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Movimento filosofico (anche detto positivismo
logico, neoempirismo,
empirismo logico) sorto,
sviluppatosi ed esauritosi tra il terzo e il sesto decennio del
20° secolo.
La data di nascita formale del n. è il 1928, allorché un gruppo di studiosi di varie discipline – filosofia, fisica, logica, matematica, sociologia, psicologia – si raccolse nel Verein Ernst Mach, poi detto Wiener Kreis ( Vienna), con lo scopo di diffondere una «visione scientifica del mondo», unificando l’intera conoscenza sotto l’egida delle scienze empiriche. Membri di spicco del circolo viennese erano M. Schlick, R. Carnap, H. Feigl, O. Neurath, F. Waismann. Successivamente, mossi dai medesimi intenti, a essi si unirono gli esponenti della Gesellschaft für empirische Philosophie ( Berlino), tra i quali figuravano H. Reichenbach, C.G. Hempel, D. Hilbert, W. Köhler. La collaborazione tra i due gruppi (che ben presto si estese a studiosi di altre nazioni europee) portò alla nascita della rivista Erkenntnis e al progetto della International encyclopedia of unified science.
2. La filosofia neopositivista
Il richiamo del movimento è al positivismo ottocentesco, alla sua tesi del ruolo privilegiato ricoperto dalle scienze sperimentali nel processo di acquisizione di conoscenza, nonché alle sue istanze anti-metafisiche. La dizione ‘positivismo logico’ implica che l’attuazione del programma di rifondazione della conoscenza su basi empiriche doveva sfruttare gli strumenti messi a disposizione dai rivoluzionari sviluppi ottenuti nel campo della logica da G. Frege, B. Russell, A.N. Whitehead e, in seguito, dalla scuola logica polacca. Tale connubio tra positivismo e logica era reso possibile dalle tesi esposte da L. Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1922), una delle opere da cui il Circolo di Vienna ebbe a trarre grande stimolo teorico nonostante il suo autore rifiutasse recisamente di farne parte.
Nel Tractatus Wittgenstein sostiene infatti che le leggi della logica e della matematica sono tautologie, ossia proposizioni prive di contenuto fattuale ma vere in qualsiasi circostanza. Di qui un caposaldo del n.: la bipartizione di tutte le proposizioni significanti in analitiche, il cui valore di verità dipende dalla loro forma logica o dal significato dei termini componenti, e sintetiche, il cui valore di verità dipende dall’esperienza. Se dunque le prime acquisiscono un determinato significato per il fatto di fare parte di un certo linguaggio, le seconde, dovendo derivare il proprio significato dall’esperienza, pongono un problema per quanto riguarda la valutazione della loro sensatezza. Anche in questo caso la soluzione veniva offerta dal Tractatus, dove Wittgenstein presenta un’immagine della relazione tra linguaggio e mondo basata su un isomorfismo, sicché una proposizione ha senso quando la sua forma raffigura un fatto possibile, ed è vera quando questo fatto accade davvero.
Sfruttando tale indicazione e combinandola con l’idea che alla base dell’attività dello scienziato vi sono dei procedimenti induttivi, i neopositivisti formulavano il criterio empirico di significanza, secondo cui una proposizione ha significato se, e solo se, è verificabile, stabilendo quindi che il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica empirica, metodo in mancanza del quale la proposizione è priva di significato cognitivo. Con ciò la tradizionale opposizione positivistica alla metafisica trovava un criterio dirimente: una teoria metafisica non è falsa, bensì insensata da un punto di vista cognitivo; essa conserverebbe unicamente un significato emotivo.
Cornice gnoseologica del n. era il fenomenismo: la verifica doveva partire dalle sensazioni. Non occorse molto, tuttavia, per rendersi conto dei problemi che il criterio faceva sorgere. Innanzitutto lo stesso riferimento alle sensazioni – le quali, a parità di esperienza, possono essere diverse per ciascun individuo e risultare quindi reciprocamente inesprimibili – non poteva non minare quel requisito di oggettività che ogni produzione scientifica è tenuta a osservare, pena lo scivolamento nella metafisica. In secondo luogo, il fatto che per le stesse leggi scientifiche non si possa ottenere una verifica completa, riguardando esse un’infinità di esperienze possibili, mise in luce l’eccessiva rigidità del criterio. Infine, veniva fatto notare come la proposizione con cui il criterio era espresso non fosse né sintetica né analitica, e quindi destinata a non far parte della sfera delle proposizioni ammesse dai neopositivisti come cognitivamente significanti.
Iniziò così una sorta di processo di liberalizzazione, scandito da fasi diverse, che condusse a formulare il criterio non più in termini di verificabilità, bensì in quelli di confermabilità: una proposizione è significante se è in accordo con l’esperienza, un accordo che, lungi dal determinare una verifica definitiva, porta a una sua conferma crescente (anche se, in caso di esperienze contrarie, revocabile) esprimibile in termini di probabilità. Veniva così garantita alle leggi scientifiche quella legittimità negata dal criterio originario: esse vengono confermate per via indiretta, ereditando significanza empirica dalle (infinite) proposizioni particolari da esse deducibili, almeno fino a quando queste ultime reggono alla prova dell’esperienza.
D’altra parte, circoscrivendo l’attenzione ai sistemi di proposizioni, come quelli che costituiscono le teorie scientifiche, si evitava di cadere nelle trappole della metafisica rimanendo all’interno del linguaggio. Importanza cruciale assumevano dunque le proposizioni di base, tramite le quali il linguaggio intero, sino alle proposizioni e ai termini più distanti dall’esperienza (quelli cosiddetti teorici), acquista significato. Esse (i ‘protocolli’, secondo la terminologia di Neurath) comprendevano nomi di enti e di proprietà osservabili e determinazioni spazio-temporali: termini e locuzioni del linguaggio stesso della fisica. Il fenomenismo degli esordi veniva così sostituito dal fisicalismo, il quale, concentrandosi sul linguaggio, mirava a offrire un modo più coerente per raggiungere lo scopo tradizionale dell’unità della conoscenza. In questo contesto si apriva la cosiddetta fase sintattica, in cui si dichiaravano oggetto di studio i segni linguistici e le regole della loro combinazione e trasformazione: tale studio doveva privilegiare la forma; la filosofia non doveva più parlare di enti, bensì di segni, se voleva evitare di sfociare nella metafisica.
Negli anni 1940 Carnap intravide la possibilità di sfruttare alcuni risultati ottenuti dal logico polacco A. Tarski per introdurre nell’analisi logica della scienza concetti come verità e denotazione, e dette inizio alla ‘fase semantica’. Essa non equivaleva però a una legittimazione dell’extra-linguistico (gli oggetti denotati) e perciò della metafisica, non nasceva da un modo determinato di risolvere le annose questioni della natura del mondo e del suo rapporto con il linguaggio: tali questioni venivano lasciate aperte, assumendo anzi un atteggiamento tollerante verso la molteplicità delle soluzioni proposte. Le nozioni semantiche di verità e riferimento erano piuttosto studiate in relazione ai sistemi logici con cui le teorie scientifiche venivano formalizzate, allo scopo di permettere un’analisi più efficace della loro capacità deduttiva.
Non tutti seguirono Carnap: tra i critici si segnalò Neurath, il quale continuava a considerare pericolosa la relazione semantica e proponeva una teoria della verità come coerenza stando alla quale, senza uscire dal linguaggio, il valore semantico di una proposizione è valutabile sulla base del suo accordo con le altre proposizioni accettate. Ben presto però lo spiccato senso autocritico che aveva sempre accompagnato lo sviluppo del movimento, unito agli attacchi sempre più pressanti provenienti dall’esterno, portò a un progressivo sfaldamento del neopositivismo. Il criterio empirico di significanza finì col perdere la sua ragion d’essere non appena ci si rese conto, in particolare con C.G. Hempel, che persino nella sua forma liberalizzata (quella espressa in termini di confermabilità) non risultava pienamente applicabile alle proposizioni distanti dall’esperienza, quelle cosiddette teoriche, frutto più della creatività dello scienziato che di un processo empirico di induzione: ogni tentativo di riduzione dei termini teorici a quelli osservativi era destinato all’insuccesso.
A vanificare anche tale ultima fase di liberalizzazione radicale contribuirono sia le ricerche di storia della scienza, le quali, trovato il loro spunto teorico nell’opera di T.S. Kuhn, mettevano in luce come l’effettivo comportamento degli scienziati nei più diversi contesti storico-culturali non rispondesse ai canoni di una scienza induttiva, sia le critiche mosse da W.V.O. Quine a ogni tentativo di definire il significato delle proposizioni nella loro individualità, indipendentemente da tutte le altre proposizioni del linguaggio. D’altra parte acquistavano sempre più seguito gli attacchi al metodo induttivo a opera di K.R. Popper, accompagnati anche da una rivalutazione delle teorie metafisiche col riconoscimento della loro utilità per la formulazione delle teorie scientifiche. Così il n., letteralmente, svaniva, assorbito dalla filosofia analitica che ne ereditava tanto l’interesse per il linguaggio quanto l’attenzione per la scienza.
Enciclopedia del Novecento (1979)
di Francesco Barone
Sommario: 1. Cenni storici. 2. Fonti e
precedenti del neopositivismo. 3. Prima fase del neopositivismo:
analisi logica del linguaggio e antimetafisica. 4. Prospettive
etiche. 5. Sviluppi del neopositivismo: fisicalismo e scienza
unificata. 6. Di là dal Wiener Kreis: nuovi apporti e sviluppi. 7.
Conclusione. □ Bibliografia.
1. Cenni storici
Come tutte le etichette filosofiche, anche quella di
‛neopositivismo' (o, come pure si dice, di ‛positivismo logico' o
‛empirismo logico') è ambigua. Sotto di essa si spaccia talvolta non
un prodotto determinato, bensì tutta una serie di prodotti
filosofici del Novecento: cioè, in genere, le dottrine che hanno in
comune un orientamento antimetafisico, la ripulsa dei procedimenti
tradizionali del filosofare e la tendenza a valersi dell'analisi
linguistica come metodo proprio della filosofia, atto a dissolvere
gli pseudoproblemi in cui si ritiene che essa si sia spesso
dibattuta. Si identifica così il neopositivismo con quella che è
chiamata anche ‛filosofia analitica', mentre di questa il
neopositivismo - a giudizio di molti tra gli stessi filosofi
analitici - è solo un momento sia dal punto di vista concettuale sia
dal punto di vista storico.
Si dovrà certo precisare meglio connessioni e differenze tra
neopositivismo e filosofia analitica, mà va subito detto che con il
termine ‛neopositivismo' si indica qui soltanto l'insieme delle
concezioni sostenute da quei pensatori che, verso la fine degli anni
venti, si presentarono sulla ribalta filosofica internazionale sotto
l'insegna del Wiener Kreis (Circolo di Vienna) e da coloro che si
ispirarono ad essi in senso stretto. L'arco di tempo preso in
considerazione va quindi dal periodo tra le due guerre mondiali sino
ad oggi: è ovvio che in oltre mezzo secolo il neopositivismo abbia
avuto mutamenti anche profondi, pur conservando alcuni tratti
caratteristici costanti; tanto più che anche nel suo momento
iniziale esso non ebbe mai il carattere unitario di una scuola,
sicché dall'esigenza comune di una ‛concezione scientifica del
mondo' si sentivano accomunati pensatori di provenienza e di
formazione assai diverse. Ad una caratterizzazione soddisfacente del
neopositivismo si può quindi pervenire solo ripercorrendo le tappe
storiche della sua affermazione.
Sin dal 1895 l'Università di Vienna aveva una cattedra per la
filosofia delle scienze induttive: da essa avevano insegnato E.
Mach, L. Boltzmann e A. Stöhr. L'interesse per una filosofia
‛scientifica' era stato dunque coltivato nella prospettiva
empiriocriticista in stretta connessione con le scienze della
natura; e ad esso era in genere favorevole l'ambiente viennese, in
cui s'erano affermate certe tendenze empiristiche con Fr. Brentano o
antimetafisiche con Th. Gomperz e F. Jodl. Quando nel 1922, alla
cattedra ch'era stata di Mach, fu chiamato M. Schlick, questi si
trovò quindi in un ambiente congeniale: a una salda preparazione
filosofica egli univa, infatti, la conoscenza diretta della scienza
e la familiarità con uomini quali Planck, Einstein e Hilbert. Ben
presto si formò attorno a lui un gruppo di colleghi, amici e
scolari, che costituirono il nucleo originario di quello che fu poi
detto il Wiener Kreis. Dapprima i suoi studenti e collaboratori, tra
cui F. Waismann e H. Feigl; poi, dal 1925, il gruppo si infoltì: i
matematici H. Hahn e K. Reidemeister, il sociologo O. Neurath, il
giurista F. Kaufmann, il filosofo V. Kraft. Alle discussioni del
gruppo, tenute il giovedì sera, partecipava talvolta anche il fisico
Ph. Frank, allora docente a Praga. Dal 1926, dopo la chiamata
all'Università di Vienna, anche R. Carnap fece parte del gruppo che
si andava sempre più infoltendo sia di aderenti (K. Gödel, T.
Radakovic, G. Bergmann, M. Natkin, J. Schaechter, W. Hollitscher, R.
Rand) sia di simpatizzanti non strettamente affiliati (K. Menger, E.
Zilsel, K.R. Popper, H. Kelsen, L. von Bertalanffy, H. Gomperz, B.
von Juhos). Nel 1928, sotto la presidenza di Schlick, fu fondato il
Verein Ernst Mach, con l'intento di ‟favorire e diffondere una
visione scientifica del mondo"; nel 1929, infine, fu pubblicato il
'manifesto' del Circolo, a cura di Carnap, Hahn e Neurath -
Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis -, dedicato
allo Schlick, che aveva rinunciato a una chiamata a Bonn.
Era questo l'atto di nascita del neopositivismo; e subito esso si
impose all'attenzione pubblica: già nel settembre del 1929 il gruppo
del Circolo di Vienna partecipò con una sua posizione autonoma alla
sessione tenuta a Praga dalla Società tedesca di fisica e
dall'Unione matematica tedesca; affiancarono i viennesi membri della
Società per la filosofia empirica di Berlino. Tra essi vanno
ricordati: H. Reichenbach, A. Herzberg, W. Dubislav, K. Grelling, K.
Lewin, W. Köhler, C.G. Hempel. La Società berlinese aveva in comune
con il Circolo di Vienna l'orientamento verso una filosofia
scientifica: anch'essa, tramite la mediazione di J. Petzoldt, aveva
sentito l'influsso dell'empiriocriticismo. La comunanza di intenti
portò nel 1930 alla pubblicazione di un'unica rivista, diretta da
Carnap e da Reichenbach, organo ufficiale del neopositivismo: gli
‟Annalen der Philosophie" (già diretti da Petzoldt) vennero ora
continuati sotto il nome di ‟Erkenntnis". Così, il neopositivismo da
movimento austriaco diventava fenomeno filosofico tedesco.
E ben presto assunse una rilevanza internazionale. Già tra i
frequentatori del Wiener Kreis v'erano filosofi stranieri: senza
contare il ‛berlinese' Hempel, sin dal 1927 aveva partecipato ai
lavori il finlandese E. Kaila; poi lo svedese A. Petzäll, l'inglese
A.J. Ayer, lo statunitense A. E. Blumberg. Nel 1930 i neopositivisti
partecipano, sia pur senza molta risonanza, al settimo Congresso
internazionale di filosofia ad Oxford. Ma ben presto richiamano
l'attenzione sul loro programma e sui loro lavori: si susseguono le
opere di due collane destinate a favorire la concezione scientifica
del mondo e la scienza unitaria (‟Schriften zur wissenschaftlichen
Weltauffassung", con contributi di von Mises, Carnap, Schlick,
Frank, Popper, Kraft, e ‟Einheitswissenschaft", con contributi di
Neurath, Carnap, von Mises, Frank), e si moltiplicano i congressi
internazionali dedicati alla filosofia delle scienze. Nel 1930 a
Königsberg (con la partecipazione di W. Heisenberg, J. von Neumann,
A. Heyting) si discusse dei fondamenti della matematica e della
meccanica quantistica; nel 1934 a Praga (ove dal 1931 insegnava
anche Carnap) furono gettate le basi per il primo Congresso
internazionale di filosofia scientifica, che fu tenuto l'anno dopo a
Parigi. Russell e Enriques tennero i discorsi inaugurali ai
partecipanti che venivano da più di venti paesi: si intrecciarono
qui i rapporti tra il neopositivismo e la scuola polacca di logica
(J. Łukasiewicz, A. Tarski, K. Ajdukiewicz) e tra neopositivismo e
pragmatismo americano (E. Nagel, Ch. Morris). I successivi congressi
di filosofia scientifica seguirono poi con ritmo annuale: nel 1936 a
Copenhagen, nel 1937 ancora a Parigi (ove fu progettata l'International
encyclopedia of unified science), nel 1938 a Cambridge in
Inghilterra e nel 1939 a Cambridge negli Stati Uniti. Lo scoppio
della seconda guerra mondiale poneva termine a questa vivacissima
attività: ma il neopositivismo era ormai una corrente filosofica di
estensione internazionale.
