ossia la spiegazione unitaria dei fenomeni (materialismo, spiritualismo ecc.). Considera la filosofia diversa dalla scienza perché si occupa dell’indeterminato, di ciò che la scienza non può sperimentare, e attribuisce per questa via alla filosofia una funzione di stimolo per la scienza stessa, ritenendo ineliminabili le esigenze che danno luogo alla filosofia e alla religione. Anche in J.-R. Renan, pur fra qualche oscillazione, resta l’esigenza di non identificare il verificabile con il vero, di non appagarsi delle operazioni razionali.
Un analogo presupposto gnoseologico è presente in H. Spencer, che parla di una conoscenza relativa del condizionato e di un incondizionato inconoscibile. La religione rappresenta la consapevolezza di questo mistero e la rappresenta tanto meglio quanto più rinuncia a raffigurarlo e si limita a prendere atto della sua presenza-assenza. Da una parte dunque la scienza, dall’altra la religione, con due ben distinte sfere di competenza. Tuttavia per Spencer queste due sfere non sono irrelate, perché il condizionato, il fenomeno è manifestazione della realtà assoluta, e dell’incondizionato abbiamo tuttavia coscienza senza averne conoscenza. La filosofia ha il compito di generalizzare i risultati delle scienze, e questi risultati consentono a Spencer di formulare una teoria dell’evoluzione di applicazione universale. Nell’evoluzione sociale egli prevede un punto di approdo in cui i contrasti saranno appianati, in cui individuale e sociale, privato e pubblico saranno conciliati. In vista di questo approdo Spencer sostenne in sede di dottrina politica tesi contrarie a ogni intervento dello Stato. Spencer fu il filosofo positivista che ebbe maggior fortuna: negli ultimi quarant’anni dell’Ottocento la sua filosofia ebbe una diffusione enorme. Critico dell’inconoscibile di Spencer è l’italiano R. Ardigò, il quale non ammette un diverso e più autentico piano di realtà, ma si attiene al fatto e al verificabile. Il fatto viene accertato attraverso l’apprensione diretta, alla quale seguono le operazioni riflessive che distinguono. Questo passaggio da un originario indistinto a successive distinzioni è un fatto del pensiero, ma è anche un fatto reale: la realtà stessa viene specificandosi in questo senso, onde ogni distinto è a sua volta indistinto rispetto a distinti ulteriori.
Il p. ebbe diffusione anche in Germania, ma più che di una vera scuola positivistica tedesca si può parlare di ‘atmosfera positivistica’ (antimetafisica, attenzione rivolta ai risultati delle scienze, problema dei limiti della conoscenza scientifica, problema dei rapporti tra scienza e filosofia). Si possono ricondurre al p., in particolare al dualismo spenceriano, le posizioni del fisiologo E. du Bois-Reymond, che presuppongono l’esistenza di un aspetto della realtà precluso alla scienza. Du Bois-Reymond elenca alcune difficoltà fondamentali della ricerca scientifica, alcuni ‘enigmi’ di fronte ai quali essa si arresta: l’essenza della materia e della forza, l’origine del movimento, l’origine della vita, il finalismo naturale, l’origine della coscienza, il pensiero razionale e il relativo linguaggio, la libertà del volere.
