Neopositivismo

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Movimento filosofico (anche detto positivismo logico, neoempirismo, empirismo logico) sorto, sviluppatosi ed esauritosi tra il terzo e il sesto decennio del 20° secolo.

1. I primi sviluppi

La data di nascita formale del n. è il 1928, allorché un gruppo di studiosi di varie discipline – filosofia, fisica, logica, matematica, sociologia, psicologia – si raccolse nel Verein Ernst Mach, poi detto Wiener Kreis ( Vienna), con lo scopo di diffondere una «visione scientifica del mondo», unificando l’intera conoscenza sotto l’egida delle scienze empiriche. Membri di spicco del circolo viennese erano M. Schlick, R. Carnap, H. Feigl, O. Neurath, F. Waismann. Successivamente, mossi dai medesimi intenti, a essi si unirono gli esponenti della Gesellschaft für empirische Philosophie ( Berlino), tra i quali figuravano H. Reichenbach, C.G. Hempel, D. Hilbert, W. Köhler. La collaborazione tra i due gruppi (che ben presto si estese a studiosi di altre nazioni europee) portò alla nascita della rivista Erkenntnis e al progetto della International encyclopedia of unified science.

2. La filosofia neopositivista

Il richiamo del movimento è al positivismo ottocentesco, alla sua tesi del ruolo privilegiato ricoperto dalle scienze sperimentali nel processo di acquisizione di conoscenza, nonché alle sue istanze anti-metafisiche. La dizione ‘positivismo logico’ implica che l’attuazione del programma di rifondazione della conoscenza su basi empiriche doveva sfruttare gli strumenti messi a disposizione dai rivoluzionari sviluppi ottenuti nel campo della logica da G. Frege, B. Russell, A.N. Whitehead e, in seguito, dalla scuola logica polacca. Tale connubio tra positivismo e logica era reso possibile dalle tesi esposte da L. Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus (1922), una delle opere da cui il Circolo di Vienna ebbe a trarre grande stimolo teorico nonostante il suo autore rifiutasse recisamente di farne parte.

Nel Tractatus Wittgenstein sostiene infatti che le leggi della logica e della matematica sono tautologie, ossia proposizioni prive di contenuto fattuale ma vere in qualsiasi circostanza. Di qui un caposaldo del n.: la bipartizione di tutte le proposizioni significanti in analitiche, il cui valore di verità dipende dalla loro forma logica o dal significato dei termini componenti, e sintetiche, il cui valore di verità dipende dall’esperienza. Se dunque le prime acquisiscono un determinato significato per il fatto di fare parte di un certo linguaggio, le seconde, dovendo derivare il proprio significato dall’esperienza, pongono un problema per quanto riguarda la valutazione della loro sensatezza. Anche in questo caso la soluzione veniva offerta dal Tractatus, dove Wittgenstein presenta un’immagine della relazione tra linguaggio e mondo basata su un isomorfismo, sicché una proposizione ha senso quando la sua forma raffigura un fatto possibile, ed è vera quando questo fatto accade davvero.

Sfruttando tale indicazione e combinandola con l’idea che alla base dell’attività dello scienziato vi sono dei procedimenti induttivi, i neopositivisti formulavano il criterio empirico di significanza, secondo cui una proposizione ha significato se, e solo se, è verificabile, stabilendo quindi che il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica empirica, metodo in mancanza del quale la proposizione è priva di significato cognitivo. Con ciò la tradizionale opposizione positivistica alla metafisica trovava un criterio dirimente: una teoria metafisica non è falsa, bensì insensata da un punto di vista cognitivo; essa conserverebbe unicamente un significato emotivo.

3. Gli sviluppi

Cornice gnoseologica del n. era il fenomenismo: la verifica doveva partire dalle sensazioni. Non occorse molto, tuttavia, per rendersi conto dei problemi che il criterio faceva sorgere. Innanzitutto lo stesso riferimento alle sensazioni – le quali, a parità di esperienza, possono essere diverse per ciascun individuo e risultare quindi reciprocamente inesprimibili – non poteva non minare quel requisito di oggettività che ogni produzione scientifica è tenuta a osservare, pena lo scivolamento nella metafisica. In secondo luogo, il fatto che per le stesse leggi scientifiche non si possa ottenere una verifica completa, riguardando esse un’infinità di esperienze possibili, mise in luce l’eccessiva rigidità del criterio. Infine, veniva fatto notare come la proposizione con cui il criterio era espresso non fosse né sintetica né analitica, e quindi destinata a non far parte della sfera delle proposizioni ammesse dai neopositivisti come cognitivamente significanti.

Iniziò così una sorta di processo di liberalizzazione, scandito da fasi diverse, che condusse a formulare il criterio non più in termini di verificabilità, bensì in quelli di confermabilità: una proposizione è significante se è in accordo con l’esperienza, un accordo che, lungi dal determinare una verifica definitiva, porta a una sua conferma crescente (anche se, in caso di esperienze contrarie, revocabile) esprimibile in termini di probabilità. Veniva così garantita alle leggi scientifiche quella legittimità negata dal criterio originario: esse vengono confermate per via indiretta, ereditando significanza empirica dalle (infinite) proposizioni particolari da esse deducibili, almeno fino a quando queste ultime reggono alla prova dell’esperienza.

D’altra parte, circoscrivendo l’attenzione ai sistemi di proposizioni, come quelli che costituiscono le teorie scientifiche, si evitava di cadere nelle trappole della metafisica rimanendo all’interno del linguaggio. Importanza cruciale assumevano dunque le proposizioni di base, tramite le quali il linguaggio intero, sino alle proposizioni e ai termini più distanti dall’esperienza (quelli cosiddetti teorici), acquista significato. Esse (i ‘protocolli’, secondo la terminologia di Neurath) comprendevano nomi di enti e di proprietà osservabili e determinazioni spazio-temporali: termini e locuzioni del linguaggio stesso della fisica. Il fenomenismo degli esordi veniva così sostituito dal fisicalismo, il quale, concentrandosi sul linguaggio, mirava a offrire un modo più coerente per raggiungere lo scopo tradizionale dell’unità della conoscenza. In questo contesto si apriva la cosiddetta fase sintattica, in cui si dichiaravano oggetto di studio i segni linguistici e le regole della loro combinazione e trasformazione: tale studio doveva privilegiare la forma; la filosofia non doveva più parlare di enti, bensì di segni, se voleva evitare di sfociare nella metafisica.

Negli anni 1940 Carnap intravide la possibilità di sfruttare alcuni risultati ottenuti dal logico polacco A. Tarski per introdurre nell’analisi logica della scienza concetti come verità e denotazione, e dette inizio alla ‘fase semantica’. Essa non equivaleva però a una legittimazione dell’extra-linguistico (gli oggetti denotati) e perciò della metafisica, non nasceva da un modo determinato di risolvere le annose questioni della natura del mondo e del suo rapporto con il linguaggio: tali questioni venivano lasciate aperte, assumendo anzi un atteggiamento tollerante verso la molteplicità delle soluzioni proposte. Le nozioni semantiche di verità e riferimento erano piuttosto studiate in relazione ai sistemi logici con cui le teorie scientifiche venivano formalizzate, allo scopo di permettere un’analisi più efficace della loro capacità deduttiva.

Non tutti seguirono Carnap: tra i critici si segnalò Neurath, il quale continuava a considerare pericolosa la relazione semantica e proponeva una teoria della verità come coerenza stando alla quale, senza uscire dal linguaggio, il valore semantico di una proposizione è valutabile sulla base del suo accordo con le altre proposizioni accettate. Ben presto però lo spiccato senso autocritico che aveva sempre accompagnato lo sviluppo del movimento, unito agli attacchi sempre più pressanti provenienti dall’esterno, portò a un progressivo sfaldamento del neopositivismo. Il criterio empirico di significanza finì col perdere la sua ragion d’essere non appena ci si rese conto, in particolare con C.G. Hempel, che persino nella sua forma liberalizzata (quella espressa in termini di confermabilità) non risultava pienamente applicabile alle proposizioni distanti dall’esperienza, quelle cosiddette teoriche, frutto più della creatività dello scienziato che di un processo empirico di induzione: ogni tentativo di riduzione dei termini teorici a quelli osservativi era destinato all’insuccesso.

A vanificare anche tale ultima fase di liberalizzazione radicale contribuirono sia le ricerche di storia della scienza, le quali, trovato il loro spunto teorico nell’opera di T.S. Kuhn, mettevano in luce come l’effettivo comportamento degli scienziati nei più diversi contesti storico-culturali non rispondesse ai canoni di una scienza induttiva, sia le critiche mosse da W.V.O. Quine a ogni tentativo di definire il significato delle proposizioni nella loro individualità, indipendentemente da tutte le altre proposizioni del linguaggio. D’altra parte acquistavano sempre più seguito gli attacchi al metodo induttivo a opera di K.R. Popper, accompagnati anche da una rivalutazione delle teorie metafisiche col riconoscimento della loro utilità per la formulazione delle teorie scientifiche. Così il n., letteralmente, svaniva, assorbito dalla filosofia analitica che ne ereditava tanto l’interesse per il linguaggio quanto l’attenzione per la scienza.


Enciclopedia del Novecento (1979)

di Francesco Barone

Sommario: 1. Cenni storici. 2. Fonti e precedenti del neopositivismo. 3. Prima fase del neopositivismo: analisi logica del linguaggio e antimetafisica. 4. Prospettive etiche. 5. Sviluppi del neopositivismo: fisicalismo e scienza unificata. 6. Di là dal Wiener Kreis: nuovi apporti e sviluppi. 7. Conclusione. □ Bibliografia.

1. Cenni storici

Come tutte le etichette filosofiche, anche quella di ‛neopositivismo' (o, come pure si dice, di ‛positivismo logico' o ‛empirismo logico') è ambigua. Sotto di essa si spaccia talvolta non un prodotto determinato, bensì tutta una serie di prodotti filosofici del Novecento: cioè, in genere, le dottrine che hanno in comune un orientamento antimetafisico, la ripulsa dei procedimenti tradizionali del filosofare e la tendenza a valersi dell'analisi linguistica come metodo proprio della filosofia, atto a dissolvere gli pseudoproblemi in cui si ritiene che essa si sia spesso dibattuta. Si identifica così il neopositivismo con quella che è chiamata anche ‛filosofia analitica', mentre di questa il neopositivismo - a giudizio di molti tra gli stessi filosofi analitici - è solo un momento sia dal punto di vista concettuale sia dal punto di vista storico.
Si dovrà certo precisare meglio connessioni e differenze tra neopositivismo e filosofia analitica, mà va subito detto che con il termine ‛neopositivismo' si indica qui soltanto l'insieme delle concezioni sostenute da quei pensatori che, verso la fine degli anni venti, si presentarono sulla ribalta filosofica internazionale sotto l'insegna del Wiener Kreis (Circolo di Vienna) e da coloro che si ispirarono ad essi in senso stretto. L'arco di tempo preso in considerazione va quindi dal periodo tra le due guerre mondiali sino ad oggi: è ovvio che in oltre mezzo secolo il neopositivismo abbia avuto mutamenti anche profondi, pur conservando alcuni tratti caratteristici costanti; tanto più che anche nel suo momento iniziale esso non ebbe mai il carattere unitario di una scuola, sicché dall'esigenza comune di una ‛concezione scientifica del mondo' si sentivano accomunati pensatori di provenienza e di formazione assai diverse. Ad una caratterizzazione soddisfacente del neopositivismo si può quindi pervenire solo ripercorrendo le tappe storiche della sua affermazione.

Sin dal 1895 l'Università di Vienna aveva una cattedra per la filosofia delle scienze induttive: da essa avevano insegnato E. Mach, L. Boltzmann e A. Stöhr. L'interesse per una filosofia ‛scientifica' era stato dunque coltivato nella prospettiva empiriocriticista in stretta connessione con le scienze della natura; e ad esso era in genere favorevole l'ambiente viennese, in cui s'erano affermate certe tendenze empiristiche con Fr. Brentano o antimetafisiche con Th. Gomperz e F. Jodl. Quando nel 1922, alla cattedra ch'era stata di Mach, fu chiamato M. Schlick, questi si trovò quindi in un ambiente congeniale: a una salda preparazione filosofica egli univa, infatti, la conoscenza diretta della scienza e la familiarità con uomini quali Planck, Einstein e Hilbert. Ben presto si formò attorno a lui un gruppo di colleghi, amici e scolari, che costituirono il nucleo originario di quello che fu poi detto il Wiener Kreis. Dapprima i suoi studenti e collaboratori, tra cui F. Waismann e H. Feigl; poi, dal 1925, il gruppo si infoltì: i matematici H. Hahn e K. Reidemeister, il sociologo O. Neurath, il giurista F. Kaufmann, il filosofo V. Kraft. Alle discussioni del gruppo, tenute il giovedì sera, partecipava talvolta anche il fisico Ph. Frank, allora docente a Praga. Dal 1926, dopo la chiamata all'Università di Vienna, anche R. Carnap fece parte del gruppo che si andava sempre più infoltendo sia di aderenti (K. Gödel, T. Radakovic, G. Bergmann, M. Natkin, J. Schaechter, W. Hollitscher, R. Rand) sia di simpatizzanti non strettamente affiliati (K. Menger, E. Zilsel, K.R. Popper, H. Kelsen, L. von Bertalanffy, H. Gomperz, B. von Juhos). Nel 1928, sotto la presidenza di Schlick, fu fondato il Verein Ernst Mach, con l'intento di ‟favorire e diffondere una visione scientifica del mondo"; nel 1929, infine, fu pubblicato il 'manifesto' del Circolo, a cura di Carnap, Hahn e Neurath - Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis -, dedicato allo Schlick, che aveva rinunciato a una chiamata a Bonn.

Era questo l'atto di nascita del neopositivismo; e subito esso si impose all'attenzione pubblica: già nel settembre del 1929 il gruppo del Circolo di Vienna partecipò con una sua posizione autonoma alla sessione tenuta a Praga dalla Società tedesca di fisica e dall'Unione matematica tedesca; affiancarono i viennesi membri della Società per la filosofia empirica di Berlino. Tra essi vanno ricordati: H. Reichenbach, A. Herzberg, W. Dubislav, K. Grelling, K. Lewin, W. Köhler, C.G. Hempel. La Società berlinese aveva in comune con il Circolo di Vienna l'orientamento verso una filosofia scientifica: anch'essa, tramite la mediazione di J. Petzoldt, aveva sentito l'influsso dell'empiriocriticismo. La comunanza di intenti portò nel 1930 alla pubblicazione di un'unica rivista, diretta da Carnap e da Reichenbach, organo ufficiale del neopositivismo: gli ‟Annalen der Philosophie" (già diretti da Petzoldt) vennero ora continuati sotto il nome di ‟Erkenntnis". Così, il neopositivismo da movimento austriaco diventava fenomeno filosofico tedesco.

E ben presto assunse una rilevanza internazionale. Già tra i frequentatori del Wiener Kreis v'erano filosofi stranieri: senza contare il ‛berlinese' Hempel, sin dal 1927 aveva partecipato ai lavori il finlandese E. Kaila; poi lo svedese A. Petzäll, l'inglese A.J. Ayer, lo statunitense A. E. Blumberg. Nel 1930 i neopositivisti partecipano, sia pur senza molta risonanza, al settimo Congresso internazionale di filosofia ad Oxford. Ma ben presto richiamano l'attenzione sul loro programma e sui loro lavori: si susseguono le opere di due collane destinate a favorire la concezione scientifica del mondo e la scienza unitaria (‟Schriften zur wissenschaftlichen Weltauffassung", con contributi di von Mises, Carnap, Schlick, Frank, Popper, Kraft, e ‟Einheitswissenschaft", con contributi di Neurath, Carnap, von Mises, Frank), e si moltiplicano i congressi internazionali dedicati alla filosofia delle scienze. Nel 1930 a Königsberg (con la partecipazione di W. Heisenberg, J. von Neumann, A. Heyting) si discusse dei fondamenti della matematica e della meccanica quantistica; nel 1934 a Praga (ove dal 1931 insegnava anche Carnap) furono gettate le basi per il primo Congresso internazionale di filosofia scientifica, che fu tenuto l'anno dopo a Parigi. Russell e Enriques tennero i discorsi inaugurali ai partecipanti che venivano da più di venti paesi: si intrecciarono qui i rapporti tra il neopositivismo e la scuola polacca di logica (J. Łukasiewicz, A. Tarski, K. Ajdukiewicz) e tra neopositivismo e pragmatismo americano (E. Nagel, Ch. Morris). I successivi congressi di filosofia scientifica seguirono poi con ritmo annuale: nel 1936 a Copenhagen, nel 1937 ancora a Parigi (ove fu progettata l'International encyclopedia of unified science), nel 1938 a Cambridge in Inghilterra e nel 1939 a Cambridge negli Stati Uniti. Lo scoppio della seconda guerra mondiale poneva termine a questa vivacissima attività: ma il neopositivismo era ormai una corrente filosofica di estensione internazionale.

