www.treccani.it
Enciclopedia online
Insieme delle dottrine e dei movimenti che attribuiscono un ruolo
centrale all'idea di nazione e alle identità nazionali. Il n.
si è storicamente manifestato in due forme: come ideologia di
liberazione delle nazioni oppresse e come ideologia della supremazia
di una nazione sulle altre.
Le origini
Il concetto nacque con la Rivoluzione francese, in stretta
connessione con le idee democratiche di J.-J. Rousseau, secondo il
quale la sovranità spettava alla nazione nel suo complesso,
concepita come un corpo unitario composto di individui eguali. Il
giacobinismo, in particolare, pose un nesso inscindibile tra popolo
e nazione, eliminando ogni realtà intermedia. Queste idee
furono esportate con le guerre della Francia rivoluzionaria e
napoleonica e, dopo la Restaurazione, furono il punto di riferimento
del cd. 'n. dell'autodeterminazione', nel contesto della tradizione
liberale e democratica.
L'età del nazionalismo
Dopo l'unificazione italiana e tedesca, dagli anni Settanta del
19° sec., il n. iniziò a configurarsi come ideologia
della politica di potenza da parte di uno Stato. Con la seconda
rivoluzione industriale, l'ingresso delle masse nella vita economica
implicò la ricerca di una strategia di integrazione politica
che condusse alla piena identificazione tra nazione e Stato, con il
fine di realizzare una solidarietà nazionale che superasse le
divisioni di classe.
Nazionalismo e guerra
Sul piano internazionale il n. fu alla radice (tra 19° e 20°
sec.) della competizione tra le nazioni europee e dello scontro
imperialistico tra le grandi potenze. All'inizio del 20° sec.
sorsero movimenti nazionalisti (per es. l'Action française,
la Lega pangermanica, l'Associazione nazionalista italiana) volti a
contrastare i regimi democratici e a disinnescare i conflitti
sociali (e la minaccia socialista). Questo tipo di n., teso a
esaltare l'identità nazionale e la politica di potenza,
contribuì in modo decisivo allo scoppio della Prima guerra
mondiale. In Italia il n. fu una delle componenti essenziali del
fascismo e diede luogo all'esaltazione dello Stato. In Germania,
invece, si legò al concetto di razza e alimentò, in
questa veste, l'ideologia nazista. Con la Seconda guerra mondiale
questi tipi di n. caddero in discredito. La versione del n. fondata
sull'autodeterminazione dei popoli continuò invece ad avere
un ruolo storico, alimentando i movimenti di liberazione dal
colonialismo nei paesi del Terzo Mondo. Forme di n. fortemente
identitario si sono sviluppate nei paesi ex comunisti dopo la caduta
dei regimi totalitari (per es. nella ex Iugoslavia).
Dizionario di Filosofia (2009)
Movimento politico e ideologico avente quale programma l’esaltazione
e la difesa della nazione. Il n. rappresenta una tendenza a un tempo
ideologica e pratica, sorta in Europa nell’ultimo trentennio del
19° sec., in parte per evoluzione del principio di
nazionalità e in parte per involuzione antidemocratica di
questo stesso principio. Spesso adoperato in senso approssimativo o
lato, il termine n. significa propriamente l’esaltazione dell’idea
di nazione, come antecedente allo Stato e trascendente gli individui
stessi, e ingloba in sé una visione conservatrice e
autoritaria dei problemi politici (tradizionalismo, antiliberalismo,
antidemocrazia) come pure una soluzione solidaristica delle
competizioni sociali (antisocialismo); punto di sbocco poi di ogni
concezione nazionalistica è la realizzazione di una potenza
nazionale, ora come frutto di espansionismo, ora di imperialismo
coloniale, ora infine come influenza culturale-spirituale.
Manifestatosi in forma ben appariscente dopo il Congresso di Berlino
(1878) e nel corso delle competizioni coloniali fra le grandi
potenze, il n. assunse forma politica determinata, per la prima
volta, in Francia, dove ebbe i propri corifei in M. Barrès,
C. Maurras e L. Daudet e il proprio organo nell’Action
française (1899). Quasi nessun Paese europeo è
sfuggito all’influsso dell’ideologia nazionalista: meno appariscente
e più istintiva in Inghilterra, essa trovò larga
diffusione sia nella Germania di Guglielmo II, dove l’idealizzazione
del Volk («popolo») già preannunziava il razzismo
del periodo nazionalsocialista, sia in Italia, ove l’iniziale
irredentismo e colonialismo trovarono nuovo alimento nel
tradizionalismo cattolico e nel solidarismo sociale. Il movimento
nazionalista italiano, iniziato da E. Corradini, ebbe il proprio
organo nel giornale Il Regno (1903) e nel 1910, dopo la crisi
dell’annessione austriaca della Bosnia Erzegovina, prese forma
più concreta come Associazione nazionalista italiana, avente
i propri capi in Corradini, L. Federzoni, V. Picardi, G. Castellini
e il proprio giornale nell’Idea nazionale (settimanale dal 1911,
quotidiano dal 1914, fuso con la Tribuna nel 1925); si
costituì in partito nel 1914, e questo nel marzo 1923 si fuse
col Partito nazionale fascista.
Il nazionalismo economico. Indirizzo di pensiero mirante a
potenziare al massimo le energie economiche della nazione e, a tal
fine, favorevole a un largo intervento dello Stato e in particolare
a varie misure di politica commerciale, produttivistica e
demografica. Massime espressioni di n. economico si ebbero
soprattutto nell’epoca del mercantilismo, si affermarono in Germania
nel sec. 19° e dopo la Prima guerra mondiale rifiorirono in
quasi tutti i Paesi del mondo.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
di Francesco Tuccari
Sommario: 1. La parola e la cosa. 2. I caratteri e lo sviluppo del
nazionalismo moderno. □ Bibliografia. 1. La parola e la cosa
Nel linguaggio politico e nel lessico delle scienze storico-sociali
il termine 'nazionalismo' viene abitualmente impiegato per indicare
fenomeni di natura e di scala assai diverse. Con esso, infatti, si
fa di volta in volta riferimento al processo storico complessivo
della formazione dello Stato nazionale; all'insieme delle idee,
delle teorie e delle ideologie che in vario modo affermano il
principio del valore eminente della 'nazione'; ai movimenti
organizzati e ai partiti che sulla base di tali teorie progettano di
fondare, di consolidare o di espandere il proprio Stato nazionale; a
uno specifico sentimento di appartenenza, che può essere
altresì 'naturale' o 'costruito'; e ancora, a un complesso di
meccanismi di comunicazione e di integrazione sociale che svolgono
una funzione decisiva nei processi di modernizzazione.