A questa diffusione corrispondeva, d'altra parte, la dissoluzione
dell'originario Wiener Kreis: Feigl nel 1930 era andato negli Stati
Uniti, Carnap nel 1931 a Praga e nel 1936 anch'egli in America; Hahn
era morto nel 1934, e un clima di ostilità politica e culturale si
diffondeva in Austria contro i neopositivisti, sia perché alcuni di
essi erano ebrei, sia perché l'attività del Circolo era ritenuta
‛disgregatrice', sebbene le sue discussioni concernessero i
fondamenti della logica e della matematica, la metodologia della
conoscenza empirica, e solo incidentalmente toccassero la filosofia
delle scienze sociali e dell'etica. In Austria si risentiva già del
clima culturale dominante in Germania dal 1933, ove il nazismo aveva
provocato la dispersione e l'esilio dei membri della Società
berlinese. Nel 1936, a Vienna, Schlick fu assassinato da uno
studente sulla soglia dell'Università; due anni dopo, l'Anschluss
segnò la diaspora definitiva del Wiener Kreis: il commercio
delle sue pubblicazioni fu proibito, il volume ottavo di
‟Erkenntnis" usci in Olanda (e non più a Lipsia) con il nuovo titolo
di ‟The journal of unified science" (e cessò anche nella nuova veste
nel 1940); ripararono all'estero i pochi membri che ancora erano
rimasti: alcuni in Inghilterra, la più parte negli Stati Uniti.
Al termine della guerra, le tesi del neopositivismo furono quindi
sviluppate in molti paesi, ma non più nell'ambito della cultura
tedesca. Carnap, Reichenbach e Frank (per ricordare solo i maggiori
tra i primi neopositivisti), proseguendo per molti anni la loro
attività negli Stati Uniti, fecero di questo paese un centro del
neopositivismo. A Chicago fu proseguita la pubblicazione (iniziata
nel 1938) della International encyclopedia of unified science,
e nel 1949 fu fondato a Boston, sotto la presidenza del Frank,
l'Institute of the Unity of Science. Centri minori di interesse si
ebbero anche nei paesi scandinavi e in Finlandia (con K. Marc-Wogau,
J. Joergensen, G.H. von Wright), in Inghilterra (A.J. Ayer), in
Italia (con gli studiosi appartenenti al Centro italiano di
metodologia e analisi del linguaggio a Milano e al Centro di studi
metodologici di Torino). L'efficacia del neopositivismo, del resto,
è stata ed è presente ovunque sia vivo l'interesse per la
metodologia e la filosofia della scienza, va notato, tuttavia, che
tale interesse ha portato spesso a un rapporto essenzialmente
critico con il neopositivismo: quindi, come non è esatto confondere
questo con la filosofia analitica, è altrettanto opportuno
distinguerlo dalla filosofia e metodologia della scienza in genere.
Si possono far rientrare nel neopositivismo quelle forme di esse che
sono rimaste in qualche modo fedeli alle tesi originarie della
‛concezione scientifica del mondo'.
2. Fonti e precedenti del neopositivismo
Per precisare tali tesi è bene partire dal lungo elenco di
‛precursori' indicato da Carnap, Hahn e Neurath nel già ricordato
manifesto del 1929, Wissenschaftliche Weltauffassung. Tra
gli empiristi e i positivisti sono ricordati, oltre a Hume, i
filosofi dell'illuminismo, Comte, Mill, Avenarius e Mach; come
filosofi della scienza: Helmholtz, Riemann, Mach, Poincaré,
Enriques, Duhein, Boltzmann e Einstein; come logici e teorici
dell'assiomatica: Leibniz, Peano, Frege, Schröder, Russell,
Whitehead e Wittgenstein da un lato e, dall'altro, Pasch, Peano,
Vailati, Pieri e Hilbert; come filosofi della morale e sociologi di
orientamento positivistico: Epicuro, Hume, Bentham, Mill Comte,
Spencer, Feuerbach, Marx. E un elenco non solo lungo ma anche vario,
in cui sono accostati pensatori anche assai diversi; va tuttavia
notato ch'essi sono per lo più considerati solo per un aspetto del
loro pensiero: così, Einstein per le sue definizioni ‛operative' di
concetti fisici, Leibniz per la sua logica e non certo per la
metafisica, e Marx non per la logica, ma per la sua analisi
scientifica della storia.
Se, di là dalle differenze anche profonde, si cerca un elemento
comune a tutti questi ‛precursori', esso è facilmente individuabile
nella valutazione positiva ch'essi davano - in maggiore o minor
misura - dell'atteggiamento scientifico e dei suoi metodi.
Incontriamo così un primo contrassegno caratteristico, forse il più
importante, del neopositivismo. Quella valutazione positiva dei
‛precursori' è esaltata in esso sì da diventare attenzione e
predilezione esclusiva per l'atteggiamento e i metodi della scienza:
è l'unico atteggiamento, per i neopositivisti, che non indulga a
interpretazioni mistiche, teologiche o metafisiche dell'esperienza,
e che è anche destinato a subentrare ad esse, gradualmente, in ogni
campo. Per tale aspetto il neopositivismo riprende non le
argomentazioni, bensì il tono ‛scientistico' del positivismo
ottocentesco; e l'insistenza quasi esclusiva sull'analisi del
linguaggio scientifico ne precisa anche la collocazione nell'ambito
più vasto della filosofia analitica.
Tra i pensatori sopra ricordati, Hume è certo quello che ha un
orientamento globale più affine al neopositivismo: in primo luogo,
perché fu fautore di una ‛scienza unificata' e cercò di portare
nelle scienze dell'uomo lo stesso rigore ch'era stato già realizzato
in alcuni settori della scienza della natura; e poi perché la
celebre chiusa della Enquiry concerning human understanding potrebbe
benissimo fungere da motto per il neopositivismo: ‟Se ci viene tra
le mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica
scolastica, domandiamoci: contiene qualche ragionamento astratto
sulla quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento
sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora,
gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed
inganni" (tr. it. in: Ricerche sull'intelletto umano e sui
principi della morale, Bari 1957, p. 184). Hume, tuttavia,
entrava solo indirettamente nella tradizione a cui si ispirarono i
primi membri del Wiener Kreis. Sia nello spazio sia nel tempo erano
assai più vicine ad essi altre fonti di ispirazione. Mentre in Hume
erano strettamente congiunti la tendenza empinstica e
l'apprezzamento per il carattere analitico delle ‛relazioni di
idee', nel corso dell'Ottocento l'orientamento positivistico, in
genere, non mantenne unificati questi due aspetti. Così la genesi
del neopositivismo va individuata nel tentativo di cogliere i loro
sviluppi più recenti e di rifonderli in una nuova prospettiva
comune.
Per quanto riguarda l'aspetto empirico, fu assai forte sul Wiener
Kreis l'influsso dell'empiriocriticismo del Mach, in cui si potevano
scorgere addirittura anticipazioni di alcune svolte caratteristiche
della scienza novecentesca. La metodologia del Mach, infatti,
appariva assai adeguata ai caratteri della fisica del nuovo secolo,
che aveva visto dapprima la svolta della teoria della relatività
(ristretta e generale) di Einstein e poi l'affermarsi della
meccanica quantistica; entrava così in crisi quella concezione
‛meccanicistica' della realtà che sembrava essere stata unita
inscindibilmente alla fisica classica. Le tesi empiriocriticiste
sulla condanna dell'a priori, sulla riduzione del
significato di tutti i concetti alle sensazioni, sulla concezione
economica anziché ontologica delle leggi naturali apparivano
pienamente confermate dalla nuova fisica, di cui parecchi
neopositivisti (per es., Schlick, Reichenbach, Frank) avevano
conoscenza diretta. Il compito della fisica, conformemente al
pensiero di Mach, risultava ora quello di ordinare sistematicamente
le sensazioni e di fare inferimenti dalle sensazioni attuali a
quelle da attendersi. Quest'orientamento metodologico, che i membri
del Wiener Kreis facevano risalire a Mach, era del resto assai
diffuso in quegli anni: nel 1927, per es., il fisico americano P.W.
Bridgman pubblicava The logic of modern physics, in cui
sviluppava la concezione operazionalistica della scienza, secondo
cui i concetti della scienza empirica vanno formulati in termini di
operazioni realizzabili, cioè dando criteteri di applicazione
espressi mediante procedure osservative o sperimentali. In Bridgman,
forse inconsapevolmente, agivano temi del pragmatismo (Peirce) e
dello strumentalismo (Dewey): si spiega così il fatto che,
nonostante l'indipendenza delle formulazioni originarie, vi sia poi
stato un facile incontro tra neopositivismo e pragmatismo americano.
L'apprezzamento dell'empiriocriticismo non impediva tuttavia ai
membri del Circolo di Vienna di scorgerne i limiti. Come precisò il
Frank: ‟Il nostro gruppo approvava pienamente le tendenze
antimetafisiche del Mach e ci associavamo di buon grado al suo
empirismo radicale come punto di partenza; ma eravamo del tutto
consci della funzione primaria della matematica e della logica nella
struttura della scienza. E ci pareva che Mach non avesse
riconosciuto pienamente questo aspetto della scienza" (v. Frank,
1949, p. 7). È a proposito di tale aspetto che nella costituzione
del neopositivismo incidono gli sviluppi ottocenteschi e
novecenteschi della matematica e della logica. L'universalità e la
necessità (sia pur ipotetica) delle proposizioni matematiche ne
rendevano insostenibile l'interpretazione empiristica sulle orme,
per es., di J. Stuart Mill; d'altra parte, il sorgere delle
geometrie non euclidee, gli sviluppi formali dell'algebra,
l'assiomatizzazione delle teorie matematiche e la concezione di esse
come sistemi ipotetico-deduttivi costituivano tali sviluppi delle
scienze matematiche da mettere decisamente in crisi la concezione
kantiana della matematica come conoscenza sintetica a priori fondata
su intuizioni pure. Ciò che veniva messo in luce era invece
l'aspetto analitico del discorso matematico, che poteva in tal modo
rendere conto della sua universalità e necessità. Su tale
rinnovamento della filosofia della matematica incideva, del resto,
il quasi contemporaneo rinnovamento delle ricerche sulla logica
formale, richiesto dalla stessa esigenza di revisione criticamente
rigorosa di branche tradizionali della matematica o dalla
costituzione di nuove branche di essa, come la teoria degli insiemi.
E significativo il fatto, per es., che proprio dalle ricerche dei
matematici inglesi di metà Ottocento sui fondamenti dell'algebra sia
nata quell'‛algebra della logica' di G. Boole che segna la ripresa
originale degli studi di logica. La familiarità di logica e
matematica si venne sempre più accentuando, via via che attraverso
la progressiva ‛aritmetizzazione' della matematica si sentì
maggiormente l'esigenza di chiarire i fondamenti di essa e lo stesso
concetto di numero. Con il Frege prima e poi con B. Russell, tale
familiarità di logica e matematica venne addirittura interpretata,
secondo la tesi ‛logicista', come riducibilità dei concetti
elementari e delle proposizioni fondamentali della matematica ai
concetti elementari e alle proposizioni fondamentali della logica
formale, sia pur assai ampliata rispetto alla sillogistica
tradizionale mediante l'elaborazione di una logica delle
proposizioni e di una logica delle relazioni. I Principia
mathematica, pubblicati dal Russell unitamente al Whitehead
tra il 1910 e il 1913, costituirono la somma dei risultati di queste
ricerche pluridecennali nel campo matematico e logico: ad essi il
neopositivismo guardò come allo strumento più appropriato per
superare i limiti dell'empiriocriticismo.
Gli studi logici del Russell (di cui si occuparono particolarmente
Hahn e Carnap) non erano del resto il solo aspetto dell'opera del
filosofo inglese che influisse sul Wiener Kreis. Sia pur attraverso
le continue modificazioni apportate alla sua prospettiva filosofica
nei primi due decenni del secolo, Russell aveva tuttavia mantenuto
costante la preferenza per una filosofia scientifica, volta a
chiarire le idee fondamentali della scienza e a sintetizzarne i
risultati in una concezione unitaria: e questo orientamento era
congeniale al neopositivismo. Inoltre, l'uso dei nuovi strumenti
logici fatto dal Russell non solo sul terreno dei fondamenti della
matematica, bensì su quello più ampio della filosofia in generale
pareva indicare chiaramente la strada per una nuova conciliazione,
più profonda di quella humeana, tra empirismo e razionalismo logico.
Da Our knowledge of the external world (1914) a The
philosophy of logical atomism (1918), Russell aveva cercato
di mostrare come l'intero apparato concettuale della conoscenza e
della scienza si potesse ridurre a un seguito di costruzioni logiche
operate su una base elementare di eventi. Tuttavia, a una fusione
totale di logica ed empirismo ostava in Russell una metafisica
realistica - ch'egli attenuò senza mai abbandonare del tutto - a
proposito della natura degli enti logici e matematici: inizialmente
(nei Principles of mathematics) li concepì come un mondo
di universali che doveva in qualche modo sussistere, nel senso del
realismo scolastico, indipendentemente dai fatti sensibili. Nemmeno
le critiche di L. Wittgenstein, di cui pur tenné conto nella seconda
edizione dei Principia mathematica (1925-1927), lo
portarono a rinunciare completamente a tale realismo.
Una rinuncia di questo tipo è invece al centro del Tractatus
logico-philosophicus del Wittgenstein, uscito dapprima in
tedesco, nel 1921, sugli ‟Annalen der Naturphilosophie" e l'anno
seguente a Londra, con traduzione inglese a fronte e introduzione
del Russell. E attraverso quest'opera che l'influsso del Russell sul
Wiener Kreis ebbe una particolare mediazione. Il Tractatus era
già stato abbozzato dal viennese Wittgenstein negli anni
immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, allorché egli,
che già aveva seguito gli studi di ingegneria, ascoltava a Cambridge
le lezioni di Russell. Negli anni in cui si veniva costituendo
attorno a Schlick il Circolo di Vienna, Wittgenstein era ritornato a
vivere nella sua città natale, disinteressandosi tuttavia della
filosofia, proprio mentre la sua opera accentrava sempre più
l'attenzione (Hahn la discuteva nei suoi seminari matematici,
Schlick la considerava il cardine della svolta in filosofia). Nel
1929, l'anno della costituzione ufficiale del Wiener Kreis,
Wittgenstein tornò in Inghilterra, a Cambridge, subito dopo il
risveglio del suo interesse per la filosofia provocato dall'ascolto
di una conferenza del matematico intuizionista Brouwer. Questi dati
indicano il rapporto assai singolare tra Wittgenstein e il Circolo
di Vienna: benché le concezioni originarie di esso dipendano
strettamente dal Tractatus, Wittgenstein non partecipò
mai alla vita del Circolo; solo Schlick e Waismann erano in rapporti
personali con lui, e soprattutto il secondo risentì fortemente delle
nuove idee che Wittgenstein andava elaborando. La cosa più
singolare, tuttavia, è che nel momento stesso in cui si costituiva
il neopositivismo, Wittgenstein ripudiava alcune tra le tesi del Tractatus
che rappresentano, per i membri del Wiener Kreis, proprio i
precedenti più importanti del neopositivismo. Dopo il 1929, infatti,
pur non pubblicando nulla, nel suo insegnamento a Cambridge,
Wittgenstein avviava quelle nuove analisi che improntarono così
profondamente l'odierna filosofia analitica inglese. I temi delle Philosophische
Untersuchungen, pubblicate postume nel 1953, sono in
evidente polemica con il Tractatus: rinuncia
all'attenzione esclusiva per il linguaggio scientifico, al
linguaggio logico ideale, a un criterio di significanza unilaterale.
L'affinità tra questo nuovo orientamento analitico e il
neopositivismo è reperibile soltanto nel comune interesse per il
linguaggio e in un atteggiamento che può essere chiamato (v. Ayer,
1959, p. 8) ‛empirico' nel senso politico del termine, così come si
dice che Burke fu un campione di ‛empirismo': nel senso, cioè, che
si evitano le generalizzazioni e si moltiplicano ed esaminano
attentamente esempi particolari.
Il tema principale del Tractatus è l'indagine sul
linguaggio e sulla sua capacità rappresentativa del mondo. Le lingue
storiche, con le loro grammatiche, sono per lo più un ostacolo alla
comprensione della struttura logica che permette al linguaggio di
essere significante: di qui nascono quegli pseudoproblemi in cui,
per Wittgenstein, si dibattono per lo più i filosofi tradizionali.