3. Mentalità positivistica e spirito scientifico
La mentalità positivistica fu feconda di risultati nel senso che promosse lo studio ‘scientifico’ di molti fenomeni. Particolarmente notevoli furono le suggestioni che dalla nuova mentalità vennero agli studi storici e alle discipline sociali. Nacque un nuovo metodo storiografico, attento soprattutto a fattori ambientali, sociali, razziali, teso a comporre su queste basi il quadro d’insieme entro cui comprendere gli avvenimenti nelle loro molteplici connessioni, il ruolo delle singole personalità storiche (H.T. Buckle, W.E.H. Lecky, H.-A. Taine, P. Villari). In Francia, É. Durkheim intese fornire basi scientifiche alla sociologia, adottando come principio di spiegazione il fatto sociale inteso come una modalità del fatto collettivo che eserciti la sua costrizione sull’individuo (correnti d’opinione, istituzioni educative, credenze). L’esigenza scientifica si estese nel contempo all’antropologia e alla psicologia (basti pensare all’opera di Taine De l’intelligence, 1870, d’ispirazione rigidamente analitica, in cui la vita psichica è vista come riconducibile ai suoi elementi più semplici). In linguistica ricevettero nuovo impulso le ricerche di carattere genetico e comparativo; la letteratura e le arti nel nuovo clima accentuarono in senso ‘sperimentale’ il realismo romantico; il metodo positivo si affermò nella critica letteraria, si indagarono le basi fisiologiche di fenomeni complessi come quelli del gusto; l’attenzione al fatto stimolò innumerevoli ricerche filologiche e di erudizione; negli studi sulle religioni si tese a mettere in rilievo i fattori umani nello sviluppo dell’esperienza religiosa, mentre fiorivano ricerche etnografiche e paleoetnografiche volte allo studio comparato delle diverse forme e stadi della civiltà.
Né vanno dimenticati i meriti del p. nei riguardi del rinnovamento della legislazione scolastica e penale. Si ebbe l’affermarsi di un p. pedagogico (in Italia A. Gabelli, R. Ardigò ecc.), teso a promuovere le tendenze spontanee e creative dell’alunno, e di una scuola positiva del diritto penale (massimi esponenti C. Lombroso ed E. Ferri), che riteneva che il criminale fosse il prodotto di una serie di componenti biologiche (ereditarietà, dati anatomici e fisiologici) e sociali, e spiegava il delitto al di fuori di considerazioni morali, intendendo la pena non in senso afflittivo, ma in funzione della difesa sociale e della rieducazione del colpevole.
Il positivismo comtiano.
Nel Discours sur l’esprit positif (1844; trad. it. Discorso sullo spirito positivo) Comte elenca le accezioni del termine positivo, termine elevato ormai dall’uso corrente alla dignità filosofica, e con ciò individua i tratti generali più caratteristici della sua filosofia e del p. in genere. La prima accezione è quella di reale, in opposizione a chimerico; con questo si indica il volgersi della nuova filosofia a ricerche accessibili all’intelligenza umana, con esclusione delle questioni metafisiche di cui si occupava la filosofia anteriore. La seconda accezione è quella di utile, in contrapposizione a ozioso; indica cioè il carattere pragmatico della nuova filosofia, rivolta al miglioramento della condizione dei singoli e della società. In una terza accezione il termine indica l’opposizione tra certezza e indecisione, ossia l’attitudine della filosofia positiva a costituire «l’armonia logica nell’individuo e la comunione spirituale nella specie», in luogo di perseguire i continui dubbi delle filosofie precedenti. Una quarta accezione è quella di preciso in contrapposizione a vago, e designa la tendenza della filosofia positiva a raggiungere il grado di precisione compatibile con la natura dei fenomeni e con l’esigenza dei nostri bisogni, mentre la vecchia filosofia conduceva a nozioni vaghe che potevano diventare patrimonio comune attraverso una disciplina imposta e fondata su un’autorità soprannaturale. La quinta accezione contrappone il positivo al negativo, sottolineando come filosofia positiva non abbia il compito di distruggere ma di organizzare.
Queste definizioni vengono intese come caratterizzazione dello stadio più avanzato dello sviluppo intellettuale (e storico) dell’uomo, il raggiungimento della sua piena maturità. Si tratta di quello che Comte definisce lo stadio positivo, che segue a quello teologico e a quello metafisico. Tale successione è per Comte una legge, la legge dei tre stadi, che ha validità universale ed è verificabile sia nel corso storico (con riferimento particolare alla storia europea), sia nello sviluppo delle scienze, sia infine nello sviluppo psicologico individuale.