La parola è stata anche utilizzata in relazione a differenti
epoche storiche. Se vi è, infatti, un generale consenso nel
collocare gli inizi dell''età del nazionalismo' intorno alla
seconda metà del XVIII secolo, non sono mancati tentativi di
retrodatare tali inizi all'età del Rinascimento, di
post-datarli alla svolta del 1870, oppure ancora di individuarne
tracce significative nel Medioevo o nell'epoca dell'antico Israele.
Rispetto alla stessa storia degli ultimi due secoli, infine, il
termine sembra implicare una vera e propria coincidentia oppositorum
(v. Winkler, 1985). Esso è stato associato nel medesimo tempo
alle lotte di liberazione nazionale che si svolsero nell'Europa
dell'Ottocento e ai disegni di oppressione e di conquista che
sconvolsero il pianeta nel secolo delle due guerre mondiali; alle
politiche imperialistiche delle grandi potenze europee e alle
ideologie antimperialistiche delle nazioni emergenti del Terzo
Mondo; a partiti di 'destra' e di 'sinistra'; a movimenti razzisti e
democratici; a orientamenti reazionari e progressisti; a personaggi
come Herder, Fichte, Mazzini e Wilson o come Corradini, Maurras,
Mussolini e Hitler.
Prima di fissare i caratteri fondamentali del nazionalismo e di
analizzare i tempi e i ritmi del suo sviluppo, è quindi
necessario ricostruire la storia di una parola che è divenuta
nel corso del tempo eminentemente polisemica. Come vedremo,
ciò significa seguire il percorso estremamente complesso e a
tratti frammentario di un termine-concetto che dal linguaggio
normativo delle passioni politiche si è progressivamente
introdotto nel vocabolario delle scienze storico-sociali. Almeno in
parte, poi, la storia della parola è già una storia
della cosa.
A differenza del termine nazione che fu coniato già in epoca
romana, la parola nazionalismo è una creazione relativamente
recente. Prima del XVIII secolo essa fu impiegata in rarissimi casi
per indicare le nationes universitarie, vale a dire le corporazioni
di studenti e professori in cui erano tradizionalmente suddivisi,
sin dal Medioevo, i grandi atenei europei. In questo senso
Nationalismus viene menzionato nello Hübner-Staats-Lexicon del
1704 (v. Kemiläinen, 1964; v. Smith, 1971; v. Koselleck e
altri, 1992). Il termine ricompare poi nella seconda metà del
XVIII secolo, in relazione a un concetto ormai compiutamente moderno
di nazione. Lo si ritrova dapprima in un breve ma fondamentale passo
di Ancora una filosofia della storia per l'educazione
dell'umanità di J.G. Herder (1774), poi in uno scritto
dell''illuminato' bavarese Adam Weishaupt (1787) e quindi, alla
vigilia del nuovo secolo, nei Memoires pour servir à
l'histoire du jacobinisme dell'abate Barruel (1798). Nel primo di
questi testi Herder impiega la parola nazionalismo in un'accezione
decisamente peggiorativa, unendo al sostantivo Nationalism (sic)
l'aggettivo eingeschränkt (gretto, limitato). Non è
peraltro chiaro il contesto preciso di questo uso linguistico.
Secondo Federico Chabod (v., 1961) Herder avrebbe qui "crea[to] la
parola nazionalismo" per indicare il complesso di quei "pregiudizi
nazionali" che nel suo schema rendono i popoli felici, saldi e
fiorenti (v. anche Viroli, 1995). Da una nuova lettura del testo
emerge tuttavia un quadro almeno in parte diverso, su cui ha
recentemente insistito Guido Franzinetti (v., 1996): lungi dal
coniare una nuova parola, con l'espressione "gretto nazionalismo"
Herder avrebbe inteso stigmatizzare ironicamente un uso spregiativo
del termine probabilmente già consolidato prima del 1774. Se
si prescinde tuttavia da Von dem deutschen Nationalgeist di
Friedrich Carl von Moser (1766), dove compare l'espressione
nationalistische Fühlung (v. Siccardo, 1984), di tale uso non
si conoscono precedenti esempi. È altresì nel senso
negativo criticato da Herder che la parola Nationalismus riappare in
uno scritto di Adam Weishaupt del 1787, ripubblicato poi in una
seconda edizione nel 1793. "Con la nascita delle nazioni e dei
popoli - vi si legge - il mondo ha cessato di essere una grande
famiglia, un unico impero: il grande legame della natura è
stato distrutto [...]. Gli uomini hanno smesso di riconoscersi sotto
un nome comune [...] e il nazionalismo ha preso il posto dell'amore
per l'umanità [...]. Fu allora permesso di disprezzare gli
stranieri, di ingannarli e di offenderli. E una simile virtù
fu chiamata patriottismo". Questo passo fu citato testualmente, ma
in chiave fortemente polemica, nei Memoires di Augustin Barruel, a
cui è stata per qualche tempo erroneamente attribuita la
paternità del termine (v. Godechot, 1970; per contro v.
Bertier de Sauvigny, 1970; v. Franzinetti, 1996). Furono peraltro
proprio i Memoires - presto tradotti in inglese, italiano, tedesco,
portoghese, spagnolo, polacco e olandese - a fissare nelle
principali lingue europee quel significato peggiorativo che abbiamo
incontrato per la prima volta, sebbene in un contesto critico,
nell'opera di Herder.
Nel corso del XIX secolo la parola entrò nel linguaggio
corrente, ma con grandi difficoltà e, in ogni caso, soltanto
a partire dagli anni trenta-quaranta. Secondo l'Oxford English
Dictionary in Inghilterra essa comparve per la prima volta nel 1844,
come sinonimo di 'egoismo nazionale'. In Germania, invece, essa non
è riportata né dall'Allgemeines Handwörterbuch
der philosophischen Wissenschaften di W.T. Krug (1828), né
dal Deutsches Staatswörterbuch di J.K. Bluntschli (1862),
né dal Deutsches Wörterbuch di J.W. Grimm (1889), che
pure riportano un gran numero di derivati del termine nazione. In
Francia la parola è registrata dal Larousse nel 1874 come un
neologismo, mentre non compare ancora nel Littré del 1866.
