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1. La n. delle cose
Agli inizi della filosofia greca n. indica il principio da cui le cose che nascono e divengono traggono origine e, in senso derivato, anche l’insieme delle cose stesse, compresi i fatti di carattere giuridico-morale. Una determinazione particolare del concetto di ϕύσις si ha con i sofisti, che contrappongono ciò che è ‘per n.’ a ciò che è ‘per legge’ o ‘per convenzione’, intendendo per n. ciò che ha in sé un suo stabile fondamento e non dipende dalle opinioni mutevoli degli uomini. Socrate, che si rivolge al mondo dell’uomo, e i cinici, che propugnano l’ideale della vita secondo n., contribuiscono a una prima definizione della sfera della n. in contrapposizione a quella dell’uomo. Per Platone la n. delle cose si fonda sulla loro realtà ideale, sui modelli eterni e immutabili; su un piano di minor valore, è considerato n. anche il molteplice sensibile. Per Aristotele, che definisce la n. come il principio e la causa del movimento di una cosa, n. è tanto la ‘materia’ su cui si esercita l’azione di questo principio, quanto la ‘forma’ della cosa, in virtù della quale essa si sviluppa e diviene ciò che è. Per gli stoici la divinità stessa è n. in quanto forza che dà vita e conserva il mondo, ed è perciò definita anima del mondo e ragione seminale.
Di contro a questa concezione si colloca, nel mondo tardo antico, quella di Plotino e dei neoplatonici, che svalutano la n., intesa soprattutto come n. corporea, in quanto situata in una sfera inferiore dell’essere rispetto alle prime realtà che gerarchicamente la precedono, pur considerandola anello necessario della catena che lega i vari gradi della gerarchia cosmica. Nella patristica e nella scolastica, la n., in quanto creata, è realtà accidentale e inferiore rispetto all’infinita e perfetta realtà di Dio creatore: essa è ciò che distoglie l’uomo dal suo vero fine, riposto in un mondo superiore e trascendente quello temporale.
Il pensiero umanistico e rinascimentale, riprendendo temi stoici e neoplatonici, rivaluta la n. facendone una realtà dotata di anima e di vita, sede delle corrispondenze ‘simpatiche’ degli esseri, espressione stessa della divinità che attraverso essa si manifesta. Sulla base di tali presupposti si spiega il grande sviluppo nella cultura rinascimentale delle correnti dell’occultismo, della magia e dell’astrologia. Accanto a queste correnti si vengono affermando a poco a poco nuovi atteggiamenti: significativi in tal senso la critica rivolta all’astrologia da G. Pico della Mirandola e da P. Pomponazzi, la considerazione della regolarità matematica della n. (L. Pacioli) e della dinamicità dei fenomeni naturali, il progressivo abbandono della fisica aristotelica e il tentativo di una interpretazione della n. iuxta propria principia, cioè alla luce delle sue forze intrinseche (Telesio).
2. La n. nella scienza e nella filosofia moderna
Con gli inizi del 17° sec., si afferma una concezione meccanicistica della n. che riduce i fenomeni naturali a mere modificazioni di un movimento ovunque uguale. Un contributo decisivo alla nuova scienza è dato da G. Galilei, che legge la n. come un libro che «ci sta aperto innanzi agli occhi […] scritto in lingua matematica». Per Galilei l’indagine deve abbandonare la ricerca dell’‘essenza’ dei fenomeni naturali per coglierne solo il ‘come’ formulandone la legge in termini matematici. Con lo studio matematico del moto e l’unificazione di n. celeste e sublunare Galilei compie la maggiore innovazione rispetto al concetto aristotelico di natura. Anche R. Descartes contribuisce alla concezione matematizzante della n. grazie al concetto della materia come estensione geometrica. La concezione vitalistica e animistica del tardo Rinascimento ha un seguito nella filosofia di B. Spinoza, con cui si effettua il passo decisivo verso una totale identificazione della n. con l’unica sostanza divina, concetto a cui il filosofo perviene soprattutto attraverso la critica del dualismo cartesiano e l’adozione del metodo geometrico deduttivo.
Nell’illuminismo, in particolare in quello francese, prevale, nella metafisica, una concezione materialistica della n. (J.O. de La Mettrie) e, nel campo morale, s’insiste sul ritorno alla n. per il conseguimento della felicità. L’identificazione di n. e ragione, in polemica con le tradizionali concezioni della società, sfocia poi nell’esaltazione del diritto naturale, della religione naturale, del metodo naturale nell’educazione ecc. Nella fondazione gnoseologica kantiana la n. appare come complesso dei fenomeni regolati da leggi universali, costruzione dell’intelletto, che ai dati ricevuti dall’esperienza impone la forma delle sue intuizioni sensibili e dei suoi concetti. Per I. Kant tuttavia, se l’uomo dal punto di vista della scienza naturale è cosa tra cose, soggetto al principio di causalità e quindi privo di libertà, dal punto di vista della ragion pratica si rivela invece libero e padrone del proprio destino. Il superamento di questo dualismo sarà tentato dallo stesso Kant e costituirà poi uno dei temi fondamentali dell’idealismo postkantiano.
Per J.G. Fichte, la n. è il limite, o non-Io, che l’Io pone a sé stesso per vincerlo e realizzarsi come attività etica. Per F. Schelling, la n. è la preistoria dello spirito, in quanto l’assoluto, unità indifferenziata di n. e spirito, si fa prima n. inconsapevole, che evolvendosi mette capo alla consapevolezza dello spirito. In G.W.F. Hegel la n., momento dell’autoalienazione o estraneazione da sé dell’idea assoluta, viene costruita aprioristicamente, secondo lo schema dialettico. Per il positivismo la n. è quella che emerge dall’indagine sperimentale. Il positivismo inoltre bandisce ogni finalismo nella considerazione della n. e, nelle sue versioni evoluzionistiche, attribuisce l’apparente armonia della n. all’operare di meccanismi di adattamento e di selezione, cui vanno ricondotte anche le forme superiori della n., comprese quelle umane.
A questa concezione reagisce, alla fine del 19° sec. e nei primi decenni del 20° sec., il neoidealismo, il quale rivendica il valore originario e assoluto dello spirito e considera la n. una forma di esperienza spirituale. Altri indirizzi della filosofia contemporanea, anche quando accolgono il concetto di evoluzione naturale, ne respingono l’interpretazione meccanicistica, rilevando nella n. l’‘emergere’ di forme nuove e originali. Di qui l’‘evoluzione emergente’ di C. Lloyd Morgan e l’‘evoluzione creatrice’ di H. Bergson.
Il naturalismo americano del primo decennio del 20° sec., pur reagendo al neoidealismo, evita di ricondurre, come aveva fatto il positivismo, le forme superiori della n., comprese quelle umane, alle inferiori, e afferma con G. Santayana: «tutto ciò che è ideale ha una base naturale, e tutto ciò che è naturale ha una base ideale», e con J. Dewey: «non possiamo separare la vita organica e lo spirito dalla n. fisica senza separare anche la n. dalla vita e dallo spirito». Una concezione organicistica della n. è teorizzata da A.N. Whitehead, in contrapposizione a quella astrattamente formale data dalla scienza fisico-matematica.
La considerazione scientifica della n., se da una parte segna il sorgere di una rigorosa filosofia naturalistica che non ammette l’esistenza di realtà extra- o sovrannaturali, dall’altra segna anche la crisi della nozione tradizionale di natura. Vengono abbandonati i progetti di una descrizione generale della n. come totalità, ai quali si sostituisce il compito meno ambizioso di descrizione delle molte n., ovvero dei molteplici settori della natura.
Filosofia della n.
Espressione (ted. Naturphilosophie) resa famosa dall’idealismo postkantiano e specialmente da G.W.F. Hegel, il quale con essa designa una delle tre partizioni fondamentali della filosofia (logica, filosofia della n., filosofia dello spirito). Si distingue dalla scienza come indagine sperimentale in quanto deduce a priori le manifestazioni naturali dall’idea di una n. in generale, e mostra come la n. si risolva nello spirito.
La riflessione sulla natura nel mondo antico. Una determinazione particolare del concetto di n. si ha con i sofisti, che contrappongono alle convenzioni (leggi) la spontaneità degli impulsi della n., che quelle malamente tentano di ostacolare. Socrate, che lascia da parte le ricerche intorno alla n. per rivolgersi al mondo che dipende dall’uomo, e i cinici, che propugnano l’ideale della vita secondo n., contribuiscono a una prima definizione della sfera della n., in contrapposizione a quella dell’uomo. Platone attribuisce alla n., regno della molteplicità sensibile e mutevole, una sua realtà distinta da quella delle idee; ma ponendo l’essenza universale e intelligibile fuori delle cose sensibili tende a considerare la n. come non-ente. Aristotele, rivendicando il valore della n., riunisce quello che Platone aveva separato; la forma e la materia delle cose, ciò che ciascuna di queste è, per cui è pensata, ossia l’essenza, e il sostrato necessario alla sua realizzazione. La n. è così intesa come divenire o generazione continua di forme. Tuttavia il principio del movimento, la radice delle forme, è in qualche cosa che – in quanto principio e non principiato, causa assoluta e non più effetto – è immobile, cioè trascende la n., che è movimento. Quindi la n., benché concepita come unità dinamica di materia e forma, riceve la forma da fuori; e senza questa animazione estrinseca, si riduce a mera possibilità o potenzialità passiva delle forme. Quindi anche in Aristotele vi è una svalutazione della n., che si ritrova altresì nel neoplatonismo, per il quale il mondo dei corpi è ombra e riflesso di Dio e ha come sostrato la materia, che è non-essere. Gli stoici concepiscono invece la n. come totalità autosufficiente, contenente in modo intrinseco il suo principio attivo, non identificabile comunque con la n. stessa, ma presentato piuttosto come anima del mondo, principio vivificante, ragione (λόγος).
Medioevo e Rinascimento. Nella patristica e nella scolastica, la n., in quanto creata, è realtà accidentale e inferiore rispetto all’infinita e perfetta realtà di Dio, creatore e trascendente. E nell’uomo essa è ciò che lo distoglie dal suo vero fine, riposto in un mondo superiore e trascendente quello temporale. Per il pensiero rinascimentale la n. non è allontanamento da Dio, ma al contrario è animata e tutta vibrante dello stesso alito divino. Diversamente da Aristotele, si ritiene ora che la n., come sola concreta realtà, vada studiata di per sé e spiegata iuxta propria principia, senza rimandi a principi estrinseci e non riducibili a essa. Donde la tendenza a identificarla con Dio (panteismo). Tendenza che, attraverso la critica del concetto cartesiano di sostanza, diventa l’assunto di Spinoza, la cui proposizione Deus sive natura esprime un’identificazione perfetta di Dio e natura.