La capacità significativa del linguaggio dipende dal suo essere
immagine del mondo: la configurazione dei segni semplici (nomi) nel
segno proposizionale corrisponde alla configurazione degli oggetti
nei fatti reali. Così, il significato di una proposizione è la sua
capacità raffigurativa di fatti possibili; ciò implica l'esistenza
di fatti semplici (fatti-atomi) cui corrispondono proposizioni
assolutamente semplici (elementari o atomiche): se non ci fossero
fatti-atomi, il significato di una proposizione dipenderebbe sempre
da altre proposizioni, e non sarebbe possibile formarsi una immagine
del mondo. L'intera costruzione del linguaggio significante poggia
sulla base delle proposizioni atomiche: le proposizioni non
elementari (molecolari) risultano dalla connessione di quelle
atomiche mediante le costanti logiche, e sono funzioni di verità di
esse, poiché la loro verità o falsità dipende solo dalla verità o
falsità delle proposizioni elementari. La scienza - per ciò che
concerne il suo contenuto fattuale - è l'insieme delle proposizioni
atomiche e molecolari; le proposizioni logiche e matematiche, che
pur fanno parte della scienza, non hanno tuttavia significato
fattuale (sono sinnlos): esse sono analitiche (o
tautologiche), in quanto mere trasformazioni di segni linguistici,
la cui validità dipende solo dalla forma intrinseca dei segni
Stessi. Il valore universale delle proposizioni matematiche è così
non più legato a presupposti metafisici, bensì soltanto alla loro
particolare natura linguistica. Al di fuori delle proposizioni
significanti fattualmente e delle tautologie o equaziòni, non vi
sono altre asserzioni significanti, ma solo connessioni insensate (unsinnig)
di parole: in esse rientrano la maggior parte delle asserzioni
filosofiche tradizionali. Per Wittgenstein la filosofia non è
conoscenza, bensì attività di elucidazione delle strutture del
linguaggio significante. Anzi, le stesse proposizioni del Tractatus,
benché importanti per la loro funzione chiarificatrice, sono unsinnig:
la struttura del linguaggio, significante in virtù del suo
isomorfismo con la struttura del mondo, può essere solo ‛mostrata',
perché il ‛dirla' comporterebbe l'assurdità di uscir fuori dal
linguaggio. Così il Tractatus si chiude con una nota
mistica: ‟Sopra ciò di cui non si può parlare bisogna tacere" (v.
Wittgenstein, 1922, prop. 7).
3. Prima fase del neopositivismo: analisi logica
del linguaggio e antimetafisica
Il Tractatus è un libro difficile, di ardua lettura, come
mostra la gran quantità di interpretazioni che di esso sono state
date recentemente, tenendo conto anche del pensiero del secondo
Wittgenstein. Forse gli interessi di fondo di questo filosofo furono
diversi da quelli attribuitigli sia dai neopositivisti sia dai
filosofi analitici. Pare ormai accertato, per quanto riguarda il Tractatus,
che l'interesse di Wittgenstein per ciò che è dicibile, per il
fatto ‛rappresentabile', non sia affatto determinato dalla
convinzione che solo il dicibile è importante (come inclinò a
credere l'interpretazione scientistica del neopositivismo), bensì
dalla convinzione contraria - risalente ai temi mistici di uno
Schopenhauer, di un Kierkegaard e di un Tolstoj - che l'importante è
l'indicibile, il valore, che può essere mostrato ma non detto, e che
meglio appare attraverso la delineazione dei caratteri e dei limiti
del dicibile, cioè della scienza. Ma il Tractatus divenne
famoso attraverso la ‛lettura' fattane dai neopositivisti, anche se
essa non è sempre palesemente fedele. Non è agevole determinare, per
es., che cosa siano gli ‛oggetti' e i ‛fatti' di cui si parla nel Tractatus.
Vi sono motivi per intenderli in senso fenomenistico come
percezioni e situazioni percettive (e in tal senso pare orientata
anche la nota Some remarks on logicam form, del 1929,
l'unico scritto pubblicato dal Wittgenstein dopo il Tractatus);
ma vi sono anche motivi che ostano a tale interpretazione. Sta
di fatto, tuttavia, che questa fu l'interpretazione data nel Wiener
Kreis e che ebbe un peso storico nella costituzione del
neopositivismo. Il Tractatus parve così il catalizzatore
che permetteva la nuova sintesi dell'empirismo radicale e del
razionalismo postulato dalla matematica: se l'universalità del
discorso logico-matematico consiste nella sua tautologicità che
nulla dice del mondo, la base contenutiva del discorso significante
è costituita dalle percezioni immediatamente esperite (Erlebnisse)
o da ciò che è riportabile ad esse.
La sintesi wittgensteiniana (nell'interpretazione neopositivistica)
apriva del resto una nuova via per la riaffermazione di quei temi
scientistici che il neopositivismo ereditava dal positivismo
ottocentesco: la via dell'indagine linguistica, della
chiarificazione delle capacità significative del linguaggio. La
polemica contro le pretese della filosofia a costituirsi come
‛scienza' (o di un campo metaempirico di oggetti o come superscienza
dei metodi e dei fondamenti delle scienze particolari) poteva ora
essere condotta non più mediante la dimostrazione della falsità
delle tesi filosofiche, bensì attraverso l'indicazione della loro
mancanza di senso. Se l'analisi linguistica mostra che i criteri di
significanza del linguaggio della scienza sono gli unici criteri
linguistici possibili, il trionfo della wissenschaftliche
Weltauffassung è garantito, poiché sono proprio quei criteri
di significanza che mettono al bando le pretese della filosofia.
Le formulazioni originarie del neopositivismo secondo questa
prospettiva sono opera dello Schlick e del Carnap. Schlick, che già
prima della sua chiamata a Vienna s'era distinto per i suoi studi
sulla teoria della relatività e per l'impianto empiristico (polemico
col neocriticismo) del problema della conoscenza (è del 1918 la sua Allgemeine Erkenntnislehre), trova nelle analisi
linguistiche wittgensteiniane lo strumento per una nuova
formulazione della sua concezione. La distinzione ch'egli già aveva
introdotto tra l'esperire (Erleben) e il conoscere (Erkennen),
tra l'esperienza vissuta immediatamente e la conoscenza, di valore
intersoggettivo, che sorge quando a tale esperienza si coordinino le
strutture simboliche delle scienze deduttive, è ripresa nei termini
di analisi del linguaggio, poiché caratteri e limiti della
conoscenza sono indicati dalla natura stessa della sua espressione
linguistica. Gli elementi del linguaggio sono le proposizioni-atomo
che rispecchiano i dati immediati, e le connessioni logiche di tali
elementi danno l'intera struttura del linguaggio significante, che è
quello della scienza. Indicare le condizioni in cui una proposizione
è vera è lo stesso che indicarne il significato; e tali condizioni
sono riscontrate nei dati di senso, che determinano quindi il
significato di qualsiasi enunciato. ‟Il significato di una
proposizione è il metodo della sua verifica" (v. Schlick, 1938, p.
340), così suona il celebre ‛criterio empirico di significanza', che
fu il tema centrale della prima fase del Wiener Kreis.
In numerosi saggi composti tra il 1926 e il 1936 (e poi raccolti da
F. Waismann nel 1938 nei Gesammelte Aufsätze), lo Schlick
si valse di tale impianto di pensiero per un'acuta discussione di
alcune importanti questioni di metodologia scientifica: per es., la
considerazione della relazione causale come possibilità di
predizione di eventi e la critica alle interpretazioni
spiritualistiche della meccanica quantistica. Ma la sua attenzione
fu soprattutto rivolta ad una critica delle proposizioni
‛metafisiche' o, in genere, filosofiche, poiché, secondo il criterio
empirico di significanza, o esse sono riportabili a proposizioni
scientifiche o sono prive di senso. Del primo tipo, per es., sono
per Schlick le questioni relative all'immortalità dell'anima: anche
se nelle condizioni attuali non è verificabile di fatto nessuna
delle soluzioni proposte, tuttavia sono pensabili le esperienze che
si potrebbero avere se una di esse fosse vera. Il criterio empirico
di significanza richiede la verificabilità in linea di principio e
non la verificazione effettiva. Ben diversa è invece la situazione
per le asserzioni di un realista o di un soggettivista circa la
trascendenza o non trascendenza del mondo rispetto all'atto di
conoscenza: in nessun caso sono indicabili le condizioni che
renderebbero verificabile la tesi della trascendenza o
dell'immanenza; dunque, entrambe le tesi sono prive di senso. La
filosofia, quindi, anche per Schlick, non è un sistema di
conoscenze, ma di atti, che mostrano il rapporto proiettivo che
sussiste tra realtà e linguaggio.
È soprattutto nella sua veste antimetafisica che il neopositivismo
si impose dapprima all'attenzione internazionale, anche perché pure
il Carnap insisteva su questi temi. In Der logische Aufbau der
Welt (1928) egli mira a dare la ricostruzione dell'intero
dominio dei concetti conoscitivi, ‛costituendoli' in un ordine
graduale come classi di proprietà e relazioni, il cui significato è
garantito dai dati dell'esperienza immediata personale. Maggior
risonanza ebbero tuttavia due suoi scritti che costituiscono la pars
destruens di questi tentativi di analisi rigorosa del
linguaggio scientifico: Scheinprobleme in der Philosophie (1928)
e Ueberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der
Sprache (1931). Superare la metafisica mediante l'analisi
logica della lingua vuol dire individuare i modi con cui si
costruiscono le pseudoproposizioni metafisiche: o usando parole che
non hanno significato empirico o connettendo parole singolarmente
significanti in modo non conforme alla grammatica stabilita dal
criterio empirico di significanza. Un esempio del primo tipo è
parlare del ‛principio dell'essere', e uno del secondo usare il
termine ‛nulla' come sostantivo, al modo di Heidegger, mentre la
grammatica del linguaggio significante consente l'uso di ‛nulla'
solo nella costruzione di proposizioni negative (‛fuori non vi è
nulla', per es., equivale a ‛non c'è un x e x è
fuori'). L'importanza che si attribuisce alle pseudoproposizioni
filosofiche dipende per Carnap dal fatto che si ritiene siano
asserzioni significanti quelle connessioni di parole che esprimono
soltanto un sentimento vitale o stati affettivi ed emotivi. La
metafisica è per lui un surrogato inadeguato dell'arte e i
metafisici sono come ‟musicisti senza dono musicale". Il rasoio di
Occam del criterio di significanza taglia così altri rami
dell'albero tradizionale della filosofia: eliminata la pretesa di
fare asserzioni filosofiche di portata conoscitiva, si esclude ora
che la filosofia possa costituirsi come qualcosa di autonomo (di là
dall'analisi logica del linguaggio scientifico) rifugiandosi nel
campo dei ‛giudizi di valore'. Quelli che così si chiamano non sono,
per Carnap, né giudizi né proposizioni, ma mere manifestazioni
sentimentali.
4. Prospettive etiche
Nell'ambito del Wiener Kreis, anche da parte dello stesso
Carnap, non si insistette tuttavia molto nell'indagine sui
cosiddetti ‛giudizi di valore'. L'interesse dei più verteva infatti
sulle scienze della natura e non sulle ‛scienze umane'; e anche chi,
come il Neurath, coltivava studi sociologici, partiva dal
presupposto che i procedimenti logici della scienza sono sempre gli
stessi, quali che siano i suoi oggetti. La complessità degli oggetti
delle scienze umane può rendere più difficile in esse la
costituzione dileggi e di previsioni, ma la validità delle loro
asserzioni, così come quella delle asserzioni delle scienze
naturali, dipende dal criterio empirico di significanza. La scienza
è unitaria. Il problema dei giudizi di valore non concerne quindi in
generale le scienze umane, bensì soltanto l'etica. Ed a questo campo
soltanto lo Schlick, tra i membri del Circolo di Vienna, dedicò
un'opera: le Fragen der Ethik (1930). In essa c'è un
senso gioioso della vita e delle manifestazioni più alte di essa: la
contemplazione estetica e conoscitiva, la realizzazione della
personalità in rapporti umani che non siano semplicemente
strumentali, la serenità e l'entusiasmo che fanno apprezzare, come
in un gioco, tutte le espressioni dell'esistere. Ma la
giustificazione di questo atteggiamento è da Schlick ricercata
mediante una teoria che vuoi essere scientifica. Egli fa dell'etica,
come gli empiristi inglesi, una scienza di fatti, qualcosa che è
fondata sull'utilità sociale, a cui gli istinti individuali sempre
più si adeguano evolvendosi, poiché, secondo lui, è provato
sperimentalmente che sono gli impulsi sociali quelli che meglio
assicurano ai loro portatori una vita gioiosa. Un'etica alla Hume
con una iniezione di evoluzionismo.
Ben diverso è l'atteggiamento del Carnap con la sua interpretazione
dei giudizi di valore come mere espressioni emotive. Ciò comportava,
per l'etica, non la riduzione schlickiana dei giudizi di valore ai
giudizi di fatto, ma la dissoluzione dei primi come espressioni
significanti. Carnap, tuttavia, non sviluppò un'indagine etica; chi
la mandò innanzi in questa prospettiva fu l'inglese J.A. Ayer in Language,
truth and logic (1936), uno scritto breve quanto fortunato,
in cui l'autore espone le tesi ‛classiche' del neo- positivismo, che
egli aveva sentito discutere nelle riunioni del Wiener Kreis. La
parte più originale dell'opera è proprio lo sviluppo della
concezione ‛emozionalistica' della morale: il cosiddetto ‛giudizio
di valore' non è affatto un giudizio, ma l'espressione di
un'emozione soggettiva, ed i predicati di valore (‛buono', ‛giusto',
ecc.) sono segni emozionali, del tutto sostituibili con espressioni
del volto o toni di voce o punti esclamativi. Non c'è quindi la
possibilità di un discorso morale. Una forma più elaborata di
emozionalismo è quella proposta dall'americano C.L. Stevenson in Ethics
and language (1944), ove si riconosce un aspetto
logico-razionale delle espressioni morali: se da un lato, infatti,
esse non fanno altro che manifestare un atteggiamento di chi valuta
(‛x è bene' equivale a ‛io approvo x'),
dall'altro hanno anche uno scopo pratico di comunicazione, in quanto
mirano a influenzare gli atteggiamenti (emozionali) di coloro a cui
sono rivolte. Per tale aspetto esse costituiscono un discorso
persuasivo, che si vale anche di motivazioni e dimostrazioni.
Questi sviluppi etici, in sé stimolanti, sono tuttavia marginali
nell'ambito del neopositivismo. Essi ebbero nondimeno grande
risonanza nei paesi anglosassoni e soprattutto in Inghilterra, ove
tra il 1940 e il 1950 il libro di Ayer fu di gran moda e considerato
quasi una ‛Bibbia filosofica'. Non mancarono addirittura tra i
critici dell'emozionalismo coloro che accusarono i suoi fautori
d'essere distruttori della morale e corruttori della gioventù. Si
trattò senza dubbio di forzature polemiche, che ebbero però se non
altro il merito di suscitare un ampio interesse attorno ai problemi
logici del discorso morale e di favorire quindi gli studi di etica
analitica (R. M. Hare, P. H. Nowell-Smith, S. E. Toulmin, ecc.). Ma
con essi siamo fuori dal neopositivismo.
5. Sviluppi del neopositivismo: fisicalismo e
scienza unificata
A ben guardare, il criterio empirico di significanza (cosi grave di
conseguenze antifilosofiche) è anch'esso, alla stregua di sé
medesimo, una proposizione priva di significato: non sembra essere,
infatti, né empirico né analitico. La difficoltà sarebbe superabile
se lo si presentasse come una descrizione del modo di significare
comunemente attribuito alle asserzioni informative; ma in tal caso
perderebbe la sua forza prescrittiva, in base a cui condanna come
privi di senso tutti gli altri tipi di asserzioni. Una riflessione
di questo genere non è stata certo estranea all'affermarsi di quella
filosofia analitico-linguistica che si colloca fuori del
neopositivismo. L'attenzione dei membri del Wiener Kreis non si
soffermò invece su tali difficoltà: essa si volse piuttosto ad altre
questioni sollevate dal criterio empirico di significanza, ed è
nella discussione di esse che il neopositivismo si avviò verso una
nuova fase.
Un'applicazione rigida del criterio rendeva prive di senso non solo
le asserzioni metafisiche, bensì anche le proposizioni universali
della scienza, come le leggi, che non sono riducibili a congiunzioni
di Erlebnisse. Eppure esse sono significanti. Schlick
scioglieva l'imbarazzo dichiarando che le leggi sono ‛regole' per la
formazione di asserzioni particolari (sebbene le ‛regole' non
avessero molto posto nella sua concezione del linguaggio). Ciò che
tuttavia urtò la sensibilità scientistica dei più rigidi fautori
della wissenschaftliche Weltauffassung fu che tale
concezione doveva appellarsi a qualcosa di extralinguistico, gli Erlbnisse,
che poteva far risorgere la metafisica dell'inesprimibile; la
stessa attività filosofica come chiarificazione di significati (già
s'è ricordata la chiusa mistica del Tractatus) diventava
qualcosa di inesprimibile, dovendo solo ‛mostrare' (e quindi
presupporre) l'identità di struttura tra il linguaggio e ciò che
esso significa. Rinunciare all'appello al dato sensibile
extralinguistico implicava un indebolimento della forza polemica del
neopositivismo contro la filosofia tradizionale: ed è questo uno dei
motivi per cui Schlick difese sempre la formulazione primitiva; ma
c'era chi credeva di poter mantenere la stessa forza polemica anche
rinunciando a quell'appello e alla sua implicita filosoficità.