Essa fu in verità impiegata già nel 1813 dal
giornalista e patriota tedesco Rudolf Zacharias Becker in un
memorandum redatto per rispondere alle accuse mossegli dai tribunali
napoleonici, ma si tratta di un caso precoce e isolato, in cui tra
l'altro la parola viene utilizzata in senso positivo, come sinonimo
di patriottismo, senza alcuna relazione con l'uso fissato da Herder,
Weishaupt e Barruel. Fu altresì il vecchio Metternich, in una
conversazione con il cattolico ultramontano Louis Veuillot (v.,
1860) avvenuta a Bruxelles intorno alla metà del secolo, ad
attestare un uso almeno relativamente diffuso della parola
nationalisme in Francia. In quel contesto, anzi, egli suggerì
al suo interlocutore un principio più generale affermando che
"quando la lingua francese aggiunge la desinenza isme a un
sostantivo essa tende a caricare la cosa menzionata di un'idea di
disprezzo e di degradazione" - una tesi, questa, che lo stesso
Veuillot riconfermò nei suoi Mélanges citando una
lettura del controrivoluzionario spagnolo Donoso Cortés. Di
un simile uso, tuttavia, non possediamo precisi riscontri. E la
circostanza è almeno apparentemente strana nel paese di
Barruel e della grande nation. Bertier de Sauvigny ha avanzato in
proposito un'ipotesi convincente, e cioè che, proprio in
ragione della sua valenza tipicamente negativa, la parola
nationalisme stentò ad affermarsi là dove gli eventi
straordinari della grande Rivoluzione avevano conferito alla parola
nazione - si pensi solo a Sieyès e alla Dichiarazione dei
diritti dell'uomo e del cittadino del 1789 - un significato quasi
sacro.
Nationalisme e poi 'nazionalismo' conobbero quindi una maggiore
diffusione al di là dei confini francesi. Essi vennero
infatti ripetutamente e consapevolmente impiegati da Giuseppe
Mazzini per indicare una forma patologica, degenerata e pericolosa
del legittimo "sentimento di nazionalità": così, per
la prima volta, in un articolo pubblicato su "La jeune Suisse" nel
marzo del 1836, e poi nuovamente in un testo del 1848, dove si
contrappone in modo esplicito l'"esprit de nationalisme" all'"esprit
de nationalité". Ancora nel 1861, in un contesto molto simile
a quello che abbiamo incontrato nello scritto herderiano, Mazzini
scriveva che la Germania non deve coltivare "un gretto
nazionalismo", una brutale politica di espansione ai danni del
diritto di tutti i popoli alla libertà, ma solo il proprio
patrimonio spirituale e morale. Un'affermazione questa - sia detto
per inciso - che rende meno netta la distinzione introdotta da
Chabod (v., 1961) fra l'idea di nazione propria della tradizione
franco-italiana (da Mazzini a Renan) e quella propria della
tradizione tedesca (da Herder a Hitler).
Tra XIX e XX secolo, nel contesto più generale
dell'età dell'imperialismo, furono soprattutto i movimenti
della destra radicale ad appropriarsi del termine nazionalismo. A
esso, tuttavia, fu conferita allora una valenza positiva:
così ad esempio da Maurice Barrès e da Charles
Maurras, da Enrico Corradini e, poi, dal fascismo italiano e dal
nazismo tedesco, il quale peraltro rimase soprattutto legato alle
retoriche della razza e del popolo inteso in senso etnico, al Volk
più che alla Nation. Classica la formulazione corradiniana:
"Certamente anche noi vogliamo essere buoni Italiani, e se il
patriottismo significa amor di Patria, anche noi siam patrioti.
[...] Ma con tutto ciò il nazionalismo è qualcosa di
diverso dal patriottismo. È anzi, sotto un certo aspetto,
l'opposto [...]. Il patriottismo è altruista, il nazionalismo
è egoista. Non godano i perfetti borghesi a sentirci
confessare il nostro egoismo, perché tutto abbiamo di diverso
da loro, e soprattutto l'egoismo. Ma certo il nazionalismo è
egoista. È l'egoismo dei cittadini rispetto alla nazione" (v.
Corradini, 1911).
Dopo Marx - che non colse ancora il significato dirompente che le
questioni nazionali avrebbero assunto verso la fine del secolo e che
interpretò di conseguenza tali questioni alla stregua di
fenomeni rilevanti ma premoderni, destinati cioè a esaurirsi
nel corso della transizione dal capitalismo alla società
senza classi - nel movimento socialista la parola mantenne la sua
tradizionale valenza peggiorativa. Essa fu anzi spesso utilizzata -
soprattutto nell'epoca della Seconda Internazionale - per
stigmatizzare gli stessi avversari interni al partito. In
Inghilterra, al contrario, nationalism iniziò ad assumere un
significato positivo o quantomeno neutrale già verso la fine
del secolo, probabilmente - com'è stato osservato - in
relazione all'emergere della questione irlandese (v. Franzinetti,
1996).
Dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale il termine si
è nuovamente caricato di pesanti connotazioni negative.
Peraltro non dappertutto. Nel quadro dei processi di
decolonizzazione e della lotta antimperialistica delle nazioni
emergenti, esso ha spesso acquisito il significato positivo che
Mazzini attribuiva al concetto di nazionalità. Esemplare, in
questo senso, un intervento accademico del birmano Htin Aung,
rettore dell'Università di Rangoon (il testo è del
1955): "Se il nazionalismo va oltre i suoi limiti, distruggendo
altre nazioni, allora non è più nazionalismo. Il
nazionalismo è come la libertà. Si ama la
libertà solo se non si apprezza soltanto la propria, ma anche
quella degli altri. Il nazionalismo è il nemico
dell'imperialismo" (cit. in Lemberg, 1964).
Nella lingua inglese e nella cultura angloamericana, invece,
nationalism è rimasta una parola priva di implicazioni
normative, che indica in modo generico e puramente descrittivo il
complesso delle dottrine e dei movimenti orientati in senso
nazionale. Nelle principali lingue dell'Europa continentale infine -
in tedesco, in francese e in italiano -, il termine ha mantenuto, in
qualche caso rafforzandole, le tradizionali connotazioni
peggiorative delle origini e tende quindi a designare una condizione
surriscaldata, esasperata e in alcuni casi 'patologica' della
coscienza o della politica nazionale.