La concezione meccanicistica e matematizzante. Da questo concetto prettamente metafisico della n. nel Rinascimento (che dette luogo anche a una concezione magica e animistica della n.) e poi in Spinoza, si viene facendo luce a poco a poco una diversa concezione, sia attraverso la critica (Pico della Mirandola, Pomponazzi) dell’astrologia, sia attraverso la considerazione della regolarità matematica della n. (Luca Pacioli), evidente particolarmente nell’astronomia, e della dinamicità dei fenomeni naturali; si afferma così una concezione meccanicistica, che riducendo i fenomeni naturali a mere modificazioni di un movimento uguale dappertutto, permetterà lo studio matematico di ogni moto, con cui si costituirà la nuova scienza, che sarà anche una nuova concezione della natura. A questa un contributo decisivo è dato da Galilei, secondo il quale la n. è come un libro che «ci sta aperto innanzi agli occhi [...] scritto in lingua matematica». Non si ha con ciò una semplice ripresa dell’antica concezione pitagorico-platonica della n., in quanto per Galilei l’indagine deve tralasciare di cercare il «che cosa» dei fenomeni naturali per coglierne solo il «come», e deve quindi tendere a ridurre questi alla legge formulata matematicamente. E con lo studio matematico del moto e l’unificazione della n. celeste e di quella sublunare Galilei compie la maggiore innovazione rispetto al concetto aristotelico della natura. Descartes contribuisce da parte sua alla concezione matematizzante della n., non tanto con la spiegazione meccanicistica di essa, fatta, a suo dire, di vortici e di materia sottile, quanto con il concetto della materia come estensione geometrica (il «pieno» degli antichi). La concezione matematizzante della n. viene ribadita dal dinamismo newtoniano, che si sforza di spiegare in modo rigoroso il moto dei corpi introducendo il concetto, non scevro di difficoltà, di forza gravitazionale.
La speculazione settecentesca e ottocentesca. Nell’Illuminismo particolarmente francese, prevale, nella metafisica, una concezione materialistica della n. (La Mettrie) e, nel campo morale, si insiste sul ritorno alla n. per il conseguimento della felicità; l’identificazione di n. e ragione, di ciò che è materiale con ciò che è razionale, in polemica con le cristallizzazioni delle strutture sociali, conduce poi all’esaltazione del diritto naturale e dei diritti naturali dell’uomo e del cittadino, della religione naturale, del metodo naturale nell’educazione, ecc. Una fondazione gnoseologica della n. si ha con Kant, per il quale la n., come complesso dei fenomeni regolati da leggi universali, è costruzione dell’intelletto, che all’informe materia ricevuta dalla realtà in sé impone la forma delle sue intuizioni sensibili e dei suoi concetti. Tuttavia, per Kant, l’uomo, dal punto di vista della stessa scienza naturale, è cosa tra cose, sottoposto alle condizioni spazio-temporali e al principio di causalità, quindi privo di libertà. Dal punto di vista invece della ragion pratica, esso si rivela libero e padrone del proprio destino. Pertanto la libertà e lo spirito sono da Kant contrapposti alla n. quale regno della necessità. Il superamento di questo dualismo e contrapposizione di n. o necessità e di spirito o libertà sarà tentato dallo stesso Kant nella Critica del giudizio (1790) e costituirà poi uno dei temi fondamentali dell’idealismo postkantiano. Per Fichte, la n. è il limite, o non-Io, che l’Io pone a sé stesso, per vincerlo come attività etica. Per Schelling, la n. è la preistoria dello spirito, in quanto l’assoluto, unità indifferenziata di n. e spirito, si fa prima n. inconsapevole, che evolvendosi mette capo alla consapevolezza dello spirito. In Hegel la n., momento dell’autoalienazione o estraneazione da sé dell’idea assoluta, viene costruita aprioristicamente secondo lo schema dialettico. Costruzione che suscita la reazione del positivismo della seconda metà del sec. 19°, il quale faceva appello alla necessità della considerazione della n. attraverso l’indagine sperimentale. Il positivismo inoltre bandisce ogni finalismo nella considerazione della n., in quanto l’apparente armonia di questa non sarebbe altro che un aggiustamento casuale e meccanico, che determina l’eliminazione automatica delle forme naturali meno adatte a sopravvivere. Con questa legge dell’evoluzione naturale si intende ricondurre le forme superiori della n., comprese quelle umane, alle forme inferiori di essa, fino a risolvere lo stesso spirito nella natura.
La filosofia novecentesca e contemporanea.
A tale concezione reagisce, alla fine del sec. 19° e nei primi
decenni del sec. 20°, il neoidealismo, il quale rivendica il
valore originario e assoluto dello spirito e considera la n. una
forma di esperienza spirituale. Altri indirizzi della filosofia
del Novecento, anche quando accolgono il concetto di evoluzione
naturale, ne respingono l’interpretazione meccanicistica,
rilevando nella n. l’emergere di forme nuove e originali. Di qui
l’«evoluzione emergente» di Conwy Lloyd Morgan e l’«evoluzione
creatrice» di Bergson. Per quest’ultimo lo «slancio vitale» della
n. organizza la materia in un processo continuo che dà luogo a
forme sempre nuove e originali. Il naturalismo americano del primo
decennio del 20° sec., pur reagendo al neoidealismo che aveva
risolto la n. nello spirito, evita di ricondurre, come aveva fatto
il positivismo, le forme superiori della n., comprese quelle
umane, alle inferiori, e afferma con Santayana che «tutto ciò che
è ideale ha una base naturale, e tutto ciò che è naturale ha una
base ideale», mentre sostiene con Dewey che «non possiamo separare
la vita organica e lo spirito dalla n. fisica senza separare anche
la n. dallo spirito». Altra concezione notevole della n. è quella
organicistica teorizzata da Whithead, in contrapposizione alla
concezione astrattamente formale della n., data dalla scienza
fisico-matematica. La considerazione scientifica della n., se da
una parte segna il sorgere di una rigorosa filosofia naturalistica
che si rifiuta di ammettere l’esistenza di realtà extra o
sovrannaturali, dall’altra segna anche il tracollo della
prospettiva tradizionale nei confronti della nozione di natura.
Vengono abbandonati infatti i progetti di una descrizione generale
della n. come totalità e dell’individuazione di un unico principio
che costituisca la n. di tutte le cose. Entra cioè in crisi nel
20° sec. la nozione stessa di n. come oggetto filosofico, che
lascia il campo a un compito meno ambizioso di descrizione delle
molte n., ossia dei molteplici settori o ambiti della natura.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
di Francesco Remotti
Sommario: 1. Natura/cultura: da domini
'naturali' a costrutti 'culturali'. 2. La cultura prima dell'uomo.
3. Cultura umana. 4. La seconda natura. 5. La seconda nascita:
tradizioni e rituali. 6. 'Finzioni' antropo-poietiche. □
Bibliografia.
1. Natura/cultura: da domini 'naturali' a
costrutti 'culturali'
Come molte coppie di concetti oppositivi, anche la distinzione
natura/cultura può dare a tutta prima l'impressione di
un'innegabile ovvietà, correlata persino a un certo grado di
osservabilità empirica. Nessuno si sentirebbe di negare che
oceani, foreste, catene di montagne, sciami di api, branchi di
ippopotami, corpi astronomici, fenomeni meteorologici appartengono
alla natura e che, invece, villaggi, città, mezzi meccanici di
locomozione, spettacoli teatrali e concerti di musica classica o
popolare ineriscono alla cultura. Un'eruzione vulcanica è
indubbiamente un fenomeno naturale; una guerra tra esseri umani e
conseguente cannibalismo rituale (come succedeva, per esempio, tra
i Tupinamba del Brasile) sono invece collocati tra i fatti storici
e intesi prevalentemente come fenomeni culturali, in quanto
coinvolgono in primo luogo società dotate di una propria struttura
economica, di un'organizzazione politica e militare, di specifiche
regole di comportamento e di valori. Con un'espressione ormai
molto usata si potrebbe tuttavia sostenere che anche natura e
cultura, nonché il loro nesso, sono frutto di invenzione. Un tempo
considerate come domini autonomi, spesso immaginati come
stratigraficamente sovrapposti, intese entrambe come 'dati'
pressoché indiscutibili, ed entrambe dotate di un'esistenza e di
una realtà 'naturale', natura e cultura vedono invece oggi
sottolineato il loro carattere di 'costrutti culturali'. Un tempo
(possiamo riferirci, per esempio, al 1949, data della prima
edizione de Les structures élémentaires de la parenté di Claude
Lévi-Strauss), la cultura, pur essendo accuratamente distinta
dalla natura, veniva concepita alla stessa stregua, cioè appunto
come un livello di fenomeni inscritto nella realtà delle cose: la
stessa distinzione dalla natura era indice e prova dell'esistenza
'naturale' della cultura. Oggi, è un po' come se la prospettiva si
fosse ribaltata. Già nella seconda edizione (1967) delle
Structures, Lévi-Strauss notava come le linee di confine tra i due
domini, un tempo ritenute nette, precise e inequivocabili, sono
oggi molto più sfumate e incerte (linguaggio e simbolismo sono
fenomeni che sempre meno possiamo accreditare soltanto alla
cultura umana). E in concomitanza di ciò prevale sempre più l'idea
che le linee di confine tra i due domini, anziché essere date e
quindi osservabili direttamente nella realtà, sono incise
culturalmente e di volta in volta tracciate a seconda delle
prospettive prescelte. Detto in altri termini, natura e cultura
sono 'oggetti teorici'. Il che non significa, ovviamente, che i
contenuti a cui si riferiscono (le eruzioni vulcaniche o i
concerti musicali) non abbiano una loro esistenza ovvero siano
prodotti di fantasia. Significa invece che fenomeni come quelli
prima esemplificati - che pure avvengono in questo mondo e sono
'naturalmente' osservabili - si trovano a essere classificati in
categorie culturalmente elaborate, le quali sono a loro volta
risultati di scelte intellettuali (anche se inconsapevoli o
sepolte nel passato culturale, nelle tradizioni linguistiche e
concettuali), nonché di vere e proprie prospettive scientifiche.
Tali risultati e tali scelte, inoltre, sono spesso riconducibili a
conflitti di idee e di posizioni, i cui esiti si sedimentano a
volte molto a lungo nella storia: a tal punto che per noi è
estremamente difficile staccarci da categorie e da opposizioni
concettuali in cui si è formato in gran parte il nostro pensiero.
È indubbio che natura/cultura sia una di quelle coppie concettuali
così 'connaturate' nel nostro modo di pensare da risultare
incastonate e quasi scolpite nel nostro mondo, per cui la stessa
proposta di considerarle come 'costrutti culturali' (quindi in una
certa misura variabili e revocabili) potrebbe suscitare
resistenze, dubbi, perplessità.
A spiegare l'idea della 'naturalità', per un verso, e del
significato 'culturale', per l'altro, della distinzione
natura/cultura contribuiscono non poco l'organizzazione del sapere
e in generale la visione scientifica del mondo quale si incarna
nelle istituzioni accademiche della civiltà occidentale. Gran
parte di queste istituzioni, della loro visione scientifica e del
sapere da esse organizzato si fonda infatti su questa prima
opposizione fondamentale. Altre distinzioni sono ovviamente
previste al loro interno, ma la distinzione natura/cultura (un
tempo interpretata soprattutto in termini di natura/spirito) è
tuttora dominante. A ben vedere, però, non si tratta soltanto di
una distinzione. Certo, si può ben comprendere che un conto è
indagare il moto degli astri e la struttura anatomica di uccelli e
cetacei, mentre tutt'altra faccenda è l'analisi filologica di un
testo poetico. Ma - specialmente se si adotta uno sguardo
dall'esterno (quello di un'osservatore da un'altra civiltà o da un
altro pianeta) - è difficile non essere sorpresi notando che, in
merito alla comprensione generale degli esseri umani (denominata
'antropologia'), non si osserva soltanto una distinzione di nomi
('antropologia fisica' e 'biologica' da un lato, 'antropologia
sociale' e 'culturale' dall'altro), ma un'opposizione acuta e
quasi inconciliabile. Non si tratta soltanto di approcci diversi,
di appartenenza a istituzioni separate, ma anche, il più delle
volte, di incomunicabilità, di assenza di scambi e di dialogo,
come se davvero le due antropologie si occupassero di oggetti del
tutto eterogenei. Nel caso dell'antropologia
(l'autointerpretazione degli esseri umani), l'opposizione
natura/cultura potrebbe a buon diritto suscitare l'idea non di una
semplice complementarità di metodi, di una forse opportuna
divisione del lavoro scientifico, bensì di una spaccatura
scarsamente motivata sul piano scientifico, di uno smembramento
più o meno accorto, di una spartizione alquanto brutale e forse
interessata. In questo caso l'alleanza (tra scienze naturali da un
lato e scienze della cultura, o socio-umane, dall'altro) risulta
probabilmente assai più incerta che altrove: è come se su questo
punto specifico - l''uomo' (in sostanza l'argomento per l'uomo
stesso di maggiore interesse e di maggiore coinvolgimento) - la
"frammentazione cognitiva del mondo" in blocchi discreti e anzi la
"spaccatura" tra i due tipi di sapere (v. Gallino, 1992, pp. IX-X
e 6) si rendessero più gravi e problematiche, tali da produrre
altri motivi di sospetto sulla validità intrinseca e quindi sulla
perpetuità di un'impostazione classificatoria natura/cultura
troppo rigidamente fissista.