Dapprima Neurath, poi anche Carnap entrarono in polemica con
Schlick, sostenendo la tesi del ‛fisicalismo radicale'. A partire
dal 1931 (anno in cui Neurath pubblicò su ‟Scientia" l'articolo Physikalismus,
seguito poi da una serie di articoli su ‟Erkenntnis"), l'ala
rivoluzionaria del neopositivismo indica la base empirica del
discorso scientifico non più nell'espressione linguistica di dati
extralinguistici, bensì prende come punto di partenza i ‛protocolli'
(per es., ‟Il signor X, nel luogo y e al tempo t,
osserva che..."), cioè le proposizioni elementari che sono formulate
dagli scienziati di un determinato ambiente culturale.
I protocolli hanno la stessa struttura linguistica delle altre
proposizioni della scienza e non pretendono (come invece le
proposizioni atomiche o le ‛constatazioni', come talvolta le chiamò
Schlick) alcuna assolutezza o posizione di privilegio. Nei
protocolli compaiono nomi di cose e di proprietà osservabili e
determinazioni spazio-temporali: cioè, la terminologia tipica della
fisica (di qui il nome di ‛fisicalismo') che rende significante il
discorso scientifico; esso è infatti sottoponibile a verifica,
sebbene la verifica avvenga sempre mediante un confronto di
enunciati e non trovi mai un arresto definitivo in qualcosa di
extralinguistico. Ciò comporta anche una modifica del criterio di
significanza, a cui contribuisce particolarmente il Carnap (specie
con il saggio del 1936 Testability and meaning): poiché la
verifica non è mai completa e definitiva, egli preferisce parlare di
‛confermabilità', anziché di verificabilità. E la confermabilità può
essere completa o incompleta : c'è la prima quando una proposizione
è conseguenza di una classe finita di proposizioni con predicati
osservabili; la seconda vale invece per quel tipo di proposizioni
che hanno come conseguenza una classe infinita di proposizioni con
predicati osservabili. Di questo tipo sono le leggi scientifiche,
che sono quindi confermabili secondo il nuovo criterio di
significanza, il quale, tuttavia, esclude come prive di senso la
maggior parte delle asserzioni metafisiche. Determinare quali siano
i protocolli di una teoria o quale tipo di conferma si voglia
pretendere non ha niente di assoluto e di necessitato: si tratta di
una decisione convenzionale. Carnap così giudicava la posizione
iniziale del neopositivismo (compresa quella da lui assunta in Der
logische Aufbau der Welt): l'errore fu ‟nel non riconoscere
nella questione un problema di decisione concernente la forma del
linguaggio; esprimemmo pertanto la nostra concezione in forma di
asserzione - come si usa tra filosofi - anziché in forma di
proposta" (v. Carnap, 1937, p 5).
Un'altra tesi del fisicalismo fu quella dell'unità della scienza.
Già s'è visto come questa sia una tesi caratterizzante tutto il
neopositivismo. Nella formulazione fisicalistica essa acquistò
tuttavia una maggior forza, poiché l'unificazione della scienza era
raggiunta attraverso lo stesso linguaggio. È sintomatico che si
debba proprio a Neurath - che si sforzò di applicare il linguaggio
fisicalista alla sociologia - l'impostazione della International
encyclopedia of unified science. Tuttavia, in essa fu
realizzata più l'aspirazione a non porre divisioni e limitazioni
pregiudiziali al metodo di ricerca scientifica (quale che sia
l'oggetto studiato), che il programma fisicalistico, il quale, sotto
l'aspetto dell'unità del linguaggio scientifico, pare talvolta
riprendere il riduzionismo del positivismo ottocentesco. Per
esempio, sebbene il Carnap affermi che il fisicalismo sostiene
l'unità del linguaggio di ogni scienza e non l'unità delle leggi
(cioè la loro riducibilità a quelle della fisica), la sua
trattazione fisicalistica della psicologia (che coincide in genere
con il ‛behaviorismo' di J.B. Watson) mostra un chiaro orientamento
riduzionistico.
L'attenzione esclusiva per il linguaggio e la convenzionalità nella
scelta delle sue forme indicano che il neopositivismo, nella fase
fisicalista, trascura nell'analisi linguistica quella dimensione
‛semantica' ch'era stata originariamente al centro del suo
interesse, cioè la questione della possibilità di significanza del
linguaggio. Poiché ciò era parso ancora tmetafisica',
l'interesse ora si concentra solo sulla struttura interna del
linguaggio, sulla sua ‛sintassi'. È del 1934 l'opera di Carnap Logische
Syntax der Sprache. L'interesse di quest'opera è duplice: da
un lato, infatti, essa rappresenta un momento essenziale nella
storia della logica contemporanea, come tentativo di soluzione
organica e di sistemazione delle questioni dibattute dopo la
comparsa dei Principia mathematica (difficoltà interne
alla logistica e alle altre concezioni sui fondamenti della
matematica, soprattutto del formalismo; problemi delle logiche
modali e polivalenti); d'altro lato, invece, essa utilizza i
risultati logici a cui perviene ai fini di una più raffinata
formulazione delle tesi fisicalistiche del neopositivismo. È bene
tener distinti questi due aspetti che spesso nelle interpretazioni
del neopositivismo sono confusi, sì da ritenere propri della wissenschaftliche
Weltauffassung quegli sviluppi della logica contemporanea
che, per la loro scientificità, non sono legati a una visione o
concezione determinata del mondo.
Nel suo aspetto tecnico la Syntax del Carnap giunge a
presentare la ‛logica' non più soltanto come strumento d'indagine
del ragionamento deduttivo, bensì come l'insieme dei sistemi stessi
di deduzione: se non si tiene più conto della dimensione semantica
del linguaggio, non c'è più - come nella logistica - la
preoccupazione di determinare quale sia la ‛vera logica'; il
linguaggio diventa un calcolo e si possono costituire sistemi
formali deduttivi diversi, variando la loro ‛sintassi', ossia le
regole di formazione (cioè, di combinazioni iniziali di segni) e
quelle di trasformazione (cioè, di passaggio da una combinazione ad
un'altra). Mediante la costruzione di due linguaggi con sintassi
diversa Carnap mostra come si possa del tutto liberamente scegliere
la forma linguistica: anche la non contraddittorietà di un sistema
formale è postulata solo perché senza di essa il sistema non avrebbe
alcun uso deduttivo. ‟In logica non c'è morale. Ciascuno può
costruire come vuole la sua logica, cioè la sua forma di linguaggio.
Se vuol discutere con noi, deve solo indicare come lo vuol fare,
dare determinazioni sintattiche, invece di discussioni filosofiche"
(v. Carnap, 1934, p. 45). La molteplicità delle sintassi permette di
evitare la tesi wittgensteiniana dell'inesprimibilità della
struttura del linguaggio: è sempre possibile parlare con un
opportuno metalinguaggio della sintassi di un sistema formale dato
(linguaggio oggetto). E tenendo conto delle indagini svolte da K.
Gödel sui limiti della esprimibilità in un linguaggio oggetto del
relativo metalinguaggio, Carnap illustra brillantemente il carattere
‛aperto' del discorso logico-matematico. La ‛fondazione' di un
sistema non è possibile (come sempre s'era cercato di fare) mediante
la riduzione di esso a un sistema più semplice, bensì soltanto
mediante la costruzione di un sistema più ricco.
Il principio della convenzionalità è tuttavia usato dal Carnap non
solo sul piano tecnico, bensì anche con funzione polemica nei
confronti della filosofia tradizionale. Nella Syntax esso
prende il posto che nella fase precedente del neopositivismo aveva
avuto il criterio empirico di significanza. Applicando la
considerazione sintattica non solo ai sistemi formali ma ad ogni
tipo di linguaggio, si eliminano per Carnap i residui filosofici
sopravvissuti nella metodologia scientifica. Le scienze (come la
fisica, la psicologia, la sociologia, ecc.) si occupano di ciò di
cui il linguaggio parla, mentre il metodologo si occupa dell'aspetto
sintattico del linguaggio. Se i problemi sintattici sono espressi
con un linguaggio formale appropriato (la formale Redeweise),
è agevole riconoscerne la natura ed è possibile risolverli con
opportune convenzioni ; ma se si usa invece un linguaggio
contenutivo (la inhaltliche Redeweise), sì che si crede di
parlare di enti anziché di segni, si incappa negli pseudoproblemi
filosofici. Così è tipico dei filosofi chiedersi quale sia l'essenza
del numero, dello spazio o del tempo, ecc. Tutti questi
pseudoproblemi scompaiono se invece di numero, spazio e tempo si
parla di ‛espressione numerica', ‛coordinata spaziale' e ‛coordinata
temporale', che sono termini sintattici. ‟Oltre ai problemi delle
singole scienze speciali, rimangono come autentiche questioni
scientifiche solo quelle dell'analisi logica della scienza, dei suoi
concetti, delle sue proposizioni e teorie [...]. Al posto
dell'inestricabile groviglio problematico che si chiama filosofia
compare la logica della scienza" (ibid., p. 204).
L'esito della fase fisicalistica del neopositivismo è così non solo
antimetafisico ma addirittura antifilosofico: mentre nel primo
momento alla filosofia, negata come dottrina, si riconosceva
tuttavia una funzione specifica come attività, ora si propone di
sostituirla con l'analisi logica della scienza, analisi che rientra
essa stessa nell'attività scientifica. Vedremo come, in breve tempo,
l'aspetto sintattico dell'analisi logica venga integrato con altri
aspetti (semantico e pragmatico) ; tuttavia, rimarrà costante
caratteristica del neopositivismo considerare l'analisi logica del
linguaggio scientifico come sostitutiva della filosofia. Lo stesso
Carnap conservò sempre, anche negli scritti più recenti - quali Empiricism,
semantics, and ontology (1950) e l'autobiografia
intellettuale e le risposte ai critici in The philosophy of
Rudolf Carnap (1963) - l'orientamento mostrato nella Syntax
del 1934. I cosiddetti problemi filosofici sono formulabili
come questioni linguistiche che non hanno portata teorica e si
risolvono mediante una ‛scelta' di una forma di linguaggio: anziché
ritenere che l'analisi linguistica sia un nuovo modo di affrontare i
problemi tradizionali della filosofia, si è convinti che tale
analisi segni una rottura netta con la tradizione e la dissoluzione
degli pseudoproblemi ch'essa poneva. È forse questa la convinzione
del neopositivismo che ha avuto maggior diffusione, anche indiretta:
è rimasta traccia di neopositivismo in tutte quelle dottrine che,
pur senza sostituire la filosofia con l'analisi logica del
linguaggio della scienza, ritengono che l'analisi linguistica valga
come eliminazione, totale o parziale, dei problemi filosofici
tradizionali. Ciò è constatabile soprattutto in molte espressioni
della filosofia analitica (compreso anche il ‛secondo'
Wittgenstein): si spiega così l'inclinazione che alcuni hanno a non
distinguere (nonostante le differenze) tra neopositivismo e
filosofia analitica.
6. Di là dal Wiener Kreis: nuovi apporti e
sviluppi
Negli anni della seconda guerra mondiale il neopositivismo
d'origine europea (dopo la fine del Wiener Kreis e il passaggio
oltre Atlantico di buona parte dei suoi membri) incontra altre
tendenze di pensiero che presentano temi affini e risistema in nuova
forma le sue tesi principali. V'è innanzi tutto l'innesto di motivi
pragmatistici, la cui affinità con il neopositivismo Ch. Morris,
professore a Chicago, aveva già indicato nel 1937 in Logical
positivism, pragmatism and scientific empiricism. V'è
inoltre il confluire, nella tradizione degli studi logici coltivati
nell'ambito del neopositivismo, dei risultati raggiunti dalla scuola
polacca di logica, di cui uno dei maggiori rappresentanti, A.
Tarski, era emigrato dall'inizio del conflitto negli Stati Uniti.
Tra i primi scritti del Carnap nel periodo americano v'è una Introduction
to semantics (1942): tuttavia non si tratta affatto di un
ritorno agli interessi semantici del primo neo- positivismo,
allorché si indagava sulla capacità significativa del linguaggio. La
semantica di cui ora Carnap si occupa (come anche in Meaning
and necessity, 1947) è la semantica ‛logica' di cui già
s'era interessato il Tarski con lo studio del concetto di verità nei
linguaggi formalizzati. I problemi affrontati su questo piano
appartengono alla logica come scienza e costituiscono un
approfondimento e una integrazione di quelli già affrontati dalla
sintassi logica. Un calcolo può essere interpretato e ciò comporta
la determinazione della relazione tra segni e designata. Un
sistema semantico permette una migliore teoria della deduzione di
quanto non faccia un sistema sintattico, il quale deve prescindere
dal concetto di ‛vero' e da tutti i concetti che ad esso si
connettono. La definizione semantica della ‛verità' non concerne
tuttavia nè la natura delle entità designate nè le condizioni che
permettono di asserire la verità di un enunciato: come disse Tarski
in The semantic conception of truth (1944), essa va
d'accordo con qualsiasi concezione epistemologica: ‟possiamo
rimanere realisti ingenui, realisti critici o idealisti, empiristi o
metafisici secondo ciò ch'eravamo in precedenza. La concezione
semantica è completamente neutrale nei confronti di tutte queste
questioni". Essa è semplicemente un accorgimento tecnico per meglio
assiomatizzare un sistema linguistico formalizzato. La fertilità
della ‛semantica logica' riguarda quindi i campi della
metamatematica, a cui avevano contribuito gli studi sintattici, e
della logica formale nel suo complesso; e, sebbene alcuni
neopositivisti (e particolarmente il Carnap) abbiano dato in questo
campo contributi essenziali, non è tuttavia legittimo considerarli
parti integranti della storia del neopositivismo. Sono semplicemente
contributi allo sviluppo della logica da parte di studiosi che, in
filosofia, erano neopositivisti.
Qualcosa di analogo può valere anche per la ‛semiotica'. Fu il
Morris a elaborare con questo nome la teoria del processo in cui
qualcosa funziona come un segno e, in particolare, del funzionamento
segnico del linguaggio (v. Morris, 1938 e 1946). E la distinzione da
lui introdotta delle tre dimensioni del processo semiotico - la
‛sintattica' (che considera le relazioni formali dei segni tra
loro), la ‛semantica' (che studia il rapporto tra segni e oggetti
designati) e la ‛pragmatica' (che considera la relazione dei segni
con gli interpreti) - fu adottata dal Carnap e divenne d'uso comune
nelle analisi linguistiche. E quindi frequente l'uso di tale
terminologia negli scritti neopositivistici di questo periodo
americano; ma è altrettanto frequente anche in coloro che non sono
neopositivisti. E sintomatico, del resto, anche il caso del Morris.
Egli vede la sua trattazione semiotica come un approfondimento della
tematica del neopositivismo mediante il coordinamento di istanze
pragmatiste alla wissenschaftliche Weltauffassung. Tuttavia
le analisi della semiosi, ch'egli sviluppa in una prospettiva
comportamentistica, svelano una concezione metafisica di fondo che
si potrebbe dire ‛realistica': che i segni denotino, per esempio, è
provato dal fatto che esiste un mondo, senza di cui non ci sarebbero
nè segni, nè conoscenza, nè verità. Tale concezione è assai poco
conforme ai canoni di significanza del neopositivismo: sia a quelli
(semantici) del primo periodo, sia a quelli (sintattici) del
secondo. A meno che si voglia considerare la posizione del Morris
come una esplicitazione (sia pur involontaria) di presupposti
metafisici sempre già tacitamente presenti nel neopositivismo. In
ogni caso, tuttavia, siamo davanti ad un esempio del modo in cui,
nella sua cosiddetta terza fase, il neopositivismo, mentre diffonde
sempre più ampiamente spunti e idee, va però perdendo la forza e
l'acutezza dei suoi temi polemici.
Per non disperdersi, conviene quindi seguire le vicende più recenti
del neopositivismo nella prospettiva che gli fu più congeniale:
quella della metodologia e dell'analisi logica della scienza. In
questo campo sono stati due i temi particolarmente dibattuti: quello
della probabilità e dell'induzione, e quello del rapporto tra
elementi teorici ed elementi empirici nella conoscenza scientifica.
È su questo terreno che si può valutare l'esito del neopositivismo.
Nell'ambito del Wiener Kreis era stato il Waismann a proporre già nel primo volume di ‟Erkenntnis" (Logische Analyse des Wahrscheinlichkeitsbegriffs) una concezione logica della probabilità, prendendo spunto da alcune affermazioni del Wittgenstein nel Tractatus. In tale concezione, la probabilità o grado di conferma di un'asserzione viene determinato rispetto a una classe di altre asserzioni prese come prove, ed è quindi un rapporto puramente logico. Per esempio, qual è la probabilità di una asserzione p (assunta come ipotesi) rispetto all'asserzione ‛p o q', presa come prova? Date due asserzioni - p, q - gli stati possibili del loro universo linguistico sono: p, q; p, non-q; non-p, q; non-p, non-q. Dato che 'p o q' è vera solo nel caso dei primi tre stati indicati (secondo il calcolo proposizionale), mentre p compare solo in due di essi, la probabilità di p rispetto a 'p o q' sarà di 2/3. Questa concezione non fu tuttavia, per allora, ulteriormente sviluppata.