Contemporaneamente a questi sviluppi - ma soltanto a partire dagli
anni venti e trenta del XX secolo - le scienze storico-sociali hanno
iniziato a occuparsi in maniera sistematica del problema del
nazionalismo. Fin dal principio, tuttavia, esse hanno impiegato la
parola nazionalismo in un senso assai ampio e per ciò stesso
neutrale. In questa prospettiva l'opera di Carlton J.H. Hayes - il
primo dei grandi 'padri fondatori' dello studio scientifico del
nazionalismo - ha un'importanza fondamentale. In essa, infatti,
nationalism viene a indicare idee e principî di valore opposto
da un punto di vista normativo: così negli Essays on
nationalism (1926), dove il termine è riferito al più
puro e sincero patriottismo e nello stesso tempo allo spirito di
intolleranza, al militarismo e all'imperialismo; così,
ancora, nel saggio Two varieties of nationalism (1928), in cui la
medesima opposizione viene per così dire storicizzata nella
duplice categoria del "nazionalismo originario" e del "nazionalismo
derivato"; e così, soprattutto, in The historical evolution
of modern nationalism (1931), dove compare la tipologia divenuta poi
classica del nazionalismo "umanitario" (Bolingbroke, Rousseau,
Herder), "giacobino" (Robespierre), "tradizionale" (Burke, Bonald,
Schlegel), "liberale" (Bentham, Humboldt, von Stein, Guizot,
Mazzini, Cavour), "integrale" (Maurras, Barrès, Mussolini,
Treitschke) ed "economico" (List, ma più in generale i
fautori di politiche protezionistiche, autarchiche e poi
imperialistiche).
Per quanto ci risulta, a prescindere da una schematica tipologia dei
"sentimenti nazionalisti" elaborata dal politologo Max Sylvius
Handman nel 1921, di una così radicale relativizzazione e
neutralizzazione della parola non esistono tracce prima di Hayes.
Certo, come abbiamo già visto, nella lingua inglese
nationalism iniziò ad assumere valenze in qualche modo
neutrali già verso la fine del secolo XIX. All'epoca degli
Essays, tuttavia, nel linguaggio dominante delle passioni politiche
'nazionalismo' indicava principalmente una politica di egoismo
nazionale. E ciò sia per gli 'apostoli della
nazionalità' alla Mazzini, che la deprecavano, sia per i
nazionalisti come Maurras, Barrès e Corradini, che ne
esaltavano invece le virtù. Il fatto che Hayes abbia
associato alla parola nationalism non soltanto ciò che
Mazzini e Corradini intendevano per nazionalismo, ma anche il suo
contrario - l'"esprit de nationalité" del primo e il
"patriottismo" del secondo - segna senza dubbio, quantomeno dal
punto di vista terminologico, una svolta di grande rilievo, le cui
ragioni si possono ascrivere tanto all'esigenza metodologica di una
maggiore neutralità scientifica quanto all'esperienza
concreta e drammatica della prima guerra mondiale e, quindi, delle
ambiguità storicamente connesse alla realizzazione del
principio wilsoniano dell'autodeterminazione dei popoli.
Sta di fatto, comunque, che da allora in avanti nella letteratura
scientifica il termine nazionalismo si è complessivamente
spoliticizzato, è divenuto una parola priva di connotazioni
normative forti. Nello stesso tempo, tuttavia, esso è
diventato un concetto estremamente articolato e complesso. Esso non
si riferisce più soltanto a un insieme variamente consapevole
ed elaborato di idee e di teorie che possono poi iscriversi in
costellazioni di significato e di valore radicalmente differenti. Ma
indica anche - ed è questa l'altra fondamentale novità
introdotta da Hayes - fenomeni strutturalmente eterogenei quali il
processo storico concreto della formazione dello Stato nazionale,
una disposizione d'animo più o meno cosciente degli individui
e delle collettività e, ancora, i movimenti organizzati che
pongono al centro di programmi politici coscientemente e
coerentemente perseguiti le più diverse teorie della nazione
e dello Stato nazionale: un complesso di fenomeni, in breve,
suscettibili di essere fissati in definizioni, interpretazioni,
classificazioni e cronologie assai differenti le une dalle altre.
È per l'appunto nel segno di questa accezione larga,
spoliticizzata e articolata della parola che si è venuta
svolgendo, negli ultimi settant'anni, la ricerca accademica e
scientifica sul nazionalismo. Per Hans Kohn (v., 1944 e 1962) - che
è considerato il secondo padre fondatore di questa
letteratura - esso rappresenta in primo luogo uno "stato d'animo che
permea la grande maggioranza di un popolo e che pretende di permeare
tutti i suoi membri". In questo senso, se il nazionalismo diventa
una forza storica operativa e consapevole nell'epoca di Rousseau e
di Herder, della Rivoluzione americana e della Rivoluzione francese,
della democrazia e dell'industrialismo, esso ha comunque una
preistoria frammentaria ma assai significativa che dall'epoca
dell'antico Israele giunge fino all'età dell'illuminismo,
quando il nazionalismo moderno inizia a legare i suoi destini ai due
diversi percorsi delle società aperte, pluralistiche e
liberali dell'Europa occidentale e delle società chiuse,
autoritarie e conservatrici dell'Europa centro-orientale. Anche per
Louis L. Snyder (v., 1954 e 1968) il nazionalismo è in primo
luogo uno stato d'animo, un 'sentimento politico'. Esso, tuttavia,
è soprattutto una delle forze più intense e al tempo
stesso più ambigue della storia degli ultimi due secoli: "una
forza per l'unità" (Germania e Italia), "una forza per lo
status quo" (Imperi austro-ungarico, russo e tedesco), "una forza
per l'indipendenza" (Polacchi, Ucraini, Cechi, Slovacchi, Croati,
Baltici e Finlandesi), "una forza per la fraternità"
(irrendentismo italiano, greco, serbo, rumeno, bulgaro), "una forza
per l'espansione coloniale" (Gran Bretagna, Francia, Portogallo,
Spagna, Belgio, Paesi Bassi),"una forza per l'aggressione" (Germania
guglielmina e poi nazista, Italia fascista, Giappone militarista),
"una forza per l'espansione economica" (Stati Uniti e Unione
Sovietica) e, ancora, "una forza per l'anticolonialismo' (in Asia,
Africa e Medio Oriente). Per Eugen Lemberg (v., 1964) il
nazionalismo è un fenomeno al tempo stesso psicologico,
sociologico e storico. Esso è infatti il prodotto di un
'bisogno di appartenenza' al gruppo (v. anche Shafer, 1955 e 1972)
che attiva un complesso di forze vincolanti e integrative le quali
generano, attraverso diverse fasi di sviluppo, la nazione o lo Stato
nazionale. In questo senso il nazionalismo è una
realtà pressoché universale. Nella sua forma
più matura tuttavia - vale a dire in quanto 'nazionalismo
ideologico' contrapposto al 'nazionalismo primitivo' - esso inizia a
manifestarsi soltanto nell'età del Rinascimento. Da allora,
in epoche diverse a seconda dei differenti contesti storici, esso si
sarebbe sviluppato ovunque: dapprima nella forma del 'nazionalismo
risorgimentale', propria della fase del risveglio dei popoli, e poi
in quella del 'nazionalismo integrale', propria della fase degli
egoismi nazionali - una dicotomia, questa, che ricorda assai da
vicino l'antinomia introdotta da Hayes tra il nazionalismo
'originario' e quello 'derivato'.