Raggiungere lo stadio positivo significa liberarsi da criteri non scientifici (lo stadio positivo è chiamato anche stadio scientifico) nella considerazione dei fenomeni; significa non ricorrere più a entità immaginarie soprannaturali come nello stadio teologico, o ad astrazioni personificate come nello stadio metafisico. Nello stadio positivo l’intelletto si limita rigorosamente ai fatti e alle loro relazioni: alla causa subentra la legge, alla ricerca del perché la ricerca del come, all’assoluto subentra il relativo. Ogni ricerca di essenze è dunque considerata antiscientifica e prescientifica: è, per es., antiscientifica una ricerca sulla natura del calore, mentre è scientifico stabilirne in termini matematici le leggi di propagazione, come ha fatto J.-B.-J. Fourier.
Non tutte le scienze hanno raggiunto lo stadio positivo. Comte le classifica secondo una decrescente generalità e crescente complessità: matematica, astronomia, fisica, chimica, biologia, sociologia. La sociologia, scienza che studia le leggi dei fenomeni sociali, è la scienza fondata da Comte (che crea il termine). Si è detto che la legge dei tre stadi è anche la legge del progresso storico: ora lo stadio positivo è lo stadio moderno, quello che dovrà seguire a una fase metafisica, ossia soltanto negativa e critica, che ha avuto inizio nel 14° sec. ed è culminata nell’Illuminismo e nella Rivoluzione francese.
Della nuova fase storica positiva Comte traccia un quadro particolareggiato, d’ispirazione sansimoniana (Comte era stato segretario e collaboratore di Saint-Simon, del quale riprese e sviluppò alcune idee). Il nuovo ordine si fonda su una gerarchia di poteri, al cui vertice stanno i filosofi, anzi i sacerdoti filosofi (Comte intende instaurare una nuova religione positivistica). Al di sotto dei filosofi stanno banchieri, industriali, commercianti, agricoltori. Il potere intellettuale dei filosofi è poi completato da un potere affettivo-morale, quello delle donne (la cui influenza è però indiretta: si esercita attraverso l’affettività domestica e l’educazione), e infine dal proletariato al quale Comte assegna un ruolo importante.
Il proletario è il complemento pratico del filosofo-sacerdote, perché non partecipa dello spirito teologico né di quello metafisico e ha un sentire omologo al pensare del filosofo positivo. Il nuovo mondo comtiano realizza l’imperativo dell’altruismo e si configura come mondo religioso, una religione il cui dio è l’Umanità e che non lascia alcun posto al trascendente.
Lo sperimentalismo di Mill.
Con J. Stuart Mill il p. assume comunque una configurazione diversa da quella datagli da Comte. In realtà Mill si collega alla tradizione empiristica inglese (di cui peraltro attenua alcuni aspetti radicali) e ha in comune con Comte soprattutto la parte negativa della sua filosofia, il rifiuto di ogni ricorso a spiegazioni teologiche o metafisiche, in una parola il rifiuto di ogni a priori. Sotto questo profilo Mill ha posizioni molto radicali, come testimonia il suo System of logic (1843; trad. it. Sistema di logica) , fondato sul più rigoroso sperimentalismo. Tutto deriva dall’esperienza, tutto è induttivo: qualsiasi proposizione generale, e non solo le premesse maggiori dei sillogismi, ma gli stessi principi matematici, gli stessi principi logici, sono il risultato di generalizzazioni empiriche.
Mill afferma altresì che la logica in quanto scienza non è che una branca della psicologia: egli è quindi un sostenitore del cosiddetto psicologismo contro la possibilità di una logica pura (ed è stato oggetto di molte confutazioni su questo punto). A proposito di questo empirismo e atomismo dell’esperienza milliana si è anche notata una sua diversità rispetto alla parallela concezione di Comte. Questi, pur restando fermo alla verificabilità come criterio ultimo del vero, polemizza con l’empirismo in quanto accumulazione di semplici fatti e insiste sulle relazioni tra i fatti, sulla presenza di fatti generali e sull’immutabilità delle leggi naturali. Anche se proprio sottolineando l’immutabilità delle leggi naturali e il principio della previsione razionale Comte rinvia al Sistema di logica di Mill, la sua nozione di esperienza sembra avere un tessuto più compatto e organico di quella milliana.