A questa diffusione corrispondeva, d'altra parte, la dissoluzione dell'originario Wiener Kreis: Feigl nel 1930 era andato negli Stati Uniti, Carnap nel 1931 a Praga e nel 1936 anch'egli in America; Hahn era morto nel 1934, e un clima di ostilità politica e culturale si diffondeva in Austria contro i neopositivisti, sia perché alcuni di essi erano ebrei, sia perché l'attività del Circolo era ritenuta ‛disgregatrice', sebbene le sue discussioni concernessero i fondamenti della logica e della matematica, la metodologia della conoscenza empirica, e solo incidentalmente toccassero la filosofia delle scienze sociali e dell'etica. In Austria si risentiva già del clima culturale dominante in Germania dal 1933, ove il nazismo aveva provocato la dispersione e l'esilio dei membri della Società berlinese. Nel 1936, a Vienna, Schlick fu assassinato da uno studente sulla soglia dell'Università; due anni dopo, l'Anschluss segnò la diaspora definitiva del Wiener Kreis: il commercio delle sue pubblicazioni fu proibito, il volume ottavo di ‟Erkenntnis" usci in Olanda (e non più a Lipsia) con il nuovo titolo di ‟The journal of unified science" (e cessò anche nella nuova veste nel 1940); ripararono all'estero i pochi membri che ancora erano rimasti: alcuni in Inghilterra, la più parte negli Stati Uniti.

Al termine della guerra, le tesi del neopositivismo furono quindi sviluppate in molti paesi, ma non più nell'ambito della cultura tedesca. Carnap, Reichenbach e Frank (per ricordare solo i maggiori tra i primi neopositivisti), proseguendo per molti anni la loro attività negli Stati Uniti, fecero di questo paese un centro del neopositivismo. A Chicago fu proseguita la pubblicazione (iniziata nel 1938) della International encyclopedia of unified science, e nel 1949 fu fondato a Boston, sotto la presidenza del Frank, l'Institute of the Unity of Science. Centri minori di interesse si ebbero anche nei paesi scandinavi e in Finlandia (con K. Marc-Wogau, J. Joergensen, G.H. von Wright), in Inghilterra (A.J. Ayer), in Italia (con gli studiosi appartenenti al Centro italiano di metodologia e analisi del linguaggio a Milano e al Centro di studi metodologici di Torino). L'efficacia del neopositivismo, del resto, è stata ed è presente ovunque sia vivo l'interesse per la metodologia e la filosofia della scienza, va notato, tuttavia, che tale interesse ha portato spesso a un rapporto essenzialmente critico con il neopositivismo: quindi, come non è esatto confondere questo con la filosofia analitica, è altrettanto opportuno distinguerlo dalla filosofia e metodologia della scienza in genere. Si possono far rientrare nel neopositivismo quelle forme di esse che sono rimaste in qualche modo fedeli alle tesi originarie della ‛concezione scientifica del mondo'.

2. Fonti e precedenti del neopositivismo

Per precisare tali tesi è bene partire dal lungo elenco di ‛precursori' indicato da Carnap, Hahn e Neurath nel già ricordato manifesto del 1929, Wissenschaftliche Weltauffassung. Tra gli empiristi e i positivisti sono ricordati, oltre a Hume, i filosofi dell'illuminismo, Comte, Mill, Avenarius e Mach; come filosofi della scienza: Helmholtz, Riemann, Mach, Poincaré, Enriques, Duhein, Boltzmann e Einstein; come logici e teorici dell'assiomatica: Leibniz, Peano, Frege, Schröder, Russell, Whitehead e Wittgenstein da un lato e, dall'altro, Pasch, Peano, Vailati, Pieri e Hilbert; come filosofi della morale e sociologi di orientamento positivistico: Epicuro, Hume, Bentham, Mill Comte, Spencer, Feuerbach, Marx. E un elenco non solo lungo ma anche vario, in cui sono accostati pensatori anche assai diversi; va tuttavia notato ch'essi sono per lo più considerati solo per un aspetto del loro pensiero: così, Einstein per le sue definizioni ‛operative' di concetti fisici, Leibniz per la sua logica e non certo per la metafisica, e Marx non per la logica, ma per la sua analisi scientifica della storia.

Se, di là dalle differenze anche profonde, si cerca un elemento comune a tutti questi ‛precursori', esso è facilmente individuabile nella valutazione positiva ch'essi davano - in maggiore o minor misura - dell'atteggiamento scientifico e dei suoi metodi. Incontriamo così un primo contrassegno caratteristico, forse il più importante, del neopositivismo. Quella valutazione positiva dei ‛precursori' è esaltata in esso sì da diventare attenzione e predilezione esclusiva per l'atteggiamento e i metodi della scienza: è l'unico atteggiamento, per i neopositivisti, che non indulga a interpretazioni mistiche, teologiche o metafisiche dell'esperienza, e che è anche destinato a subentrare ad esse, gradualmente, in ogni campo. Per tale aspetto il neopositivismo riprende non le argomentazioni, bensì il tono ‛scientistico' del positivismo ottocentesco; e l'insistenza quasi esclusiva sull'analisi del linguaggio scientifico ne precisa anche la collocazione nell'ambito più vasto della filosofia analitica.

Tra i pensatori sopra ricordati, Hume è certo quello che ha un orientamento globale più affine al neopositivismo: in primo luogo, perché fu fautore di una ‛scienza unificata' e cercò di portare nelle scienze dell'uomo lo stesso rigore ch'era stato già realizzato in alcuni settori della scienza della natura; e poi perché la celebre chiusa della Enquiry concerning human understanding potrebbe benissimo fungere da motto per il neopositivismo: ‟Se ci viene tra le mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni" (tr. it. in: Ricerche sull'intelletto umano e sui principi della morale, Bari 1957, p. 184). Hume, tuttavia, entrava solo indirettamente nella tradizione a cui si ispirarono i primi membri del Wiener Kreis. Sia nello spazio sia nel tempo erano assai più vicine ad essi altre fonti di ispirazione. Mentre in Hume erano strettamente congiunti la tendenza empinstica e l'apprezzamento per il carattere analitico delle ‛relazioni di idee', nel corso dell'Ottocento l'orientamento positivistico, in genere, non mantenne unificati questi due aspetti. Così la genesi del neopositivismo va individuata nel tentativo di cogliere i loro sviluppi più recenti e di rifonderli in una nuova prospettiva comune.

Per quanto riguarda l'aspetto empirico, fu assai forte sul Wiener Kreis l'influsso dell'empiriocriticismo del Mach, in cui si potevano scorgere addirittura anticipazioni di alcune svolte caratteristiche della scienza novecentesca. La metodologia del Mach, infatti, appariva assai adeguata ai caratteri della fisica del nuovo secolo, che aveva visto dapprima la svolta della teoria della relatività (ristretta e generale) di Einstein e poi l'affermarsi della meccanica quantistica; entrava così in crisi quella concezione ‛meccanicistica' della realtà che sembrava essere stata unita inscindibilmente alla fisica classica. Le tesi empiriocriticiste sulla condanna dell'a priori, sulla riduzione del significato di tutti i concetti alle sensazioni, sulla concezione economica anziché ontologica delle leggi naturali apparivano pienamente confermate dalla nuova fisica, di cui parecchi neopositivisti (per es., Schlick, Reichenbach, Frank) avevano conoscenza diretta. Il compito della fisica, conformemente al pensiero di Mach, risultava ora quello di ordinare sistematicamente le sensazioni e di fare inferimenti dalle sensazioni attuali a quelle da attendersi. Quest'orientamento metodologico, che i membri del Wiener Kreis facevano risalire a Mach, era del resto assai diffuso in quegli anni: nel 1927, per es., il fisico americano P.W. Bridgman pubblicava The logic of modern physics, in cui sviluppava la concezione operazionalistica della scienza, secondo cui i concetti della scienza empirica vanno formulati in termini di operazioni realizzabili, cioè dando criteteri di applicazione espressi mediante procedure osservative o sperimentali. In Bridgman, forse inconsapevolmente, agivano temi del pragmatismo (Peirce) e dello strumentalismo (Dewey): si spiega così il fatto che, nonostante l'indipendenza delle formulazioni originarie, vi sia poi stato un facile incontro tra neopositivismo e pragmatismo americano.

L'apprezzamento dell'empiriocriticismo non impediva tuttavia ai membri del Circolo di Vienna di scorgerne i limiti. Come precisò il Frank: ‟Il nostro gruppo approvava pienamente le tendenze antimetafisiche del Mach e ci associavamo di buon grado al suo empirismo radicale come punto di partenza; ma eravamo del tutto consci della funzione primaria della matematica e della logica nella struttura della scienza. E ci pareva che Mach non avesse riconosciuto pienamente questo aspetto della scienza" (v. Frank, 1949, p. 7). È a proposito di tale aspetto che nella costituzione del neopositivismo incidono gli sviluppi ottocenteschi e novecenteschi della matematica e della logica. L'universalità e la necessità (sia pur ipotetica) delle proposizioni matematiche ne rendevano insostenibile l'interpretazione empiristica sulle orme, per es., di J. Stuart Mill; d'altra parte, il sorgere delle geometrie non euclidee, gli sviluppi formali dell'algebra, l'assiomatizzazione delle teorie matematiche e la concezione di esse come sistemi ipotetico-deduttivi costituivano tali sviluppi delle scienze matematiche da mettere decisamente in crisi la concezione kantiana della matematica come conoscenza sintetica a priori fondata su intuizioni pure. Ciò che veniva messo in luce era invece l'aspetto analitico del discorso matematico, che poteva in tal modo rendere conto della sua universalità e necessità. Su tale rinnovamento della filosofia della matematica incideva, del resto, il quasi contemporaneo rinnovamento delle ricerche sulla logica formale, richiesto dalla stessa esigenza di revisione criticamente rigorosa di branche tradizionali della matematica o dalla costituzione di nuove branche di essa, come la teoria degli insiemi. E significativo il fatto, per es., che proprio dalle ricerche dei matematici inglesi di metà Ottocento sui fondamenti dell'algebra sia nata quell'‛algebra della logica' di G. Boole che segna la ripresa originale degli studi di logica. La familiarità di logica e matematica si venne sempre più accentuando, via via che attraverso la progressiva ‛aritmetizzazione' della matematica si sentì maggiormente l'esigenza di chiarire i fondamenti di essa e lo stesso concetto di numero. Con il Frege prima e poi con B. Russell, tale familiarità di logica e matematica venne addirittura interpretata, secondo la tesi ‛logicista', come riducibilità dei concetti elementari e delle proposizioni fondamentali della matematica ai concetti elementari e alle proposizioni fondamentali della logica formale, sia pur assai ampliata rispetto alla sillogistica tradizionale mediante l'elaborazione di una logica delle proposizioni e di una logica delle relazioni. I Principia mathematica, pubblicati dal Russell unitamente al Whitehead tra il 1910 e il 1913, costituirono la somma dei risultati di queste ricerche pluridecennali nel campo matematico e logico: ad essi il neopositivismo guardò come allo strumento più appropriato per superare i limiti dell'empiriocriticismo.

Gli studi logici del Russell (di cui si occuparono particolarmente Hahn e Carnap) non erano del resto il solo aspetto dell'opera del filosofo inglese che influisse sul Wiener Kreis. Sia pur attraverso le continue modificazioni apportate alla sua prospettiva filosofica nei primi due decenni del secolo, Russell aveva tuttavia mantenuto costante la preferenza per una filosofia scientifica, volta a chiarire le idee fondamentali della scienza e a sintetizzarne i risultati in una concezione unitaria: e questo orientamento era congeniale al neopositivismo. Inoltre, l'uso dei nuovi strumenti logici fatto dal Russell non solo sul terreno dei fondamenti della matematica, bensì su quello più ampio della filosofia in generale pareva indicare chiaramente la strada per una nuova conciliazione, più profonda di quella humeana, tra empirismo e razionalismo logico. Da Our knowledge of the external world (1914) a The philosophy of logical atomism (1918), Russell aveva cercato di mostrare come l'intero apparato concettuale della conoscenza e della scienza si potesse ridurre a un seguito di costruzioni logiche operate su una base elementare di eventi. Tuttavia, a una fusione totale di logica ed empirismo ostava in Russell una metafisica realistica - ch'egli attenuò senza mai abbandonare del tutto - a proposito della natura degli enti logici e matematici: inizialmente (nei Principles of mathematics) li concepì come un mondo di universali che doveva in qualche modo sussistere, nel senso del realismo scolastico, indipendentemente dai fatti sensibili. Nemmeno le critiche di L. Wittgenstein, di cui pur tenné conto nella seconda edizione dei Principia mathematica (1925-1927), lo portarono a rinunciare completamente a tale realismo.

Una rinuncia di questo tipo è invece al centro del Tractatus logico-philosophicus del Wittgenstein, uscito dapprima in tedesco, nel 1921, sugli ‟Annalen der Naturphilosophie" e l'anno seguente a Londra, con traduzione inglese a fronte e introduzione del Russell. E attraverso quest'opera che l'influsso del Russell sul Wiener Kreis ebbe una particolare mediazione. Il Tractatus era già stato abbozzato dal viennese Wittgenstein negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, allorché egli, che già aveva seguito gli studi di ingegneria, ascoltava a Cambridge le lezioni di Russell. Negli anni in cui si veniva costituendo attorno a Schlick il Circolo di Vienna, Wittgenstein era ritornato a vivere nella sua città natale, disinteressandosi tuttavia della filosofia, proprio mentre la sua opera accentrava sempre più l'attenzione (Hahn la discuteva nei suoi seminari matematici, Schlick la considerava il cardine della svolta in filosofia). Nel 1929, l'anno della costituzione ufficiale del Wiener Kreis, Wittgenstein tornò in Inghilterra, a Cambridge, subito dopo il risveglio del suo interesse per la filosofia provocato dall'ascolto di una conferenza del matematico intuizionista Brouwer. Questi dati indicano il rapporto assai singolare tra Wittgenstein e il Circolo di Vienna: benché le concezioni originarie di esso dipendano strettamente dal Tractatus, Wittgenstein non partecipò mai alla vita del Circolo; solo Schlick e Waismann erano in rapporti personali con lui, e soprattutto il secondo risentì fortemente delle nuove idee che Wittgenstein andava elaborando. La cosa più singolare, tuttavia, è che nel momento stesso in cui si costituiva il neopositivismo, Wittgenstein ripudiava alcune tra le tesi del Tractatus che rappresentano, per i membri del Wiener Kreis, proprio i precedenti più importanti del neopositivismo. Dopo il 1929, infatti, pur non pubblicando nulla, nel suo insegnamento a Cambridge, Wittgenstein avviava quelle nuove analisi che improntarono così profondamente l'odierna filosofia analitica inglese. I temi delle Philosophische Untersuchungen, pubblicate postume nel 1953, sono in evidente polemica con il Tractatus: rinuncia all'attenzione esclusiva per il linguaggio scientifico, al linguaggio logico ideale, a un criterio di significanza unilaterale. L'affinità tra questo nuovo orientamento analitico e il neopositivismo è reperibile soltanto nel comune interesse per il linguaggio e in un atteggiamento che può essere chiamato (v. Ayer, 1959, p. 8) ‛empirico' nel senso politico del termine, così come si dice che Burke fu un campione di ‛empirismo': nel senso, cioè, che si evitano le generalizzazioni e si moltiplicano ed esaminano attentamente esempi particolari.