In una prospettiva molto diversa, Elie Kedourie (v., 1960) ha
definito il nazionalismo come "una dottrina inventata in Europa
all'inizio del XIX secolo" che, attraverso la fortuna di un
complesso di idee filosofiche proprie della tradizione occidentale,
avrebbe creato, insieme alla decisiva esperienza della Rivoluzione
francese, un "nuovo stile della politica", fortemente ideologico da
un lato ed estremamente ambiguo dall'altro. Allo stesso modo, per
Maurizio Viroli (v., 1995) il nazionalismo è un sistema
più o meno coerente di idee. Più esattamente: è
un 'linguaggio' politico tipicamente moderno che ha progressivamente
oscurato - dalla seconda metà del XVIII secolo fino alla
seconda guerra mondiale - il linguaggio apparentemente molto simile,
ma in realtà profondamente diverso, del patriottismo
repubblicano. Per Miroslav Hroch (v., 1985) e per Eric J. Hobsbawm
(v., 1990), ancora, il nazionalismo costituisce rispettivamente un
fenomeno derivato rispetto all'esistenza storica e concreta delle
nazioni e - esattamente al contrario - una realtà politica,
un programma che 'costruisce' quegli oggetti artificiali che sono le
nazioni stesse. Per entrambi, tuttavia, la storia del nazionalismo
è innanzitutto la storia dei gruppi politici che hanno
sviluppato in varie forme l'agitazione patriottica e i movimenti
nazionalistici di massa. Per Ernest Gellner (v., 1983), infine, il
nazionalismo è "un principio politico che sostiene che
l'unità nazionale e l'unità politica dovrebbero essere
perfettamente coincidenti".
Al di là delle tradizionali distinzioni tra nazionalismi
'universalistici' ed 'egoistici' e sulla scorta dell'importante
studio di Karl W. Deutsch (v., 1953), esso è soprattutto una
funzione specifica dei processi di modernizzazione: impensabile
nelle società agricole tradizionali (le società
'agro-letterate') e per contro indispensabile - come principio di
integrazione sociale e di legittimazione politica - nelle moderne
società industriali di massa.Questa rapida rassegna di alcune
tra le più rilevanti definizioni e classificazioni del
nazionalismo non esaurisce in alcun modo il quadro estremamente
articolato e in continua espansione della letteratura scientifica
sull'argomento. A essa si dovrebbero infatti aggiungere ancora - per
citare solo alcuni nomi - i lavori ormai classici di Boyd C. Shafer
(v., 1955 e 1972), di Anthony D. Smith (v., 1971 e 1986), di Hugh
Seton-Watson (v., 1977), di John Breuilly (v., 1982), di August
Winkler (v., 1985), di Theodor Schieder (v., 1991), di Benedict
Anderson (v., 1983), di Peter Alter (v., 1985), di Walker Connor
(v., 1994) e di Hagen Schulze (v., 1994). E si dovrebbe ancora fare
riferimento alle classificazioni elaborate dallo psicologo Gustav
Ichheiser (v., 1941) e da sociologi come Louis Wirth (v., 1936) e
Konstantin Symmons-Symonolewicz (v., 1965). Per non parlare poi
dello sterminato numero di studi e ricerche sulle varie vicende
nazionali dei nazionalismi vecchi e nuovi, che assai spesso
introducono elementi di riflessione di carattere più generale
- come accade ad esempio nel già citato lavoro di Hroch, che
ha per oggetto i movimenti di liberazione nazionale europei di
piccole dimensioni.
In questo contesto tuttavia - vale la pena di ribadirlo - era
soprattutto necessario mostrare: a) come le scienze storico-sociali
abbiano fatto sin dal principio un uso tipicamente neutrale e
spoliticizzato del termine nazionalismo; b) come un tale uso della
parola - per quanto poi ridefinita, aggettivata e riclassificata -
non corrisponda affatto, se non nella lingua inglese, né al
linguaggio inevitabilmente normativo della politica degli ultimi due
secoli, né alla percezione comune che soprattutto in questo
secolo si è avuta e si continua ad avere dei nazionalismi; c)
come nella letteratura scientifica il concetto di nazionalismo abbia
assunto significati estremamente diversi a seconda che si siano
ricostruite la storia o le logiche di un'idea, di un movimento
politico, di un sentimento di appartenenza o, ancora, del processo
più generale della formazione dello Stato nazionale.
Sulla base di questa letteratura ma, nello stesso tempo, di una
definizione in qualche modo meno larga di quelle che abbiamo sinora
indicato, nel capitolo che segue fisseremo schematicamente i
caratteri fondamentali del nazionalismo considerando soprattutto i
tempi e i ritmi del suo sviluppo nella storia degli ultimi due
secoli. 2. I caratteri e lo sviluppo del nazionalismo moderno
Come si è detto in principio, vi è un generale
consenso sul fatto che il nazionalismo costituisce un fenomeno
tipicamente ed esclusivamente moderno. In effetti, nel senso ampio
che abbiamo sinora incontrato nella letteratura e a maggior ragione
in quello più ristretto che qui ci interessa, affinché
esso iniziasse a dispiegare la sua straordinaria efficacia storica
dovevano svilupparsi alcuni decisivi presupposti, variamente
collegati l'uno all'altro e tali da indurre radicali trasformazioni
nella sfera dei comportamenti collettivi.