Oltre alla relativa incomunicabilità tra le due sponde vi sono poi
ulteriori aspetti che inducono a riflettere sul carattere
inevitabilmente storico della formazione dei due tipi di scienze e
del loro rapporto: la gerarchia, quindi la competizione e la messa
a punto di strategie. Nell'organizzazione del sapere scientifico
dell'età moderna, la prima a essere 'inventata' come oggetto
propriamente ed esclusivamente scientifico è stata indubbiamente
la natura. Nel Seicento Francis Bacon, Galileo Galilei, René
Descartes non avevano dubbio alcuno nel conferire priorità
epistemologica alla conoscenza della natura, relegando di
conseguenza il sapere relativo alla società (ai suoi costumi, ai
suoi avvenimenti e al suo linguaggio) in una sfera di interesse
decisamente secondario, di cui occorreva diffidare e quindi
liberarsi per accedere a una conoscenza 'pura' e 'solida'
dell'ordine naturale. In questa prospettiva la natura appare come
un mondo ordinato, fatto di leggi rigorose e di relazioni stabili;
il mondo della società e della storia risulta invece
caratterizzato da variabilità, instabilità, incertezze, spesso da
assurdità. Già così si intravvede una forte opposizione tra domini
distinti; ma, oltre che di opposizione, si tratta anche di una
netta svalutazione del secondo termine. Per molto tempo nel
pensiero moderno occidentale il mondo della società e della storia
ha goduto di una ben scarsa dignità scientifica, inserito com'era
in una gerarchia che si traduceva in un'esplicita esclusione delle
'scienze umane' (espressione già ricorrente nel Cinque-Seicento)
dalla 'repubblica delle scienze', dominata dalle scienze della
natura con a capo una filosofia che poneva al centro della sua
riflessione l'ordine della natura piuttosto che la società o la
cultura.
Per guadagnare un 'posticino' (come a questo proposito avrebbe
detto Kant) nella repubblica del sapere scientifico, le scienze
storiche e sociali hanno dovuto compiere un lungo, secolare
processo di riorganizzazione del loro sapere, il cui primo
obiettivo doveva essere la dimostrazione di un ordine esistente
sia nella storia sia nella società, un ordine spesso garantito
dalla provvidenza divina (come è il caso di Vico o di Herder) e
proprio per questo ritenuto valido e indiscutibile, o un ordine
retto da una necessità immanente e tuttavia ferrea (la dialettica
di Marx e di Engels e del marxismo in generale). Anche quando
cadono le garanzie teologiche e i riferimenti rassicuranti a una
sorta di provvidenza laica, l'appello all'ordine comunque
esistente nella società, nella sua struttura, nelle sue funzioni e
nelle sue modalità di evoluzione (Comte, Spencer), assume
indubbiamente il significato di un'esplicita richiesta di
legittimazione delle scienze sociali e di un loro pieno
riconoscimento nella repubblica delle scienze. Nella seconda metà
dell'Ottocento Edward B. Tylor, l'inventore della "scienza della
cultura", ovvero dell'antropologia che poi si sarebbe chiamata
culturale, riteneva fondato sostenere che "i nostri pensieri, le
nostre volontà e le nostre azioni si conformano a leggi
altrettanto determinate quanto quelle che governano il moto delle
onde, la combinazione degli acidi e delle basi, la crescita delle
piante e degli animali" (v. Tylor, 1871; tr. it., pp. 23 e 8). In
pieno Novecento l'antropologo americano George P. Murdock non
aveva esitazioni ad affermare che la struttura sociale è dotata di
"proprie leggi naturali", le quali regolano le "permutazioni e
combinazioni" dei suoi elementi "con una precisione poco meno
soddisfacente" di quella degli atomi della chimica e dei geni
della biologia (v. Murdock, 1949; tr. it., p. 158). In genere, lo
strutturalismo del Novecento (sia nella versione di Alfred R.
Radcliffe-Brown sia in quella di Claude Lévi-Strauss) fu in
effetti un tentativo di avvicinamento programmatico
dell'antropologia (e in generale delle scienze sociali) alle
scienze naturali, una richiesta di legittimazione 'scientifica'
dell'antropologia sociale, esplicitamente interpretata
dall'antropologo inglese come una "scienza naturale della società
umana" (v. Radcliffe-Brown, 1948).
Nei programmi ora ricordati è significativo però rilevare che la
nozione di 'cultura' (nonostante Tylor) svolgeva un ruolo
decisamente secondario, quasi fosse d'impaccio e di ostacolo ai
tentativi di assimilazione delle scienze umane alle scienze della
natura (e alla loro legittimazione). In effetti nel vocabolario
concettuale degli antropologi e degli scienziati sociali in genere
la nozione di cultura dimostrava una distanza maggiore, una
resistenza più pronunciata, una maggiore refrattarietà all'ordine
che non la natura, un'opposizione più sorda e qualitativamente
meno riducibile. Su questo punto, tra Ottocento e Novecento, le
scienze umane hanno per lo più oscillato in modo assai vistoso e
contraddittorio tra due strategie nettamente divergenti.
La prima strategia (A) era volta a dimostrare che le scienze umane
sono anch'esse scienze allo stesso titolo delle scienze della
natura, poiché è unico il modo di procedere scientifico. In questa
strategia si preferisce di solito ricorrere alla nozione di
società piuttosto che a quella di cultura, dato che risulta più
agevole interpretare la società come dotata di strutture in
qualche modo autonome rispetto alle azioni degli individui e
caratterizzata da funzioni che prescindono dai significati che gli
stessi individui conferiscono loro. In questo tipo di prospettive
(il positivismo nell'Ottocento, il funzionalismo e lo
strutturalismo nel Novecento) alla nozione di cultura viene
assegnato un ruolo decisamente secondario, mentre sono favorite le
nozioni - come, in modo tipico, quella di 'struttura sociale' -
che assicurano un avvicinamento più deciso alle scienze naturali.
Le stesse scienze umane vengono in effetti interpretate come
un'applicazione - sia pure non sempre garantita e soddisfacente -
dei metodi d'indagine delle scienze naturali alla realtà storica e
culturale dell'uomo. Potremmo raffigurare questa strategia di
avvicinamento, fondata sull'idea della superiorità delle scienze
della natura, con lo schema seguente: sN( + )←sC( - ).
La seconda strategia (B) coincide invece con una rivendicazione
esplicita dell'autonomia delle scienze umane, interpretate
significativamente come 'scienze dello spirito' o della 'cultura'.
In questa prospettiva non si tratta di attenuare le divergenze e
accorciare le distanze, ma di accettare e anzi di accentuare la
differenza tra scienze umane e scienze naturali e di affermare che
esistono non uno, ma due tipi di scientificità. Pertanto - come è
apparso evidente nelle correnti di solito designate come
'storicismo tedesco' (da Wilhelm Dilthey a Wilhelm Windelband e
Heinrich Rickert, da Georg Simmel a Max Weber) - l'obiettivo non
era quello di entrare nella repubblica delle scienze già occupata
dalle scienze naturali facendo proprie le loro caratteristiche di
fondo, bensì di rivendicare la possibilità di una configurazione
autonoma, di una repubblica a parte. Significativamente in queste
correnti, così come nelle tendenze più recenti che a esse si
ispirano in sociologia e in antropologia, la nozione di cultura
svolge spesso un ruolo di primo piano: il suo carattere oppositivo
e differenziante (rispetto alla natura o alla biologia) viene
infatti utilizzato come base e giustificazione dell'autonomia
delle scienze che la assumono a oggetto. È molto probabile che un
ricorso esplicito e massiccio alla nozione di cultura (piuttosto
che a quella di struttura sociale) porti con sé un'impostazione
che privilegia la ricerca del particolare rispetto al generale,
delle differenze rispetto alle uniformità, dei significati
rispetto alle leggi. Il caso dell'antropologia di Clifford Geertz
(v., 1973) è emblematico al riguardo. In modo analogo,
raffiguriamo questa strategia autonomistica, motivata dalla
duplicità dei tipi di sapere scientifico, con uno schema siffatto:
sN( + )//sC( + ).
Occorre però evitare una visione bipolare che fissi le due
alternative ora enunciate (A e B), con le scienze umane
continuamente indecise o alternativamente oscillanti tra un
programma di avvicinamento e di assimilazione alle scienze della
natura (A) e un programma di rivendicazione di una propria
peculiarità e autonomia (B). Questa visione non terrebbe in debito
conto i mutamenti che pure avvengono sull'altro versante, quello
delle scienze naturali. Una terza posizione (C) si è infatti
venuta a delineare in modo sempre più chiaro e incisivo,
soprattutto grazie alle analisi che filosofi ed epistemologi hanno
condotto nell'ultimo trentennio sulle vicende, sulle conquiste e
sulle modalità di mutamento del pensiero scientifico. Lungi
dall'apparire come lo specchio fedele della natura, la scienza
(anche il tipo più 'duro' di scienza) è stata interpretata come
un'impresa collettiva che funziona normalmente attraverso
l'elaborazione e la condivisione di paradigmi, ovvero di schemi
mentali che guidano e orientano la ricerca e la raccolta dei dati
(v. Kuhn, 1962).
Certo, proprio Kuhn ha sottolineato come vi siano posizioni
diverse circa l'accettazione e il consenso sui paradigmi: è
evidente, per esempio, secondo Kuhn, che la situazione delle
scienze sociali è talvolta 'pre-paradigmatica' rispetto a quella
delle scienze naturali, in quanto nelle prime esiste un tasso
notevolmente maggiore di confusione e di incertezza su obiettivi e
metodi, mentre nelle seconde l'esistenza di paradigmi garantisce
un ordine maggiore e dunque anche una maggiore efficacia e
operatività (ibid.; tr. it., p. 10). Ma i paradigmi (anche quelli
delle scienze naturali) sono schemi mentali, curiosamente molto
avvicinabili alla nozione di cultura imperante o prevalente nelle
scienze umane e nelle discipline umanistiche. I paradigmi non sono
il rispecchiamento della natura: sono invece - per Kuhn - il
prodotto di scelte di orientamento generale che si verificano - e
che di solito competono tra loro - nella storia delle comunità
scientifiche. Avendo alla loro base delle scelte, i paradigmi
comportano sempre una qualche dose di arbitrarietà e una natura
comunque 'convenzionale', nonostante gli sforzi di coloro che vi
aderiscono di occultare questi caratteri.Senza dubbio i paradigmi
sfruttano indicazioni oggettive e appigli naturali; non solo, ma
quanto più sono buoni, tanto più promuovono osservazioni
dettagliate, accumulo di dati e verifiche, approfondimenti
teorici, insomma 'progresso' scientifico. E tuttavia, per la loro
radicale arbitrarietà e convenzionalità, anche i migliori
paradigmi tendono alla fine a esaurirsi. Un'osservazione più
accurata, un'analisi più approfondita non possono che generare
anomalie, ovvero una sempre più consistente e preoccupante messa
in evidenza dei limiti, delle ottusità e delle oscurità dei
paradigmi adottati: l'aumento dei casi anomali, dei casi cioè che
non possono più semplicemente essere relegati nella categoria
residua e innocua delle eccezioni, provoca una sorta di erosione
dei paradigmi, un progressivo venir meno della loro credibilità.