La generale concezione di Mill è individualistica e, sul piano etico-politico, liberale. Lo Stato milliano interviene nella vita economica, ma interviene in senso antimonopolistico, per rimuovere gli ostacoli alla concorrenza (Mill prevede e auspica un progressivo associazionismo e la partecipazione degli operai ai profitti, ma resta fedele al principio della concorrenza), mentre il mondo economico di Comte è rigidamente organizzato. Mill è vicino a Comte in fatto di filosofia della religione, anche se poi svolge diversamente questo punto comune. Si è visto che Comte non esclude il sentimento religioso, e anzi prospetta una sua espansione nello stadio positivo. Neppure Mill lo esclude, nel senso di non ritenere la religione incompatibile con la sua filosofia. E infatti traccia una sua teologia che parla di un dio finito, ossia non onnipotente, un principio buono non assoluto, che dunque deve fare i conti con il mondo materiale e le sue leggi spesso crudeli. L’uomo è così un collaboratore di questa divinità finita. Inoltre la religione è pur sempre qualcosa di utile, perché rafforza la speranza dell’uomo in una realizzazione delle sue esigenze morali. La religione comtiana, si è visto, non lasciava posto al trascendente, quella di Mill postula un ente soprannaturale consono alla moralità umana.
In entrambi i casi il presupposto antropologico è quello sentimentale (l’uomo non è soltanto e neppure prevalentemente ragione); il presupposto teorico (e in Mill più ancora che in Comte) è la propensione agnostica: la spiegazione razionale non esclude un certo margine di non-sapere e di inverificabilità. Un atteggiamento analogo si riscontra anche in altri pensatori che si richiamano al positivismo. Claude Bernard nella sua lntroduction à l’étude de la médicine expérimentale (1865; trad. it. Introduzione allo studio della medicina sperimentale) è sostenitore di un rigoroso sperimentalismo (contano i fenomeni e il loro determinismo, nessun’altra spiegazione è scientificamente valida), e respinge quello che egli chiama il «sistema», ossia la spiegazione unitaria dei fenomeni (materialismo, spiritualismo, ecc.).
Considera la filosofia come diversa dalla scienza perché si occupa dell’indeterminato, di ciò che la scienza non può sperimentare, e attribuisce per questa via alla filosofia una funzione di stimolo per la scienza che dunque avanza nel suo territorio. Ma le esigenze che danno luogo alla filosofia (come ricerca non scientifica di principi) e alla religione restano ineliminabili. E anche in Renan, seppure fra qualche oscillazione, si conferma l’esigenza di non identificare il verificabile con il vero, di non appagarsi delle operazioni razionali.
L’evoluzionismo spenceriano.
In termini particolarmente netti il problema di questi due versanti dell’essere (perché in sostanza di questo si tratta) è posto da Spencer, che parla di una conoscenza relativa del condizionato e di un incondizionato inconoscibile. La religione rappresenta la consapevolezza di questo mistero e la rappresenta tanto meglio quanto più rinuncia a raffigurarlo, come pretendono le religioni primitive, e si limita a prendere atto della sua presenza-assenza. Da una parte dunque la scienza, dall’altra la religione, con due ben distinte sfere di competenza.
Tuttavia Spencer dice chiaramente che queste due sfere non sono irrelate, perché il condizionato, il fenomeno è manifestazione della realtà assoluta. E dell’incondizionato noi abbiamo tuttavia coscienza senza averne conoscenza: «noi abbiamo una coscienza indefinita di una realtà assoluta che trascende le relazioni, la quale è prodotta dall’assoluta persistenza in noi di qualche cosa che sopravvive a tutti i cambiamenti di relazione». Della realtà relativa abbiamo una coscienza definita, e il rapporto tra le due realtà, relativa e assoluta, «essendo assolutamente persistente nella nostra coscienza, è reale nello stesso senso che sono reali i termini che esso unisce» (First principles, 1860; trad. it. Principi primi; § 46). Questo rapporto è causale: la realtà assoluta è la «Causa sconosciuta» (ivi, § 49) che produce in noi gli effetti chiamati ‘materia’, ‘spazio’, ecc. La filosofia ha il compito di generalizzare i risultati delle scienze, e questi risultati consentono a Spencer di formulare una teoria dell’evoluzione di applicazione universale.