Il tema principale del Tractatus è l'indagine sul linguaggio e sulla sua capacità rappresentativa del mondo. Le lingue storiche, con le loro grammatiche, sono per lo più un ostacolo alla comprensione della struttura logica che permette al linguaggio di essere significante: di qui nascono quegli pseudoproblemi in cui, per Wittgenstein, si dibattono per lo più i filosofi tradizionali. La capacità significativa del linguaggio dipende dal suo essere immagine del mondo: la configurazione dei segni semplici (nomi) nel segno proposizionale corrisponde alla configurazione degli oggetti nei fatti reali. Così, il significato di una proposizione è la sua capacità raffigurativa di fatti possibili; ciò implica l'esistenza di fatti semplici (fatti-atomi) cui corrispondono proposizioni assolutamente semplici (elementari o atomiche): se non ci fossero fatti-atomi, il significato di una proposizione dipenderebbe sempre da altre proposizioni, e non sarebbe possibile formarsi una immagine del mondo. L'intera costruzione del linguaggio significante poggia sulla base delle proposizioni atomiche: le proposizioni non elementari (molecolari) risultano dalla connessione di quelle atomiche mediante le costanti logiche, e sono funzioni di verità di esse, poiché la loro verità o falsità dipende solo dalla verità o falsità delle proposizioni elementari. La scienza - per ciò che concerne il suo contenuto fattuale - è l'insieme delle proposizioni atomiche e molecolari; le proposizioni logiche e matematiche, che pur fanno parte della scienza, non hanno tuttavia significato fattuale (sono sinnlos): esse sono analitiche (o tautologiche), in quanto mere trasformazioni di segni linguistici, la cui validità dipende solo dalla forma intrinseca dei segni Stessi. Il valore universale delle proposizioni matematiche è così non più legato a presupposti metafisici, bensì soltanto alla loro particolare natura linguistica. Al di fuori delle proposizioni significanti fattualmente e delle tautologie o equaziòni, non vi sono altre asserzioni significanti, ma solo connessioni insensate (unsinnig) di parole: in esse rientrano la maggior parte delle asserzioni filosofiche tradizionali. Per Wittgenstein la filosofia non è conoscenza, bensì attività di elucidazione delle strutture del linguaggio significante. Anzi, le stesse proposizioni del Tractatus, benché importanti per la loro funzione chiarificatrice, sono unsinnig: la struttura del linguaggio, significante in virtù del suo isomorfismo con la struttura del mondo, può essere solo ‛mostrata', perché il ‛dirla' comporterebbe l'assurdità di uscir fuori dal linguaggio. Così il Tractatus si chiude con una nota mistica: ‟Sopra ciò di cui non si può parlare bisogna tacere" (v. Wittgenstein, 1922, prop. 7).

3. Prima fase del neopositivismo: analisi logica del linguaggio e antimetafisica

Il Tractatus è un libro difficile, di ardua lettura, come mostra la gran quantità di interpretazioni che di esso sono state date recentemente, tenendo conto anche del pensiero del secondo Wittgenstein. Forse gli interessi di fondo di questo filosofo furono diversi da quelli attribuitigli sia dai neopositivisti sia dai filosofi analitici. Pare ormai accertato, per quanto riguarda il Tractatus, che l'interesse di Wittgenstein per ciò che è dicibile, per il fatto ‛rappresentabile', non sia affatto determinato dalla convinzione che solo il dicibile è importante (come inclinò a credere l'interpretazione scientistica del neopositivismo), bensì dalla convinzione contraria - risalente ai temi mistici di uno Schopenhauer, di un Kierkegaard e di un Tolstoj - che l'importante è l'indicibile, il valore, che può essere mostrato ma non detto, e che meglio appare attraverso la delineazione dei caratteri e dei limiti del dicibile, cioè della scienza. Ma il Tractatus divenne famoso attraverso la ‛lettura' fattane dai neopositivisti, anche se essa non è sempre palesemente fedele. Non è agevole determinare, per es., che cosa siano gli ‛oggetti' e i ‛fatti' di cui si parla nel Tractatus. Vi sono motivi per intenderli in senso fenomenistico come percezioni e situazioni percettive (e in tal senso pare orientata anche la nota Some remarks on logicam form, del 1929, l'unico scritto pubblicato dal Wittgenstein dopo il Tractatus); ma vi sono anche motivi che ostano a tale interpretazione. Sta di fatto, tuttavia, che questa fu l'interpretazione data nel Wiener Kreis e che ebbe un peso storico nella costituzione del neopositivismo. Il Tractatus parve così il catalizzatore che permetteva la nuova sintesi dell'empirismo radicale e del razionalismo postulato dalla matematica: se l'universalità del discorso logico-matematico consiste nella sua tautologicità che nulla dice del mondo, la base contenutiva del discorso significante è costituita dalle percezioni immediatamente esperite (Erlebnisse) o da ciò che è riportabile ad esse.

La sintesi wittgensteiniana (nell'interpretazione neopositivistica) apriva del resto una nuova via per la riaffermazione di quei temi scientistici che il neopositivismo ereditava dal positivismo ottocentesco: la via dell'indagine linguistica, della chiarificazione delle capacità significative del linguaggio. La polemica contro le pretese della filosofia a costituirsi come ‛scienza' (o di un campo metaempirico di oggetti o come superscienza dei metodi e dei fondamenti delle scienze particolari) poteva ora essere condotta non più mediante la dimostrazione della falsità delle tesi filosofiche, bensì attraverso l'indicazione della loro mancanza di senso. Se l'analisi linguistica mostra che i criteri di significanza del linguaggio della scienza sono gli unici criteri linguistici possibili, il trionfo della wissenschaftliche Weltauffassung è garantito, poiché sono proprio quei criteri di significanza che mettono al bando le pretese della filosofia.

Le formulazioni originarie del neopositivismo secondo questa prospettiva sono opera dello Schlick e del Carnap. Schlick, che già prima della sua chiamata a Vienna s'era distinto per i suoi studi sulla teoria della relatività e per l'impianto empiristico (polemico col neocriticismo) del problema della conoscenza (è del 1918 la sua Allgemeine Erkenntnislehre), trova nelle analisi linguistiche wittgensteiniane lo strumento per una nuova formulazione della sua concezione. La distinzione ch'egli già aveva introdotto tra l'esperire (Erleben) e il conoscere (Erkennen), tra l'esperienza vissuta immediatamente e la conoscenza, di valore intersoggettivo, che sorge quando a tale esperienza si coordinino le strutture simboliche delle scienze deduttive, è ripresa nei termini di analisi del linguaggio, poiché caratteri e limiti della conoscenza sono indicati dalla natura stessa della sua espressione linguistica. Gli elementi del linguaggio sono le proposizioni-atomo che rispecchiano i dati immediati, e le connessioni logiche di tali elementi danno l'intera struttura del linguaggio significante, che è quello della scienza. Indicare le condizioni in cui una proposizione è vera è lo stesso che indicarne il significato; e tali condizioni sono riscontrate nei dati di senso, che determinano quindi il significato di qualsiasi enunciato. ‟Il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica" (v. Schlick, 1938, p. 340), così suona il celebre ‛criterio empirico di significanza', che fu il tema centrale della prima fase del Wiener Kreis.

In numerosi saggi composti tra il 1926 e il 1936 (e poi raccolti da F. Waismann nel 1938 nei Gesammelte Aufsätze), lo Schlick si valse di tale impianto di pensiero per un'acuta discussione di alcune importanti questioni di metodologia scientifica: per es., la considerazione della relazione causale come possibilità di predizione di eventi e la critica alle interpretazioni spiritualistiche della meccanica quantistica. Ma la sua attenzione fu soprattutto rivolta ad una critica delle proposizioni ‛metafisiche' o, in genere, filosofiche, poiché, secondo il criterio empirico di significanza, o esse sono riportabili a proposizioni scientifiche o sono prive di senso. Del primo tipo, per es., sono per Schlick le questioni relative all'immortalità dell'anima: anche se nelle condizioni attuali non è verificabile di fatto nessuna delle soluzioni proposte, tuttavia sono pensabili le esperienze che si potrebbero avere se una di esse fosse vera. Il criterio empirico di significanza richiede la verificabilità in linea di principio e non la verificazione effettiva. Ben diversa è invece la situazione per le asserzioni di un realista o di un soggettivista circa la trascendenza o non trascendenza del mondo rispetto all'atto di conoscenza: in nessun caso sono indicabili le condizioni che renderebbero verificabile la tesi della trascendenza o dell'immanenza; dunque, entrambe le tesi sono prive di senso. La filosofia, quindi, anche per Schlick, non è un sistema di conoscenze, ma di atti, che mostrano il rapporto proiettivo che sussiste tra realtà e linguaggio.

È soprattutto nella sua veste antimetafisica che il neopositivismo si impose dapprima all'attenzione internazionale, anche perché pure il Carnap insisteva su questi temi. In Der logische Aufbau der Welt (1928) egli mira a dare la ricostruzione dell'intero dominio dei concetti conoscitivi, ‛costituendoli' in un ordine graduale come classi di proprietà e relazioni, il cui significato è garantito dai dati dell'esperienza immediata personale. Maggior risonanza ebbero tuttavia due suoi scritti che costituiscono la pars destruens di questi tentativi di analisi rigorosa del linguaggio scientifico: Scheinprobleme in der Philosophie (1928) e Ueberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache (1931). Superare la metafisica mediante l'analisi logica della lingua vuol dire individuare i modi con cui si costruiscono le pseudoproposizioni metafisiche: o usando parole che non hanno significato empirico o connettendo parole singolarmente significanti in modo non conforme alla grammatica stabilita dal criterio empirico di significanza. Un esempio del primo tipo è parlare del ‛principio dell'essere', e uno del secondo usare il termine ‛nulla' come sostantivo, al modo di Heidegger, mentre la grammatica del linguaggio significante consente l'uso di ‛nulla' solo nella costruzione di proposizioni negative (‛fuori non vi è nulla', per es., equivale a ‛non c'è un x e x è fuori'). L'importanza che si attribuisce alle pseudoproposizioni filosofiche dipende per Carnap dal fatto che si ritiene siano asserzioni significanti quelle connessioni di parole che esprimono soltanto un sentimento vitale o stati affettivi ed emotivi. La metafisica è per lui un surrogato inadeguato dell'arte e i metafisici sono come ‟musicisti senza dono musicale". Il rasoio di Occam del criterio di significanza taglia così altri rami dell'albero tradizionale della filosofia: eliminata la pretesa di fare asserzioni filosofiche di portata conoscitiva, si esclude ora che la filosofia possa costituirsi come qualcosa di autonomo (di là dall'analisi logica del linguaggio scientifico) rifugiandosi nel campo dei ‛giudizi di valore'. Quelli che così si chiamano non sono, per Carnap, né giudizi né proposizioni, ma mere manifestazioni sentimentali.

4. Prospettive etiche

Nell'ambito del Wiener Kreis, anche da parte dello stesso Carnap, non si insistette tuttavia molto nell'indagine sui cosiddetti ‛giudizi di valore'. L'interesse dei più verteva infatti sulle scienze della natura e non sulle ‛scienze umane'; e anche chi, come il Neurath, coltivava studi sociologici, partiva dal presupposto che i procedimenti logici della scienza sono sempre gli stessi, quali che siano i suoi oggetti. La complessità degli oggetti delle scienze umane può rendere più difficile in esse la costituzione dileggi e di previsioni, ma la validità delle loro asserzioni, così come quella delle asserzioni delle scienze naturali, dipende dal criterio empirico di significanza. La scienza è unitaria. Il problema dei giudizi di valore non concerne quindi in generale le scienze umane, bensì soltanto l'etica. Ed a questo campo soltanto lo Schlick, tra i membri del Circolo di Vienna, dedicò un'opera: le Fragen der Ethik (1930). In essa c'è un senso gioioso della vita e delle manifestazioni più alte di essa: la contemplazione estetica e conoscitiva, la realizzazione della personalità in rapporti umani che non siano semplicemente strumentali, la serenità e l'entusiasmo che fanno apprezzare, come in un gioco, tutte le espressioni dell'esistere. Ma la giustificazione di questo atteggiamento è da Schlick ricercata mediante una teoria che vuoi essere scientifica. Egli fa dell'etica, come gli empiristi inglesi, una scienza di fatti, qualcosa che è fondata sull'utilità sociale, a cui gli istinti individuali sempre più si adeguano evolvendosi, poiché, secondo lui, è provato sperimentalmente che sono gli impulsi sociali quelli che meglio assicurano ai loro portatori una vita gioiosa. Un'etica alla Hume con una iniezione di evoluzionismo.

Ben diverso è l'atteggiamento del Carnap con la sua interpretazione dei giudizi di valore come mere espressioni emotive. Ciò comportava, per l'etica, non la riduzione schlickiana dei giudizi di valore ai giudizi di fatto, ma la dissoluzione dei primi come espressioni significanti. Carnap, tuttavia, non sviluppò un'indagine etica; chi la mandò innanzi in questa prospettiva fu l'inglese J.A. Ayer in Language, truth and logic (1936), uno scritto breve quanto fortunato, in cui l'autore espone le tesi ‛classiche' del neo- positivismo, che egli aveva sentito discutere nelle riunioni del Wiener Kreis. La parte più originale dell'opera è proprio lo sviluppo della concezione ‛emozionalistica' della morale: il cosiddetto ‛giudizio di valore' non è affatto un giudizio, ma l'espressione di un'emozione soggettiva, ed i predicati di valore (‛buono', ‛giusto', ecc.) sono segni emozionali, del tutto sostituibili con espressioni del volto o toni di voce o punti esclamativi. Non c'è quindi la possibilità di un discorso morale. Una forma più elaborata di emozionalismo è quella proposta dall'americano C.L. Stevenson in Ethics and language (1944), ove si riconosce un aspetto logico-razionale delle espressioni morali: se da un lato, infatti, esse non fanno altro che manifestare un atteggiamento di chi valuta (‛x è bene' equivale a ‛io approvo x'), dall'altro hanno anche uno scopo pratico di comunicazione, in quanto mirano a influenzare gli atteggiamenti (emozionali) di coloro a cui sono rivolte. Per tale aspetto esse costituiscono un discorso persuasivo, che si vale anche di motivazioni e dimostrazioni.

Questi sviluppi etici, in sé stimolanti, sono tuttavia marginali nell'ambito del neopositivismo. Essi ebbero nondimeno grande risonanza nei paesi anglosassoni e soprattutto in Inghilterra, ove tra il 1940 e il 1950 il libro di Ayer fu di gran moda e considerato quasi una ‛Bibbia filosofica'. Non mancarono addirittura tra i critici dell'emozionalismo coloro che accusarono i suoi fautori d'essere distruttori della morale e corruttori della gioventù. Si trattò senza dubbio di forzature polemiche, che ebbero però se non altro il merito di suscitare un ampio interesse attorno ai problemi logici del discorso morale e di favorire quindi gli studi di etica analitica (R. M. Hare, P. H. Nowell-Smith, S. E. Toulmin, ecc.). Ma con essi siamo fuori dal neopositivismo.

5. Sviluppi del neopositivismo: fisicalismo e scienza unificata

A ben guardare, il criterio empirico di significanza (cosi grave di conseguenze antifilosofiche) è anch'esso, alla stregua di sé medesimo, una proposizione priva di significato: non sembra essere, infatti, né empirico né analitico. La difficoltà sarebbe superabile se lo si presentasse come una descrizione del modo di significare comunemente attribuito alle asserzioni informative; ma in tal caso perderebbe la sua forza prescrittiva, in base a cui condanna come privi di senso tutti gli altri tipi di asserzioni. Una riflessione di questo genere non è stata certo estranea all'affermarsi di quella filosofia analitico-linguistica che si colloca fuori del neopositivismo. L'attenzione dei membri del Wiener Kreis non si soffermò invece su tali difficoltà: essa si volse piuttosto ad altre questioni sollevate dal criterio empirico di significanza, ed è nella discussione di esse che il neopositivismo si avviò verso una nuova fase.

Un'applicazione rigida del criterio rendeva prive di senso non solo le asserzioni metafisiche, bensì anche le proposizioni universali della scienza, come le leggi, che non sono riducibili a congiunzioni di Erlebnisse. Eppure esse sono significanti. Schlick scioglieva l'imbarazzo dichiarando che le leggi sono ‛regole' per la formazione di asserzioni particolari (sebbene le ‛regole' non avessero molto posto nella sua concezione del linguaggio). Ciò che tuttavia urtò la sensibilità scientistica dei più rigidi fautori della wissenschaftliche Weltauffassung fu che tale concezione doveva appellarsi a qualcosa di extralinguistico, gli Erlbnisse, che poteva far risorgere la metafisica dell'inesprimibile; la stessa attività filosofica come chiarificazione di significati (già s'è ricordata la chiusa mistica del Tractatus) diventava qualcosa di inesprimibile, dovendo solo ‛mostrare' (e quindi presupporre) l'identità di struttura tra il linguaggio e ciò che esso significa. Rinunciare all'appello al dato sensibile extralinguistico implicava un indebolimento della forza polemica del neopositivismo contro la filosofia tradizionale: ed è questo uno dei motivi per cui Schlick difese sempre la formulazione primitiva; ma c'era chi credeva di poter mantenere la stessa forza polemica anche rinunciando a quell'appello e alla sua implicita filosoficità. Dapprima Neurath, poi anche Carnap entrarono in polemica con Schlick, sostenendo la tesi del ‛fisicalismo radicale'. A partire dal 1931 (anno in cui Neurath pubblicò su ‟Scientia" l'articolo Physikalismus, seguito poi da una serie di articoli su ‟Erkenntnis"), l'ala rivoluzionaria del neopositivismo indica la base empirica del discorso scientifico non più nell'espressione linguistica di dati extralinguistici, bensì prende come punto di partenza i ‛protocolli' (per es., ‟Il signor X, nel luogo y e al tempo t, osserva che..."), cioè le proposizioni elementari che sono formulate dagli scienziati di un determinato ambiente culturale.