Anche sotto questo profilo, essi appaiono come frutto di intese,
accordi, convenzioni, da cui si generano tradizioni più o meno
produttive che le comunità scientifiche tendono di volta in volta
ad adottare e difendere, o a combattere e distruggere, a mantenere
nonostante tutti i fallimenti o a sovvertire in modo più o meno
repentino e violento.
Con la nozione kuhniana di paradigma si è fatta strada
nell'epistemologia del secondo Novecento l'idea che anche la
scienza naturale sia un fatto di cultura: tra l'occhio 'puro'
dello scienziato e le strutture oggettive della realtà che egli
indaga, o pretende di indagare, con atteggiamento libero (secondo
una visione 'a-culturale' o 'pre-culturale' della scienza), si
inserisce un'altra realtà, quella delle varie comunità
scientifiche con i loro presupposti non sempre dichiarati, i loro
pregiudizi, le loro tradizioni più o meno imponenti e autorevoli,
i loro 'costumi mentali', in definitiva con la loro 'cultura' (in
senso inequivocabilmente antropologico). Saranno perciò anche
diverse, di fatto, le situazioni delle comunità scientifiche (più
ordinate e paradigmatiche quelle naturalistiche, più disordinate e
pre-paradigmatiche quelle umanistiche); ma lo scarto non è più
così decisivo da invocare (strategia B) una differenza qualitativa
di metodo o di oggetti (secondo le opzioni di tipo storicistico),
né le scienze naturali possono più vantare una stabilità e una
trasparenza tanto adamantina da trasformarle in un modello a
stento avvicinabile da parte delle scienze della cultura
(strategia A). Con la situazione descritta le strategie A e B
divengono indubbiamente obsolete. Ciò che si prospetta è invece
(C) un avvicinamento consistente di scienze della natura e scienze
della cultura sulla base del riconoscimento che anche le scienze
della natura esprimono ed elaborano - con i loro paradigmi - una
cultura (quella, se non altro, delle comunità scientifiche). Si
tratta dunque di un avvicinamento (secondo la strategia A), ma di
un avvicinamento operato mediante una nozione - quella di cultura
- centrale e decisiva nella prospettiva opposta, della separazione
e dell'autonomia (strategia B). Per fissare anche qui il concetto
con una formula, proponiamo il seguente schema: sN( + )↔sC( + ),
in cui la doppia freccia sta a indicare la diminuzione della
distanza e il venir meno della separazione qualitativa. Ma è
importante notare che nella situazione C sono soprattutto le
scienze della natura (sN) ad accogliere - o a dover accogliere -
come parte irrinunciabile dei loro programmi un fattore
fondamentale e decisivo delle scienze opposte, la cultura -
fattore che (come abbiamo visto nella strategia B) era stato
utilizzato per giustificare la separazione e legittimare
l'autonomia epistemologica delle scienze che l'assumevano come
oggetto. Un po' come dire che con C non solo viene meno la
gerarchia sN>sC, già contestata dalla strategia B, ma si
registra un'apertura delle scienze della natura nei confronti
delle scienze della cultura, una maggiore attenzione per ciò che
le sC avrebbero (potenzialmente) da dire sulla stessa formazione e
organizzazione delle sN. Con il riconoscimento della cultura nelle
scienze della natura come loro dimensione insopprimibile e vitale
si apre la strada a forme di sapere sC che, con maggiore o minore
cautela, si introducono nella repubblica delle scienze sN. E
questa introduzione - come è il caso della sociologia della
scienza e, più recentemente, dell'antropologia della scienza - non
comporta soltanto l'occupazione di uno scranno, ma assume anche il
significato di una ricognizione della composizione della
'repubblica' e di un'indagine critica sui principî e sulle
categorie generali o particolari mediante cui essa è organizzata,
ponendo in luce - indipendentemente dalla loro efficacia - il loro
carattere convenzionale, anziché naturale, negoziale e sempre un
po' arbitrario, 'finzionale' invece che necessario e inevitabile.
È in questo modo che l'opposizione certa e sicura di natura e
cultura ha perso la sua parvenza naturalistica per assumere invece
una pregnanza eminentemente culturale.
2. La cultura prima dell'uomo
Anche sul piano oggettivo (e non solo su quello metodologico) si
assiste, ormai da alcuni decenni, a un riconoscimento
significativo della cultura nel regno della natura. Molte delle
posizioni adombrate nei punti precedenti (in particolare A e B)
condividevano il presupposto di una coincidenza e sovrapponibilità
quasi perfetta di 'cultura' e 'umanità': l'uomo è fatto di cultura
e la cultura sarebbe una prerogativa riservata all'uomo, un suo
appannaggio esclusivo. Buona parte dell'antropologia culturale del
Novecento ha ereditato e fatto proprio questo presupposto
umanistico: un accoppiamento unico e inscindibile che appare nella
stessa denominazione di questa disciplina. Ma anche questo
paradigma (cultura = umanità) che ha avuto molta fortuna e ha
fatto indubbiamente la fortuna degli antropologi culturali, per
quanto difeso strenuamente, svela smagliature e cedimenti almeno
locali: non si è ancora assistito, forse, a una sua decisiva
perdita di credibilità solo in quanto si è avuta l'accortezza di
fare concessioni parziali e circoscritte. Ormai, anche gli
antropologi culturali sono disposti (v. per esempio Harris, 1987)
a riconoscere che la cultura non è un fatto esclusivamente umano.
Esempi di cultura (tradizioni, costumi socialmente acquisiti o
appresi) sono infatti rinvenibili in diverse specie animali: non
soltanto nei macachi dell'isoletta di Koshima che inventano e
trasmettono l'abitudine di gettare manciate di chicchi di grano
nell'acqua marina per liberarli dalla sabbia, non soltanto nella
capacità di usare strumenti da parte dello scimpanzé che infila un
ramoscello nel termitaio per catturarvi le termiti (e dunque in
esseri animali indubbiamente vicini all'uomo sotto il profilo
genetico), ma anche nelle cinciallegre che hanno imparato e
insegnato a bucare la stagnola delle bottiglie di latte depositate
sulla soglia delle case inglesi o negli usignoli che inventano
stili di canto diversi a seconda dei luoghi e delle zone, vere e
proprie tradizioni locali che gli individui devono apprendere (v.
Bonner, 1980). Episodi minimi, forse, e che certamente non
intaccano la validità della tesi secondo cui, tra tutte le specie,
Homo è la 'più culturale' che sia possibile osservare sulla terra,
quella che ha affidato alla cultura le sorti della sua
sopravvivenza e del suo stesso successo biologico. Ma per quanto
minime possano essere considerate le manifestazioni culturali
delle altre specie animali rispetto a quelle dell'uomo, esse
valgono comunque a smentire la tesi secondo cui la cultura è
un'invenzione esclusivamente umana. La cultura si prospetta invece
come una possibilità zoologica, di cui l'uomo si è certamente
impadronito e avvalso, e che è tuttavia preesistente all'uomo
stesso. Sotto questo profilo la cultura non può più essere
considerata come termine antitetico rispetto alla natura, bensì
come una sua dimensione interna di per sé indipendente dall'uomo,
che perciò - al di là di ogni proclamazione di esclusività
antropologica - riconduce inesorabilmente l'uomo all'ambito della
natura.
La cultura è stata spesso utilizzata come un mezzo per segnare il
territorio propriamente umano, per far sembrare l'uomo come un
essere a parte rispetto al restante mondo animale e in generale
alla natura. Presupposto di questa operazione di 'recinzione'
dell'umanità è stata la tesi della coincidenza esclusiva di
umanità e cultura. L'uomo come unico inventore, costruttore o
fruitore di cultura è l'immagine che promana da quella tesi, il
cui significato è rivendicare per l'uomo un ruolo unico e
irripetibile, che lo rende incomparabile con qualsiasi altro
animale. La funzione un tempo svolta da concetti sostanzialmente
religiosi come anima e spirito - quella cioè di rendere l'essere
umano una realtà qualitativamente distinta nel regno animale - è
stata svolta più di recente e in modo più laico (con
l'affermazione delle scienze umane e sociali) dalla nozione di
cultura. Questa funzione non può più però essere attribuita alla
cultura in quanto tale nel momento in cui si riconosce che anche
altri esseri animali sono 'culturali' (per quanto in gradi
diversi) e che dunque la cultura, come possibilità zoologica, ha
preceduto e non seguito l'origine e la storia dell'umanità. L'aver
spezzato il legame di corrispondenza biunivoca tra cultura e
umanità non comporta soltanto una dilatazione extra-antropologica,
e dunque zoologica, della cultura, ma anche una ridiscussione (se
non proprio una smentita) dell'unicità dell'uomo nella natura. La
tesi della priorità della cultura (come dimensione biologica o
zoologica) sull'uomo impone inoltre una revisione dello stesso
processo di ominazione. La cultura non è più configurabile come un
obiettivo e neppure come una tappa di tale processo, bensì si
caratterizza come una delle sue condizioni iniziali: è stato cioè
possibile innescare un processo che ha biologicamente condotto
all'umanità, in quanto la cultura rientrava già tra le possibilità
a disposizione di esseri che certamente non erano umani. Detto in
altro modo, non vi sarebbe stata l'umanità se prima non vi fosse
stata cultura. La priorità biologica della cultura va quindi
intesa nel suo più ampio senso zoologico: essa è infatti una
possibilità comportamentale riscontrabile anche in esseri animali
che non hanno nulla a che vedere con il processo di ominazione.
Non si tratta dunque soltanto di retrodatare l'invenzione della
cultura alle fasi iniziali del processo di ominazione (anziché
porla tra i suoi esiti più cospicui), ma di vedere distribuita
questa possibilità in varie forme del mondo animale, in modo
indipendente e prioritario rispetto alle vicende biologiche che
hanno dato luogo agli esseri umani.In che cosa consiste questa
cultura pre-umana? Dire 'cultura' significa riferirsi a una
dimensione del comportamento animale non determinata
geneticamente. 'Cultura' implica infatti un'opposizione con ciò
che si considera innato, istintivo, fissato rigidamente - sia nel
comportamento, sia nella struttura fisica - dalle leggi
dell'ereditarietà. Affinché la definizione del comportamento
culturale non rimanga nel vago e non sia data solo in termini
negativi, John T. Bonner ha proceduto a una riformulazione
indubbiamente efficace e significativa. Egli propone infatti di
tradurre l'opposizione innato/culturale nella distinzione tra
comportamenti "con risposta singola" e comportamenti come
"risultato di una scelta multipla". Anche a prescindere dallo
sviluppo culturale umano, e dunque in una visione globalmente
zoologica, la cultura si prospetta come una dimensione "fortemente
condizionata dal sorgere e dal progressivo affermarsi di
comportamenti che presentano possibilità molteplici di scelta" (v.