In sostanza Spencer intende l’evoluzione nella sua accezione più generale come un processo che passa attraverso vari equilibri secondo un ritmo di concentrazione e di dispersione. A ogni concentrazione di elementi corrisponde una perdita del loro moto relativo, e viceversa a ogni disintegrazione corrisponde un guadagno di moto. Per es., il calore che investe una massa fredda provoca un aumento del moto molecolare e una correlativa dispersione di materia che passa dallo stato solido a quello liquido e, aumentando ancora il calore, allo stato gassoso. Il processo opposto si ha con la diminuzione del moto molecolare. L’evoluzione avviene ovunque nel senso della concentrazione, della differenziazione (per es., nel caso dell’evoluzione biologica o anche sociale, divisione in classi) e della determinazione (la determinazione è una concentrazione di fattori già differenziati e in sostanza prelude al decadimento: per es. il solidificarsi nell’età matura delle parti terminali delle ossa, il determinarsi delle funzioni – dirigenti, lavoratori, distributori – nei processi produttivi).
Spencer formulò la sua teoria dell’evoluzione assai prima dell’apparizione di On the origin of species di Darwin (1859; trad. it. L’origine delle specie) , influenzato da dottrine geologiche ed embriologiche oltre che da Lamarck. Accolse poi la dottrina di Darwin, senza però fare della tesi della selezione naturale un principio unico di spiegazione. Il suo evoluzionismo era più ampio (e naturalmente assai meno scientifico) e, sul piano biologico, egli restò fedele alla teoria dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti (non accolse quella della continuità del plasma germinativo di A. Weis-mann). Sebbene Spencer parli di evoluzione e di dissoluzione, l’intonazione generale della sua filosofia rimane ottimistica. Nell’evoluzione sociale egli prevede un punto di approdo in cui i contrasti saranno appianati, in cui individuale e sociale, privato e pubblico saranno conciliati. In vista di questo punto di approdo Spencer sostenne, in sede di dottrina politica, tesi contrarie a ogni intervento dello Stato: bisognava lasciar svolgere il processo evolutivo senza favorire i «meno adatti», con fiducia nel suo risultato positivo. Spencer fu il filosofo positivista che ebbe maggiore fortuna: negli ultimi quarant’anni dell’Ottocento la sua filosofia ebbe una enorme diffusione.
Il positivismo in Italia e in Germania.
Critico dell’inconoscibile di Spencer è l’italiano Ardigò, il quale sostiene che o l’inconoscibile è davvero inconoscibile, e allora non si può dire neppure che esiste, o – ed è la tesi di Ardigò – è l’ignoto, il non ancora conosciuto, e allora sarà oggetto di ulteriori possibili esperienze. Ardigò non ammette dunque un diverso e più autentico piano di realtà, ma si attiene al fatto e al verificabile. Il fatto viene accertato attraverso l’apprensione diretta, alla quale seguono le operazioni riflessive che distinguono (per es. il soggetto dall’oggetto). Questo passaggio da un originario indistinto a successive distinzioni è un fatto del pensiero, ma è anche un fatto reale: la realtà stessa viene specificandosi in questo senso, onde ogni distinto è a sua volta indistinto rispetto a distinti ulteriori. Questo atteggiamento antidualistico (e in fondo antiagnostico) è condiviso anche da altri positivisti italiani, per es. da Angiulli, che lo teorizza con coerenza, ed è in fondo la caratteristica del p. italiano.
In quest’ultimo tuttavia non manca la posizione opposta, difesa esplicitamente da Aristide Gabelli, che considerava quella forma di p. una deviazione rispetto alla massima di attenersi ai fatti rinunciando a spiegazioni totali.
Altri, come Marchesini o Tarozzi, mostrarono insoddisfazioni analoghe, e poi uscirono dall’ambito della filosofia positivistica. Il p. ebbe diffusione anche in Germania, dove alcuni pensatori sentirono il bisogno di misurarsi con le sue proposte teoriche, di tenerne conto, spesso di giungere a conclusioni che le conciliassero con altre esigenze speculative e di metodo. Ma più che di una vera scuola positivistica tedesca si può parlare di una ‘atmosfera positivistica’, caratterizzata da un atteggiamento antimetafisico, dall’attenzione rivolta ai risultati delle scienze, al problema dei limiti della conoscenza scientifica e alla questione dei rapporti tra scienza e filosofia).