I protocolli hanno la stessa struttura linguistica delle altre proposizioni della scienza e non pretendono (come invece le proposizioni atomiche o le ‛constatazioni', come talvolta le chiamò Schlick) alcuna assolutezza o posizione di privilegio. Nei protocolli compaiono nomi di cose e di proprietà osservabili e determinazioni spazio-temporali: cioè, la terminologia tipica della fisica (di qui il nome di ‛fisicalismo') che rende significante il discorso scientifico; esso è infatti sottoponibile a verifica, sebbene la verifica avvenga sempre mediante un confronto di enunciati e non trovi mai un arresto definitivo in qualcosa di extralinguistico. Ciò comporta anche una modifica del criterio di significanza, a cui contribuisce particolarmente il Carnap (specie con il saggio del 1936 Testability and meaning): poiché la verifica non è mai completa e definitiva, egli preferisce parlare di ‛confermabilità', anziché di verificabilità. E la confermabilità può essere completa o incompleta : c'è la prima quando una proposizione è conseguenza di una classe finita di proposizioni con predicati osservabili; la seconda vale invece per quel tipo di proposizioni che hanno come conseguenza una classe infinita di proposizioni con predicati osservabili. Di questo tipo sono le leggi scientifiche, che sono quindi confermabili secondo il nuovo criterio di significanza, il quale, tuttavia, esclude come prive di senso la maggior parte delle asserzioni metafisiche. Determinare quali siano i protocolli di una teoria o quale tipo di conferma si voglia pretendere non ha niente di assoluto e di necessitato: si tratta di una decisione convenzionale. Carnap così giudicava la posizione iniziale del neopositivismo (compresa quella da lui assunta in Der logische Aufbau der Welt): l'errore fu ‟nel non riconoscere nella questione un problema di decisione concernente la forma del linguaggio; esprimemmo pertanto la nostra concezione in forma di asserzione - come si usa tra filosofi - anziché in forma di proposta" (v. Carnap, 1937, p 5).

Un'altra tesi del fisicalismo fu quella dell'unità della scienza. Già s'è visto come questa sia una tesi caratterizzante tutto il neopositivismo. Nella formulazione fisicalistica essa acquistò tuttavia una maggior forza, poiché l'unificazione della scienza era raggiunta attraverso lo stesso linguaggio. È sintomatico che si debba proprio a Neurath - che si sforzò di applicare il linguaggio fisicalista alla sociologia - l'impostazione della International encyclopedia of unified science. Tuttavia, in essa fu realizzata più l'aspirazione a non porre divisioni e limitazioni pregiudiziali al metodo di ricerca scientifica (quale che sia l'oggetto studiato), che il programma fisicalistico, il quale, sotto l'aspetto dell'unità del linguaggio scientifico, pare talvolta riprendere il riduzionismo del positivismo ottocentesco. Per esempio, sebbene il Carnap affermi che il fisicalismo sostiene l'unità del linguaggio di ogni scienza e non l'unità delle leggi (cioè la loro riducibilità a quelle della fisica), la sua trattazione fisicalistica della psicologia (che coincide in genere con il ‛behaviorismo' di J.B. Watson) mostra un chiaro orientamento riduzionistico.

L'attenzione esclusiva per il linguaggio e la convenzionalità nella scelta delle sue forme indicano che il neopositivismo, nella fase fisicalista, trascura nell'analisi linguistica quella dimensione ‛semantica' ch'era stata originariamente al centro del suo interesse, cioè la questione della possibilità di significanza del linguaggio. Poiché ciò era parso ancora tmetafisica', l'interesse ora si concentra solo sulla struttura interna del linguaggio, sulla sua ‛sintassi'. È del 1934 l'opera di Carnap Logische Syntax der Sprache. L'interesse di quest'opera è duplice: da un lato, infatti, essa rappresenta un momento essenziale nella storia della logica contemporanea, come tentativo di soluzione organica e di sistemazione delle questioni dibattute dopo la comparsa dei Principia mathematica (difficoltà interne alla logistica e alle altre concezioni sui fondamenti della matematica, soprattutto del formalismo; problemi delle logiche modali e polivalenti); d'altro lato, invece, essa utilizza i risultati logici a cui perviene ai fini di una più raffinata formulazione delle tesi fisicalistiche del neopositivismo. È bene tener distinti questi due aspetti che spesso nelle interpretazioni del neopositivismo sono confusi, sì da ritenere propri della wissenschaftliche Weltauffassung quegli sviluppi della logica contemporanea che, per la loro scientificità, non sono legati a una visione o concezione determinata del mondo.

Nel suo aspetto tecnico la Syntax del Carnap giunge a presentare la ‛logica' non più soltanto come strumento d'indagine del ragionamento deduttivo, bensì come l'insieme dei sistemi stessi di deduzione: se non si tiene più conto della dimensione semantica del linguaggio, non c'è più - come nella logistica - la preoccupazione di determinare quale sia la ‛vera logica'; il linguaggio diventa un calcolo e si possono costituire sistemi formali deduttivi diversi, variando la loro ‛sintassi', ossia le regole di formazione (cioè, di combinazioni iniziali di segni) e quelle di trasformazione (cioè, di passaggio da una combinazione ad un'altra). Mediante la costruzione di due linguaggi con sintassi diversa Carnap mostra come si possa del tutto liberamente scegliere la forma linguistica: anche la non contraddittorietà di un sistema formale è postulata solo perché senza di essa il sistema non avrebbe alcun uso deduttivo. ‟In logica non c'è morale. Ciascuno può costruire come vuole la sua logica, cioè la sua forma di linguaggio. Se vuol discutere con noi, deve solo indicare come lo vuol fare, dare determinazioni sintattiche, invece di discussioni filosofiche" (v. Carnap, 1934, p. 45). La molteplicità delle sintassi permette di evitare la tesi wittgensteiniana dell'inesprimibilità della struttura del linguaggio: è sempre possibile parlare con un opportuno metalinguaggio della sintassi di un sistema formale dato (linguaggio oggetto). E tenendo conto delle indagini svolte da K. Gödel sui limiti della esprimibilità in un linguaggio oggetto del relativo metalinguaggio, Carnap illustra brillantemente il carattere ‛aperto' del discorso logico-matematico. La ‛fondazione' di un sistema non è possibile (come sempre s'era cercato di fare) mediante la riduzione di esso a un sistema più semplice, bensì soltanto mediante la costruzione di un sistema più ricco.
Il principio della convenzionalità è tuttavia usato dal Carnap non solo sul piano tecnico, bensì anche con funzione polemica nei confronti della filosofia tradizionale. Nella Syntax esso prende il posto che nella fase precedente del neopositivismo aveva avuto il criterio empirico di significanza. Applicando la considerazione sintattica non solo ai sistemi formali ma ad ogni tipo di linguaggio, si eliminano per Carnap i residui filosofici sopravvissuti nella metodologia scientifica. Le scienze (come la fisica, la psicologia, la sociologia, ecc.) si occupano di ciò di cui il linguaggio parla, mentre il metodologo si occupa dell'aspetto sintattico del linguaggio. Se i problemi sintattici sono espressi con un linguaggio formale appropriato (la formale Redeweise), è agevole riconoscerne la natura ed è possibile risolverli con opportune convenzioni ; ma se si usa invece un linguaggio contenutivo (la inhaltliche Redeweise), sì che si crede di parlare di enti anziché di segni, si incappa negli pseudoproblemi filosofici. Così è tipico dei filosofi chiedersi quale sia l'essenza del numero, dello spazio o del tempo, ecc. Tutti questi pseudoproblemi scompaiono se invece di numero, spazio e tempo si parla di ‛espressione numerica', ‛coordinata spaziale' e ‛coordinata temporale', che sono termini sintattici. ‟Oltre ai problemi delle singole scienze speciali, rimangono come autentiche questioni scientifiche solo quelle dell'analisi logica della scienza, dei suoi concetti, delle sue proposizioni e teorie [...]. Al posto dell'inestricabile groviglio problematico che si chiama filosofia compare la logica della scienza" (ibid., p. 204).

L'esito della fase fisicalistica del neopositivismo è così non solo antimetafisico ma addirittura antifilosofico: mentre nel primo momento alla filosofia, negata come dottrina, si riconosceva tuttavia una funzione specifica come attività, ora si propone di sostituirla con l'analisi logica della scienza, analisi che rientra essa stessa nell'attività scientifica. Vedremo come, in breve tempo, l'aspetto sintattico dell'analisi logica venga integrato con altri aspetti (semantico e pragmatico) ; tuttavia, rimarrà costante caratteristica del neopositivismo considerare l'analisi logica del linguaggio scientifico come sostitutiva della filosofia. Lo stesso Carnap conservò sempre, anche negli scritti più recenti - quali Empiricism, semantics, and ontology (1950) e l'autobiografia intellettuale e le risposte ai critici in The philosophy of Rudolf Carnap (1963) - l'orientamento mostrato nella Syntax del 1934. I cosiddetti problemi filosofici sono formulabili come questioni linguistiche che non hanno portata teorica e si risolvono mediante una ‛scelta' di una forma di linguaggio: anziché ritenere che l'analisi linguistica sia un nuovo modo di affrontare i problemi tradizionali della filosofia, si è convinti che tale analisi segni una rottura netta con la tradizione e la dissoluzione degli pseudoproblemi ch'essa poneva. È forse questa la convinzione del neopositivismo che ha avuto maggior diffusione, anche indiretta: è rimasta traccia di neopositivismo in tutte quelle dottrine che, pur senza sostituire la filosofia con l'analisi logica del linguaggio della scienza, ritengono che l'analisi linguistica valga come eliminazione, totale o parziale, dei problemi filosofici tradizionali. Ciò è constatabile soprattutto in molte espressioni della filosofia analitica (compreso anche il ‛secondo' Wittgenstein): si spiega così l'inclinazione che alcuni hanno a non distinguere (nonostante le differenze) tra neopositivismo e filosofia analitica.

6. Di là dal Wiener Kreis: nuovi apporti e sviluppi

Negli anni della seconda guerra mondiale il neopositivismo d'origine europea (dopo la fine del Wiener Kreis e il passaggio oltre Atlantico di buona parte dei suoi membri) incontra altre tendenze di pensiero che presentano temi affini e risistema in nuova forma le sue tesi principali. V'è innanzi tutto l'innesto di motivi pragmatistici, la cui affinità con il neopositivismo Ch. Morris, professore a Chicago, aveva già indicato nel 1937 in Logical positivism, pragmatism and scientific empiricism. V'è inoltre il confluire, nella tradizione degli studi logici coltivati nell'ambito del neopositivismo, dei risultati raggiunti dalla scuola polacca di logica, di cui uno dei maggiori rappresentanti, A. Tarski, era emigrato dall'inizio del conflitto negli Stati Uniti.

Tra i primi scritti del Carnap nel periodo americano v'è una Introduction to semantics (1942): tuttavia non si tratta affatto di un ritorno agli interessi semantici del primo neo- positivismo, allorché si indagava sulla capacità significativa del linguaggio. La semantica di cui ora Carnap si occupa (come anche in Meaning and necessity, 1947) è la semantica ‛logica' di cui già s'era interessato il Tarski con lo studio del concetto di verità nei linguaggi formalizzati. I problemi affrontati su questo piano appartengono alla logica come scienza e costituiscono un approfondimento e una integrazione di quelli già affrontati dalla sintassi logica. Un calcolo può essere interpretato e ciò comporta la determinazione della relazione tra segni e designata. Un sistema semantico permette una migliore teoria della deduzione di quanto non faccia un sistema sintattico, il quale deve prescindere dal concetto di ‛vero' e da tutti i concetti che ad esso si connettono. La definizione semantica della ‛verità' non concerne tuttavia nè la natura delle entità designate nè le condizioni che permettono di asserire la verità di un enunciato: come disse Tarski in The semantic conception of truth (1944), essa va d'accordo con qualsiasi concezione epistemologica: ‟possiamo rimanere realisti ingenui, realisti critici o idealisti, empiristi o metafisici secondo ciò ch'eravamo in precedenza. La concezione semantica è completamente neutrale nei confronti di tutte queste questioni". Essa è semplicemente un accorgimento tecnico per meglio assiomatizzare un sistema linguistico formalizzato. La fertilità della ‛semantica logica' riguarda quindi i campi della metamatematica, a cui avevano contribuito gli studi sintattici, e della logica formale nel suo complesso; e, sebbene alcuni neopositivisti (e particolarmente il Carnap) abbiano dato in questo campo contributi essenziali, non è tuttavia legittimo considerarli parti integranti della storia del neopositivismo. Sono semplicemente contributi allo sviluppo della logica da parte di studiosi che, in filosofia, erano neopositivisti.

Qualcosa di analogo può valere anche per la ‛semiotica'. Fu il Morris a elaborare con questo nome la teoria del processo in cui qualcosa funziona come un segno e, in particolare, del funzionamento segnico del linguaggio (v. Morris, 1938 e 1946). E la distinzione da lui introdotta delle tre dimensioni del processo semiotico - la ‛sintattica' (che considera le relazioni formali dei segni tra loro), la ‛semantica' (che studia il rapporto tra segni e oggetti designati) e la ‛pragmatica' (che considera la relazione dei segni con gli interpreti) - fu adottata dal Carnap e divenne d'uso comune nelle analisi linguistiche. E quindi frequente l'uso di tale terminologia negli scritti neopositivistici di questo periodo americano; ma è altrettanto frequente anche in coloro che non sono neopositivisti. E sintomatico, del resto, anche il caso del Morris. Egli vede la sua trattazione semiotica come un approfondimento della tematica del neopositivismo mediante il coordinamento di istanze pragmatiste alla wissenschaftliche Weltauffassung. Tuttavia le analisi della semiosi, ch'egli sviluppa in una prospettiva comportamentistica, svelano una concezione metafisica di fondo che si potrebbe dire ‛realistica': che i segni denotino, per esempio, è provato dal fatto che esiste un mondo, senza di cui non ci sarebbero nè segni, nè conoscenza, nè verità. Tale concezione è assai poco conforme ai canoni di significanza del neopositivismo: sia a quelli (semantici) del primo periodo, sia a quelli (sintattici) del secondo. A meno che si voglia considerare la posizione del Morris come una esplicitazione (sia pur involontaria) di presupposti metafisici sempre già tacitamente presenti nel neopositivismo. In ogni caso, tuttavia, siamo davanti ad un esempio del modo in cui, nella sua cosiddetta terza fase, il neopositivismo, mentre diffonde sempre più ampiamente spunti e idee, va però perdendo la forza e l'acutezza dei suoi temi polemici.
Per non disperdersi, conviene quindi seguire le vicende più recenti del neopositivismo nella prospettiva che gli fu più congeniale: quella della metodologia e dell'analisi logica della scienza. In questo campo sono stati due i temi particolarmente dibattuti: quello della probabilità e dell'induzione, e quello del rapporto tra elementi teorici ed elementi empirici nella conoscenza scientifica. È su questo terreno che si può valutare l'esito del neopositivismo.

Nell'ambito del Wiener Kreis era stato il Waismann a proporre già nel primo volume di ‟Erkenntnis" (Logische Analyse des Wahrscheinlichkeitsbegriffs) una concezione logica della probabilità, prendendo spunto da alcune affermazioni del Wittgenstein nel Tractatus. In tale concezione, la probabilità o grado di conferma di un'asserzione viene determinato rispetto a una classe di altre asserzioni prese come prove, ed è quindi un rapporto puramente logico. Per esempio, qual è la probabilità di una asserzione p (assunta come ipotesi) rispetto all'asserzione ‛p o q', presa come prova? Date due asserzioni - p, q - gli stati possibili del loro universo linguistico sono: p, q; p, non-q; non-p, q; non-p, non-q. Dato che 'p o q' è vera solo nel caso dei primi tre stati indicati (secondo il calcolo proposizionale), mentre p compare solo in due di essi, la probabilità di p rispetto a 'p o q' sarà di 2/3. Questa concezione non fu tuttavia, per allora, ulteriormente sviluppata.