All'interno del neopositivismo
acquistò invece sempre maggior risonanza la concezione statistica
della probabilità, fondata sulla riduzione del concetto di
probabilità a quello di frequenza relativa: se, su n osservazioni,
un evento d'un certo tipo ha luogo m volte, la sua
frequenza relativa è m/m. Tale teoria fu sviluppata
particolarmente dal Reichenbach (v., 1935) ed essa parve molto
aderente al generale orientamento empiristico del neopositivismo.
Non soltanto il Reichenbach trovò nella sua elaborazione del calcolo
delle probabilità lo spunto per una comprensione delle logiche
polivalenti, ma vide in essa il fondamento di una particolare
interpretazione dell'induzione. Noi non sappiamo se le successioni
naturali di eventi hanno o non hanno un certo ordine: puntare sulla
validità della logica probabilistica che si fonda sulla frequenza
relativa di un certo tipo di evento è tuttavia il comportamento più
ragionevole, perché dà risultati accettabili (se quell'ordine
esiste). Così la scienza, con il suo metodo induttivo, è come una
rete che noi gettiamo nella corrente degli eventi: che con essa si
prendano i pesci, cioè che i fatti corrispondano alle nostre
previsioni, non dipende soltanto dal nostro lavoro.
Nonostante la suggestione che viene da questa concezione
reichenbachiana (che mostra il carattere ‛tentativo' della scienza,
che non ha garanzie di certezza), v'era tuttavia in essa qualcosa
che non s'adattava perfettamente ai principi antimetafisici e al
criterio di significanza neopositivistici. Il presupporre o, almeno,
lo scommettere su un limite ideale, verso cui si presume converga
una serie statistica, comporta infatti una assunzione metafisica,
quasi d'un realismo platonico: che ci sia, cioè, una certa affinità
tra ciò che è matematico e ciò che è empirico. Non è certo questo il
senso di quell'accordo tra esperienza e logica in nome del quale il
neopositivismo s'era costituito: quell'accordo richiedeva infatti
che il momento logico-matematico fosse puramente analitico e non
dicesse alcunché sul mondo. Così venne ripresa la concezione logica
della probabilità: la maggior opera di Carnap nel periodo americano, Logical foundations of probability (1950), è dedicata a
questo argomento, con una ripresa e un approfondito sviluppo (anche
in numerosi altri scritti) delle tesi già abbozzate dal Waismann.
Carnap distingue due significati del termine ‛probabilità': quello
(già illustrato da Waismann) che denota il grado di conferma di
un'ipotesi rispetto a una serie di prove e quello (illustrato dal
Reichenbach) indicante la frequenza relativa di un evento. Non ha
senso chiedersi quale dei due significati sia quello ‛giusto',
poiché entrambi hanno una funzione nella scienza: l'ultimo, per
l'uso nella statistica matematica e nelle sue applicazioni; il
primo, invece, per la metodologia scientifica e, soprattutto, per la
logica induttiva, cioè per una teoria della probabilità logica che
fornisca regole per il pensiero induttivo. L'inferimento deduttivo
(tipico delle trasformazioni matematiche) parte dalla verità delle
premesse per giungere alla verità (necessaria in base a quelle)
delle conclusioni; nelle scienze della natura, invece, non si
conclude circa la verità necessaria di un'ipotesi sulla base di
premesse empiriche: queste permettono soltanto di dare un grado di
conferma all'ipotesi stessa. Sia dato, per esempio, l'insieme di
premesse empiriche: gli abitanti di Chicago sono tre milioni, due
milioni di essi hanno i capelli neri, il signor X è un abitante di
Chicago; sulla base di esse il grado di conferma dell'ipotesi ‛il
signor X ha i capelli neri' è uguale a 2/3. La logica induttiva è,
quindi, del tutto analitica, come quella deduttiva; e, se mediante
essa si riesce a giustificare il procedimento dell'induzione, pare
di poter soddisfare appieno le istanze proprie del neopositivismo,
poiché in tale procedimento compaiono soltanto asserzioni empiriche
(l'insieme delle prove) e asserzioni analitiche di probabilità.
La costruzione di un sistema di logica induttiva è stata appena
avviata dal Carnap, che l'ha definita ‟un lavoro per il futuro"; e
non molto più che inizi sono anche i recenti lavori di coloro che
hanno proseguito il suo tentativo, tra cui J. G. Kemeny, R. Jeffrey
e J. Hintikka. Queste sono mere constatazioni di fatto, le quali non
escludono la possibilità di sviluppi futuri della logica induttiva
paragonabili a quelli della logica deduttiva. V'è, tuttavia, per ciò
che riguarda la storia del neopositivismo una considerazione che è
opportuno fare. La costruzione di un sistema di logica induttiva
richiede la scelta dei suoi assiomi: e a questo proposito la
posizione di Carnap è profondamente mutata nel corso dei suoi ultimi
vent'anni di vita. Negli anni cinquanta, coerentemente con le tesi
neopositivistiche generali, egli respingeva qualsiasi
giustificazione del ragionamento induttivo fondato su qualche
principio a priori non analitico (come la tesi di una
certa uniformità del mondo accettata, per es., dal Russell): un
empirismo coerente non può accettar altro che l'appello
all'esperienza passata come criterio di valutazione della
razionalità di un certo metodo induttivo. Alla fine degli anni
sessanta (v. Lakatos, 1968), invece, Carnap opta per una concezione
aprioristica della scelta degli assiomi della logica induttiva: è
un'‛intuizione induttiva' che ci guida nella scelta degli assiomi.
Si tratta, senza dubbio, di una intuizione che non ha uno stato
epistemologico privilegiato, poiché è fallibile e può essere
corretta: nondimeno, l'induzione è giustificata, seppur non in modo
definitivo, sulla base dell'intuizione di ciò che appare
induttivamente valido. L'intuizione non aveva spazio nell'originaria
epistemologia neopositivistica - e neppure nei suoi sviluppi
coerenti - poiché era ridotta, empiristicamente, ad abitudine o
pregiudizio. Che lo stesso Carnap le faccia nuovamente posto è un
chiaro sintomo che il neopositivismo, come movimento filosofico,
appartiene ormai alla storia d'un passato sia pur recente.
Conferma di ciò viene anche dai dibattiti sul rapporto tra elementi teorici ed elementi empirici nella conoscenza scientifica, l'altro tema su cui si accentrò l'attività dei neopositivisti nel periodo postbellico. Già s'era avuta una iniziale ‛liberalizzazione' del rigido criterio empirico di si- gnificanza allorché s'era parlato non di ‛verificabilità', bensì di ‛confermabilità indiretta' delle leggi scientifiche ; ma la liberalizzazione diventa radicale allorché risulta l'impossibilità di ridurre i termini teorici del linguaggio scientifico a semplici connessioni di termini osservativi. Ciò comporta una rinuncia al criterio di significanza sia nella forma dell'appello agli Erlebnisse sia nella forma fisicalistica o in quella operazionalistica, perché esso richiederebbe che tutti i termini e le espressioni (come massa, lunghezza, campo magnetico, ecc.) che non significano qualcosa di direttamente osservabile fossero definibili mediante i termini osservativi. Già nel 1952, il berlinese C.G. Hempel, ch'era stato tra i partecipanti ai lavori del Wiener Kreis ed era poi anch'egli emigrato negli Stati Uniti, in Fundamentals of concept formation in empirical science (7° fascicolo del II vol. della International encyclopedia of unified science) mostra come ogni tentativo di definizione di tal tipo lasci, nei termini teorici, qualcosa di non definito e che pur fa parte del loro significato. D'altra parte, la stessa storia della scienza moderna (che pur si incentra sul controllo empirico delle asserzioni) mostra che i principi mediante cui si spiegano e si prevedono fenomeni osservabili non sono stabiliti solo ammassando risultati empirici e generalizzandoli induttivamente. ‟Guidato dalla propria conoscenza dei dati empirici, lo scienziato deve inventare un insieme di concetti, i costrutti teorici, privi di significato empirico diretto, un sistema di ipotesi formulate nei termini di questi, e una interpretazione per la risultante rete teorica ; e tutto ciò in una maniera che consenta di stabilire tra i dati dell'osservazione diretta connessioni feconde ai fini della spiegazione e della previsione" (v. Hempel, 1952; tr. it., p. 47).
Anche il Carnap - in Philosophical foundations of physics (1966),
pubblicato a cura di M. Gardner e riproducente la forma ultima di un
suo corso più volte ripetuto - si colloca su posizioni analoghe,
negando che alle leggi teoriche si possa giungere con
generalizzazioni simili a quelle delle cosiddette leggi empiriche o
che i termini teorici possano sorgere come risultati di
osservazioni. ‟Il termine ‛molecola' non sorgerà mai come risultato
di un'osservazione. Per questa ragione nessuna generalizzazione, per
quanto spinta, delle osservazioni produrrà mai una teoria dei
processi molecolari: una tale teoria deve aver origine in qualche
altro modo; essa viene enunciata non come una generalizzazione di
fatti, ma come un'ipotesi" (v. Carnap, 1966; tr. it., p. 287). La
formulazione delle ipotesi, non spiegabile empiricamente, riapre
nella epistemologia il problema dell'a priori non inteso
in senso puramente analitico. La prospettiva tipica del
neopositivismo viene rivoluzionata: essa si era costituita in
polemica con tutte le forme di apriorismo di tipo kantiano o
neokantiano, poiché esse sembravano del tutto inadeguate per la
comprensione dei nuovi risultati e dei nuovi metodi delle scienze.
L'esito a cui giunge l'analisi epistemologica degli stessi
neopositivisti e, infine, del tutto diverso. ‟Non si può mettere il
vino nuovo nelle botti vecchie" fu un motto caratteristico del
neopositivismo: la botte vecchia, tuttavia, contrariamente alle
attese e alle previsioni, risulta in fin dei conti essere proprio
quella dell'empirismo radicale.
7. Conclusione
Se il neopositivismo, per le sue tesi filosofiche, appartiene ormai
al passato, è tuttavia opportuno distinguere tra ciò che in esso è
qualcosa di conchiuso e ciò che invece ha conservato una sua
attualità.
S'è ormai spenta, del neopositivismo, la forza polemica e negatrice
a cui era legata la sua fama nel decennio tra il 1930 e il 1940 (o
nell'immediato dopoguerra, in alcuni paesi, come l'Italia, in cui
giunse più tardi e di rimando). Quella forza era inscindibilmente
legata all'accettazione del criterio empirico di significanza, via
via corretto ed attenuato sino ad una rinuncia di fatto da parte
degli stessi neopositivisti. Nel 1970, con la morte di Carnap,
scompare l'ultima grande figura del Wiener Kreis: ma già da molti
anni s'era spento quello spirito negatore che l'aveva contrassegnato
e che, in parte, era ancora sopravvissuto alla dispersione dei
viennesi. C'è stato addirittura chi, pur avendo partecipato ai
lavori del Wiener Kreis, s'è chiesto se la parte seria e feconda
delle ricerche in esso condotte sia stata effettivamente connessa
con l'accettazione di quel criterio di significanza, in nome del
quale per tanti tipi di asserzioni venivano pronunciate sbrigative
sentenze di insensatezza. Si tratta di K.R. Popper, che ha sempre
rifiutato la qualifica di neopositivista, sebbene le idee da lui
espresse nella Logik der Forschung (1935) siano state a
lungo dibattute nell'ambito del Circolo di Vienna. Il problema del
significato così come è affrontato col criterio empirico di
significanza pare a Popper un problema puramente verbale ed egli
respinge le interpretazioni neopositivistiche del suo principio
della ‛falsificabilità' come semplice correzione del principio della
‛verificabilità', implicito in quel criterio. Il problema genuino
della metodologia scientifica è, per Popper, quello della
‛demarcazione', cioè della distinzione delle proposizioni
scientifiche da quelle che scientifiche non sono e che, tuttavia,
non sono affatto prive di significato. Il criterio della
falsificabilità non è un criterio di significanza, bensì di
demarcazione e, da questo punto di vista, assai migliore del
criterio della verificabilità a cui, per esempio, già si sottraggono
le leggi scientifiche. Esso dice semplicemente che per essere
scientifiche le proposizioni e le teorie devono essere falsificabili
o confutabili. In questa prospettiva, l'apporto metodologico del
neopositivismo (per es., con le sue indagini sulla controllabilità)
si ha positivamente sul piano della demarcazione e non su quello del
significato.
Privato della forza polemica, il neopositivismo costituisce tuttavia
un momento vivo dell'epistemologia contemporanea. In un articolo
pubblicato nel primo volume di ‟Erkenntnis" - Die Wende der
Philosophie - Schlick aveva considerato il neopositivismo
come una svolta radicale nel filosofare: lo spirito negatore di esso
si può forse capire se lo si connette con questa consapevolezza
innovativa. Chi sente la novità del suo fare è spesso indotto a
trascurare e a respingere il passato. Nel neopositivismo ci fu
indubbiamente una forte carica innovativa per il fatto di portare
sul piano linguistico le indagini filosofiche sulla scienza. Questo
nuovo modo ‛linguistico' di impostare i problemi filosofici ha certo
un valore positivo; anche se i neopositivisti, con l'entusiasmo dei
neofiti, scambiarono spesso un nuovo modo di filosofare con
l'eliminazione degli stessi problemi filosofici attorno a cui la
tradizione filosofica s'era travagliata. Qualcosa di analogo, fuori
dell'ambito ristretto del neopositivismo, è capitato anche, agli
inizi, nel campo più generale della filosofia analitica, in cui
l'analisi linguistica fu intesa talvolta come strumento per bandire
i problemi tradizionali. Si trattò di una eredità neopositivistica,
che s'è venuta disperdendo negli ultimi anni, parallelamente
all'esaurirsi della carica polemica, antimetafisica e
antifilosofica, del neopositivismo.
Si può così ora meglio cogliere un altro aspetto positivo del
contributo dato dal neopositivismo alla filosofia contemporanea.
Proprio attraverso alcuni dei suoi caratteri meno convincenti
polemica negatrice ed esclusivi- smo scientistico il neopositivismo
ha costituito nel nostro secolo una delle occasioni maggiori per
quel ripensamento della natura del filosofare ch'è stato, in ogni
epoca, il pro- blema primo della filosofia. Accanto ai contributi
sul piano epistemologico e all'approfondimento di temi logici
attuato da alcuni suoi rappresentanti, il neopositivismo ha quindi
offerto, paradossalmente, qualcosa che pareva estraneo ai suoi
programmi: lo spunto per la meditazione e una rinnovata impostazione
della problematica filosofica. Ha avviato la costruzione di nuove
botti per la conservazione del buon vecchio vino.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
di Pietro Rossi
Sommario: 1. Positivismo e società
industriale. 2. Positivismo e sviluppo storico. 3. Positivismo e
sociologia. 4. Positivismo e antropologia. 5. Dall'unità del metodo
all'unità del linguaggio scientifico. □ Bibliografia.
1. Positivismo e società industriale
Il rapporto con il processo di costituzione delle scienze
sociali è essenziale, fin dall'inizio, al positivismo. Tanto il
progetto di una scienza onnicomprensiva della società quanto lo
stesso termine 'sociologia' risalgono ad Auguste Comte, che nel
Cours de philosophie positive (1830-1842) l'ha concepita in analogia
alla fisica, distinguendola in una "statica" e in una "dinamica"
sociale. Ma già prima, nel 1813, Claude-Henri de Saint-Simon si era
proposto di fondare una "scienza dell'uomo" intesa come parte della
fisiologia, che studiasse la struttura psichica e l'esistenza
sociale dell'uomo non più con metodo congetturale ma con metodo
positivo, cioè con lo stesso metodo già adottato dalle altre
scienze. Questo intento si salda, fin dall'inizio, con il progetto
di una 'riorganizzazione' della società dopo gli sconvolgimenti
della Rivoluzione francese e il lungo periodo delle guerre
napoleoniche. Non a caso, al ritorno dei Borboni sul trono di
Francia, Saint-Simon scriveva un saggio dal titolo De la
réorganisation de la société européenne (1814), nel quale
contrapponeva allo spirito critico (e rivoluzionario) del secolo
XVIII l'esigenza di uno spirito nuovo, di uno spirito
"riorganizzatore" e costruttivo che doveva condurre
all'instaurazione di un nuovo ordine politico.Questo processo
coincideva, per Saint-Simon come per il giovane Comte (che gli fu
segretario dal 1817 al 1824, succedendo in tale funzione ad Augustin
Thierry, il futuro storico della conquista normanna dell'Inghilterra
e dell'età merovingia), con l'avvento della società industriale.
L'antico sistema su cui l'Europa si era retta per secoli, il sistema
feudale associato con la fede cattolica, è stato messo in crisi dal
sorgere dei Comuni e dallo sviluppo della scienza moderna; la
Riforma protestante ha poi significato la rottura dell'unità del
cristianesimo, e la cultura illuministica ne ha scosso
definitivamente i fondamenti. Occorre perciò costruire un nuovo
sistema, organizzato in vista di uno scopo alternativo a quello
della conquista, che può consistere soltanto nella produzione. La
base di questo sistema è data dall'industria e dal sapere positivo;
e le classi a cui dovrà esserne affidata la direzione sono perciò
quelle degli 'industriali' e degli scienziati, che prenderanno il
posto tenuto, nel vecchio sistema, dalla nobiltà feudale e dal
clero. Il nuovo sistema sarà dunque una società industriale e al
tempo stesso positiva.