Bonner, 1980; tr. it., pp. 191-192). Sotto il profilo evolutivo la
flessibilità comportamentale dovuta alla molteplicità di scelte ha
dimostrato un alto valore adattivo, soprattutto per quanto
riguarda l'accesso a nuovi territori e a nuove fonti di cibo (p.
203). La trasmissione di informazioni per via genetica ovviamente
non scompare, ma - se si considera l'evoluzione dei vertebrati -
pare di poter scorgere una successione di tappe, in riferimento
alle quali il cervello si pone come un "sistema in più" rispetto
al genoma per immagazzinare, elaborare e trasmettere informazioni,
e anzi finisce per prendere funzionalmente il sopravvento, come
sarebbe comprovato dalla sua acquisizione di dimensioni sempre
maggiori (p. 218). Apprendimento e insegnamento (e ciò, ancora una
volta, a prescindere dalle linee evolutive che avrebbero condotto
all'umanità) si rivelano tanto più efficaci e indispensabili
allorché si tratta di fronteggiare situazioni caratterizzate da
molteplici possibilità di scelta. Ma non si tratta soltanto di
possibilità offerte dall'ambiente; lo stesso cervello con il suo
funzionamento inventivo e creativo incrementa il loro numero (p.
221).
Per quanto aurorali questi elementi possano apparire presso gli
altri animali - se confrontati con il loro enorme sviluppo nella
realtà umana -, il criterio della molteplicità di scelte e quindi
il processo di insegnamento/apprendimento che ne consegue si
configurano come condizioni ampiamente verificabili in molte
specie (si tratti di mammiferi o di uccelli), cosicché risulta
legittimo parlare di cultura in relazione a diversi loro moduli
comportamentali. Bonner individua cinque categorie di
comportamento, nelle quali si articola prevalentemente la cultura
animale: 1) destrezza fisica, che consente l'uso di strumenti
(come le spine con cui i fringuelli delle Galapagos estraggono
larve dagli alberi, o i ramoscelli con cui gli scimpanzé catturano
le termiti); 2) rapporti con specie diverse (soprattutto le
tecniche per sfuggire ai predatori); 3) comunicazione acustica tra
conspecifici (forme di canto dialettali tra uccelli); 4)
riconoscimento di aree geografiche (capacità di molti uccelli di
scegliere la direzione corretta nei voli a lunga distanza, rotta
migratoria, individuazione del luogo di destinazione); 5)
invenzioni e innovazioni che, dovute indubbiamente a un primo
individuo (o anche a più individui), si impongono come tradizioni
(pp. 227 ss.).
Un punto su cui riflettere è costituito dall'instaurarsi di
tradizioni locali. Sembra di poter affermare che in una
prospettiva etologica vi sia un'equivalenza tra cultura e
tradizioni, ovvero che le tradizioni - riscontrabili in diverse
specie animali - vengano intese come il prodotto di un
atteggiamento o di un comportamento culturale. Se così è, si
determina allora una differenza significativa tra la condizione
preliminare che consentirebbe lo sviluppo della cultura e il suo
esito terminale: la condizione iniziale coincide con una
molteplicità di alternative possibili tra cui scegliere; l'esito
terminale è invece il frutto dell'esercizio di una scelta
consolidata (tradizione). Anche attraverso i 'rituali',
riscontrabili presso diversi animali, si produce un irrigidimento
comportamentale che riduce drasticamente le molteplicità
inizialmente offerte dall'ambiente o elaborate autonomamente dal
cervello. Tradizioni e rituali - segni caratteristici e
inequivocabili di cultura - si trovano per così dire sul versante
produttivo e riduttivo della cultura, la quale, dunque, è sì
sollecitata dalla molteplicità delle scelte (momento sorgivo e
inventivo), ma finisce per ridurne drasticamente numero e portata.
Una cultura che si limiti al momento nascente, alla situazione
pluralistica del suo relativo inizio, è inesorabilmente condannata
a spegnersi, a svanire nel breve (e quasi istantaneo) spazio
dell'invenzione. Ritualità e tradizione svolgono infatti funzioni
conservative e ripetitive delle scelte inizialmente adottate e,
con la memoria, garantiscono la continuità culturale, sottraendo
la cultura (fascio o flusso di informazioni trasmesse attraverso
il medium comportamentale, non iscritte nel patrimonio genetico)
al rischio dell''evanescenza' e della dispersione delle
informazioni, che incombe in effetti su ogni forma di cultura, sia
essa animale o umana. Il rischio dell'evanescenza
dell'informazione è il prezzo che tutti gli animali culturali
(uomo compreso, ovviamente) sono costretti a pagare per poter
sfruttare al meglio il vantaggio della molteplicità di scelte e
della flessibilità comportamentale. Per ridurre tale prezzo e per
ovviare a tale rischio gli animali culturali ricorrono
all'irrigidimento rituale del comportamento e ai meccanismi
ripetitivi tipici delle tradizioni. La cultura dunque si sviluppa
a partire da una situazione caratterizzata da una molteplicità di
scelte; ma i suoi prodotti più tipici, i suoi segni più
inequivocabili (ritualità e tradizioni) riducono drasticamente la
molteplicità originaria, incanalando il comportamento ed
eliminando (o emarginando) le possibilità alternative.
3. Cultura umana
Posta in una prospettiva largamente zoologica, la cultura appare
come una dimensione dotata di una certa 'normalità': si tratta
infatti dello sfruttamento sul piano comportamentale di
possibilità alternative che garantiscono un maggiore successo
evolutivo. In questa prospettiva (che, come abbiamo visto, rifiuta
la coincidenza esclusiva tra cultura e umanità) il caso della
'cultura umana' si impone però in modo particolarmente vistoso. È
indubbio che l'uomo sia l'animale maggiormente culturale, quello
che ha affidato allo sviluppo della cultura le sue chances
evolutive in misura straordinaria e senza paragone alcuno con
altre specie. Si potrebbe persino asserire che dal punto di vista
zoologico (e cioè a confronto delle altre specie animali) il
ricorso degli esseri umani alla cultura assume un aspetto quasi
abnorme: la capacità culturale delle altre specie è assai più
contenuta e controllata, mentre nella specie umana essa ha assunto
non solo dimensioni inedite, ma anche possibilità autoproduttive e
autoriflessive che ben difficilmente potremmo immaginare in altre
parti del mondo animale.
La prospettiva zoologica della cultura determina due effetti. Il
primo (come abbiamo già visto) consiste nel ribaltare
fondamentalmente i termini del rapporto causale e cronologico
umanità-cultura: non è più l'umanità a essere considerata l'unica
produttrice di cultura (U→C) ma, al contrario, si pensa che la
cultura sia stata una delle condizioni che hanno reso possibile
l'emergere dell'umanità (C→U). Il secondo effetto concerne le
modalità di acquisizione della cultura umana. Fino a quando si
riteneva l'umanità unica produttrice di cultura, il paradigma
imperante nelle scienze umane è stato quello stratigrafico: a una
natura umana già completata si sarebbe sovrapposta la cultura, e
l'uomo, originariamente nudo e integro, dotato delle sue
specifiche strumentalità naturali, avrebbe a un certo momento
inventato e acquisito la cultura. Secondo questo paradigma, la
cultura viene necessariamente 'dopo' e interviene per fornire
soprattutto utilità e comodità. Senza cultura, l'essere ominide o
protoumano avrebbe incontrato maggiori difficoltà di adattamento
ambientale; con l'invenzione della cultura questo essere avrebbe
invece risolto più rapidamente i suoi problemi di sopravvivenza,
dando inizio in tal modo a un altro tipo di evoluzione, ovvero
l'evoluzione tipicamente ed esclusivamente umana della cultura.
Caratteristica significativa del modello stratigrafico è l'idea
dell'inizio della cultura come un punto di innesto o momento di
attacco pressoché subitaneo. In effetti, prima non c'era affatto
cultura; 'ora' (anche se è impossibile posizionare
cronologicamente tale momento) comincia a esserci. Si tratta di un
momento breve, ma anche di un passaggio decisivo: un punto
critico, un salto, un balzo. Per Alfred Kroeber esso coincide con
"una profonda alterazione", non con "un mero miglioramento di ciò
che già esisteva", con l'emergere di un "fattore nuovo", non "un
anello di una catena, un passo lungo un cammino, ma un balzo su un
piano diverso". L'inizio della cultura viene paragonato all'inizio
della vita: un evento "a prima vista di scarsa importanza",
"apparentemente trascurabile", i cui effetti si sarebbero però
fatti vedere nell'"aggiunta di qualcosa di qualitativamente
nuovo", un nuovo ordine di fenomeni, che certamente non elimina le
leggi della fisica o della chimica, né quelle della biologia (v.
Kroeber, 1917; tr. it., pp. 88-89). Secondo questo paradigma, la
nascita della cultura può essere descritta come il raggiungimento
di un punto critico che non pone da parte la natura, ma determina
al suo interno un livello dotato di sue caratteristiche, di
fattori e principî del tutto peculiari.
Questa sorta di 'modello Rubicone' (v. Geertz, 1973; tr. it., p.
88) va inevitabilmente incontro a smentite allorché non soltanto
si adotta una visione più largamente zoologica (le culture degli
altri animali), ma si riconsidera anche il processo di ominazione.
La cultura c'era già prima (una cultura 'animale', se vogliamo una
'protocultura'), e non possiamo dunque pensare che la sola
evoluzione organica abbia condotto l'uomo a essere quello che è,
pronto a scoprire in un dato momento critico della sua storia
"l'alba" della cultura (v. Kroeber, 1917; tr. it., p. 89).
Piuttosto, è la stessa evoluzione organica dell'uomo a inglobare
in sé la dimensione della cultura. I 4 o 5 milioni di anni che
dividono le prime testimonianze di ominidi - esseri già dotati di
stazione eretta e capaci di un uso per quanto rudimentale di
utensili (varie forme di Australopithecus) - dal tipo 'moderno' di
umanità (Homo sapiens sapiens) costituiscono un arco di tempo,
certamente enorme dal punto di vista umano, in cui le
modificazioni che hanno caratterizzato l'evoluzione organica degli
ominidi si sono accompagnate e, con ogni probabilità, sono state
stimolate da avanzamenti di ordine culturale. I vantaggi del
bipedismo, che lasciava le mani libere per il trasporto di cibo e
di oggetti e per la manipolazione di utensili, si collocano in
tipi di vita in cui le soluzioni di ordine culturale appaiono
decisive, se non preponderanti. Le mani di Australopithecus
robustus, per esempio, "completamente idonee alla presa di
precisione", inducono a ritenere che l'uso e la fabbricazione di
utensili - un'eredità comune a ominidi e a scimpanzé - dessero
ormai luogo a tradizioni culturali (v. Klein, 1989; tr. it., p.
131). In insediamenti e manufatti della Gola di Olduwai
(Tanzania), risalenti a circa due milioni di anni fa, possono
forse essere intravisti campi base o strutture domestiche che
implicherebbero l'adozione di comportamenti tipicamente umani (p.