Il primo e il più ovvio di questi presupposti è lo
sviluppo di una moderna idea di nazione che, attraverso percorsi
complessi e differenziati, giunse a compimento nella seconda
metà del XVIII secolo, con le filosofie di Herder e di
Rousseau. Il secondo presupposto - su cui ha insistito soprattutto
Ernest Gellner ma su cui aveva già posto l'accento, seppure
in termini diversi, Hans Kohn - è la crisi terminale delle
società cetuali e agro-letterate della vecchia Europa e, in
prospettiva, la progressiva affermazione delle moderne
società industriali di massa. Il terzo presupposto - che vale
in verità soprattutto rispetto al modello rousseauiano di
nazione, ma che dopo la Rivoluzione francese doveva legarsi
indissolubilmente e problematicamente al principio
dell'autodeterminazione nazionale - è il progressivo trionfo
dei principî della sovranità popolare e della
democrazia, che doveva stabilire un legame strutturale tra il
concetto di popolo e quello di nazione. Il quarto presupposto infine
- su cui ha fissato recentemente l'attenzione Jean-Luc Chabot (v.,
1986; v. anche Winkler, 1985) - è il più generale
processo di secolarizzazione del mondo e di ogni forma di agire
associato, che, producendo tra l'altro la crisi definitiva delle
formule della monarchia assoluta di diritto divino, creò lo
spazio per nuove forme di legittimazione del potere, a cui doveva
rispondere la concatenazione di nazione, democrazia e
sovranità teorizzata in modo classico da Sieyès.
Da questi quattro punti di vista - che sono poi quelli quasi senza
eccezioni universalmente richiamati nella letteratura, da Hayes a
Kohn, da Shafer a Winkler, da Seton-Watson a Hobsbawm - l'età
che si apre con Rousseau e Herder, con la Rivoluzione americana e la
Rivoluzione francese, con l'avvento dell'industrialismo e della
democrazia segna un punto di svolta davvero decisivo. È
l'epoca in cui sorgono o iniziano a intravvedersi le nazioni
moderne. Con le parole di Kohn, è il periodo da cui prende
avvio l'"epoca del nazionalismo".
Fondamentale fu soprattutto l'esperienza della grande Rivoluzione:
non soltanto perché essa fissò in maniera definitiva e
irreversibile il binomio nazione-popolo e il concetto della
sovranità popolare in contrapposizione alle concezioni
dinastiche e territoriali dello Stato; non soltanto perché
tali concetti, esportati con le armi nell'Europa di antico regime,
continuarono a rimanere, anche nell'epoca della Restaurazione, un
punto di riferimento decisivo per la lotta delle nazionalità
emergenti; ma anche perché proprio l'avventura della Grande
Nation (v. Godechot, 1956) e più in generale l'epoca
napoleonica prefigurarono sotto alcuni aspetti, seppure in modo
assai problematico, il nazionalismo inteso come l'ideologia
espansionistica e aggressiva dello Stato-nazione.Nella storia
ulteriore delle nazioni e dei nazionalismi dovevano tuttavia
prodursi nuove e radicali trasformazioni.
All'idea di nazione di Rousseau e Herder, di Fichte e di Mazzini -
che era ancora strutturalmente legata ai principî
universalistici dell'umanità o al progetto di un'Europa dei
popoli - subentrò nei teorici del nazionalismo 'integrale' il
concetto ben più sinistro del 'sacro egoismo nazionale':
ciò che per l'appunto sia Mazzini che Corradini definivano,
senza aggettivi, 'nazionalismo'. Nello stesso tempo, come hanno
mostrato Hroch e poi Hobsbawm, mutò radicalmente la struttura
dei movimenti e dei gruppi nazionalistici i quali, superata la fase
puramente letteraria e folclorica dei 'risvegliatori' e quella
dell''agitazione patriottica' da parte delle prime minoranze
militanti, riuscirono a conquistarsi un ampio seguito di massa.
Nello stesso tempo, ancora, il nazionalismo divenne progressivamente
l'ideologia - integrativa all'interno e aggressiva e militaristica
all'esterno - di grandi e consolidati Stati di potenza. Questa
triplice svolta si produsse intorno agli anni settanta del XIX
secolo, dopo che la fondazione del Reich bismarckiano pose al centro
dell'Europa - contro l'antica saggezza della diplomazia europea fin
dall'epoca della pace di Vestfalia (1648) - uno Stato forte che
doveva rendere fatalmente impossibile uno stabile equilibrio tra le
grandi potenze e possibili le due guerre mondiali. È questa,
per l'appunto e in senso stretto, l'epoca del nazionalismo tout
court, o perlomeno del suo apogeo. Contemporaneamente a questo
sviluppo dominante - strettamente vincolato alle dinamiche e ai
conflitti dell'età dell'imperialismo - rimase altresì
attivo un nazionalismo dell'autodeterminazione, seppure di segno
più ambiguo rispetto al modello mazziniano: e ciò
dapprima nell'epoca del lento declino dei grandi Imperi
sovranazionali asburgico e ottomano e poi, dopo la loro dissoluzione
all'indomani della prima guerra mondiale, nell'epoca wilsoniana.
Rispetto a tali trasformazioni la storia delle nazioni e dei
nazionalismi tra il 1789 e il 1945 pone il problema di individuare
delle scansioni che siano dotate di senso e al tempo stesso
efficaci. Negli anni cinquanta L. Snyder ha individuato nella storia
del nazionalismo contemporaneo quattro diverse fasi: la fase del
nazionalismo integrativo (1815-1871), in cui il nazionalismo avrebbe
operato come una "forza per l'unità" (così,
ovviamente, nel caso dell'unificazione italiana e tedesca); la fase
del nazionalismo smembrante (1871-1890), segnata dall'aspirazione
all'indipendenza o all'autonomia di minoranze poste sotto il dominio
di Stati sovranazionali quali l'Impero asburgico e quello ottomano;
la fase del nazionalismo aggressivo (1900-1945), che fu alla radice
dei conflitti imperialistici che produssero le due guerre mondiali;
la fase del nazionalismo contemporaneo (dal 1945 in poi),
caratterizzata dai movimenti di liberazione anticolonialisti del
dopoguerra.