Questa prospettiva poggiava, in primo luogo, sull'identificazione
del nuovo sistema sociale con la nascente società industriale. Anche
se in Saint-Simon - e ancora nello stesso Comte - il termine
'industria' mantiene a lungo un significato assai ampio, coincidente
con il lavoro produttivo, e la categoria degli 'industriali'
comprende imprenditori e lavoratori impiegati sia nell'agricoltura
che nella manifattura, nel corso degli anni venti e trenta si fa
gradualmente strada la constatazione del ruolo primario che va
assumendo il lavoro in fabbrica. Non soltanto vien meno il
privilegiamento fisiocratico dell'agricoltura come unica fonte di
ricchezza, ma si fa anche valere la consapevolezza della specificità
dell'industria rispetto agli altri settori produttivi. Accanto a
essa si afferma la consapevolezza del nesso che intercorre tra il
mutamento della struttura sociale e il mutamento del sapere: per
Saint-Simon e per Comte, come per i posteriori esponenti del
movimento positivistico, la società industriale ha il proprio
fondamento nello sviluppo della scienza e della tecnica. Assume così
un valore emblematico il richiamo a Bacone, considerato come il
filosofo che aveva riconosciuto la rilevanza pratica del sapere, la
sua capacità di contribuire in maniera decisiva al dominio dell'uomo
sulla natura.
Organizzata in vista del lavoro produttivo e non più della
conquista, la società industriale appare irriducibile alle società
del passato. Qualsiasi tentativo di risuscitare l'organizzazione
militare-feudale che aveva caratterizzato l'epoca medievale è
destinato a fallire: su questo punto Saint-Simon e Comte si
differenziano nettamente dai teorici della Restaurazione. Il popolo
non può più essere "irreggimentato" sotto il comando dei capi
militari; deve essere associato alla "direzione" dei capi
industriali, cioè degli imprenditori. Analogamente, dopo la rottura
dell'unità del mondo cristiano la fede religiosa ha perduto
l'autorità che possedeva in passato; al suo posto si è affermata una
nuova forma di sapere, il sapere positivo. Il potere feudale è
crollato, ad opera della critica che gli uomini di legge hanno
rivolto ai suoi fondamenti; non diversamente i 'metafisici', e poi
la cultura illuministica, hanno eroso in maniera irreparabile le
basi del sapere teologico. La società si sta ormai trasformando in
società industriale. Ma il processo che deve metter capo a essa non
è ancora compiuto e richiede di venir completato. Spetta quindi alla
filosofia positiva dare il proprio contributo a tale
'completamento', favorendo l'instaurazione di un regime politico
adeguato alla società industriale e coerente con i suoi principî.
Ciò è possibile soltanto costruendo una scienza della società che
diventi la base di una politica positiva.In questo senso, dunque, il
positivismo ha formulato, nell'età della Restaurazione, una teoria
della società industriale che ne costituisce, al tempo stesso,
un'interpretazione e un'utopia. Esso offre infatti, negli scritti di
Saint-Simon e di Comte, un'interpretazione della società moderna
come società industriale, come una società strutturalmente diversa
dalle - da tutte le - società del passato. Il nucleo di tale
interpretazione è rappresentato dall'analisi del trasferimento del
potere, di quello temporale come di quello spirituale, nelle mani di
nuove classi sociali: dalla nobiltà feudale agli 'industriali', dal
clero agli scienziati positivi. A essa si collega la tesi della
correlazione tra mutamento sociopolitico e mutamento intellettuale -
due processi che per Saint-Simon sono paralleli ma pur sempre
indisgiungibili, mentre Comte sostiene il primato del secondo, e
quindi la dipendenza della struttura del sistema sociale, del nuovo
come del vecchio, dal sistema di credenze prevalente in una
determinata società.
A questa analisi fa riscontro l'intento riformatore - in senso
politico, ma anche intellettuale - del positivismo. L'edificio delle
scienze positive non è ancora completo: se le scienze della natura e
della vita sono pervenute, negli ultimi secoli, allo stato positivo,
lo stesso non si può dire della scienza dell'uomo e, tanto meno,
della scienza della società. Né la società industriale è riuscita a
darsi un ordinamento politico confacente alla sua struttura: falliti
i tentativi di costruire un regime politico fondato sui principî
rivoluzionari, occorre dar vita a un sistema di governo nel quale
gli imprenditori - legittimi rappresentanti anche degli interessi
dei lavoratori - assumano il potere temporale, e gli scienziati
positivi quello spirituale. In questo modo la teoria della società
industriale sfociava in un'utopia sociocratica, quando addirittura
non pretendeva di diventare la base di una nuova religione - di un
cristianesimo interpretato in chiave filantropica, come nel Nouveau
Christianisme di Saint-Simon (1825), oppure di una "religione
dell'umanità", come negli ultimi scritti di Comte, dal Discours sur
l'ensemble du positivisme (1848) al Système de politique positive
(1851-1854) e al Catéchisme positiviste (1852).Questa visione
utopica della società industriale, condizionata dall'arretratezza
dello sviluppo economico francese rispetto al processo di
industrializzazione in atto al di là della Manica, poggiava su un
modello interpretativo che il positivismo aveva in comune con la
letteratura controrivoluzionaria: il modello di una società
'organica'. Già nell'Introduction aux travaux scientifiques du XIXe
siècle (1808) Saint-Simon aveva riconosciuto l'importanza dell'opera
di Louis de Bonald, l'autore della Théorie du pouvoir politique et
religieux dans la société civile (1796) e della Législation
primitive (1802), e al suo nome egli affiancherà in seguito quello
di Chateaubriand. Nel corso degli anni venti Comte si richiamava
piuttosto a Joseph de Maistre, il teorico di una società teocratica
sotto la guida del papa, che doveva rappresentare il ritorno
all'unità del mondo cristiano perduta per colpa della Riforma. Egli
rifiutava la "dottrina dei re" non meno della "dottrina dei popoli",
fautrici rispettivamente di una "direzione retrograda" e di una
"direzione critica", e contrapponeva a entrambe la "dottrina
organica" della società industriale.
Ma il nuovo sistema sociale condivideva con il vecchio quel
carattere organico che il principio della libertà di coscienza,
rivendicato dalla Riforma protestante e fatto proprio dalla cultura
illuministica, aveva cancellato. Il sistema industriale e positivo
doveva riorganizzare la società facendo valere un'autorità morale
capace di garantire l'unità del corpo sociale, la solidarietà tra le
sue parti, l'armonica cooperazione di tutte le classi sociali, il
consenso degli individui a un sistema di credenze condiviso da
tutti. Il processo di idealizzazione, che Bonald e Maistre avevano
applicato al Medioevo, si trasferiva alla società del futuro, non a
caso concepita come lo stato definitivo dell'umanità.
2. Positivismo e sviluppo storico
Pur derivando dai teorici della Restaurazione il modello di
una società organica, Saint-Simon e Comte se ne distaccavano
nettamente per la diversa concezione dello sviluppo storico. Essi
erano infatti gli eredi della fiducia illuministica nel progresso,
anche se l'esito dello sviluppo storico appare determinato in
maniera differente: come Saint-Simon scriveva nel 1814, "l'età
dell'oro del genere umano non è affatto dietro di noi, è davanti,
nella perfezione dell'ordine sociale". E la teoria della società
industriale è infatti legata a una teoria della storia che ha la
propria base nella contrapposizione tra due sistemi sociali tra i
quali si colloca, in una posizione intermedia, un sistema
"transitorio" privo di quel carattere organico che essi hanno invece
in comune tra loro.Già Saint-Simon, negli scritti che compongono i
primi due volumi de L'industrie littéraire et scientifique
(1816-1817), aveva distinto nella storia europea due sistemi
politici, quello che chiamava il "sistema cattolico" e il nuovo
sistema industriale, indicando nel passaggio dall'uno all'altro la
direzione dello sviluppo storico. Ma sarà Comte a tradurre questa
distinzione in una teoria della storia, che si trova formulata per
la prima volta nella Sommaire appréciation de l'ensemble du passé
moderne (1820). La contrapposizione tra l'antico e il nuovo sistema
sociale si trasforma in uno schema triadico di successione, in virtù
dell'inserimento di un sistema privo di una propria finalità
autonoma, che rappresenta la dissoluzione del primo e la
preparazione del secondo. Analogamente, la contrapposizione tra
sapere teologico e sapere positivo risulta mediata da un'altra forma
di sapere, il sapere metafisico, che ha assolto una funzione critica
nei confronti del primo ma che risulta privo di capacità positiva.
La "dottrina critica" ha sì messo in crisi il sistema di credenze su
cui poggiava l'antico sistema, ma non ha dato luogo a un sistema a
esso alternativo; essa ha 'disorganizzato' la società, ma non è
stata capace di condurre alla sua 'riorganizzazione'. Il contributo
che essa ha dato al progresso dell'umanità è stato quindi un
contributo esclusivamente negativo.
Questa concezione della storia è stata espressa da Comte, in forma
riassuntiva, nella legge dei tre stati, che è la legge fondamentale
dello sviluppo intellettuale dell'umanità e dello sviluppo della
civiltà. Nel suo sviluppo l'umanità ha percorso (al pari di ciò che
avviene nel singolo individuo) tre stati contrassegnati da tre
diversi sistemi di spiegazione dei fenomeni, che fanno appello
rispettivamente ad agenti soprannaturali, a entità astratte e a
leggi scientificamente verificabili. E questi tre momenti si possono
rintracciare anche nello sviluppo delle singole scienze, ognuna
delle quali perviene allo stato positivo soltanto dopo un lungo
cammino, lasciando dietro di sé sia la visione di una natura
'animata' da esseri viventi sia le nozioni di carattere metafisico.
Ma essi designano anche le epoche successive dello sviluppo della
civiltà, ognuna contrassegnata da un aspetto spirituale e da un
aspetto temporale. Lo stato teologico è lo stato originario di
esistenza dell'uomo, che nel corso di esso passa dal feticismo al
politeismo e poi al monoteismo: il suo culmine è rappresentato dalla
società organica del Medioevo, quale si è venuta costituendo con
l'affermazione della feudalità e con il dominio universale del
papato. Lo stato metafisico è un'epoca di transizione, che copre
all'incirca il periodo che va dalla Riforma protestante alla
Rivoluzione francese. Lo stato positivo ha la sua base nello
sviluppo della scienza moderna e dell'industria, ma affonda le
proprie radici nell'affrancamento dei Comuni dal potere feudale e
nell'introduzione della scienza araba in Europa. I suoi inizi
risalgono all'epoca stessa del prevalere del sistema feudale e
teologico: i due sistemi sono infatti coesistiti per alcuni secoli,
e alla disgregazione dell'uno ha fatto riscontro il lento emergere
dell'altro.Il positivismo condivide quindi con la cultura
illuministica una visione 'progressistica' della storia e
l'articolazione dello sviluppo storico in una serie di stati
successivi, quale si può trovare da un lato negli autori scozzesi,
come Ferguson e Adam Smith, dall'altro in Condorcet.
Ma al suo programma di liberazione dai pregiudizi, da realizzarsi
attraverso la critica della tradizione, e ai progetti di riforma
politica in senso liberale esso sostituisce il progetto di
instaurazione di una nuova società organica fondata sul sapere
positivo. Delineare lo sviluppo dell'umanità significava, per Comte,
non soltanto scoprire il senso del suo cammino, ma anche
individuarne il motore nel progresso intellettuale. Proprio su
questo terreno avvenne, agli inizi degli anni venti, la rottura tra
Comte e Saint-Simon. Questi riteneva infatti che l'ordinamento
politico richiesto dalla nascente società industriale potesse
sorgere nell'immediato futuro, dall'alleanza tra la classe degli
industriali e la monarchia borbonica restaurata; Comte, al
contrario, era convinto che il mutamento delle istituzioni potesse
venire soltanto dal sorgere di un nuovo sistema di credenze, dal
'completamento' del sistema del sapere positivo. La rivoluzione
politica può essere soltanto la conseguenza di una rivoluzione
filosofica. Mentre per Saint-Simon mutamento sociale e mutamento
intellettuale erano processi paralleli, anzi due aspetti di un
medesimo processo, per Comte l'organizzazione della società doveva
poggiare su un sistema di credenze condiviso: la trasformazione di
questo sistema è la condizione preliminare perché possa cambiare
anche la struttura della società.Ne derivava anche una connotazione
del progresso diversa da quella datagli dalla cultura illuministica.
Per Comte, e dopo di lui per tutto il movimento positivistico, il
mutamento intellettuale è un processo irreversibile: una volta che
sia pervenuta allo stato positivo, l'umanità non può ritornare
indietro.
La ragione di questa necessità del progresso risiede nella
differenza strutturale tra il sistema di credenze dell'antico
sistema e quello del nuovo. Il primo era un sistema organico, ma
falso; una volta che la critica condotta durante lo stato metafisico
ne ha eroso le basi dimostrandone la falsità, quel sistema risulta
non più proponibile. Il sistema del sapere positivo è anch'esso
organico, ma possiede una propria intrinseca verità. Con la sua
realizzazione, e con l'instaurazione di un sistema sociale a esso
conforme, si compie il cammino del genere umano. Il sapere positivo
è il termine ultimo dello sviluppo intellettuale, e la società
industriale è lo stato definitivo dell'umanità: uno stato nel quale
l'ordine e il progresso non saranno più in conflitto, ma
coesisteranno armonicamente.Il positivismo posteriore ha condiviso
con Comte sia la fiducia in un progresso necessario, non
suscettibile di un ritorno all'indietro, sia il riconoscimento del
sapere positivo come la forma definitiva del sapere; spesso, anche
se non sempre, ne ha anche condiviso la convinzione che lo sviluppo
della scienza sociale potesse contribuire al miglioramento della
natura umana, o per lo meno delle condizioni di vita dell'umanità.
Non ne ha invece condiviso la concezione della società industriale
come assetto sociale perfetto, capace di comporre gli interessi
contrastanti delle diverse classi attraverso la loro subordinazione
all'autorità morale di un potere fondato sul sapere positivo; meno
ancora ne ha condiviso la prospettiva sociocratica, coerente pendant
della teocrazia a cui l'umanità era pervenuta nello stato teologico.
Del resto, questa prospettiva era stata lasciata cadere dallo stesso
Comte, allorché verso la fine degli anni quaranta si era presentato
come il sacerdote di una nuova religione, la "religione
dell'umanità", additando in essa la base indispensabile della
riforma morale e della stessa riorganizzazione della società.
3. Positivismo e sociologia
Agli occhi del giovane Comte l'edificio del sapere positivo era però
ben lungi dall'essere compiuto. Se l'astronomia e la fisica avevano
attinto lo stato positivo all'inizio dell'età moderna, se la chimica
le aveva seguite tra Sei e Settecento, soltanto di recente la
fisiologia aveva adottato un metodo sperimentale svincolandosi
dall'impiego di nozioni metafisiche: la scienza dell'uomo era nata
ad opera di Cabanis, di Félix Vicq-d'Azyr, di Xavier Bichat, autori
cari, del resto, già a Saint-Simon. Ma essa si era pur sempre
limitata a studiare l'uomo nella sua struttura fisica, o nel
rapporto tra questa e le funzioni psichiche; non aveva considerato
l'uomo come essere sociale, meno che mai la struttura della società.
Né si trattava, per Comte, di una semplice successione storica: il
momento in cui i diversi ambiti di fenomeni sono diventati oggetto
di indagine scientifica dipende, in realtà, da motivi intrinseci. Il
passaggio allo stato positivo si è compiuto dapprima per le scienze
che studiano fenomeni più semplici, più generali, più astratti e più
distanti dall'uomo, e soltanto in seguito per quelle che studiano
fenomeni più complicati, più particolari, più concreti e più
prossimi all'uomo.
La sequenza di astronomia, fisica, chimica, fisiologia - con la
scienza della società per ultima - riflette per Comte un ordine
logico di crescente complessità e concretezza dell'oggetto, a cui si
accompagna un criterio di crescente vicinanza al soggetto
conoscente.Per 'completare' il sistema del sapere positivo occorre
quindi costruire la scienza della società: questo appariva, agli
occhi di Comte, il compito più urgente, la condizione indispensabile
per poter 'riorganizzare' la società. E per costituirsi in forma
positiva la scienza della società deve modellarsi sulle scienze già
costituite, deve cioè configurarsi come "fisica sociale" - secondo
una denominazione che poi cederà il posto al fortunato neologismo
'sociologia'. Il sapere positivo possiede una struttura comune a
tutte le scienze: muove dall'osservazione dei fatti e da questa trae
delle leggi generali, le quali permettono a loro volta la previsione
di eventi futuri e l'azione trasformatrice sulla natura. Come Comte
si esprime nel Cours, "dalla scienza deriva la previsione, dalla
previsione deriva l'azione". Sulla base di questa struttura comune
le diverse scienze si connettono tra loro sistematicamente, nel
senso che il sistema di leggi di ogni scienza presuppone quello
della scienza o delle scienze che la precedono, pur essendo
irriducibile a esso. Così la vita sociale ha leggi sue proprie, le
quali presuppongono le leggi che regolano i fenomeni astronomici,
fisici, chimici e fisiologici, pur essendo distinte e indipendenti
rispetto a queste.Inserita in un'enciclopedia del sapere come la
scienza ultima nell'ordine sistematico al pari che in quello
storico, la sociologia veniva a configurarsi quale scienza
'globale', che da una parte risolve in sé l'economia politica e la
scienza politica, dall'altra esclude la possibilità di scienze
sociali specifiche.