All'interno del neopositivismo acquistò invece sempre maggior risonanza la concezione statistica della probabilità, fondata sulla riduzione del concetto di probabilità a quello di frequenza relativa: se, su n osservazioni, un evento d'un certo tipo ha luogo m volte, la sua frequenza relativa è m/m. Tale teoria fu sviluppata particolarmente dal Reichenbach (v., 1935) ed essa parve molto aderente al generale orientamento empiristico del neopositivismo. Non soltanto il Reichenbach trovò nella sua elaborazione del calcolo delle probabilità lo spunto per una comprensione delle logiche polivalenti, ma vide in essa il fondamento di una particolare interpretazione dell'induzione. Noi non sappiamo se le successioni naturali di eventi hanno o non hanno un certo ordine: puntare sulla validità della logica probabilistica che si fonda sulla frequenza relativa di un certo tipo di evento è tuttavia il comportamento più ragionevole, perché dà risultati accettabili (se quell'ordine esiste). Così la scienza, con il suo metodo induttivo, è come una rete che noi gettiamo nella corrente degli eventi: che con essa si prendano i pesci, cioè che i fatti corrispondano alle nostre previsioni, non dipende soltanto dal nostro lavoro.

Nonostante la suggestione che viene da questa concezione reichenbachiana (che mostra il carattere ‛tentativo' della scienza, che non ha garanzie di certezza), v'era tuttavia in essa qualcosa che non s'adattava perfettamente ai principi antimetafisici e al criterio di significanza neopositivistici. Il presupporre o, almeno, lo scommettere su un limite ideale, verso cui si presume converga una serie statistica, comporta infatti una assunzione metafisica, quasi d'un realismo platonico: che ci sia, cioè, una certa affinità tra ciò che è matematico e ciò che è empirico. Non è certo questo il senso di quell'accordo tra esperienza e logica in nome del quale il neopositivismo s'era costituito: quell'accordo richiedeva infatti che il momento logico-matematico fosse puramente analitico e non dicesse alcunché sul mondo. Così venne ripresa la concezione logica della probabilità: la maggior opera di Carnap nel periodo americano, Logical foundations of probability (1950), è dedicata a questo argomento, con una ripresa e un approfondito sviluppo (anche in numerosi altri scritti) delle tesi già abbozzate dal Waismann. Carnap distingue due significati del termine ‛probabilità': quello (già illustrato da Waismann) che denota il grado di conferma di un'ipotesi rispetto a una serie di prove e quello (illustrato dal Reichenbach) indicante la frequenza relativa di un evento. Non ha senso chiedersi quale dei due significati sia quello ‛giusto', poiché entrambi hanno una funzione nella scienza: l'ultimo, per l'uso nella statistica matematica e nelle sue applicazioni; il primo, invece, per la metodologia scientifica e, soprattutto, per la logica induttiva, cioè per una teoria della probabilità logica che fornisca regole per il pensiero induttivo. L'inferimento deduttivo (tipico delle trasformazioni matematiche) parte dalla verità delle premesse per giungere alla verità (necessaria in base a quelle) delle conclusioni; nelle scienze della natura, invece, non si conclude circa la verità necessaria di un'ipotesi sulla base di premesse empiriche: queste permettono soltanto di dare un grado di conferma all'ipotesi stessa. Sia dato, per esempio, l'insieme di premesse empiriche: gli abitanti di Chicago sono tre milioni, due milioni di essi hanno i capelli neri, il signor X è un abitante di Chicago; sulla base di esse il grado di conferma dell'ipotesi ‛il signor X ha i capelli neri' è uguale a 2/3. La logica induttiva è, quindi, del tutto analitica, come quella deduttiva; e, se mediante essa si riesce a giustificare il procedimento dell'induzione, pare di poter soddisfare appieno le istanze proprie del neopositivismo, poiché in tale procedimento compaiono soltanto asserzioni empiriche (l'insieme delle prove) e asserzioni analitiche di probabilità.

La costruzione di un sistema di logica induttiva è stata appena avviata dal Carnap, che l'ha definita ‟un lavoro per il futuro"; e non molto più che inizi sono anche i recenti lavori di coloro che hanno proseguito il suo tentativo, tra cui J. G. Kemeny, R. Jeffrey e J. Hintikka. Queste sono mere constatazioni di fatto, le quali non escludono la possibilità di sviluppi futuri della logica induttiva paragonabili a quelli della logica deduttiva. V'è, tuttavia, per ciò che riguarda la storia del neopositivismo una considerazione che è opportuno fare. La costruzione di un sistema di logica induttiva richiede la scelta dei suoi assiomi: e a questo proposito la posizione di Carnap è profondamente mutata nel corso dei suoi ultimi vent'anni di vita. Negli anni cinquanta, coerentemente con le tesi neopositivistiche generali, egli respingeva qualsiasi giustificazione del ragionamento induttivo fondato su qualche principio a priori non analitico (come la tesi di una certa uniformità del mondo accettata, per es., dal Russell): un empirismo coerente non può accettar altro che l'appello all'esperienza passata come criterio di valutazione della razionalità di un certo metodo induttivo. Alla fine degli anni sessanta (v. Lakatos, 1968), invece, Carnap opta per una concezione aprioristica della scelta degli assiomi della logica induttiva: è un'‛intuizione induttiva' che ci guida nella scelta degli assiomi. Si tratta, senza dubbio, di una intuizione che non ha uno stato epistemologico privilegiato, poiché è fallibile e può essere corretta: nondimeno, l'induzione è giustificata, seppur non in modo definitivo, sulla base dell'intuizione di ciò che appare induttivamente valido. L'intuizione non aveva spazio nell'originaria epistemologia neopositivistica - e neppure nei suoi sviluppi coerenti - poiché era ridotta, empiristicamente, ad abitudine o pregiudizio. Che lo stesso Carnap le faccia nuovamente posto è un chiaro sintomo che il neopositivismo, come movimento filosofico, appartiene ormai alla storia d'un passato sia pur recente.

Conferma di ciò viene anche dai dibattiti sul rapporto tra elementi teorici ed elementi empirici nella conoscenza scientifica, l'altro tema su cui si accentrò l'attività dei neopositivisti nel periodo postbellico. Già s'era avuta una iniziale ‛liberalizzazione' del rigido criterio empirico di si- gnificanza allorché s'era parlato non di ‛verificabilità', bensì di ‛confermabilità indiretta' delle leggi scientifiche ; ma la liberalizzazione diventa radicale allorché risulta l'impossibilità di ridurre i termini teorici del linguaggio scientifico a semplici connessioni di termini osservativi. Ciò comporta una rinuncia al criterio di significanza sia nella forma dell'appello agli Erlebnisse sia nella forma fisicalistica o in quella operazionalistica, perché esso richiederebbe che tutti i termini e le espressioni (come massa, lunghezza, campo magnetico, ecc.) che non significano qualcosa di direttamente osservabile fossero definibili mediante i termini osservativi. Già nel 1952, il berlinese C.G. Hempel, ch'era stato tra i partecipanti ai lavori del Wiener Kreis ed era poi anch'egli emigrato negli Stati Uniti, in Fundamentals of concept formation in empirical science (7° fascicolo del II vol. della International encyclopedia of unified science) mostra come ogni tentativo di definizione di tal tipo lasci, nei termini teorici, qualcosa di non definito e che pur fa parte del loro significato. D'altra parte, la stessa storia della scienza moderna (che pur si incentra sul controllo empirico delle asserzioni) mostra che i principi mediante cui si spiegano e si prevedono fenomeni osservabili non sono stabiliti solo ammassando risultati empirici e generalizzandoli induttivamente. ‟Guidato dalla propria conoscenza dei dati empirici, lo scienziato deve inventare un insieme di concetti, i costrutti teorici, privi di significato empirico diretto, un sistema di ipotesi formulate nei termini di questi, e una interpretazione per la risultante rete teorica ; e tutto ciò in una maniera che consenta di stabilire tra i dati dell'osservazione diretta connessioni feconde ai fini della spiegazione e della previsione" (v. Hempel, 1952; tr. it., p. 47).


Anche il Carnap - in Philosophical foundations of physics (1966), pubblicato a cura di M. Gardner e riproducente la forma ultima di un suo corso più volte ripetuto - si colloca su posizioni analoghe, negando che alle leggi teoriche si possa giungere con generalizzazioni simili a quelle delle cosiddette leggi empiriche o che i termini teorici possano sorgere come risultati di osservazioni. ‟Il termine ‛molecola' non sorgerà mai come risultato di un'osservazione. Per questa ragione nessuna generalizzazione, per quanto spinta, delle osservazioni produrrà mai una teoria dei processi molecolari: una tale teoria deve aver origine in qualche altro modo; essa viene enunciata non come una generalizzazione di fatti, ma come un'ipotesi" (v. Carnap, 1966; tr. it., p. 287). La formulazione delle ipotesi, non spiegabile empiricamente, riapre nella epistemologia il problema dell'a priori non inteso in senso puramente analitico. La prospettiva tipica del neopositivismo viene rivoluzionata: essa si era costituita in polemica con tutte le forme di apriorismo di tipo kantiano o neokantiano, poiché esse sembravano del tutto inadeguate per la comprensione dei nuovi risultati e dei nuovi metodi delle scienze. L'esito a cui giunge l'analisi epistemologica degli stessi neopositivisti e, infine, del tutto diverso. ‟Non si può mettere il vino nuovo nelle botti vecchie" fu un motto caratteristico del neopositivismo: la botte vecchia, tuttavia, contrariamente alle attese e alle previsioni, risulta in fin dei conti essere proprio quella dell'empirismo radicale.

7. Conclusione

Se il neopositivismo, per le sue tesi filosofiche, appartiene ormai al passato, è tuttavia opportuno distinguere tra ciò che in esso è qualcosa di conchiuso e ciò che invece ha conservato una sua attualità.


S'è ormai spenta, del neopositivismo, la forza polemica e negatrice a cui era legata la sua fama nel decennio tra il 1930 e il 1940 (o nell'immediato dopoguerra, in alcuni paesi, come l'Italia, in cui giunse più tardi e di rimando). Quella forza era inscindibilmente legata all'accettazione del criterio empirico di significanza, via via corretto ed attenuato sino ad una rinuncia di fatto da parte degli stessi neopositivisti. Nel 1970, con la morte di Carnap, scompare l'ultima grande figura del Wiener Kreis: ma già da molti anni s'era spento quello spirito negatore che l'aveva contrassegnato e che, in parte, era ancora sopravvissuto alla dispersione dei viennesi. C'è stato addirittura chi, pur avendo partecipato ai lavori del Wiener Kreis, s'è chiesto se la parte seria e feconda delle ricerche in esso condotte sia stata effettivamente connessa con l'accettazione di quel criterio di significanza, in nome del quale per tanti tipi di asserzioni venivano pronunciate sbrigative sentenze di insensatezza. Si tratta di K.R. Popper, che ha sempre rifiutato la qualifica di neopositivista, sebbene le idee da lui espresse nella Logik der Forschung (1935) siano state a lungo dibattute nell'ambito del Circolo di Vienna. Il problema del significato così come è affrontato col criterio empirico di significanza pare a Popper un problema puramente verbale ed egli respinge le interpretazioni neopositivistiche del suo principio della ‛falsificabilità' come semplice correzione del principio della ‛verificabilità', implicito in quel criterio. Il problema genuino della metodologia scientifica è, per Popper, quello della ‛demarcazione', cioè della distinzione delle proposizioni scientifiche da quelle che scientifiche non sono e che, tuttavia, non sono affatto prive di significato. Il criterio della falsificabilità non è un criterio di significanza, bensì di demarcazione e, da questo punto di vista, assai migliore del criterio della verificabilità a cui, per esempio, già si sottraggono le leggi scientifiche. Esso dice semplicemente che per essere scientifiche le proposizioni e le teorie devono essere falsificabili o confutabili. In questa prospettiva, l'apporto metodologico del neopositivismo (per es., con le sue indagini sulla controllabilità) si ha positivamente sul piano della demarcazione e non su quello del significato.

Privato della forza polemica, il neopositivismo costituisce tuttavia un momento vivo dell'epistemologia contemporanea. In un articolo pubblicato nel primo volume di ‟Erkenntnis" - Die Wende der Philosophie - Schlick aveva considerato il neopositivismo come una svolta radicale nel filosofare: lo spirito negatore di esso si può forse capire se lo si connette con questa consapevolezza innovativa. Chi sente la novità del suo fare è spesso indotto a trascurare e a respingere il passato. Nel neopositivismo ci fu indubbiamente una forte carica innovativa per il fatto di portare sul piano linguistico le indagini filosofiche sulla scienza. Questo nuovo modo ‛linguistico' di impostare i problemi filosofici ha certo un valore positivo; anche se i neopositivisti, con l'entusiasmo dei neofiti, scambiarono spesso un nuovo modo di filosofare con l'eliminazione degli stessi problemi filosofici attorno a cui la tradizione filosofica s'era travagliata. Qualcosa di analogo, fuori dell'ambito ristretto del neopositivismo, è capitato anche, agli inizi, nel campo più generale della filosofia analitica, in cui l'analisi linguistica fu intesa talvolta come strumento per bandire i problemi tradizionali. Si trattò di una eredità neopositivistica, che s'è venuta disperdendo negli ultimi anni, parallelamente all'esaurirsi della carica polemica, antimetafisica e antifilosofica, del neopositivismo.
Si può così ora meglio cogliere un altro aspetto positivo del contributo dato dal neopositivismo alla filosofia contemporanea. Proprio attraverso alcuni dei suoi caratteri meno convincenti polemica negatrice ed esclusivi- smo scientistico il neopositivismo ha costituito nel nostro secolo una delle occasioni maggiori per quel ripensamento della natura del filosofare ch'è stato, in ogni epoca, il pro- blema primo della filosofia. Accanto ai contributi sul piano epistemologico e all'approfondimento di temi logici attuato da alcuni suoi rappresentanti, il neopositivismo ha quindi offerto, paradossalmente, qualcosa che pareva estraneo ai suoi programmi: lo spunto per la meditazione e una rinnovata impostazione della problematica filosofica. Ha avviato la costruzione di nuove botti per la conservazione del buon vecchio vino.



Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)

di Pietro Rossi

Sommario: 1. Positivismo e società industriale. 2. Positivismo e sviluppo storico. 3. Positivismo e sociologia. 4. Positivismo e antropologia. 5. Dall'unità del metodo all'unità del linguaggio scientifico. □ Bibliografia.

1. Positivismo e società industriale

Il rapporto con il processo di costituzione delle scienze sociali è essenziale, fin dall'inizio, al positivismo. Tanto il progetto di una scienza onnicomprensiva della società quanto lo stesso termine 'sociologia' risalgono ad Auguste Comte, che nel Cours de philosophie positive (1830-1842) l'ha concepita in analogia alla fisica, distinguendola in una "statica" e in una "dinamica" sociale. Ma già prima, nel 1813, Claude-Henri de Saint-Simon si era proposto di fondare una "scienza dell'uomo" intesa come parte della fisiologia, che studiasse la struttura psichica e l'esistenza sociale dell'uomo non più con metodo congetturale ma con metodo positivo, cioè con lo stesso metodo già adottato dalle altre scienze. Questo intento si salda, fin dall'inizio, con il progetto di una 'riorganizzazione' della società dopo gli sconvolgimenti della Rivoluzione francese e il lungo periodo delle guerre napoleoniche. Non a caso, al ritorno dei Borboni sul trono di Francia, Saint-Simon scriveva un saggio dal titolo De la réorganisation de la société européenne (1814), nel quale contrapponeva allo spirito critico (e rivoluzionario) del secolo XVIII l'esigenza di uno spirito nuovo, di uno spirito "riorganizzatore" e costruttivo che doveva condurre all'instaurazione di un nuovo ordine politico.Questo processo coincideva, per Saint-Simon come per il giovane Comte (che gli fu segretario dal 1817 al 1824, succedendo in tale funzione ad Augustin Thierry, il futuro storico della conquista normanna dell'Inghilterra e dell'età merovingia), con l'avvento della società industriale.

L'antico sistema su cui l'Europa si era retta per secoli, il sistema feudale associato con la fede cattolica, è stato messo in crisi dal sorgere dei Comuni e dallo sviluppo della scienza moderna; la Riforma protestante ha poi significato la rottura dell'unità del cristianesimo, e la cultura illuministica ne ha scosso definitivamente i fondamenti. Occorre perciò costruire un nuovo sistema, organizzato in vista di uno scopo alternativo a quello della conquista, che può consistere soltanto nella produzione. La base di questo sistema è data dall'industria e dal sapere positivo; e le classi a cui dovrà esserne affidata la direzione sono perciò quelle degli 'industriali' e degli scienziati, che prenderanno il posto tenuto, nel vecchio sistema, dalla nobiltà feudale e dal clero. Il nuovo sistema sarà dunque una società industriale e al tempo stesso positiva.