Questo modello, che pure descrive con una certa efficacia le
dinamiche attivate dai nazionalismi del XIX e del XX secolo, ci
sembra poco soddisfacente. Per almeno tre ragioni. Innanzitutto
perché con la dizione puramente cronologica di "nazionalismi
contemporanei" lascia altamente indefinita la natura dei
nazionalismi della decolonizzazione (va sottolineato, del resto, che
Snyder scrive a ridosso degli eventi). In secondo luogo,
perché risulta francamente un po' incerta la distinzione tra
un nazionalismo "integrativo" e uno "smembrante", dato che per certi
aspetti anche l'Italia e la Germania preunitarie appartenevano in
parte o in tutto a realtà politico-statuali più ampie,
quali lo stesso Impero asburgico e la Confederazione germanica; e
dato che anche in seguito - si pensi solo a quanto accadde dopo la
prima guerra mondiale con la dissoluzione dell'Impero austroungarico
e di quello ottomano - il nazionalismo continuò
ininterrottamente a scomporre e ricomporre realtà
politico-statuali più o meno consolidate. In terzo luogo, e
soprattutto, perché una simile tipologia tende a suggerire
l'idea che, al di là delle sue differenti dinamiche
(integrare, smembrare, ecc.), il nazionalismo rimarrebbe
fondamentalmente identico a se stesso, una realtà che muta
soltanto in superficie, nei suoi predicati o nelle sue funzioni, e
non nella sua natura: un'idea, questa, assai dibattuta e
problematica in sede storiografica, a prescindere qui da qualsiasi
questione terminologica.
È dunque più opportuno ricorrere, come si è
già detto, a uno schema più tradizionale: quello
cioè che individua un punto di svolta decisivo nella storia
delle nazioni e dei nazionalismi contemporanei nel decennio compreso
tra l'unificazione italiana (nel 1861-1870) e quella tedesca
(1870-1871). Tra gli anni della Restaurazione e quelli in cui furono
realizzate l'unificazione nazionale italiana e quella tedesca il
linguaggio della nazione e dei nazionalismi svolse - a questo primo
livello ci sembra ancora utile la tipologia di Snyder - una funzione
di carattere prevalentemente integrativo. Esso, cioè,
stimolò e registrò al tempo stesso gli sviluppi delle
lotte per la libertà, l'indipendenza e l'unità delle
nazionalità oppresse, dando così un significato forte,
e in qualche modo 'progressivo', alla costruzione di nuove
entità politico-statuali fondate sul principio
dell'autodeterminazione dei popoli. Così avvenne per
l'appunto - e su grande scala - nel caso dell'Italia e della
Germania: si pensi a Mazzini da un lato, e agli uomini del
Parlamento di Francoforte dall'altro. Certo, i processi di
unificazione politica furono poi portati di fatto a compimento
dall'alto, grazie cioè all'iniziativa militare e diplomatica
di Stati dinastici consolidati quali il Piemonte dei Savoia e di
Cavour e la Prussia degli Hohenzollern e di Bismarck. Sta di fatto,
in ogni caso, che il linguaggio della nazione rimase ancora
pressoché interamente costruito sull'idea di ricostituire la
(presunta) unione originaria di popoli - per l'appunto le 'nazioni'
- che si trovavano a essere sottomessi al dominio diretto o
all'egemonia di Stati o dinastie 'straniere'.
In questa prima fase dunque - come è stato da più
parti osservato - almeno in linea di principio l'idea di nazione fu
il veicolo di un senso di appartenenza più che di esclusione.
Non generò ancora guerre di 'conquista', ma solo guerre di
'liberazione' (anche se i confini tra i due tipi di conflitto
possono diventare assai labili, come doveva dimostrare il tentativo
hitleriano di 'liberare' i tedeschi dell'Europa centro-orientale). E
soprattutto, si venne a configurare come un principio in qualche
modo universalizzabile, conciliandosi così con i progetti di
una riorganizzazione dell'Europa su basi federalistiche.
Dopo la costruzione degli Stati nazionali italiano e tedesco - e
dunque a partire dall'ultimo trentennio del XIX secolo - per lo meno
in Europa la sintassi della nazione e dell'idea di nazione prese a
trasformarsi in maniera più o meno radicale, secondo alcune
linee già peraltro anticipate dal corso dell'unificazione
bismarckiana del mondo tedesco. Il mutamento in questo senso
decisivo fu che la 'nazione' cessò di essere l'ideologia di
un'élite politica e/o intellettuale impegnata nella
costruzione di una più ampia unità politica e statuale
per divenire, senza residui, l'ideologia legittimante e primaria di
uno Stato ormai consolidato e dotato, per definizione, degli
attributi caratteristici della sovranità. Di uno Stato,
cioè, che all'interno - in quanto Stato burocratico
centralizzato - rivendicava il monopolio dei mezzi
dell'amministrazione e della coercizione fisica, e che all'esterno -
in quanto Stato-potenza nel senso rankiano - andava confrontandosi
con altri Stati sovrani nell'arena sostanzialmente anarchica della
politica internazionale. Beninteso: fin dal XVI-XVII secolo gli
Stati moderni avevano iniziato a definirsi in questo duplice senso,
vale a dire come Stati burocratici e di potenza. È solo a
partire dalla seconda metà dell'Ottocento tuttavia - con la
rilevante anticipazione della Grande Nation francese all'epoca della
Rivoluzione e delle guerre napoleoniche - che tali Stati fecero
ricorso sistematico alle ideologie della nazione abbandonando il
riferimento alle retoriche della dinastia o a quelle puramente
politiche della ragion di Stato. Così avvenne, per fare solo
due esempi classici, nella Francia di Napoleone III e poi della
Terza Repubblica, e nella Prussia-Germania di Bismarck e poi di
Guglielmo II. In ragione di questo nuovo e diverso riferimento,
l'idea di nazione continuò a svolgere un importante ruolo di
tipo integrativo, sostenuto tra l'altro dai processi di
democratizzazione e da istituzioni pubbliche quali la scuola e
l'esercito. Tale ruolo, tuttavia, poteva adesso caricarsi - come
spesso accadde soprattutto nei regimi autoritari e totalitari del
XIX e del XX secolo - di implicazioni profondamente illiberali,
legittimando retoricamente tendenze all'omologazione e
all'irreggimentazione che potevano a loro volta autorizzare la
persecuzione di presunti 'nemici' interni: elementi 'antinazionali'
quali l'ebreo, il socialista, l'internazionalista. Nello stesso
tempo, in questa nuova costellazione, l'idea di nazione poteva di
nuovo retoricamente legittimare e alimentare - come di fatto avvenne
nell'età dell'imperialismo - la volontà di potenza
dello Stato nazionale, le logiche classiche della ragion di Stato,
l'oppressione coloniale, la nozione di una missione specifica dello
Stato-nazione nella politica mondiale, e quindi la guerra.