All'economia politica Comte rimproverava infatti, nel Cours de
philosophie positive, la pretesa di isolare il proprio oggetto
dall'insieme dei fatti sociali; e pur facendo eccezione per Adam
Smith, coinvolgeva gli economisti in una condanna generale, motivata
dal carattere metafisico delle nozioni che essi hanno impiegato. In
quanto alla scienza politica, essa veniva identificata senz'altro
con la sociologia, in quanto la politica veniva considerata un
aspetto particolare (e, in fondo, subordinato) dell'organizzazione
sociale, da studiare sulla base dei "principî generali della
produzione". Ma la scienza della società finiva per contrapporsi
anche alla psicologia, della quale Comte negava la legittimità in
quanto la riteneva fondata sull'introspezione anziché
sull'osservazione dei fatti. Il dominio della sociologia finiva
perciò per abbracciare tutti i fenomeni della vita umana, cioè tutti
i fenomeni che si collocano al di sopra del livello fisiologico. A
differenza di Saint-Simon, per il quale la scienza dell'uomo doveva
far parte della fisiologia, Comte rivendicava l'autonomia dei fatti
sociali e delle loro leggi; ma definiva pur sempre la società come
"organismo sociale", e nella sua organizzazione scorgeva il
"prolungamento" dell'organizzazione degli esseri viventi. Soltanto
che, mentre quest'ultima è il risultato dell'azione di leggi
biologiche, l'organizzazione sociale è il prodotto di condizioni
storiche, tanto è vero che la società può anche 'disorganizzarsi',
com'è avvenuto nel sistema transitorio, e richiede perciò di essere
'riorganizzata'.Il carattere 'globale' della sociologia derivava,
del resto, dal modello di società organica a cui Comte si era
richiamato nella sua analisi dello sviluppo della vita sociale.
Per essere organica, cioè per essere coerentemente organizzata in
vista del perseguimento di uno scopo, la società deve avere una
struttura unitaria; le sue parti devono essere in funzione della
totalità. Anche gli individui devono cooperare alla realizzazione di
quello scopo, subordinando a esso gli interessi particolari propri e
della classe a cui appartengono. Ma una società dotata di una
struttura unitaria può essere oggetto soltanto di una scienza in
grado di studiarla nella sua unità, di una scienza 'globale'. Anche
nel caso negativo di una società disorganizzata, le cui parti non
contribuiscono più alla vita complessiva del corpo sociale, vale pur
sempre lo stesso principio metodologico, in quanto si tratta di
stabilire per quali motivi sia venuto meno in essa il carattere
dell'organicità.
Questa impostazione spiega perché a base delle due parti della
sociologia, la statica e la dinamica sociale, Comte abbia posto le
nozioni di ordine e di progresso, e perché il problema fondamentale
della sociologia - in quanto fondamento di una politica anch'essa
'positiva' - sia per lui quello della coesistenza dei due termini.
La statica sociale è infatti una teoria dell'ordine, in quanto
determina le condizioni di esistenza della società, cioè le
condizioni che garantiscono la solidarietà tra le sue diverse parti
e il consenso degli individui alle norme stabilite da un'autorità
universalmente riconosciuta. La dinamica sociale è invece una teoria
del progresso, in quanto determina le leggi del movimento della
società, quelle leggi che presiedono al passaggio da un'epoca
all'altra e, all'interno di ogni epoca, da una situazione di minore
a una di maggiore perfezione. Ricondotte alla distinzione tra
statica e dinamica, le nozioni di ordine e di progresso cessano di
essere reciprocamente esclusive: se l'ordine ha contrassegnato lo
stato teologico e il progresso quello metafisico, nello stato
positivo ordine e progresso sono destinati a essere non solo
compatibili, ma complementari.
Il progresso si rivela infatti come lo sviluppo graduale
dell'ordine, e l'ordine si manifesta nel progresso.La sociologia si
presentava perciò non soltanto come la scienza 'globale' della
società, ma anche come il presupposto di una politica su base
positiva. Questo aspetto utopistico del programma comtiano sarà
presto lasciato cadere, o per lo meno posto in secondo piano (anche
se l'aspirazione al governo scientifico della società si
ripresenterà sovente nello sviluppo successivo della sociologia),
mentre un rilievo sempre maggiore assumerà lo studio 'positivo' dei
fatti sociali, condotto con un procedimento osservativo non
difforme, nella sostanza, da quello delle altre discipline. Il
positivismo si manterrà invece fedele al postulato dell'unità della
società, e quindi al carattere unitario della scienza di cui essa è
oggetto. Questo sarà infatti ripreso, vari decenni dopo, nei
Principles of sociology (1876-1896) di Herbert Spencer, ma sulla
base di una diversa impostazione.
Già nel corso degli anni cinquanta Spencer aveva elaborato una
prospettiva evoluzionistica che si richiamava a Lamarck; e nel 1852
aveva letto Comte nell'esposizione riassuntiva di Harriet Martineau,
dandone però un giudizio negativo. Più importante fu invece
l'influenza della Origin of species di Darwin, pubblicata nel 1859,
ai cui presupposti Spencer aderì con entusiasmo, trovandovi una
piattaforma scientifica per il proprio evoluzionismo. L'opera di
Darwin gli offriva infatti la possibilità di precisare le modalità
del progresso, in cui egli aveva individuato - nel saggio Progress:
its law and cause (1857) - la legge universale della realtà, valida
non soltanto per la società ma per qualsiasi genere di fenomeno, sia
vivente che non vivente. Il processo di selezione naturale, in virtù
del quale certe specie sopravvivono adattandosi alle condizioni
ambientali, mentre quelle che non riescono ad adattarsi sono
destinate a scomparire, veniva inquadrato in una teoria
onnicomprensiva dell'evoluzione, applicabile tanto al sorgere del
sistema solare da una nebulosa originaria quanto all'ambito
biologico e al mondo sociale. Spencer s'impegnava così nella
costruzione di un "sistema di filosofia sintetica", enunciato
dapprima nei First principles (1862) e poi sviluppato in una serie
di altri 'principî' - della biologia, della psicologia, della
sociologia e infine dell'etica. Il cardine di questo sistema era
rappresentato dal concetto di evoluzione, definita come passaggio
dall'omogeneo all'eterogeneo: da una forma meno coerente a una più
coerente, dall'uniforme al multiforme, dall'indefinito al definito,
da uno stato di disgregazione a uno stato di integrazione.
Nel corso del processo evolutivo si compie infatti, secondo Spencer,
un processo di differenziazione della struttura e delle funzioni,
che comporta anche una crescente integrazione tra le parti
costitutive; e questo processo, che ha inizio nei corpi inanimati e
prosegue negli esseri viventi, culmina nella vita sociale. Il
progresso della società si pone quindi in un rapporto di continuità
con l'evoluzione precedente, e ne costituisce in qualche modo il
livello più elevato. Spencer distingueva infatti, all'interno del
processo evolutivo, tre fasi fondamentali - l'evoluzione inorganica,
l'evoluzione organica e l'evoluzione superorganica - identificando
quest'ultima con lo sviluppo della vita sociale.Lo sviluppo della
società appare perciò caratterizzato dal medesimo processo di
differenziazione e di integrazione che si riscontra nelle fasi
precedenti dell'evoluzione: non diversamente dall'evoluzione
organica, anche quella superorganica procede dall'omogeneo
all'eterogeneo, cioè da società semplici verso società complesse,
anzi sempre più complesse. Spencer riprendeva la contrapposizione di
Comte (e già prima di Saint-Simon) tra due forme di organizzazione
sociale rivolte l'una alla conquista e l'altra alla produzione,
traducendola nella distinzione tra società militari e società
industriali; ma la riformulava, al tempo stesso, in base a
un'analogia biologica. Nella vita sociale si possono infatti
individuare, secondo Spencer, tre sistemi di organi: un sistema
diretto al sostentamento dei membri del corpo sociale, un sistema
regolativo e un sistema distributivo. Dal grado di organizzazione
della società, e dal prevalere dell'uno o dell'altro sistema, deriva
la distinzione fra tre tipi di società: le società semplici, cioè
quelle primitive, prive di divisione del lavoro e quindi anche di
un'articolazione in classi; le società composte, fornite di un
apparato di governo; le società doppiamente composte, in cui il
sistema distributivo ha acquistato una propria autonomia.
Ma le società si distinguono non soltanto per il grado di
organizzazione, bensì anche per lo scopo in vista del quale sono
organizzate; da questo punto di vista le società militari e le
società industriali diventano momenti successivi del processo
evolutivo della società. Nelle società militari prevale il sistema
regolativo, e si ha quindi una cooperazione forzata in virtù della
quale l'individuo è sottoposto alla coercizione del potere statale e
della classe che si dedica all'attività bellica; nelle società
industriali prevale il sistema distributivo, e perciò si ha una
cooperazione volontaria in vista della produzione che comporta la
subordinazione dello Stato all'individuo. Non per questo, però, esse
rappresentano il culmine dello sviluppo sociale: lungi
dall'attribuire loro un carattere definitivo, Spencer ipotizzava
l'avvento di un terzo tipo di società, nel quale la distribuzione
dovrà prevalere sulla produzione.Il progredire della
differenziazione significava infatti, per Spencer, un grado
crescente di autonomia per l'individuo nei confronti dello Stato. A
differenza dell'evoluzione organica, quella superorganica procede
verso l'indipendenza delle parti dal tutto; procede attraverso la
sostituzione dei rapporti di scambio ai rapporti di dominio e di
subordinazione, verso la limitazione dei poteri dello Stato, verso
l'allargamento della sfera dell'iniziativa individuale, verso
istituzioni rappresentative in grado di esprimere la volontà dei
cittadini. Spencer perveniva così a identificare la società
industriale con il regime liberale-rappresentativo, denunciando
negli impedimenti frapposti all'individuo un tentativo di ritorno
all'indietro rispetto alla direzione del processo evolutivo. Anche
per lui, dunque, la sociologia assumeva una funzione politica; ma
questa non aveva nulla in comune con l'ideale sociocratico di Comte.
E la distanza da Comte era segnata soprattutto dall'abbandono della
nozione di società organica.
Certamente, anche per Spencer la società è un organismo, e il suo
sviluppo si lega a quello dell'organismo vivente; ma, a differenza
di questo, è un 'tutto discreto', costituito di parti indipendenti
che tendono ad accrescere la loro autonomia nel corso del processo
evolutivo. Perciò la linea del progresso non va verso una società
organizzata sotto la guida di un'autorità superiore, sia pure
dell'autorità del sapere, ma verso una società di individui che
devono cooperare liberamente in base all'interesse proprio e degli
altri. Considerata nelle sue implicazioni politiche, la sociologia
comtiana si proponeva come terza via tra restaurazione e
rivoluzione, negando il rapporto tra società industriale e
istituzioni liberali; la sociologia spenceriana si richiamava invece
alla tradizione del liberalismo e del liberismo inglese,
accentuandone anzi la carica individualistica.Ciò spiega perché la
teoria sociologica di Spencer, per quanto meno originale e gravata
dall'ipoteca di una metafisica evoluzionistica, abbia potuto avere
un successo assai maggiore di quella comtiana. In Francia il 1848
segnò la fine dell'illusione di una società fondata sulla
cooperazione spontanea tra le diverse classi, in grado di comporre
quello che Comte chiamava l'"antagonismo" tra imprenditori e
lavoratori; e la critica del comunismo formulata nel Système de
politique positive era troppo ingenua per poter essere presa sul
serio. Ma anche la teoria sociologica di Comte era destinata a una
rapida eclisse nella sua stessa patria.
L'interesse scientifico per la società prese ben presto altre
strade; si rivolse all'analisi statistica o all'inchiesta sociale,
proseguendo del resto una tradizione di studi che risaliva a
Condillac e alla "matematica sociale" di Condorcet. Più che
l'influenza di Comte, sullo sviluppo della sociologia incise quella
di Frédéric Le Play, autore di un'ampia indagine su Les ouvriers
européens (1855) e di un'opera come La réforme sociale en France
(1864), che era ben lungi dal condividere la fiducia positivistica
nel progresso. Invece la teoria di Spencer condizionò a lungo la
sociologia inglese, e trovò ampia risonanza anche negli Stati Uniti.
La prospettiva evoluzionistica è ben presente nella prima
generazione di sociologi americani, formatasi nella seconda metà del
secolo - quella di Lester F. Ward, di Franklin H. Giddings, di
Albion Small; e anche un'opera come Folkways di William G. Sumner
(1906), il testo classico del relativismo culturale, si avvale
largamente di strumenti concettuali desunti da Darwin.Ma già negli
ultimi decenni dell'Ottocento cominciava a venir meno il rapporto
con una concezione generale della storia (o, nel caso di Spencer,
dell'intera realtà), che aveva consentito alla scienza della società
di configurarsi come una scienza 'globale'. Nel 1887 Ferdinand
Tönnies - richiamandosi all'antitesi tra status e contratto,
proposta da Henry Sumner Maine in Ancient law (1861) - distingueva
tra comunità e società, mentre nel 1893, affrontando lo studio della
divisione del lavoro sociale, Émile Durkheim contrapponeva
solidarietà meccanica e solidarietà organica: due forme di
organizzazione o di solidarietà storicamente successive, ma anche
due tipi suscettibili di essere impiegati nell'analisi di società
concrete, per determinare la loro diversa struttura. Seppur legata
da molti fili alla propria origine positivistica, la sociologia
abbandonava la pretesa di costituire la scienza della società, per
delimitare un proprio campo di ricerca accanto ad altre scienze
sociali.
4. Positivismo e antropologia
Nel clima del positivismo evoluzionistico - ma
indipendentemente da Spencer e dal quadro di un'evoluzione cosmica -
è nata anche un'altra disciplina, l'antropologia, intesa non come
studio della struttura fisica dell'uomo e delle caratteristiche
delle varie 'razze' umane, ma come scienza dell'origine e dello
sviluppo della cultura umana, in particolare delle sue fasi
primitive. In realtà, l'interesse per i costumi dei popoli indigeni
delle terre assoggettate dai 'conquistatori' europei era di lunga
data, e aveva dato frutti cospicui nei secoli precedenti: basti
pensare ai resoconti dei missionari gesuiti in Messico o in
Paraguay, o a un'opera come i Moeurs des sauvages amériquaines di
Joseph-François Lafiteau, apparsa nel 1724. Questo interesse si era
poi esteso agli abitanti della Polinesia, in cui un filone della
cultura illuministica - emblematicamente rappresentato dal Voyage
autour du monde di Bougainville (1771) e dal Supplément di Diderot -
aveva visto un esempio felice di libertà sessuale. Più recente è
stato invece lo studio degli aborigeni della Melanesia o
dell'Australia, intrapreso sistematicamente soltanto a fine
Ottocento.
Da parte sua la cultura romantica era andata, sulla traccia di
Herder, alla scoperta dei primordi dei popoli europei, in
particolare di quelli germanici, e della loro letteratura. Verso la
metà del secolo si disponeva ormai di una massa consistente di
documentazione relativa sia ai costumi dei popoli extraeuropei sia a
quelli degli antichi Germani o dei popoli barbari che si erano
insediati in Occidente durante il declino dell'Impero romano; e un
etnologo come Gustav Klemm poteva tentare l'impresa di scrivere una
Allgemeine Cultur-Geschichte der Menschheit (1843) e poi addirittura
una Allgemeine Culturwissenschaft (1854).
L'antropologia riprendeva quindi lo studio delle origini
dell'umanità, ma lo collegava a un progetto di più ampio respiro,
quello di determinare le tappe che hanno condotto dalla società
primitiva alla civiltà. Nel far ciò essa accoglieva dal pensiero
illuministico la partizione dello sviluppo dell'umanità in tre fasi
fondamentali - lo stato selvaggio, la barbarie, la civiltà -
concentrando la propria attenzione sulla prima di esse, sulla
condizione originaria della vita umana. Da Voltaire a Condorcet, da
Montesquieu a Ferguson, il pensiero illuministico si era occupato
assai più del cammino della civiltà in epoca storica che non delle
epoche che l'avevano preceduta; e l'immagine dello 'stato selvaggio'
che esso offriva era piuttosto elementare. Lo stesso Herder,
nell'esaltare i costumi dei popoli dell'Oriente antico, si era
avvalso del racconto biblico assai più che dei dati storici già
allora disponibili. L'antropologia intendeva appunto colmare questa
lacuna, percorrendo un cammino in certo qual modo inverso a quello
della sociologia, che era partita da un'interpretazione della
società moderna e della sua struttura industriale. Non si trattava
però di una semplice integrazione del quadro illuministico dello
sviluppo dell'umanità: l'antropologia sorgeva da una svolta
concettuale, dal riconoscimento del valore culturale dei modi di
vita anche dei popoli 'selvaggi'.