133), specialmente per quanto riguarda l'organizzazione sociale e
una collaborazione di tipo familiare, come la divisione del lavoro
tra i sessi. In Homo erectus, apparso più di un milione di anni
fa, può essere colto l'indizio di "una incipiente ma effettiva
capacità di discorso": a causa dell'abbassamento della laringe,
mediante cui è possibile produrre suoni fondamentali presenti in
tutte le lingue, "è il primo ominide per il quale si possa
inferire il discorso articolato" (p. 158). Homo erectus, che
grazie al suo apparato locomotore e al controllo del fuoco ebbe la
possibilità di espandersi al di là dell'Africa, in Eurasia, ha
dispiegato un'inedita capacità di colonizzazione di nuovi ambienti
(l'Uomo di Pechino e l'Uomo di Giava appartengono infatti a questa
specie). Il suo cervello, però, risulta più piccolo di quello che
poi contraddistinguerà Homo sapiens; ed è a questo fatto che si
può far risalire "la straordinaria uniformità dei manufatti" di
Homo erectus nel tempo e nello spazio (p. 175). Con Homo sapiens
arcaico, attestato anch'esso in Africa e precedente
all'apparizione in Eurasia dell'Uomo di Neanderthal, si assiste a
un deciso incremento della capacità cranica. Lo stesso Uomo di
Neanderthal, una sorta di "ramo morto" che verrà soppiantato dalle
forme più moderne di Homo sapiens (p. 207), costituisce la riprova
della tendenza evolutiva verso l'accrescimento cerebrale. Si
suppone che l'Uomo di Neanderthal, a causa della base cranica
relativamente piatta, non disponesse dell'intera gamma di suoni
tipica dell'uomo moderno, e non è escluso che questo suo limite
anatomico abbia condizionato la sua capacità di comunicazione (p.
222). Eppure all'Uomo di Neanderthal, così diverso da Homo
sapiens, si ascrivono in buona parte il complesso industriale
musteriano (Le Moustier, Paleolitico medio) e, soprattutto, le
pratiche funerarie. L'Uomo di Neanderthal non sembra essere un
ascendente diretto di Homo sapiens sapiens: pare, anzi, che sia
stato spazzato via da quest'ultimo nella sua espansione europea,
ma sarebbe difficile negare che buona parte della sua vita
dipendesse da un apparato culturale di tutto rispetto.
Dalle sintesi più recenti dei dati paleoantropologici risulta che
l'evoluzione organica la quale ha infine condotto a Homo sapiens
sapiens non è stata uniforme: essa "si è svolta a mosaico,
l'apparato motore e gli altri organi postcraniali essendo
diventati completamente moderni prima del cranio e del cervello"
(p. 175). Il cervello è - per così dire - in coda: viene per
ultimo. I lunghi periodi di tempo in cui ominidi e prime forme di
esseri umani facevano già assegnamento su specifici comportamenti
e soluzioni culturali (manufatti, comunicazione linguistica,
organizzazione familiare e sociale, dieta carnea, fuoco, caccia e
uso di armi) sono stati contrassegnati dalla compresenza di
cultura e di modeste capacità craniche. "In meno di due milioni di
anni" - sostiene Björn Kurtén (v., 1971; tr. it., p. 98) - "il
cervello triplica il suo volume", e questo è un fatto di notevole
interesse se valutato con il metro dell'evoluzione organica. Nella
lunga vicenda di Homo erectus è possibile cogliere un consistente
progresso e vistose accelerazioni, le quali potrebbero essere
collegate - secondo questo autore - a determinate innovazioni
culturali: manualità, linguaggio articolato, uso e controllo del
fuoco potrebbero configurarsi non solo come risultati, bensì anche
come cause scatenanti o come fattori di stimolo per l'espansione
della capacità cranica. Con Homo sapiens appare comunque un
cervello di tipo moderno; e non si tratta soltanto di un aumento
dimensionale (rispetto a Homo erectus), bensì di un maggiore
sviluppo sia degli emisferi sia della corteccia cerebrale e delle
aree di associazione.
È un dato incontestabile che nel Paleolitico superiore si assiste
a una grande 'esplosione' culturale (per la prima volta affiorano
manufatti di tipo non utilitario, veri e propri oggetti d'arte,
con tradizioni culturalmente diversificate) e questa esplosione
non può non essere ricondotta al cervello di Homo sapiens (v.
Klein, 1989; tr. it., p. 269). Tuttavia il cervello umano, che
funziona come il grande coordinatore del comportamento, delle
attività e delle funzioni fondamentali della cultura (dall'uso
delle mani al comportamento sessuale, al linguaggio), viene
portato a maturazione in termini ontogenetici nel corso di un
processo molto lungo, il quale ha luogo in buona parte al di fuori
dei confini dell'organismo. Tra tutti gli animali l'uomo è la
specie i cui piccoli conoscono il più lungo periodo di dipendenza
e di maturazione, nel corso del quale essi debbono apprendere a
usare correttamente gli arti inferiori per camminare, le mani per
manipolare gli oggetti e portarsi il cibo alla bocca, le emissioni
verbali per parlare e comunicare in modo significativo ed
efficace. È indubbio che tra le varie condizioni organiche che
presiedono a questi processi di apprendimento quella preminente è
rappresentata dal cervello: sono rilevanti i casi in cui gli
individui riescono a sopperire con l'attività coordinatrice del
cervello a handicaps di vario genere (il caso di Helen Keller è
emblematico sotto questo profilo). Ma tra attività culturali e
maturazione del cervello vi è un'indubbia circolarità: se è
indispensabile il cervello per apprendere e agire culturalmente,
altrettanto indispensabili sono l'apprendimento e l'azione
culturale per garantire l'adeguato sviluppo e la maturazione di
questo organo. Il funzionamento sia del cervello sia del sistema
nervoso in generale richiede un ambiente sociale e culturale. Il
cervello funziona solo entro un habitat culturale: se da un punto
di vista organico esso è inserito e protetto nella scatola
cranica, da un punto di vista funzionale opera in un contesto
assai più ampio, non organico ma sociale. Alla nascita il cervello
di ogni essere umano è molto immaturo, giacché i neuroni non hanno
ancora portato a termine la loro crescita: i prolungamenti che ne
stabiliscono i contatti non sono stati completati e non sono
ancora ricoperti dalla mielina che solo più tardi assicurerà "una
propagazione accelerata dell'informazione nervosa" (v. Dreifuss,
1987, p. 55). Solo dopo la nascita lo sviluppo cerebrale si
completa, e "questa 'rifinitura' tardiva" - sostiene Dreifuss - è
ciò che consente alle prime esperienze vissute dall'individuo di
influire, in modo favorevole o sfavorevole, sullo sviluppo del
programma genetico, nello stesso tempo in cui conferisce un ruolo
decisivo all'apprendimento del linguaggio.
Non si tratta di proiettare semplicemente su un piano
paleoantropologico e filogenetico un modello di sviluppo
ontogenetico, ma di cogliere sull'uno e sull'altro piano la
stretta circolarità che caratterizza il rapporto cervello/cultura
umana. Il cervello è indubbiamente l'organo per eccellenza della
cultura umana. Come fa notare Klein (v., 1989; tr. it., p. 269),
si deve attribuire al cervello umano di tipo moderno la grande
fioritura culturale che ha contraddistinto il Paleolitico
superiore: è questo cervello che ha consentito un'evoluzione
culturale senza precedenti, un'evoluzione che ha smesso di
accompagnare l'evoluzione organica e che - per così dire - se n'è
andata per proprio conto, con una velocità inusitata, con ritmi
del tutto inconcepibili in termini di evoluzione organica. Da
allora in poi i rappresentanti di Homo sapiens sapiens sono stati
in grado di accorciare sempre più i tempi delle loro realizzazioni
culturali. La cultura umana, sostenuta da un cervello del tutto
'umano', è in un certo senso cresciuta su se stessa, acquisendo
quelle capacità di autoproduttività e di autoriflessività
(testimoniate dall'arte e dal linguaggio) che la separano da
qualsiasi altra cultura animale.
4. La seconda natura
Per le caratteristiche individuate prima (autoproduttività e
autoriflessività) ogni cultura 'umana' è di per sé molto
complessa. Nessuna cultura umana si riduce a una serie di rapporti
strumentali in vista di uno scopo: nessuna cultura umana, di cui
si abbia notizia storica o etnografica, può essere considerata
semplicemente come un insieme di risposte primarie a 'bisogni
primari'. Vi è da chiedersi se tutte le altre culture animali
possano davvero essere concepite secondo questo schema
riduzionistico, o se l'ammissione di una componente culturale -
non importa in quale specie animale - non implichi esattamente il
rifiuto di uno schema siffatto: BP→RP (bisogni primari / risposte
primarie), che ricalcherebbe lo schema di tipo comportamentistico
S→R (stimolo / risposta). Riconoscere 'cultura' nel comportamento
sia di animali sia di esseri umani significa infatti, in primo
luogo, ammettere una pluralità di risposte possibili (v.
Malinowski, 1931) che sono oggetto non soltanto di scelta, ma
anche di invenzione e di elaborazione da parte degli individui e
dei gruppi interessati. Una risposta culturale a un bisogno
primario è una risposta possibile tra altre; ed essendo possibile,
è pure modificabile, sostituibile, revocabile. Affinché sia
mantenuta e costituisca una tradizione, o entri a farne parte,
occorre davvero provvedere a una sua 'culturalizzazione', ovvero
alla messa in campo di meccanismi che ne garantiscano la
riproducibilità nel tempo, attraverso le generazioni. Una risposta
culturale non è mai lasciata a se stessa e la sua esistenza non è
mai decisa soltanto dalla sua capacità di soddisfare in maniera
adeguata bisogni primari. Quanto più certe specie si affidano alle
risposte di ordine culturale, sfruttando le qualità
dell'immediatezza o comunque della rapidità e della revocabilità
(non vi è nulla sul piano organico che impedisca a un gruppo di
cacciatori-raccoglitori di sostituire le asce di pietra con asce
di acciaio e di aumentare così d'un sol colpo la produttività del
proprio lavoro), tanto più si pone il problema della
riconoscibilità di tali risposte e della loro conservazione nel
tempo. I meccanismi di ordine rituale - i quali implicano la
'definitezza' e la 'ripetibilità' dei comportamenti - assicurano
ancor più la riproducibilità delle risposte culturali. Come si
vede da queste argomentazioni, le risposte culturali suscitano
almeno due tipi diversi di problemi: a) la loro adeguatezza a
bisogni, imperativi, necessità (soprattutto per ciò che concerne
la sopravvivenza degli individui); b) la loro riproducibilità nel
tempo.