Se si scompone il quadro che abbiamo sin qui schematicamente
delineato si possono fissare alcune conclusioni più generali.
La prima conclusione è che nel corso del suo sviluppo tra gli
inizi dell'Ottocento e la prima metà del Novecento il
linguaggio della nazione e del nazionalismo opera su due
costellazioni di teorie e di pratiche politiche radicalmente
diverse: fino al 1860-1870 circa, la tradizione del pensiero
liberale e democratico; dopo di allora, le ideologie
dell'imperialismo. La seconda conclusione è che risulta
davvero opportuno distinguere tra 'idea di nazione', esprit de
nationalité o 'nazionalitarismo' da un lato e 'nazionalismo'
dall'altro, dato che furono proprio i contemporanei a utilizzare il
termine nazionalismo, o gretto nazionalismo, per indicare e
deplorare le profonde trasformazioni che il 'principio di
nazionalità' venne a subire quando cessò di essere
legato alla lotta di liberazione dei popoli oppressi per vincolarsi
invece alla politica di potenza degli Stati burocratici
centralizzati e alle logiche della ragion di Stato. La terza
conclusione è che, come ideologia dello Stato burocratico e
di potenza le retoriche nazionalistiche dovevano poi produrre
effetti assai diversi se interpretate alla Renan, vale a dire nel
senso di una comunità che vuole riconoscersi in quanto
nazione, o invece nel senso di una comunità oggettivamente
definita da fattori quali la lingua, il territorio, la cultura,
l'etnia. Soprattutto in questo secondo caso infatti, e in modo
particolare in quelle varianti che identificarono poi tout court la
nazione con la razza, le ideologie nazionalistiche furono veicoli di
rappresentazioni dell'appartenenza e dell'esclusione assai
più radicali. Le quali non dovevano generare soltanto la
guerra contro il nemico 'esterno' e l'opposizione contro il nemico
'interno', ma anche il genocidio e, durante il secondo conflitto
mondiale, l'Olocausto. Una quarta conclusione, infine, riguarda il
nesso tra Stato e nazione e quindi, in un senso più
specifico, tra Stato nazionale e nazionalismo.
Nella seconda metà dell'Ottocento prevaleva ancora l'idea
secondo cui la nazione doveva essere intesa in qualche modo come
un'entità preesistente allo Stato nazionale: un'entità
per così dire 'scoperta' o riscoperta dalle classi colte e
posta in essere nella sua dimensione politico-statuale dalle classi
politiche e dirigenti di aspiranti, nuovi o consolidati Stati
nazionali. Già Benedetto Croce, peraltro, aveva messo in
guardia contro simili interpretazioni, sostenendo che nel caso
esemplare della nazione italiana non si poteva certo sostenere che
la nazione esistesse prima della sua volontà di divenire
Stato. Hobsbawm, su questa medesima lunghezza d'onda, ha dimostrato
più in generale come non siano tanto le nazioni a generare lo
Stato nazionale quanto piuttosto gli Stati e le istituzioni statali
a produrre quegli artefatti ideologici che sono le nazioni:
preparate già dalla monarchia di antico regime e poi poste in
essere nel XIX secolo dalle élites dirigenti degli Stati
nazionali. In un senso assai simile Ernest Gellner ha affermato che
è il nazionalismo a generare le nazioni e non viceversa.
Soprattutto per quanto riguarda la seconda fase della parabola delle
nazioni e dei nazionalismi, il periodo compreso tra il 1860-1870 e
il 1945, rimane quindi persuasiva la tesi di Mario Albertini (v.,
1960) secondo cui i nazionalismi altro non sarebbero che l'ideologia
specifica dello Stato centralizzato e burocratico moderno.
Dopo il 1945, in ragione del suo totale discredito, il nazionalismo
ha cessato di essere un'ideologia sostenibile nella vecchia Europa e
nel contempo ha perso di senso di fronte alla divisione del pianeta
in sfere di influenza, alla guerra fredda e alla politica dei
blocchi. Esso è tuttavia riemerso come una delle ideologie
portanti dei processi di decolonizzazione e di liberazione nazionale
dei paesi del Terzo Mondo, manifestando importanti analogie con il
'risveglio dei popoli' europei del secolo precedente ma anche un
più accentuato carattere artificiale e ingegneristico. Esso
ha avuto anche una funzione integrativa assai importante nei
processi di modernizzazione, ma spesso nel quadro di costruzioni
politiche autoritarie o, come nel caso dell'America Latina,
populiste. Condizionato dalle logiche planetarie del bipolarismo,
indebolito - soprattutto nel continente africano - dalla persistenza
del tribalismo, in un rapporto complicato con i cosiddetti movimenti
'panistici' e con i fondamentalismi religiosi, questo nuovo
nazionalismo non ha impresso tuttavia il suo marchio alla politica
mondiale, come accadde invece nell'epoca classica del nazionalismo.
Non per questo però si può affermare, con Hobsbawm
(v., 1990), che il nazionalismo ha cessato di essere uno dei motori
fondamentali della storia contemporanea. All'indomani della caduta
del Muro di Berlino (1989) e poi della disintegrazione dell'Unione
Sovietica, infatti, sembrano riprodursi, in forme straordinariamente
violente, quelle stesse dinamiche 'smembranti' che tra XIX e XX
secolo caratterizzarono la lunga agonia dell'Impero asburgico e
dell'Impero ottomano. Con esiti ancora francamente imprevedibili.