Questa prospettiva poggiava, in primo luogo, sull'identificazione del nuovo sistema sociale con la nascente società industriale. Anche se in Saint-Simon - e ancora nello stesso Comte - il termine 'industria' mantiene a lungo un significato assai ampio, coincidente con il lavoro produttivo, e la categoria degli 'industriali' comprende imprenditori e lavoratori impiegati sia nell'agricoltura che nella manifattura, nel corso degli anni venti e trenta si fa gradualmente strada la constatazione del ruolo primario che va assumendo il lavoro in fabbrica. Non soltanto vien meno il privilegiamento fisiocratico dell'agricoltura come unica fonte di ricchezza, ma si fa anche valere la consapevolezza della specificità dell'industria rispetto agli altri settori produttivi. Accanto a essa si afferma la consapevolezza del nesso che intercorre tra il mutamento della struttura sociale e il mutamento del sapere: per Saint-Simon e per Comte, come per i posteriori esponenti del movimento positivistico, la società industriale ha il proprio fondamento nello sviluppo della scienza e della tecnica. Assume così un valore emblematico il richiamo a Bacone, considerato come il filosofo che aveva riconosciuto la rilevanza pratica del sapere, la sua capacità di contribuire in maniera decisiva al dominio dell'uomo sulla natura.

Organizzata in vista del lavoro produttivo e non più della conquista, la società industriale appare irriducibile alle società del passato. Qualsiasi tentativo di risuscitare l'organizzazione militare-feudale che aveva caratterizzato l'epoca medievale è destinato a fallire: su questo punto Saint-Simon e Comte si differenziano nettamente dai teorici della Restaurazione. Il popolo non può più essere "irreggimentato" sotto il comando dei capi militari; deve essere associato alla "direzione" dei capi industriali, cioè degli imprenditori. Analogamente, dopo la rottura dell'unità del mondo cristiano la fede religiosa ha perduto l'autorità che possedeva in passato; al suo posto si è affermata una nuova forma di sapere, il sapere positivo. Il potere feudale è crollato, ad opera della critica che gli uomini di legge hanno rivolto ai suoi fondamenti; non diversamente i 'metafisici', e poi la cultura illuministica, hanno eroso in maniera irreparabile le basi del sapere teologico. La società si sta ormai trasformando in società industriale. Ma il processo che deve metter capo a essa non è ancora compiuto e richiede di venir completato. Spetta quindi alla filosofia positiva dare il proprio contributo a tale 'completamento', favorendo l'instaurazione di un regime politico adeguato alla società industriale e coerente con i suoi principî. Ciò è possibile soltanto costruendo una scienza della società che diventi la base di una politica positiva.In questo senso, dunque, il positivismo ha formulato, nell'età della Restaurazione, una teoria della società industriale che ne costituisce, al tempo stesso, un'interpretazione e un'utopia. Esso offre infatti, negli scritti di Saint-Simon e di Comte, un'interpretazione della società moderna come società industriale, come una società strutturalmente diversa dalle - da tutte le - società del passato. Il nucleo di tale interpretazione è rappresentato dall'analisi del trasferimento del potere, di quello temporale come di quello spirituale, nelle mani di nuove classi sociali: dalla nobiltà feudale agli 'industriali', dal clero agli scienziati positivi. A essa si collega la tesi della correlazione tra mutamento sociopolitico e mutamento intellettuale - due processi che per Saint-Simon sono paralleli ma pur sempre indisgiungibili, mentre Comte sostiene il primato del secondo, e quindi la dipendenza della struttura del sistema sociale, del nuovo come del vecchio, dal sistema di credenze prevalente in una determinata società.

A questa analisi fa riscontro l'intento riformatore - in senso politico, ma anche intellettuale - del positivismo. L'edificio delle scienze positive non è ancora completo: se le scienze della natura e della vita sono pervenute, negli ultimi secoli, allo stato positivo, lo stesso non si può dire della scienza dell'uomo e, tanto meno, della scienza della società. Né la società industriale è riuscita a darsi un ordinamento politico confacente alla sua struttura: falliti i tentativi di costruire un regime politico fondato sui principî rivoluzionari, occorre dar vita a un sistema di governo nel quale gli imprenditori - legittimi rappresentanti anche degli interessi dei lavoratori - assumano il potere temporale, e gli scienziati positivi quello spirituale. In questo modo la teoria della società industriale sfociava in un'utopia sociocratica, quando addirittura non pretendeva di diventare la base di una nuova religione - di un cristianesimo interpretato in chiave filantropica, come nel Nouveau Christianisme di Saint-Simon (1825), oppure di una "religione dell'umanità", come negli ultimi scritti di Comte, dal Discours sur l'ensemble du positivisme (1848) al Système de politique positive (1851-1854) e al Catéchisme positiviste (1852).Questa visione utopica della società industriale, condizionata dall'arretratezza dello sviluppo economico francese rispetto al processo di industrializzazione in atto al di là della Manica, poggiava su un modello interpretativo che il positivismo aveva in comune con la letteratura controrivoluzionaria: il modello di una società 'organica'. Già nell'Introduction aux travaux scientifiques du XIXe siècle (1808) Saint-Simon aveva riconosciuto l'importanza dell'opera di Louis de Bonald, l'autore della Théorie du pouvoir politique et religieux dans la société civile (1796) e della Législation primitive (1802), e al suo nome egli affiancherà in seguito quello di Chateaubriand. Nel corso degli anni venti Comte si richiamava piuttosto a Joseph de Maistre, il teorico di una società teocratica sotto la guida del papa, che doveva rappresentare il ritorno all'unità del mondo cristiano perduta per colpa della Riforma. Egli rifiutava la "dottrina dei re" non meno della "dottrina dei popoli", fautrici rispettivamente di una "direzione retrograda" e di una "direzione critica", e contrapponeva a entrambe la "dottrina organica" della società industriale.

Ma il nuovo sistema sociale condivideva con il vecchio quel carattere organico che il principio della libertà di coscienza, rivendicato dalla Riforma protestante e fatto proprio dalla cultura illuministica, aveva cancellato. Il sistema industriale e positivo doveva riorganizzare la società facendo valere un'autorità morale capace di garantire l'unità del corpo sociale, la solidarietà tra le sue parti, l'armonica cooperazione di tutte le classi sociali, il consenso degli individui a un sistema di credenze condiviso da tutti. Il processo di idealizzazione, che Bonald e Maistre avevano applicato al Medioevo, si trasferiva alla società del futuro, non a caso concepita come lo stato definitivo dell'umanità.

2. Positivismo e sviluppo storico

Pur derivando dai teorici della Restaurazione il modello di una società organica, Saint-Simon e Comte se ne distaccavano nettamente per la diversa concezione dello sviluppo storico. Essi erano infatti gli eredi della fiducia illuministica nel progresso, anche se l'esito dello sviluppo storico appare determinato in maniera differente: come Saint-Simon scriveva nel 1814, "l'età dell'oro del genere umano non è affatto dietro di noi, è davanti, nella perfezione dell'ordine sociale". E la teoria della società industriale è infatti legata a una teoria della storia che ha la propria base nella contrapposizione tra due sistemi sociali tra i quali si colloca, in una posizione intermedia, un sistema "transitorio" privo di quel carattere organico che essi hanno invece in comune tra loro.Già Saint-Simon, negli scritti che compongono i primi due volumi de L'industrie littéraire et scientifique (1816-1817), aveva distinto nella storia europea due sistemi politici, quello che chiamava il "sistema cattolico" e il nuovo sistema industriale, indicando nel passaggio dall'uno all'altro la direzione dello sviluppo storico. Ma sarà Comte a tradurre questa distinzione in una teoria della storia, che si trova formulata per la prima volta nella Sommaire appréciation de l'ensemble du passé moderne (1820). La contrapposizione tra l'antico e il nuovo sistema sociale si trasforma in uno schema triadico di successione, in virtù dell'inserimento di un sistema privo di una propria finalità autonoma, che rappresenta la dissoluzione del primo e la preparazione del secondo. Analogamente, la contrapposizione tra sapere teologico e sapere positivo risulta mediata da un'altra forma di sapere, il sapere metafisico, che ha assolto una funzione critica nei confronti del primo ma che risulta privo di capacità positiva. La "dottrina critica" ha sì messo in crisi il sistema di credenze su cui poggiava l'antico sistema, ma non ha dato luogo a un sistema a esso alternativo; essa ha 'disorganizzato' la società, ma non è stata capace di condurre alla sua 'riorganizzazione'. Il contributo che essa ha dato al progresso dell'umanità è stato quindi un contributo esclusivamente negativo.

Questa concezione della storia è stata espressa da Comte, in forma riassuntiva, nella legge dei tre stati, che è la legge fondamentale dello sviluppo intellettuale dell'umanità e dello sviluppo della civiltà. Nel suo sviluppo l'umanità ha percorso (al pari di ciò che avviene nel singolo individuo) tre stati contrassegnati da tre diversi sistemi di spiegazione dei fenomeni, che fanno appello rispettivamente ad agenti soprannaturali, a entità astratte e a leggi scientificamente verificabili. E questi tre momenti si possono rintracciare anche nello sviluppo delle singole scienze, ognuna delle quali perviene allo stato positivo soltanto dopo un lungo cammino, lasciando dietro di sé sia la visione di una natura 'animata' da esseri viventi sia le nozioni di carattere metafisico. Ma essi designano anche le epoche successive dello sviluppo della civiltà, ognuna contrassegnata da un aspetto spirituale e da un aspetto temporale. Lo stato teologico è lo stato originario di esistenza dell'uomo, che nel corso di esso passa dal feticismo al politeismo e poi al monoteismo: il suo culmine è rappresentato dalla società organica del Medioevo, quale si è venuta costituendo con l'affermazione della feudalità e con il dominio universale del papato. Lo stato metafisico è un'epoca di transizione, che copre all'incirca il periodo che va dalla Riforma protestante alla Rivoluzione francese. Lo stato positivo ha la sua base nello sviluppo della scienza moderna e dell'industria, ma affonda le proprie radici nell'affrancamento dei Comuni dal potere feudale e nell'introduzione della scienza araba in Europa. I suoi inizi risalgono all'epoca stessa del prevalere del sistema feudale e teologico: i due sistemi sono infatti coesistiti per alcuni secoli, e alla disgregazione dell'uno ha fatto riscontro il lento emergere dell'altro.Il positivismo condivide quindi con la cultura illuministica una visione 'progressistica' della storia e l'articolazione dello sviluppo storico in una serie di stati successivi, quale si può trovare da un lato negli autori scozzesi, come Ferguson e Adam Smith, dall'altro in Condorcet.

Ma al suo programma di liberazione dai pregiudizi, da realizzarsi attraverso la critica della tradizione, e ai progetti di riforma politica in senso liberale esso sostituisce il progetto di instaurazione di una nuova società organica fondata sul sapere positivo. Delineare lo sviluppo dell'umanità significava, per Comte, non soltanto scoprire il senso del suo cammino, ma anche individuarne il motore nel progresso intellettuale. Proprio su questo terreno avvenne, agli inizi degli anni venti, la rottura tra Comte e Saint-Simon. Questi riteneva infatti che l'ordinamento politico richiesto dalla nascente società industriale potesse sorgere nell'immediato futuro, dall'alleanza tra la classe degli industriali e la monarchia borbonica restaurata; Comte, al contrario, era convinto che il mutamento delle istituzioni potesse venire soltanto dal sorgere di un nuovo sistema di credenze, dal 'completamento' del sistema del sapere positivo. La rivoluzione politica può essere soltanto la conseguenza di una rivoluzione filosofica. Mentre per Saint-Simon mutamento sociale e mutamento intellettuale erano processi paralleli, anzi due aspetti di un medesimo processo, per Comte l'organizzazione della società doveva poggiare su un sistema di credenze condiviso: la trasformazione di questo sistema è la condizione preliminare perché possa cambiare anche la struttura della società.Ne derivava anche una connotazione del progresso diversa da quella datagli dalla cultura illuministica. Per Comte, e dopo di lui per tutto il movimento positivistico, il mutamento intellettuale è un processo irreversibile: una volta che sia pervenuta allo stato positivo, l'umanità non può ritornare indietro.

La ragione di questa necessità del progresso risiede nella differenza strutturale tra il sistema di credenze dell'antico sistema e quello del nuovo. Il primo era un sistema organico, ma falso; una volta che la critica condotta durante lo stato metafisico ne ha eroso le basi dimostrandone la falsità, quel sistema risulta non più proponibile. Il sistema del sapere positivo è anch'esso organico, ma possiede una propria intrinseca verità. Con la sua realizzazione, e con l'instaurazione di un sistema sociale a esso conforme, si compie il cammino del genere umano. Il sapere positivo è il termine ultimo dello sviluppo intellettuale, e la società industriale è lo stato definitivo dell'umanità: uno stato nel quale l'ordine e il progresso non saranno più in conflitto, ma coesisteranno armonicamente.Il positivismo posteriore ha condiviso con Comte sia la fiducia in un progresso necessario, non suscettibile di un ritorno all'indietro, sia il riconoscimento del sapere positivo come la forma definitiva del sapere; spesso, anche se non sempre, ne ha anche condiviso la convinzione che lo sviluppo della scienza sociale potesse contribuire al miglioramento della natura umana, o per lo meno delle condizioni di vita dell'umanità. Non ne ha invece condiviso la concezione della società industriale come assetto sociale perfetto, capace di comporre gli interessi contrastanti delle diverse classi attraverso la loro subordinazione all'autorità morale di un potere fondato sul sapere positivo; meno ancora ne ha condiviso la prospettiva sociocratica, coerente pendant della teocrazia a cui l'umanità era pervenuta nello stato teologico. Del resto, questa prospettiva era stata lasciata cadere dallo stesso Comte, allorché verso la fine degli anni quaranta si era presentato come il sacerdote di una nuova religione, la "religione dell'umanità", additando in essa la base indispensabile della riforma morale e della stessa riorganizzazione della società.

3. Positivismo e sociologia

Agli occhi del giovane Comte l'edificio del sapere positivo era però ben lungi dall'essere compiuto. Se l'astronomia e la fisica avevano attinto lo stato positivo all'inizio dell'età moderna, se la chimica le aveva seguite tra Sei e Settecento, soltanto di recente la fisiologia aveva adottato un metodo sperimentale svincolandosi dall'impiego di nozioni metafisiche: la scienza dell'uomo era nata ad opera di Cabanis, di Félix Vicq-d'Azyr, di Xavier Bichat, autori cari, del resto, già a Saint-Simon. Ma essa si era pur sempre limitata a studiare l'uomo nella sua struttura fisica, o nel rapporto tra questa e le funzioni psichiche; non aveva considerato l'uomo come essere sociale, meno che mai la struttura della società. Né si trattava, per Comte, di una semplice successione storica: il momento in cui i diversi ambiti di fenomeni sono diventati oggetto di indagine scientifica dipende, in realtà, da motivi intrinseci. Il passaggio allo stato positivo si è compiuto dapprima per le scienze che studiano fenomeni più semplici, più generali, più astratti e più distanti dall'uomo, e soltanto in seguito per quelle che studiano fenomeni più complicati, più particolari, più concreti e più prossimi all'uomo.

La sequenza di astronomia, fisica, chimica, fisiologia - con la scienza della società per ultima - riflette per Comte un ordine logico di crescente complessità e concretezza dell'oggetto, a cui si accompagna un criterio di crescente vicinanza al soggetto conoscente.Per 'completare' il sistema del sapere positivo occorre quindi costruire la scienza della società: questo appariva, agli occhi di Comte, il compito più urgente, la condizione indispensabile per poter 'riorganizzare' la società. E per costituirsi in forma positiva la scienza della società deve modellarsi sulle scienze già costituite, deve cioè configurarsi come "fisica sociale" - secondo una denominazione che poi cederà il posto al fortunato neologismo 'sociologia'. Il sapere positivo possiede una struttura comune a tutte le scienze: muove dall'osservazione dei fatti e da questa trae delle leggi generali, le quali permettono a loro volta la previsione di eventi futuri e l'azione trasformatrice sulla natura. Come Comte si esprime nel Cours, "dalla scienza deriva la previsione, dalla previsione deriva l'azione". Sulla base di questa struttura comune le diverse scienze si connettono tra loro sistematicamente, nel senso che il sistema di leggi di ogni scienza presuppone quello della scienza o delle scienze che la precedono, pur essendo irriducibile a esso. Così la vita sociale ha leggi sue proprie, le quali presuppongono le leggi che regolano i fenomeni astronomici, fisici, chimici e fisiologici, pur essendo distinte e indipendenti rispetto a queste.Inserita in un'enciclopedia del sapere come la scienza ultima nell'ordine sistematico al pari che in quello storico, la sociologia veniva a configurarsi quale scienza 'globale', che da una parte risolve in sé l'economia politica e la scienza politica, dall'altra esclude la possibilità di scienze sociali specifiche.