È opportuno valutare bene che cosa comporta l'affidarsi - da parte
di una determinata specie - a risposte di ordine culturale. È
ovvio infatti che vi sono gradi diversi di affidamento e che - tra
tutte le specie animali - la specie umana è quella che si è
maggiormente affidata, per la sua stessa sopravvivenza, a risposte
culturali, a tal punto che, senza cultura, non solo i suoi
successi biologici, ma la sua stessa esistenza sarebbero
impensabili. Alla luce di questo enorme (quasi spropositato)
affidamento culturale occorre riconsiderare il problema della
conservazione o della riproducibilità nel tempo delle risposte
culturali, tenendo conto della situazione paradossale in cui gli
esseri umani si sono messi. È stato certamente decisivo e
premiante per la specie umana affidarsi a risposte culturali per
tutta una serie di problemi e di necessità (dalla ricerca del cibo
all'allevamento dei figli, dal rapporto tra i sessi
all'organizzazione familiare e domestica, dai sistemi di riparo e
di regolazione termica alle esigenze di trasporto e di
comunicazione). Sono state queste risposte a garantire il suo
successo, anche questo inedito (per lo meno tra i mammiferi), come
è rilevabile dalla capacità di diffusione della specie umana in
ogni tipo di ambiente e dalla sua capacità di sfruttamento di una
grande quantità di risorse. Ma le risposte culturali - così
immediatamente fruibili e rapidamente verificabili - non sono
inscritte in nessuna parte dell'organismo umano (v. Kroeber,
1917). Le risposte culturali - a cui gli esseri umani si sono così
massicciamente affidati e da cui dipendono in modo tanto profondo
e decisivo - sono scritte, per così dire, sull'acqua. La
paradossalità della situazione umana consiste dunque proprio in
questo: da un lato c'è l'affidamento alla cultura di una parte
così consistente e rilevante dell'essere umano, che senza cultura
soccomberebbe; dall'altro il fatto che la cultura non possiede, in
quanto tale, alcuna possibilità di essere riprodotta
geneticamente, ossia nel passaggio da un organismo all'altro. Gli
esseri umani si sono affidati sempre più a una realtà che, quanto
a riproduzione, manifesta una irrimediabile precarietà: la perdita
della cultura, delle sue informazioni, delle sue risorse è un
pericolo ricorrente e incombente sugli esseri umani.
Affidarsi alla cultura, perché? Una delle risposte più suggestive e convincenti proviene dalla teoria dell'uomo come animale 'manchevole', 'difettoso', 'carente'. Assai diffusa è l'idea che, a confronto di altri animali, l'uomo si presenti come un essere organicamente assai poco specializzato: esso non è, per esempio, dotato sul piano anatomico di organi particolarmente adattati alla difesa o alla predazione, così come sul piano comportamentale non manifesta un apparato istintuale sicuro ed efficiente. Sotto questo profilo va ricondotto anche il fatto che gli esseri umani conoscono un periodo estremamente lungo di dipendenza dalle cure parentali e devono apprendere con molta fatica moduli comportamentali indispensabili per la fonazione e la deambulazione o per le attività che consentono di procurarsi il cibo.
Uno dei primi sostenitori della teoria dell'uomo come animale manchevole è stato, nella seconda metà del Settecento, Johann Gottfried Herder. Da Herder questa teoria passa, un secolo dopo, a Friedrich Nietzsche, per poi approdare nel Novecento in esponenti dell'antropologia filosofica tedesca, tra cui soprattutto Arnold Gehlen (v., 1940; tr. it., pp. 110-117) e Helmut Plessner (v., 1981), e infine nell'antropologia culturale di Clifford Geertz. Per quest'ultimo, in particolare, che collega la teoria dell'uomo come essere incompiuto alle ricostruzioni paleoantropologiche, la carenza dell'essere umano non è un difetto di strumentalità organica: è invece una carenza che attiene anche alla sua organizzazione mentale, intellettuale ed emozionale. Senza l'intervento o il ricorso a modelli culturali specifici, "il comportamento dell'uomo sarebbe praticamente ingovernabile, un puro caos di azioni senza scopo e di emozioni in tumulto, la sua esperienza sarebbe praticamente informe" (v. Geertz, 1973; tr. it., p. 87). Tutti gli autori ora esaminati sostengono, dal più al meno, che l'invenzione o il ricorso alla cultura è stato il rimedio che ha salvato gli esseri umani da una sicura fine. Il presupposto - come abbiamo detto - è che gli esseri umani erano animali manchevoli, difettosi, incompiuti e proprio per questo si sono affidati alla cultura.
L'affidamento alla cultura si configura, quindi, come la conseguenza di una originaria situazione di precarietà biologica. Quanto avrebbe potuto perdurare però questa situazione di precarietà prima dell'intervento della cultura? Se consideriamo la lunga durata dell'evoluzione che dagli ominidi avrebbe condotto a Homo sapiens e in particolare alla cultura più specificamente umana, difficilmente potremo immaginare che a minacciosi fattori di precarietà, a lacune e a carenze decisive, si potesse rispondere in modo adeguato dopo così tanto tempo. La teoria dell'uomo come essere manchevole ha diversi argomenti a suo favore, tratti non solo dalla paleoantropologia, ma un po' da tutte le scienze umane, siano esse del versante fisiologico-neurologico, o del versante sociale e culturale (soprattutto psicologia, linguistica, antropologia culturale). Ma per essere più convincente, essa dovrebbe probabilmente considerare la 'carenza' umana non già come una causa o un fatto originario (a cui si sarebbe posto rimedio con la cultura), bensì piuttosto come un effetto o una conseguenza. È stato l'affidamento progressivo alla cultura (una possibilità zoologica preesistente, come si è argomentato nel cap. 2) che ha 'svuotato', almeno entro una certa misura, l'essere umano di caratteristiche e determinazioni innate. L'aver progressivamente puntato su soluzioni di ordine culturale (una scelta evolutivamente vincente, come si è visto) ha innescato un processo evolutivo in cui sono stati favoriti quegli esseri che in misura maggiore si adattavano ad ambienti culturali: esseri dunque maggiormente indeterminati, più aperti e flessibili, meno rigidamente programmati, e perciò più disponibili alla varietà delle soluzioni culturali.
È la cultura, tutto sommato, che ci ha
resi - attraverso i ritmi dell'evoluzione biologica - animali
manchevoli sul piano organico e dotati di un cervello che,
significativamente, funziona soltanto in ambienti culturali.Sotto
questo profilo si può apprezzare meglio la tesi secondo cui la
cultura (i costumi o le consuetudini) costituirebbe la 'seconda
natura' dell'uomo. Non nel senso che la cultura si aggiunge alla
natura umana, ma nel senso che in qualche modo e misura ne prende
il posto. In effetti, diversi sono i meccanismi mediante cui la
cultura si 'naturalizza': essa si sostituisce alla natura, anche
nel senso che ne assume talvolta le sembianze e produce gli stessi
(o analoghi) effetti di uniformazione. Gli espedienti di
naturalizzazione della cultura - posti in atto, per esempio, dai
rituali della vita quotidiana che per il loro carattere laico e
anonimo si occultano in modo quasi impercettibile tra le pieghe
del comportamento abitudinario - sono particolarmente efficaci
nell'indirizzare la condotta umana, così da sanzionare come
'innaturali' gli atteggiamenti devianti. Ma questa seconda natura
è, letteralmente, una 'finzione' (un apparato costruito, foggiato,
inventato), una finzione però che per poter funzionare non deve
essere svelata del tutto.Se affidarsi alla cultura significa
suscitare il problema della sua riproducibilità, tale problema
diventa tanto più grave quanto più gli esseri umani si affidano
alla cultura non solo sotto il profilo della sua strumentalità, ma
anche come a una loro 'seconda natura'. Difficoltà di
conservazione della cultura e interruzioni nei processi di
trasmissione comportano qualcosa di più che non semplici disagi di
ordine pratico (potrebbe esserne un esempio la difficoltà per
molti individui di produrre del fuoco in mancanza di fiammiferi o
di accendini); difficoltà e interruzioni nella trasmissione
culturale non mettono semplicemente a nudo l'essere umano, bensì
fanno emergere il 'vuoto' della natura umana e quindi la stessa
impossibilità di sopravvivere e di affrontare sensatamente i
problemi dell'esistenza individuale e collettiva. È questo vuoto
che richiede che venga assicurata una continuità nella
trasmissione culturale.
La seconda natura non è però soltanto una faccenda di copertura e
non ha soltanto una funzione di 'tappabuchi'. Per assicurarsi
continuità nel tempo, la seconda natura deve essere credibile;
occorre quindi che abbia una sua coerenza e capacità di
convincimento. La seconda natura va letteralmente costruita, e ciò
implica uno sforzo immaginativo per un verso e logico per l'altro,
così che ciò che viene trasmesso sia davvero un modello di umanità
condivisibile ed efficace. Molti mezzi concorrono a elaborare un
modello culturale di umanità: dalla tecnologia al linguaggio, dal
pensiero logico all'estetica, dai rapporti con le cose e con la
natura ai rapporti sociali. Come affermava Herder nel Settecento,
"in tutte le condizioni e in tutte le società, l'uomo non ha
potuto aver altro disegno, non ha potuto costruire altro che
l'umanità, comunque la intendesse" (v. Herder, 17841791; tr. it.,
p. 345). Se questo è in definitiva il compito principale della
cultura umana - la costruzione di modelli di umanità socialmente
accettabili - si comprende come una delle caratteristiche che
maggiormente la distinguono da altre forme culturali sia un grado
elevatissimo di autoproduttività e di autoriflessività.
Affidandosi sempre più alle risposte culturali, gli esseri umani
hanno finito per caricare la cultura di una serie di compiti molto
impegnativi: non soltanto rispondere a bisogni primari e
imprescindibili, non soltanto garantire nel tempo la continuità
delle risposte culturali, bensì anche inserirle in un insieme
accettabilmente coerente e soprattutto costruire un modello di
umanità tanto convincente da potervisi identificare.
5. La seconda nascita: tradizioni e rituali
Potremmo dire che all'interno di ogni cultura umana vi è
inevitabilmente un progetto antropologico. Lo 'svuotamento' di cui
abbiamo parlato in precedenza impone non soltanto un riempimento
strumentale, ma una vera e propria invenzione di umanità.
Probabilmente questo è il compito più delicato e impegnativo che
ogni gruppo umano affida alla propria cultura. Ciò significa in
primo luogo che ogni cultura ha da elaborare una qualche
'antropologia', ovvero una concezione dell'essere umano che tenga
conto di una molteplicità di fattori, di principî e di criteri.
Per questa elaborazione esistono infatti limiti o punti di
riferimento imprescindibili, imposti dalle caratteristiche
immodificabili del corpo umano, dalle necessità ineludibili della
sopravvivenza o da certe costrizioni ambientali. Essi potrebbero
essere intesi alla luce di un principio che ha ottenuto un
ragguardevole successo nell'antropologia culturale della prima
metà del Novecento, ovvero il 'principio delle possibilità
limitate' (da Alexander Goldenweiser a Edward Sapir, da Bronislaw
Malinowski a George P. Murdock, a Claude Lévi-Strauss). Questo
principio invita a esplorare i margini di variabilità delle
antropologie insite in ogni cultura concentrando la propria
attenzione sull'invalicabilità di certi confini. Partendo dal
presupposto della limitazione delle possibilità, esso favorisce la
comparazione tra prodotti culturali (in questo caso le
'etnoantropologie' o 'antropologie indigene', come potrebbero
essere chiamate) che altrimenti sfuggirebbero a ogni tentativo di
reciproca comprensione.