Si possono ricondurre al p. – in partic. al dualismo spenceriano – le posizioni del fisiologo E. Du Bois-Reymond, che presuppongono il convincimento dell’esistenza di un aspetto della realtà precluso alla scienza. Du Bois-Reymond elenca alcune difficoltà fondamentali della ricerca scientifica, alcuni «enigmi» di fronte ai quali essa si arresta: l’essenza della materia e della forza, l’origine del movimento, l’origine della vita, il finalismo naturale, l’origine della coscienza, il pensiero razionale e il relativo linguaggio, la libertà del volere. Non tutti questi enigmi sono egualmente impenetrabili; in sostanza i veri enigmi sono l’essenza della materia e della forza, l’origine del movimento, la coscienza (alla quale è connessa la libertà del volere); gli altri potrebbero essere risolti se fossero risolti questi. Occorre ricordare che Du Bois-Reymond partiva dalla meccanica celeste di Laplace come dal modello della scientificità, e alla luce di questa scientificità quei problemi restavano insolubili. Era comunque una conferma dell’atteggiamento agnostico di tipo spenceriano.
L’influsso del positivismo nelle discipline storiche, sociali e giuridiche.
Particolarmente notevoli furono le suggestioni che dalla nuova mentalità positivistica ed evoluzionistica vennero agli studi storici e alle discipline sociali. Nacque un nuovo metodo storiografico, attento soprattutto a fattori ambientali, sociali, razziali, teso a comporre su queste basi il quadro d’insieme entro il quale comprendere gli avvenimenti nelle loro molteplici connessioni, il ruolo delle singole personalità storiche (Henry Th. Buckle, William Edward Hartpole Lecky, Taine, Pasquale Villari).
In Francia Durkheim pretese di fornire alla sociologia basi strettamente scientifiche, considerando come principio di spiegazione il fatto sociale inteso come una modalità del fatto collettivo che eserciti la sua costrizione sull’individuo (correnti d’opinione, istituzioni educative, credenze).
E l’esigenza scientifica si estese nello stesso tempo all’antropologia e alla psicologia: basti pensare all’opera di Taine, De l’intelligence (2 voll., 1870), d’ispirazione rigidamente analitica, in cui la vita psichica è vista come riconducibile ai suoi elementi più semplici.
In linguistica ricevettero nuovo impulso le ricerche di carattere genetico e comparativo; la letteratura e le arti nel nuovo clima accentuarono in senso sperimentale il realismo romantico; il metodo positivo si affermò nella critica letteraria, si indagarono le basi fisiologiche di fenomeni complessi come quelli del gusto; l’attenzione al fatto stimolò innumerevoli ricerche filologiche e di erudizione; negli studi sulle religioni si tese a mettere in rilievo i fattori umani nello sviluppo dell’esperienza religiosa, mentre fiorivano ricerche etnografiche e paleo-etnografiche volte allo studio comparato delle diverse forme e stadi della civiltà.
Né vanno dimenticati i meriti del p. nei riguardi del rinnovamento della legislazione scolastica e penale.
Parallelamente si affermò un p. pedagogico (in Italia Gabelli, Ardigò, ecc.), che sottolineava il valore intrinseco delle conoscenze scientifiche, svalutando radicalmente l’atteggiamento religioso e promuovendo le tendenze spontanee e creative dell’alunno, e di una scuola positiva del diritto penale, i cui massimi esponenti vanno considerati Cesare Lombroso ed Enrico Ferri; questa scuola riteneva che il criminale fosse il prodotto di una serie di componenti biologiche (ereditarietà, dati anatomici e fisiologici) e sociali, spiegando così il delitto al di fuori di considerazioni morali e intendendo conseguentemente la pena non in senso afflittivo, ma in funzione della difesa sociale e della rieducazione del colpevole.