All'economia politica Comte rimproverava infatti, nel Cours de philosophie positive, la pretesa di isolare il proprio oggetto dall'insieme dei fatti sociali; e pur facendo eccezione per Adam Smith, coinvolgeva gli economisti in una condanna generale, motivata dal carattere metafisico delle nozioni che essi hanno impiegato. In quanto alla scienza politica, essa veniva identificata senz'altro con la sociologia, in quanto la politica veniva considerata un aspetto particolare (e, in fondo, subordinato) dell'organizzazione sociale, da studiare sulla base dei "principî generali della produzione". Ma la scienza della società finiva per contrapporsi anche alla psicologia, della quale Comte negava la legittimità in quanto la riteneva fondata sull'introspezione anziché sull'osservazione dei fatti. Il dominio della sociologia finiva perciò per abbracciare tutti i fenomeni della vita umana, cioè tutti i fenomeni che si collocano al di sopra del livello fisiologico. A differenza di Saint-Simon, per il quale la scienza dell'uomo doveva far parte della fisiologia, Comte rivendicava l'autonomia dei fatti sociali e delle loro leggi; ma definiva pur sempre la società come "organismo sociale", e nella sua organizzazione scorgeva il "prolungamento" dell'organizzazione degli esseri viventi. Soltanto che, mentre quest'ultima è il risultato dell'azione di leggi biologiche, l'organizzazione sociale è il prodotto di condizioni storiche, tanto è vero che la società può anche 'disorganizzarsi', com'è avvenuto nel sistema transitorio, e richiede perciò di essere 'riorganizzata'.Il carattere 'globale' della sociologia derivava, del resto, dal modello di società organica a cui Comte si era richiamato nella sua analisi dello sviluppo della vita sociale.

Per essere organica, cioè per essere coerentemente organizzata in vista del perseguimento di uno scopo, la società deve avere una struttura unitaria; le sue parti devono essere in funzione della totalità. Anche gli individui devono cooperare alla realizzazione di quello scopo, subordinando a esso gli interessi particolari propri e della classe a cui appartengono. Ma una società dotata di una struttura unitaria può essere oggetto soltanto di una scienza in grado di studiarla nella sua unità, di una scienza 'globale'. Anche nel caso negativo di una società disorganizzata, le cui parti non contribuiscono più alla vita complessiva del corpo sociale, vale pur sempre lo stesso principio metodologico, in quanto si tratta di stabilire per quali motivi sia venuto meno in essa il carattere dell'organicità.

Questa impostazione spiega perché a base delle due parti della sociologia, la statica e la dinamica sociale, Comte abbia posto le nozioni di ordine e di progresso, e perché il problema fondamentale della sociologia - in quanto fondamento di una politica anch'essa 'positiva' - sia per lui quello della coesistenza dei due termini. La statica sociale è infatti una teoria dell'ordine, in quanto determina le condizioni di esistenza della società, cioè le condizioni che garantiscono la solidarietà tra le sue diverse parti e il consenso degli individui alle norme stabilite da un'autorità universalmente riconosciuta. La dinamica sociale è invece una teoria del progresso, in quanto determina le leggi del movimento della società, quelle leggi che presiedono al passaggio da un'epoca all'altra e, all'interno di ogni epoca, da una situazione di minore a una di maggiore perfezione. Ricondotte alla distinzione tra statica e dinamica, le nozioni di ordine e di progresso cessano di essere reciprocamente esclusive: se l'ordine ha contrassegnato lo stato teologico e il progresso quello metafisico, nello stato positivo ordine e progresso sono destinati a essere non solo compatibili, ma complementari.

Il progresso si rivela infatti come lo sviluppo graduale dell'ordine, e l'ordine si manifesta nel progresso.La sociologia si presentava perciò non soltanto come la scienza 'globale' della società, ma anche come il presupposto di una politica su base positiva. Questo aspetto utopistico del programma comtiano sarà presto lasciato cadere, o per lo meno posto in secondo piano (anche se l'aspirazione al governo scientifico della società si ripresenterà sovente nello sviluppo successivo della sociologia), mentre un rilievo sempre maggiore assumerà lo studio 'positivo' dei fatti sociali, condotto con un procedimento osservativo non difforme, nella sostanza, da quello delle altre discipline. Il positivismo si manterrà invece fedele al postulato dell'unità della società, e quindi al carattere unitario della scienza di cui essa è oggetto. Questo sarà infatti ripreso, vari decenni dopo, nei Principles of sociology (1876-1896) di Herbert Spencer, ma sulla base di una diversa impostazione.

Già nel corso degli anni cinquanta Spencer aveva elaborato una prospettiva evoluzionistica che si richiamava a Lamarck; e nel 1852 aveva letto Comte nell'esposizione riassuntiva di Harriet Martineau, dandone però un giudizio negativo. Più importante fu invece l'influenza della Origin of species di Darwin, pubblicata nel 1859, ai cui presupposti Spencer aderì con entusiasmo, trovandovi una piattaforma scientifica per il proprio evoluzionismo. L'opera di Darwin gli offriva infatti la possibilità di precisare le modalità del progresso, in cui egli aveva individuato - nel saggio Progress: its law and cause (1857) - la legge universale della realtà, valida non soltanto per la società ma per qualsiasi genere di fenomeno, sia vivente che non vivente. Il processo di selezione naturale, in virtù del quale certe specie sopravvivono adattandosi alle condizioni ambientali, mentre quelle che non riescono ad adattarsi sono destinate a scomparire, veniva inquadrato in una teoria onnicomprensiva dell'evoluzione, applicabile tanto al sorgere del sistema solare da una nebulosa originaria quanto all'ambito biologico e al mondo sociale. Spencer s'impegnava così nella costruzione di un "sistema di filosofia sintetica", enunciato dapprima nei First principles (1862) e poi sviluppato in una serie di altri 'principî' - della biologia, della psicologia, della sociologia e infine dell'etica. Il cardine di questo sistema era rappresentato dal concetto di evoluzione, definita come passaggio dall'omogeneo all'eterogeneo: da una forma meno coerente a una più coerente, dall'uniforme al multiforme, dall'indefinito al definito, da uno stato di disgregazione a uno stato di integrazione.

Nel corso del processo evolutivo si compie infatti, secondo Spencer, un processo di differenziazione della struttura e delle funzioni, che comporta anche una crescente integrazione tra le parti costitutive; e questo processo, che ha inizio nei corpi inanimati e prosegue negli esseri viventi, culmina nella vita sociale. Il progresso della società si pone quindi in un rapporto di continuità con l'evoluzione precedente, e ne costituisce in qualche modo il livello più elevato. Spencer distingueva infatti, all'interno del processo evolutivo, tre fasi fondamentali - l'evoluzione inorganica, l'evoluzione organica e l'evoluzione superorganica - identificando quest'ultima con lo sviluppo della vita sociale.Lo sviluppo della società appare perciò caratterizzato dal medesimo processo di differenziazione e di integrazione che si riscontra nelle fasi precedenti dell'evoluzione: non diversamente dall'evoluzione organica, anche quella superorganica procede dall'omogeneo all'eterogeneo, cioè da società semplici verso società complesse, anzi sempre più complesse. Spencer riprendeva la contrapposizione di Comte (e già prima di Saint-Simon) tra due forme di organizzazione sociale rivolte l'una alla conquista e l'altra alla produzione, traducendola nella distinzione tra società militari e società industriali; ma la riformulava, al tempo stesso, in base a un'analogia biologica. Nella vita sociale si possono infatti individuare, secondo Spencer, tre sistemi di organi: un sistema diretto al sostentamento dei membri del corpo sociale, un sistema regolativo e un sistema distributivo. Dal grado di organizzazione della società, e dal prevalere dell'uno o dell'altro sistema, deriva la distinzione fra tre tipi di società: le società semplici, cioè quelle primitive, prive di divisione del lavoro e quindi anche di un'articolazione in classi; le società composte, fornite di un apparato di governo; le società doppiamente composte, in cui il sistema distributivo ha acquistato una propria autonomia.

Ma le società si distinguono non soltanto per il grado di organizzazione, bensì anche per lo scopo in vista del quale sono organizzate; da questo punto di vista le società militari e le società industriali diventano momenti successivi del processo evolutivo della società. Nelle società militari prevale il sistema regolativo, e si ha quindi una cooperazione forzata in virtù della quale l'individuo è sottoposto alla coercizione del potere statale e della classe che si dedica all'attività bellica; nelle società industriali prevale il sistema distributivo, e perciò si ha una cooperazione volontaria in vista della produzione che comporta la subordinazione dello Stato all'individuo. Non per questo, però, esse rappresentano il culmine dello sviluppo sociale: lungi dall'attribuire loro un carattere definitivo, Spencer ipotizzava l'avvento di un terzo tipo di società, nel quale la distribuzione dovrà prevalere sulla produzione.Il progredire della differenziazione significava infatti, per Spencer, un grado crescente di autonomia per l'individuo nei confronti dello Stato. A differenza dell'evoluzione organica, quella superorganica procede verso l'indipendenza delle parti dal tutto; procede attraverso la sostituzione dei rapporti di scambio ai rapporti di dominio e di subordinazione, verso la limitazione dei poteri dello Stato, verso l'allargamento della sfera dell'iniziativa individuale, verso istituzioni rappresentative in grado di esprimere la volontà dei cittadini. Spencer perveniva così a identificare la società industriale con il regime liberale-rappresentativo, denunciando negli impedimenti frapposti all'individuo un tentativo di ritorno all'indietro rispetto alla direzione del processo evolutivo. Anche per lui, dunque, la sociologia assumeva una funzione politica; ma questa non aveva nulla in comune con l'ideale sociocratico di Comte. E la distanza da Comte era segnata soprattutto dall'abbandono della nozione di società organica.

Certamente, anche per Spencer la società è un organismo, e il suo sviluppo si lega a quello dell'organismo vivente; ma, a differenza di questo, è un 'tutto discreto', costituito di parti indipendenti che tendono ad accrescere la loro autonomia nel corso del processo evolutivo. Perciò la linea del progresso non va verso una società organizzata sotto la guida di un'autorità superiore, sia pure dell'autorità del sapere, ma verso una società di individui che devono cooperare liberamente in base all'interesse proprio e degli altri. Considerata nelle sue implicazioni politiche, la sociologia comtiana si proponeva come terza via tra restaurazione e rivoluzione, negando il rapporto tra società industriale e istituzioni liberali; la sociologia spenceriana si richiamava invece alla tradizione del liberalismo e del liberismo inglese, accentuandone anzi la carica individualistica.Ciò spiega perché la teoria sociologica di Spencer, per quanto meno originale e gravata dall'ipoteca di una metafisica evoluzionistica, abbia potuto avere un successo assai maggiore di quella comtiana. In Francia il 1848 segnò la fine dell'illusione di una società fondata sulla cooperazione spontanea tra le diverse classi, in grado di comporre quello che Comte chiamava l'"antagonismo" tra imprenditori e lavoratori; e la critica del comunismo formulata nel Système de politique positive era troppo ingenua per poter essere presa sul serio. Ma anche la teoria sociologica di Comte era destinata a una rapida eclisse nella sua stessa patria.

L'interesse scientifico per la società prese ben presto altre strade; si rivolse all'analisi statistica o all'inchiesta sociale, proseguendo del resto una tradizione di studi che risaliva a Condillac e alla "matematica sociale" di Condorcet. Più che l'influenza di Comte, sullo sviluppo della sociologia incise quella di Frédéric Le Play, autore di un'ampia indagine su Les ouvriers européens (1855) e di un'opera come La réforme sociale en France (1864), che era ben lungi dal condividere la fiducia positivistica nel progresso. Invece la teoria di Spencer condizionò a lungo la sociologia inglese, e trovò ampia risonanza anche negli Stati Uniti. La prospettiva evoluzionistica è ben presente nella prima generazione di sociologi americani, formatasi nella seconda metà del secolo - quella di Lester F. Ward, di Franklin H. Giddings, di Albion Small; e anche un'opera come Folkways di William G. Sumner (1906), il testo classico del relativismo culturale, si avvale largamente di strumenti concettuali desunti da Darwin.Ma già negli ultimi decenni dell'Ottocento cominciava a venir meno il rapporto con una concezione generale della storia (o, nel caso di Spencer, dell'intera realtà), che aveva consentito alla scienza della società di configurarsi come una scienza 'globale'. Nel 1887 Ferdinand Tönnies - richiamandosi all'antitesi tra status e contratto, proposta da Henry Sumner Maine in Ancient law (1861) - distingueva tra comunità e società, mentre nel 1893, affrontando lo studio della divisione del lavoro sociale, Émile Durkheim contrapponeva solidarietà meccanica e solidarietà organica: due forme di organizzazione o di solidarietà storicamente successive, ma anche due tipi suscettibili di essere impiegati nell'analisi di società concrete, per determinare la loro diversa struttura. Seppur legata da molti fili alla propria origine positivistica, la sociologia abbandonava la pretesa di costituire la scienza della società, per delimitare un proprio campo di ricerca accanto ad altre scienze sociali.

4. Positivismo e antropologia

Nel clima del positivismo evoluzionistico - ma indipendentemente da Spencer e dal quadro di un'evoluzione cosmica - è nata anche un'altra disciplina, l'antropologia, intesa non come studio della struttura fisica dell'uomo e delle caratteristiche delle varie 'razze' umane, ma come scienza dell'origine e dello sviluppo della cultura umana, in particolare delle sue fasi primitive. In realtà, l'interesse per i costumi dei popoli indigeni delle terre assoggettate dai 'conquistatori' europei era di lunga data, e aveva dato frutti cospicui nei secoli precedenti: basti pensare ai resoconti dei missionari gesuiti in Messico o in Paraguay, o a un'opera come i Moeurs des sauvages amériquaines di Joseph-François Lafiteau, apparsa nel 1724. Questo interesse si era poi esteso agli abitanti della Polinesia, in cui un filone della cultura illuministica - emblematicamente rappresentato dal Voyage autour du monde di Bougainville (1771) e dal Supplément di Diderot - aveva visto un esempio felice di libertà sessuale. Più recente è stato invece lo studio degli aborigeni della Melanesia o dell'Australia, intrapreso sistematicamente soltanto a fine Ottocento.

Da parte sua la cultura romantica era andata, sulla traccia di Herder, alla scoperta dei primordi dei popoli europei, in particolare di quelli germanici, e della loro letteratura. Verso la metà del secolo si disponeva ormai di una massa consistente di documentazione relativa sia ai costumi dei popoli extraeuropei sia a quelli degli antichi Germani o dei popoli barbari che si erano insediati in Occidente durante il declino dell'Impero romano; e un etnologo come Gustav Klemm poteva tentare l'impresa di scrivere una Allgemeine Cultur-Geschichte der Menschheit (1843) e poi addirittura una Allgemeine Culturwissenschaft (1854).
L'antropologia riprendeva quindi lo studio delle origini dell'umanità, ma lo collegava a un progetto di più ampio respiro, quello di determinare le tappe che hanno condotto dalla società primitiva alla civiltà. Nel far ciò essa accoglieva dal pensiero illuministico la partizione dello sviluppo dell'umanità in tre fasi fondamentali - lo stato selvaggio, la barbarie, la civiltà - concentrando la propria attenzione sulla prima di esse, sulla condizione originaria della vita umana. Da Voltaire a Condorcet, da Montesquieu a Ferguson, il pensiero illuministico si era occupato assai più del cammino della civiltà in epoca storica che non delle epoche che l'avevano preceduta; e l'immagine dello 'stato selvaggio' che esso offriva era piuttosto elementare. Lo stesso Herder, nell'esaltare i costumi dei popoli dell'Oriente antico, si era avvalso del racconto biblico assai più che dei dati storici già allora disponibili. L'antropologia intendeva appunto colmare questa lacuna, percorrendo un cammino in certo qual modo inverso a quello della sociologia, che era partita da un'interpretazione della società moderna e della sua struttura industriale. Non si trattava però di una semplice integrazione del quadro illuministico dello sviluppo dell'umanità: l'antropologia sorgeva da una svolta concettuale, dal riconoscimento del valore culturale dei modi di vita anche dei popoli 'selvaggi'.