La cultura non è un prodotto della civiltà, ma una dimensione
originaria della vita dell'umanità che procede, e progredisce,
insieme a essa: ciò consente appunto di parlare, come faceva Edward
Burnett Tylor nel 1871, di "cultura primitiva" (così suona il titolo
della sua opera principale). L'antropologia nasceva quindi come
antropologia culturale.Questo riconoscimento comportava però, al
tempo stesso, un mutamento del concetto di cultura, l'abbandono di
una nozione che ne limitava l'ambito alle manifestazioni 'superiori'
della vita umana distinguendole, al tempo stesso, dalla sfera
politica o da quella economica, e il passaggio a una nozione più
ampia, suscettibile di essere impiegata nella ricerca etnografica
(come aveva del resto già fatto Klemm). La cultura veniva così a
comprendere - secondo la definizione datane da Tylor in apertura di
Primitive culture - "la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale,
il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine
acquisita dall'uomo come membro di una società". In questo senso,
dunque, ogni società è portatrice di cultura, e i suoi membri
partecipano a essa in virtù di un processo di acquisizione. Proprio
quest'ultima caratteristica permetteva di far valere l'autonomia
della nuova disciplina nei confronti di una considerazione dell'uomo
in termini puramente biologici: la cultura si trasmette da una
generazione all'altra non per via ereditaria, ma in virtù
dell'apprendimento.Per Tylor la cultura primitiva si presentava in
maniera uniforme presso tutti i popoli, cosicché essa poteva venir
considerata uno stadio a sé dell'evoluzione dell'umanità. Essa
poggia infatti sulla fede negli spiriti, su una visione della natura
che nei fenomeni scorge il risultato dell'azione di esseri
soprannaturali. In conformità alla caratterizzazione che Comte aveva
dato dello stato teologico, Tylor rintracciava nella cultura
primitiva un passaggio graduale dall'animismo al politeismo, e
quindi al monoteismo, che veniva a coincidere con la transizione
dalla magia alla religione; mentre lo sviluppo ulteriore verso una
forma non primitiva di cultura si configurava come transizione dalla
religione alla scienza.
Tra le diverse fasi dell'evoluzione dell'umanità vi è quindi un
rapporto di continuità, e le epoche precedenti lasciano una traccia
in quelle successive, sotto forma di "sopravvivenze": proprio lo
studio di queste consente all'antropologia di risalire all'indietro,
ricostruendo una cultura remota com'è quella primitiva.Quello di
Tylor e, in generale, dell'antropologia sorta in clima positivistico
era uno schema di evoluzione unilineare, applicabile a qualsiasi
popolo. A questa prospettiva recava un supporto la ricostruzione del
periodo arcaico della storia greca e romana, che metteva capo con
Johann Jakob Bachofen alla tesi di un matriarcato originario, dal
quale sarebbe derivata l'organizzazione patriarcale, e con
Numa-Denis Fustel de Coulanges all'analisi della città antica
considerata nei suoi fondamenti religiosi. Ne derivava
l'equiparazione tra l'organizzazione sociale (e la cultura) dei
popoli europei al momento del trapasso dalla preistoria alla storia
e quella delle tribù americane o australiane, con la possibilità di
impiegare i documenti storici sul mondo antico per la comprensione
dei costumi indigeni e di utilizzare le conoscenze etnografiche a
integrazione delle fonti storiche sul mondo greco e romano.
Se le fasi percorse dall'umanità nel suo sviluppo sono identiche, la
differenza tra popoli europei e tribù americane o australiane si
riduce al fatto che queste si trovano ancor oggi a uno stadio
evolutivo che quelli si erano lasciati dietro da oltre due millenni:
non il processo, ma la sua velocità, diventava l'unico criterio
differenziante.Questa prospettiva è alla base del prodotto più
maturo dell'antropologia ottocentesca, Ancient society di Lewis
Henry Morgan (1877). Morgan riprendeva la tripartizione tra stato
selvaggio, barbarie e civiltà, e l'articolava distinguendo,
all'interno delle due prime condizioni di vita dell'umanità, uno
stadio inferiore, uno stadio intermedio e uno stadio superiore: in
questo quadro trovava posto non soltanto lo sviluppo delle tecniche
produttive, ma anche quello delle istituzioni di governo e delle
forme di famiglia, nonché delle strutture della proprietà. Il punto
di partenza era la distinzione tra due sistemi di organizzazione
sociale storicamente successivi, l'uno fondato sui rapporti di
parentela e l'altro sul territorio. Il primo di questi, il sistema
gentilizio, si è venuto evolvendo attraverso i tre momenti della
gens, della fratria e della tribù, fino allo stadio più elevato
della confederazione di tribù. Esso si ritrova in tutto il mondo,
non soltanto nel continente americano o in quello oceanico ma anche
nell'antica Grecia. Il secondo sistema, quello propriamente
politico, si è affermato con il sorgere della vita cittadina, e
comporta un nuovo criterio di appartenenza determinato su base
territoriale: esso nasce con la polis e in stretto rapporto con
l'istituto della proprietà, trasmettendosi quindi dal mondo antico
alla società moderna.
A questo sviluppo fa riscontro la successione delle forme di
famiglia: la famiglia consanguinea, la famiglia panalua, la famiglia
sindasmiana, la famiglia patriarcale, e da ultimo la famiglia
monogamica. Se il processo evolutivo delle istituzioni di governo ha
il suo centro di gravità nel passaggio dal sistema gentilizio al
sistema politico, quello dell'organizzazione familiare è
caratterizzato dal passaggio dalla discendenza matrilineare alla
discendenza patrilineare, che è a fondamento della famiglia
monogamica. Con il sistema politico su base territoriale e con la
famiglia monogamica l'umanità compie il passo decisivo verso la
civiltà: un passo relativamente tardo, tuttora limitato al mondo
mediorientale ed europeo.Rintracciando nel periodo arcaico della
storia greca e romana istituzioni di governo e forme di
organizzazione familiare non dissimili da quelle degli altri popoli,
Morgan poteva qualificarlo in termini se non di società selvaggia,
almeno di barbarie: lo spartiacque con la civiltà cessava di essere
determinato su base rigidamente geografica. Anche gli altri popoli
sono infatti destinati a compiere il medesimo cammino, ad approdare
cioè alla civiltà. La differenza consiste soltanto nel diverso ritmo
del processo, più rapido in Grecia e a Roma (ma anche nei popoli
dell'antico Oriente), più lento altrove.
L'antropologia rivelava così la propria carica dirompente nei
confronti dell'atteggiamento etnocentrico della cultura europea. Ma
questo rispuntava nella conclusione di Morgan, secondo cui la
famiglia dei popoli ariani - essendo pervenuta alla civiltà senza
aiuto esterno, anche se in virtù di circostanze accidentali -
rappresenta "la corrente centrale del progresso umano".Tale
conclusione era, del resto, coerente con il modello di un'evoluzione
unilineare che aveva il suo culmine nella civiltà
europeo-occidentale. Ma proprio quel modello era destinato ben
presto a cadere. Anche se la prospettiva evoluzionistica andrà
incontro a una ripresa a partire dagli anni trenta del Novecento,
già all'inizio del secolo si faceva valere - e proprio
nell'antropologia statunitense, con Franz Boas e i suoi allievi - il
riconoscimento dell'individualità di ogni cultura, e quindi
l'esigenza di determinarne la struttura peculiare. Lo studio
dell'evoluzione della cultura umana cedeva il posto allo studio
delle singole 'culture', della loro storia e dei loro rapporti. Dopo
la sociologia, anche l'antropologia si svincolava dal legame
originario con il positivismo.
5. Dall'unità del metodo all'unità del linguaggio
scientifico
Già Comte aveva affermato l'unità del metodo scientifico per
tutte le scienze, assegnando alla filosofia il duplice compito di
determinarne i principî comuni e di costruire un'enciclopedia delle
scienze, sul modello non tanto dell'Encyclopédie settecentesca
quanto piuttosto di Bacone.
Questa impostazione fu ripresa pochi anni dopo da John Stuart Mill nel System of logic, ratiocinative and inductive (1843), attraverso il richiamo diretto alla tradizione empiristica inglese. Al pari di Comte, anche Mill riteneva che la scienza dovesse muovere dall'osservazione dei fatti per pervenire alla formulazione di leggi generali; ma nel suo procedere vedeva un intreccio di metodo induttivo e di metodo deduttivo, il primo rivolto a stabilire uniformità di comportamento sulla base dei fatti osservati, e l'altro a trarre conclusioni logicamente coerenti sulla base di tali uniformità. La struttura unitaria della scienza non impediva quindi che, nelle singole discipline, i due metodi fossero presenti con peso diverso, ed eventualmente anche in maniera esclusiva.Mill condivideva la diagnosi dell'arretratezza della scienza della società, e più in generale della scienza dell'uomo, rispetto agli altri settori della scienza; e anch'egli la imputava, al pari di Comte, alla maggiore complessità del suo oggetto. Ma respingeva il dogmatismo comtiano, e in particolare la riduzione del sistema del sapere positivo alla successione di cinque scienze fondamentali, dall'astronomia alla sociologia.
La stessa scienza
della società non esaurisce, per Mill, lo studio scientifico
dell'uomo. Accanto alla scienza della natura fisica dell'uomo, e in
posizione intermedia tra di essa e la scienza della società, Mill
poneva infatti due altre scienze: la psicologia, che determina su
base sperimentale le leggi del funzionamento della mente, e
l'etologia, che procede invece su base deduttiva a determinare le
leggi del carattere. La scienza della società era perciò definita
come "la scienza delle azioni delle masse collettive dell'umanità e
dei vari fenomeni che costituiscono la vita associata". Essa muove
dallo studio del comportamento individuale, cercando le cause dei
fenomeni sociali nell'azione degli individui che compongono la
società, e le leggi a cui perviene sono il risultato delle leggi dei
suoi elementi costitutivi. Non soltanto Mill lasciava quindi cadere
il modello di società organica, di cui Saint-Simon e Comte si erano
avvalsi per elaborare una spiegazione globale della società e del
suo sviluppo, ma limitava la capacità esplicativa della scienza
della società considerandola, al pari dell'etologia, una semplice
"scienza di tendenze".
Analogamente, egli riconosceva che la scienza della società si
articola in una pluralità di discipline, tra le quali particolare
rilievo assume l'economia politica, di cui Comte aveva invece negato
la legittimità, e a cui Mill dedicherà un'apposita trattazione nei
Principles of political economy (1848). Lungi dal rappresentare una
scienza 'globale', la sociologia si presentava come un insieme di
discipline che finiva per comprendere, attraverso lo studio dei
caratteri nazionali, anche la storia - e non a caso egli si riferirà
positivamente, in seguito, al tentativo di determinare le leggi
della storia compiuto da Thomas Buckle nella History of civilization
in England (1857-1861).
L'abbandono della concezione della sociologia come scienza 'globale'
dell'uomo e della società corrispondeva, del resto, a un diverso
modo di intendere l'unità della scienza. Per Comte il sapere
positivo doveva realizzarsi come unità sistematica di tutte le
scienze e dei rispettivi sistemi di leggi; per Mill l'unità della
scienza poteva riguardare soltanto il suo metodo. In questa veste il
positivismo, con il rifiuto della metafisica che esso comportava,
diventò la filosofia di gran parte degli scienziati ottocenteschi,
anche degli scienziati sociali. Mentre la teoria della società
industriale cedeva il passo a una visione conflittuale della società
moderna, mentre la concezione della storia come progresso
irreversibile verso un assetto sociale fondato sul sapere positivo
era destinata a declinare dinanzi ai fenomeni non governabili della
società di massa, la convinzione dell'unità della scienza e del suo
metodo si affermò largamente, anche quando lo storicismo
contemporaneo fece valere - in polemica con Comte e con Mill - la
contrapposizione epistemologica tra scienze della natura e scienze
dello spirito (o della cultura). Ed essa fu recepita, all'indomani
della prima guerra mondiale, dal Circolo di Vienna e dal movimento
per l'unità della scienza.
Su questa base si costituì il movimento neopositivistico, che nella capitale austriaca ebbe il suo primo centro, per diffondersi ben presto a Berlino e a Praga e per trasmigrare in seguito, verso la fine degli anni trenta, negli Stati Uniti. Il 'manifesto' del Circolo di Vienna, pubblicato nel 1929 con il titolo Wissenschaftliche Weltauffassung, enunciava il programma di unificazione della scienza, da realizzarsi attraverso la riduzione di ogni concetto ad altri concetti più elementari, fino al livello dei concetti che si riferiscono direttamente al dato empirico. Il terreno su cui tale unificazione doveva compiersi era quello linguistico: si trattava cioè di individuare un linguaggio comune a tutte le discipline scientifiche, che potesse garantire non soltanto la loro integrazione, ma anche la traducibilità delle proposizioni di una scienza in quelle di un'altra.
Questa prospettiva - estranea invero a Moritz Schlick, che del Circolo di Vienna fu l'esponente più significativo, così come agli esponenti degli altri circoli neopositivistici - venne sviluppata soprattutto da Otto Neurath e da Rudolf Carnap. Per entrambi il problema dell'unità della scienza poteva essere risolto soltanto attraverso la costruzione di un linguaggio unificato, riportando gli enunciati di tutte le discipline scientifiche (a eccezione di quelle 'tautologiche' come la matematica) a enunciati osservativi che denotino eventi spazio-temporali. Neurath ne indicava il modello nel linguaggio della fisica, e si faceva così propugnatore di un programma "fisicalistico". Carnap condivideva questa impostazione, e anzi tendeva a dare una versione più 'forte' del principio di riduzione, sostenendo che le proposizioni di tutte le scienze dovevano essere ridotte ai termini di un linguaggio fondamentale, che era poi il linguaggio "cosale" della fisica, cioè il linguaggio impiegato per parlare delle cose osservabili che ci circondano. Anzi, egli non escludeva la possibilità di ricondurre integralmente, in un futuro più o meno lontano, le leggi delle altre scienze a quelle della fisica.
Questo programma veniva fatto valere da Neurath anche in
riferimento alla sociologia - e ciò in aperta polemica nei confronti
di Dilthey e della sua concezione delle scienze dello spirito. Nel
volume Empirische Soziologie (1931) egli affermava che le leggi
sociologiche devono venir formulate nel linguaggio della fisica, in
quanto i suoi fenomeni possono essere riportati al comportamento dei
singoli individui e dei gruppi che essi costituiscono, cioè a
fenomeni osservabili al pari di quelli che sono oggetto delle altre
scienze. In sociologia, come pure in psicologia, il comportamentismo
era il corollario della tesi fisicalistica. Non per questo,
tuttavia, Neurath pretendeva che le leggi della fisica fossero
trasferibili al dominio degli esseri viventi o degli individui
umani: pur essendo formulabili in termini spazio-temporali, le leggi
sociologiche mantengono una loro specificità.
Anche in seguito egli respingerà l'idea di una gerarchia delle
scienze poggiante sulla fisica; ma l'unità della scienza tenderà ad
assumere anche una portata contenutistica. Nel saggio Foundations of
social sciences (1944), pubblicato nel secondo volume della
Encyclopedia of unified science, Neurath perveniva infatti a
concepire le diverse scienze come parti di un'unica scienza, che si
presentava come "storia cosmica onnicomprensiva". Se il positivismo
ottocentesco ha dato un contributo decisivo al processo di
costituzione delle scienze sociali, non si può certamente dire
altrettanto del movimento neopositivistico. E il programma della
'scienza unificata' ebbe scarsa influenza sullo sviluppo di queste
discipline, impegnate piuttosto - intorno alla metà del secolo - a
definire in maniera autonoma il proprio apparato metodologico. Lo
stesso legame tra neopositivismo e comportamentismo, che si trova
nell'opera di Neurath (e di Carnap), è da intendersi non tanto come
un processo di convergenza, quanto come ricezione delle tesi
comportamentistiche all'interno di un progetto di traduzione del
linguaggio delle scienze sociali in termini "fisicalistici". Anche
l'affinità talvolta asserita tra il programma neopositivistico e
quello di una teoria generale dell'azione sociale, formulato da
Talcott Parsons nel Social system (1951), che indicava nella
psicologia, nella sociologia e nell'antropologia culturale le tre
scienze sociali di base, assegnando a esse come oggetto
rispettivamente il sistema della personalità, il sistema sociale e
il sistema della cultura, risulta troppo generica per essere
probante.
Altri erano - e altri ancora saranno - gli indirizzi filosofici con
cui le scienze sociali sono entrate in rapporto: dal pragmatismo
alla fenomenologia, dal funzionalismo allo strutturalismo, dal
marxismo alla teoria critica della società, e più di recente
all'ermeneutica. Dal neopositivismo le scienze sociali hanno tratto,
tutt'al più, una lezione di rigore metodologico, che si coniugava
con l'appello a un'indagine empirica priva di presupposti
metafisici. Ma questa lezione poteva essere accolta proprio in
quanto s'innestava su esigenze che si erano già venute affermando
all'interno dei diversi settori disciplinari.