La cultura non è un prodotto della civiltà, ma una dimensione originaria della vita dell'umanità che procede, e progredisce, insieme a essa: ciò consente appunto di parlare, come faceva Edward Burnett Tylor nel 1871, di "cultura primitiva" (così suona il titolo della sua opera principale). L'antropologia nasceva quindi come antropologia culturale.Questo riconoscimento comportava però, al tempo stesso, un mutamento del concetto di cultura, l'abbandono di una nozione che ne limitava l'ambito alle manifestazioni 'superiori' della vita umana distinguendole, al tempo stesso, dalla sfera politica o da quella economica, e il passaggio a una nozione più ampia, suscettibile di essere impiegata nella ricerca etnografica (come aveva del resto già fatto Klemm). La cultura veniva così a comprendere - secondo la definizione datane da Tylor in apertura di Primitive culture - "la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società". In questo senso, dunque, ogni società è portatrice di cultura, e i suoi membri partecipano a essa in virtù di un processo di acquisizione. Proprio quest'ultima caratteristica permetteva di far valere l'autonomia della nuova disciplina nei confronti di una considerazione dell'uomo in termini puramente biologici: la cultura si trasmette da una generazione all'altra non per via ereditaria, ma in virtù dell'apprendimento.Per Tylor la cultura primitiva si presentava in maniera uniforme presso tutti i popoli, cosicché essa poteva venir considerata uno stadio a sé dell'evoluzione dell'umanità. Essa poggia infatti sulla fede negli spiriti, su una visione della natura che nei fenomeni scorge il risultato dell'azione di esseri soprannaturali. In conformità alla caratterizzazione che Comte aveva dato dello stato teologico, Tylor rintracciava nella cultura primitiva un passaggio graduale dall'animismo al politeismo, e quindi al monoteismo, che veniva a coincidere con la transizione dalla magia alla religione; mentre lo sviluppo ulteriore verso una forma non primitiva di cultura si configurava come transizione dalla religione alla scienza.

Tra le diverse fasi dell'evoluzione dell'umanità vi è quindi un rapporto di continuità, e le epoche precedenti lasciano una traccia in quelle successive, sotto forma di "sopravvivenze": proprio lo studio di queste consente all'antropologia di risalire all'indietro, ricostruendo una cultura remota com'è quella primitiva.Quello di Tylor e, in generale, dell'antropologia sorta in clima positivistico era uno schema di evoluzione unilineare, applicabile a qualsiasi popolo. A questa prospettiva recava un supporto la ricostruzione del periodo arcaico della storia greca e romana, che metteva capo con Johann Jakob Bachofen alla tesi di un matriarcato originario, dal quale sarebbe derivata l'organizzazione patriarcale, e con Numa-Denis Fustel de Coulanges all'analisi della città antica considerata nei suoi fondamenti religiosi. Ne derivava l'equiparazione tra l'organizzazione sociale (e la cultura) dei popoli europei al momento del trapasso dalla preistoria alla storia e quella delle tribù americane o australiane, con la possibilità di impiegare i documenti storici sul mondo antico per la comprensione dei costumi indigeni e di utilizzare le conoscenze etnografiche a integrazione delle fonti storiche sul mondo greco e romano.

Se le fasi percorse dall'umanità nel suo sviluppo sono identiche, la differenza tra popoli europei e tribù americane o australiane si riduce al fatto che queste si trovano ancor oggi a uno stadio evolutivo che quelli si erano lasciati dietro da oltre due millenni: non il processo, ma la sua velocità, diventava l'unico criterio differenziante.Questa prospettiva è alla base del prodotto più maturo dell'antropologia ottocentesca, Ancient society di Lewis Henry Morgan (1877). Morgan riprendeva la tripartizione tra stato selvaggio, barbarie e civiltà, e l'articolava distinguendo, all'interno delle due prime condizioni di vita dell'umanità, uno stadio inferiore, uno stadio intermedio e uno stadio superiore: in questo quadro trovava posto non soltanto lo sviluppo delle tecniche produttive, ma anche quello delle istituzioni di governo e delle forme di famiglia, nonché delle strutture della proprietà. Il punto di partenza era la distinzione tra due sistemi di organizzazione sociale storicamente successivi, l'uno fondato sui rapporti di parentela e l'altro sul territorio. Il primo di questi, il sistema gentilizio, si è venuto evolvendo attraverso i tre momenti della gens, della fratria e della tribù, fino allo stadio più elevato della confederazione di tribù. Esso si ritrova in tutto il mondo, non soltanto nel continente americano o in quello oceanico ma anche nell'antica Grecia. Il secondo sistema, quello propriamente politico, si è affermato con il sorgere della vita cittadina, e comporta un nuovo criterio di appartenenza determinato su base territoriale: esso nasce con la polis e in stretto rapporto con l'istituto della proprietà, trasmettendosi quindi dal mondo antico alla società moderna.

A questo sviluppo fa riscontro la successione delle forme di famiglia: la famiglia consanguinea, la famiglia panalua, la famiglia sindasmiana, la famiglia patriarcale, e da ultimo la famiglia monogamica. Se il processo evolutivo delle istituzioni di governo ha il suo centro di gravità nel passaggio dal sistema gentilizio al sistema politico, quello dell'organizzazione familiare è caratterizzato dal passaggio dalla discendenza matrilineare alla discendenza patrilineare, che è a fondamento della famiglia monogamica. Con il sistema politico su base territoriale e con la famiglia monogamica l'umanità compie il passo decisivo verso la civiltà: un passo relativamente tardo, tuttora limitato al mondo mediorientale ed europeo.Rintracciando nel periodo arcaico della storia greca e romana istituzioni di governo e forme di organizzazione familiare non dissimili da quelle degli altri popoli, Morgan poteva qualificarlo in termini se non di società selvaggia, almeno di barbarie: lo spartiacque con la civiltà cessava di essere determinato su base rigidamente geografica. Anche gli altri popoli sono infatti destinati a compiere il medesimo cammino, ad approdare cioè alla civiltà. La differenza consiste soltanto nel diverso ritmo del processo, più rapido in Grecia e a Roma (ma anche nei popoli dell'antico Oriente), più lento altrove.

L'antropologia rivelava così la propria carica dirompente nei confronti dell'atteggiamento etnocentrico della cultura europea. Ma questo rispuntava nella conclusione di Morgan, secondo cui la famiglia dei popoli ariani - essendo pervenuta alla civiltà senza aiuto esterno, anche se in virtù di circostanze accidentali - rappresenta "la corrente centrale del progresso umano".Tale conclusione era, del resto, coerente con il modello di un'evoluzione unilineare che aveva il suo culmine nella civiltà europeo-occidentale. Ma proprio quel modello era destinato ben presto a cadere. Anche se la prospettiva evoluzionistica andrà incontro a una ripresa a partire dagli anni trenta del Novecento, già all'inizio del secolo si faceva valere - e proprio nell'antropologia statunitense, con Franz Boas e i suoi allievi - il riconoscimento dell'individualità di ogni cultura, e quindi l'esigenza di determinarne la struttura peculiare. Lo studio dell'evoluzione della cultura umana cedeva il posto allo studio delle singole 'culture', della loro storia e dei loro rapporti. Dopo la sociologia, anche l'antropologia si svincolava dal legame originario con il positivismo.

5. Dall'unità del metodo all'unità del linguaggio scientifico

Già Comte aveva affermato l'unità del metodo scientifico per tutte le scienze, assegnando alla filosofia il duplice compito di determinarne i principî comuni e di costruire un'enciclopedia delle scienze, sul modello non tanto dell'Encyclopédie settecentesca quanto piuttosto di Bacone.

Questa impostazione fu ripresa pochi anni dopo da John Stuart Mill nel System of logic, ratiocinative and inductive (1843), attraverso il richiamo diretto alla tradizione empiristica inglese. Al pari di Comte, anche Mill riteneva che la scienza dovesse muovere dall'osservazione dei fatti per pervenire alla formulazione di leggi generali; ma nel suo procedere vedeva un intreccio di metodo induttivo e di metodo deduttivo, il primo rivolto a stabilire uniformità di comportamento sulla base dei fatti osservati, e l'altro a trarre conclusioni logicamente coerenti sulla base di tali uniformità. La struttura unitaria della scienza non impediva quindi che, nelle singole discipline, i due metodi fossero presenti con peso diverso, ed eventualmente anche in maniera esclusiva.Mill condivideva la diagnosi dell'arretratezza della scienza della società, e più in generale della scienza dell'uomo, rispetto agli altri settori della scienza; e anch'egli la imputava, al pari di Comte, alla maggiore complessità del suo oggetto. Ma respingeva il dogmatismo comtiano, e in particolare la riduzione del sistema del sapere positivo alla successione di cinque scienze fondamentali, dall'astronomia alla sociologia.

La stessa scienza della società non esaurisce, per Mill, lo studio scientifico dell'uomo. Accanto alla scienza della natura fisica dell'uomo, e in posizione intermedia tra di essa e la scienza della società, Mill poneva infatti due altre scienze: la psicologia, che determina su base sperimentale le leggi del funzionamento della mente, e l'etologia, che procede invece su base deduttiva a determinare le leggi del carattere. La scienza della società era perciò definita come "la scienza delle azioni delle masse collettive dell'umanità e dei vari fenomeni che costituiscono la vita associata". Essa muove dallo studio del comportamento individuale, cercando le cause dei fenomeni sociali nell'azione degli individui che compongono la società, e le leggi a cui perviene sono il risultato delle leggi dei suoi elementi costitutivi. Non soltanto Mill lasciava quindi cadere il modello di società organica, di cui Saint-Simon e Comte si erano avvalsi per elaborare una spiegazione globale della società e del suo sviluppo, ma limitava la capacità esplicativa della scienza della società considerandola, al pari dell'etologia, una semplice "scienza di tendenze".

Analogamente, egli riconosceva che la scienza della società si articola in una pluralità di discipline, tra le quali particolare rilievo assume l'economia politica, di cui Comte aveva invece negato la legittimità, e a cui Mill dedicherà un'apposita trattazione nei Principles of political economy (1848). Lungi dal rappresentare una scienza 'globale', la sociologia si presentava come un insieme di discipline che finiva per comprendere, attraverso lo studio dei caratteri nazionali, anche la storia - e non a caso egli si riferirà positivamente, in seguito, al tentativo di determinare le leggi della storia compiuto da Thomas Buckle nella History of civilization in England (1857-1861).

L'abbandono della concezione della sociologia come scienza 'globale' dell'uomo e della società corrispondeva, del resto, a un diverso modo di intendere l'unità della scienza. Per Comte il sapere positivo doveva realizzarsi come unità sistematica di tutte le scienze e dei rispettivi sistemi di leggi; per Mill l'unità della scienza poteva riguardare soltanto il suo metodo. In questa veste il positivismo, con il rifiuto della metafisica che esso comportava, diventò la filosofia di gran parte degli scienziati ottocenteschi, anche degli scienziati sociali. Mentre la teoria della società industriale cedeva il passo a una visione conflittuale della società moderna, mentre la concezione della storia come progresso irreversibile verso un assetto sociale fondato sul sapere positivo era destinata a declinare dinanzi ai fenomeni non governabili della società di massa, la convinzione dell'unità della scienza e del suo metodo si affermò largamente, anche quando lo storicismo contemporaneo fece valere - in polemica con Comte e con Mill - la contrapposizione epistemologica tra scienze della natura e scienze dello spirito (o della cultura). Ed essa fu recepita, all'indomani della prima guerra mondiale, dal Circolo di Vienna e dal movimento per l'unità della scienza.

Su questa base si costituì il movimento neopositivistico, che nella capitale austriaca ebbe il suo primo centro, per diffondersi ben presto a Berlino e a Praga e per trasmigrare in seguito, verso la fine degli anni trenta, negli Stati Uniti. Il 'manifesto' del Circolo di Vienna, pubblicato nel 1929 con il titolo Wissenschaftliche Weltauffassung, enunciava il programma di unificazione della scienza, da realizzarsi attraverso la riduzione di ogni concetto ad altri concetti più elementari, fino al livello dei concetti che si riferiscono direttamente al dato empirico. Il terreno su cui tale unificazione doveva compiersi era quello linguistico: si trattava cioè di individuare un linguaggio comune a tutte le discipline scientifiche, che potesse garantire non soltanto la loro integrazione, ma anche la traducibilità delle proposizioni di una scienza in quelle di un'altra.

Questa prospettiva - estranea invero a Moritz Schlick, che del Circolo di Vienna fu l'esponente più significativo, così come agli esponenti degli altri circoli neopositivistici - venne sviluppata soprattutto da Otto Neurath e da Rudolf Carnap. Per entrambi il problema dell'unità della scienza poteva essere risolto soltanto attraverso la costruzione di un linguaggio unificato, riportando gli enunciati di tutte le discipline scientifiche (a eccezione di quelle 'tautologiche' come la matematica) a enunciati osservativi che denotino eventi spazio-temporali. Neurath ne indicava il modello nel linguaggio della fisica, e si faceva così propugnatore di un programma "fisicalistico". Carnap condivideva questa impostazione, e anzi tendeva a dare una versione più 'forte' del principio di riduzione, sostenendo che le proposizioni di tutte le scienze dovevano essere ridotte ai termini di un linguaggio fondamentale, che era poi il linguaggio "cosale" della fisica, cioè il linguaggio impiegato per parlare delle cose osservabili che ci circondano. Anzi, egli non escludeva la possibilità di ricondurre integralmente, in un futuro più o meno lontano, le leggi delle altre scienze a quelle della fisica.

Questo programma veniva fatto valere da Neurath anche in riferimento alla sociologia - e ciò in aperta polemica nei confronti di Dilthey e della sua concezione delle scienze dello spirito. Nel volume Empirische Soziologie (1931) egli affermava che le leggi sociologiche devono venir formulate nel linguaggio della fisica, in quanto i suoi fenomeni possono essere riportati al comportamento dei singoli individui e dei gruppi che essi costituiscono, cioè a fenomeni osservabili al pari di quelli che sono oggetto delle altre scienze. In sociologia, come pure in psicologia, il comportamentismo era il corollario della tesi fisicalistica. Non per questo, tuttavia, Neurath pretendeva che le leggi della fisica fossero trasferibili al dominio degli esseri viventi o degli individui umani: pur essendo formulabili in termini spazio-temporali, le leggi sociologiche mantengono una loro specificità.

Anche in seguito egli respingerà l'idea di una gerarchia delle scienze poggiante sulla fisica; ma l'unità della scienza tenderà ad assumere anche una portata contenutistica. Nel saggio Foundations of social sciences (1944), pubblicato nel secondo volume della Encyclopedia of unified science, Neurath perveniva infatti a concepire le diverse scienze come parti di un'unica scienza, che si presentava come "storia cosmica onnicomprensiva". Se il positivismo ottocentesco ha dato un contributo decisivo al processo di costituzione delle scienze sociali, non si può certamente dire altrettanto del movimento neopositivistico. E il programma della 'scienza unificata' ebbe scarsa influenza sullo sviluppo di queste discipline, impegnate piuttosto - intorno alla metà del secolo - a definire in maniera autonoma il proprio apparato metodologico. Lo stesso legame tra neopositivismo e comportamentismo, che si trova nell'opera di Neurath (e di Carnap), è da intendersi non tanto come un processo di convergenza, quanto come ricezione delle tesi comportamentistiche all'interno di un progetto di traduzione del linguaggio delle scienze sociali in termini "fisicalistici". Anche l'affinità talvolta asserita tra il programma neopositivistico e quello di una teoria generale dell'azione sociale, formulato da Talcott Parsons nel Social system (1951), che indicava nella psicologia, nella sociologia e nell'antropologia culturale le tre scienze sociali di base, assegnando a esse come oggetto rispettivamente il sistema della personalità, il sistema sociale e il sistema della cultura, risulta troppo generica per essere probante.

Altri erano - e altri ancora saranno - gli indirizzi filosofici con cui le scienze sociali sono entrate in rapporto: dal pragmatismo alla fenomenologia, dal funzionalismo allo strutturalismo, dal marxismo alla teoria critica della società, e più di recente all'ermeneutica. Dal neopositivismo le scienze sociali hanno tratto, tutt'al più, una lezione di rigore metodologico, che si coniugava con l'appello a un'indagine empirica priva di presupposti metafisici. Ma questa lezione poteva essere accolta proprio in quanto s'innestava su esigenze che si erano già venute affermando all'interno dei diversi settori disciplinari.