Ammettere confini e margini di variabilità che impongono una
limitazione delle possibilità non significa tuttavia poter
predeterminare il loro numero e la loro forma. Sembra di poter
affermare infatti che nel campo delle elaborazioni antropologiche
vi sia all'origine una notevole irreperibilità di modelli. Sotto
questo profilo la posizione di Stephen J. Gould, con la sua
insistenza sulla grande variabilità di alternative, sulla
flessibilità dei programmi e quindi sulla sostanziale
imprevedibilità del comportamento umano fin dalla sua radice
genetica, appare decisamente più convincente e interessante delle
posizioni fondamentalmente deterministiche di Edward O. Wilson
(per un confronto puntuale delle loro rispettive tesi v. Rossi,
1990, p. 357). Il relativo 'svuotamento' biologico indotto dal
sempre più massiccio affidamento alle risposte culturali fa sì che
difficilmente si possa utilizzare la natura umana come modello o
come matrice di modelli: anzi, il suo stesso svuotamento obbliga a
inventare e a reperire altrove modelli di umanità. Come affermano
Steven Rose (un neurobiologo), Richard Lewontin (un genetista) e
Leon Kamin (uno psicologo), "l'unica cosa ragionevole che si possa
dire sulla natura umana è che è 'insito' in essa costruire la
propria storia" (v. Rose e altri, 1983; tr. it., p. 51 - corsivo
nostro) ovvero la propria 'antropologia'. "In conclusione" - essi
ribadiscono (p. 297) - "è proprio la nostra biologia a renderci
liberi". L'impostazione di Rose, Lewontin e Kamin è
dichiaratamente antideterministica (in polemica soprattutto con la
sociobiologia di Wilson: v., 1975 e 1978); ma non si tratta di
opporsi soltanto a un determinismo biologico, bensì anche a un
determinismo culturale. Il principio delle possibilità limitate,
evocato prima, non dovrebbe infatti tradursi nell'idea che la
cultura interviene semplicemente a elaborare - una volta per tutte
- una determinata serie di modelli di umanità e che poi questi
sarebbero tranquillamente riproposti dalle tradizioni, conservati
e trasmessi dai rituali. È indubbio che le tradizioni culturali
vengono incontro all'esigenza di una certa reperibilità di
modelli, ma il rifiuto del determinismo culturale obbliga a
scorgere nella cultura e nelle stesse tradizioni un "continuo
processo di riorganizzazione e di ridefinizione" (v. Rose e altri,
1983; tr. it., p. 282). Di più: se è vero che la trasmissione
culturale è affidata soltanto all'effettiva possibilità di
comunicazione sociale, le tradizioni - depositarie di modelli di
umanità - esistono solo in quanto vengono di volta in volta
reinventate. Non si tratta dunque di rifiutare il determinismo
biologico per cadere nelle trappole del determinismo culturale,
liberarsi dai vincoli di un naturalismo astorico per finire
vittime di un "volgare naturalismo storico" (v. Benjamin, 1982;
tr. it., p. 597). Culture e tradizioni, storie e società possono
subire entificazioni che le trasformano in qualcosa di 'dato' e
quasi di 'naturale', in realtà che sopravviverebbero e agirebbero
in modo indipendente dagli individui, dalle loro azioni, dalle
loro scelte. Ma si tratta di 'fallacie' da cui occorre guardarsi,
specialmente quando è in discussione un argomento così delicato
come i modelli di umanità.
Vi è infatti un interesse abbastanza evidente, da parte di chi
detiene il potere o si arroga il compito di trasmettere o imporre
modelli di umanità, a farne realtà definite e autonome che si
tramandano pressoché inalterabili nel tempo. La loro relativa o
supposta inalterabilità, la loro stessa vetustà conferiscono loro
una ben maggiore autorevolezza rispetto a proposte che invece
venissero avanzate sul momento e proprio per questo fossero più
disponibili alla discussione, più suscettibili di contestazione.
Sono numerosissimi gli esempi di società in cui la trasmissione di
specifici modelli di umanità avviene in uno spazio-tempo
determinato, ritualmente connotato e circoscritto, in cui le
tradizioni che incorporano i modelli da trasmettere assumono un
aspetto oggettivo, fisso, incontestabile: si tratti di libri - più
o meno sacri - che fissano nel tempo (e quasi per l'eternità)
messaggi filosofici e religiosi (come è ben attestato nelle
tradizioni di pensiero della civiltà occidentale), si tratti di
maschere e statuine raffiguranti antenati (come avviene in diverse
società africane), si tratti infine di oggetti di pietra o di
legno su cui sono incisi segni simbolici (come i famosi churinga
degli Aranda dell'Australia centrale). Di solito, i momenti in cui
vengono illustrati e spiegati specifici modelli di umanità sono
chiamati dagli etnologi e dagli storici delle religioni 'rituali
di iniziazione', volendo con ciò significare che la trasmissione
esplicita - quasi una consegna - dei modelli di umanità richiede
un passaggio, spesso traumatico, e un nuovo inizio. Si dice che
con l'insegnamento della tradizione, con l'esibizione di oggetti
sacri e con la loro ricezione i giovani subiscano una profonda
trasformazione del loro essere. Molto spesso la trasformazione a
cui sono sottoposti non è soltanto di ordine mentale o
psicologico; è anche una trasformazione fisica - come se i modelli
di umanità dovessero essere incorporati nel senso organico e reale
del termine, e non semplicemente conosciuti e indagati. Nei
rituali di iniziazione di cui ci parla l'etnologia, infatti,
l'assimilazione dei modelli di umanità tradizionale comporta
spesso un'incisione e quindi anche una modellazione culturale del
corpo (mediante scarificazione, per esempio, o mutilazione degli
organi genitali, come la circoncisione e la subincisione per i
maschi, l'escissione del clitoride e l'infibulazione per le
femmine). Sono troppo diffusi i rituali di iniziazione - maschile
o femminile - aventi un aspetto organico (e cruento) perché sia
consentito sbarazzarsene come sopravvivenze inutili di un passato
ormai privo di senso e comunque relativo a qualche sperduto angolo
del mondo. Essi esprimono in modo significativo l'importanza che
rivestono la trasmissione, l'imposizione e l'acquisizione di
specifici modelli di umanità, in base a previste modalità rituali.
Diversi elementi si impongono così all'attenzione. In primo luogo,
con l'istituzione di questi rituali di passaggio (v. Van Gennep,
1909) si tende a distinguere in modo netto l'assimilazione
quotidiana, continua e per lo più inconsapevole della cultura
(inculturazione) dall'assimilazione più critica e consapevole di
specifici modelli di umanità. In diverse società si distingue
perciò una crescita che segue alla nascita biologica e avviene
secondo ritmi e criteri quasi naturali (i Nande dello Zaire
paragonano in questo senso il crescere degli individui a quello
delle piante) e una crescita o meglio una 'nascita' non più
biologica, ma sociale. Questa distinzione è alla base di un'idea
altrettanto diffusa dei rituali di iniziazione, quella della
'ri-nascita' o della seconda nascita. Si ritiene cioè che gli
esseri umani non nascano una sola volta e che il nascere
all'umanità sia una faccenda che si decide non già nel grembo
materno o subito dopo, ma in un momento (coincidente abbastanza
spesso con la pubertà) in cui gli individui possono far propri, in
modo più meditato, i criteri e i principî che definiscono un
determinato tipo di umanità (una determinata cultura). Per
esempio, nell'India antica la cerimonia upanayana ('introduzione')
consisteva nell''introdurre' un ragazzo presso il precettore, il
quale l'avrebbe conservato - si diceva - per tre notti nel suo
ventre (come se si trattasse di una gestazione) per poi farlo
rinascere nella condizione di brahmano: per questo il giovane
veniva poi chiamato dvi-ja (o dvijati), 'due volte nato' (v.
Eliade, 1958; tr. it., pp. 81-82). Riscontriamo inoltre abbastanza
spesso, in relazione a questa seconda nascita, l'idea che gli
esseri umani debbano essere fatti, costruiti, modellati, secondo
processi che non sono biologici (affidati alla natura) ma
culturali e rituali, anche se coinvolgono direttamente
l'organismo. Il 'fare l'umanità', andando decisamente oltre ciò
che la natura può dare in questo campo (o addirittura andando
'contro' la natura - come si potrebbe sostenere specialmente nei
casi delle mutilazioni rituali), sembra essere un compito che
molte società si sono assunte in modo esplicito e forse temerario:
un compito comunque curiosamente collimante con la teoria
dell'uomo come essere biologicamente 'carente', il quale proprio
per questo ha da farsi, da completarsi o da perfezionarsi mediante
l'acquisizione di specifici modelli culturali e anzi modelli di
umanità (v. cap. 4).
6. 'Finzioni' antropo-poietiche
L'idea del 'farsi' dell'umanità mediante la cultura può essere
vantaggiosamente sintetizzata dall'espressione "antropo-poiesi"
(v. Remotti, Tesi per..., 1996). Ma per quanto si sia giunti
all'idea dell'antropo-poiesi a partire da una teoria (quella
dell'uomo come essere biologicamente carente) che gode di
riconoscibilità e diffusione sia nelle scienze del versante
culturale sia in quelle del versante biologico, non si può
ignorare il sospetto che il farsi dell'umanità possa essere una
specie di idola tribus (come avrebbe detto Francis Bacon),
piuttosto che un'idea scientificamente valida. A generare questo
sospetto sono i rituali antropo-genetici o antropo-poietici che
garantirebbero per l'uomo una seconda, vera nascita, coincidente
con l'assunzione di una seconda natura fornita da modelli
specifici di umanità. Non è forse una credenza piuttosto risibile
quella del rituale brahmanico upanayana, secondo la quale il
giovane nascerebbe una seconda volta dopo aver passato tre notti
nel ventre del suo maestro? Far convergere sul tema
dell'antropo-poiesi non solo prospettive scientifiche, ma anche
idee elaborate in merito da società esotiche e comunque lontane
dalle comunità scientifiche, potrebbe rivelarsi un atteggiamento
controproducente. Anche in periodo umanistico - come è attestato
dal pensiero di Pico della Mirandola e di Charles Bouillé (Carlo
Bovillo) - erano affiorate idee antropo-poietiche. Ma anche questa
ulteriore indicazione, anziché essere una conferma, potrebbe
suscitare il sospetto che siamo di fronte a un certo tipo di
ideologia, quella dell'uomo che 'costruisce se stesso', che è
faber sia del suo destino, sia (in parte almeno) della sua natura.
Le questioni fondamentali potrebbero essere allora così formulate:
l'idea del "'fare' l'uomo" (v. Eliade, 1958; tr. it., p. 89) con
mezzi culturali, quindi questa seconda nascita, è un'autoillusione
"umana, troppo umana", oppure è un compito a cui - lo riconosca o
meno - l'umanità non può sottrarsi? Su quale lato della questione
si erge l'ideologia? In quale direzione si muove? L'ideologia
consiste nell'affermare, ribadire, esaltare, più drasticamente nel
'fingere' i poteri antropo-poietici dell'uomo oppure nel non
riconoscere, nel celare e occultare i processi (e le relative
responsabilità) mediante cui l'uomo in qualche modo fabbrica se
stesso? È opportuno anticipare che entrambi i tipi di ideologia
sono possibili.Nello spazio lasciato libero dallo 'svuotamento'
(v. cap. 5), nella relativa libertà e indeterminazione a cui la
nostra stessa biologia sembrerebbe 'condannarci' (v. Rose e altri,
1983; v. Gould, 1980; v. Sartre, 1943), l'esigenza
antropo-poietica (di costruzione o fabbricazione di umanità) si
configura come reale, autentica, irrinunciabile: essa appare come
un compito a cui è difficile, anzi impossibile, sottrarsi. I
tentativi e i processi che ne conseguono sono però necessariamente
'finzionali', e i prodotti che ne scaturiscono non possono che
essere definiti 'finti'. In qualunque condizione, come in tutte le
società - secondo la tesi già utilizzata di Herder -, l'uomo non
ha potuto assumere altro compito che quello di 'costruire'
l'umanità, e nel far ciò l'uomo deve 'inventarla' e quindi
'fingerla'. È bene rendersi conto che questo spazio di libertà
poietica (di autopoiesi) coincide con la molteplicità delle forme
che l'uomo può assumere, edificanti o aberranti, condivisibili o
incompatibili, fruibili, aperte, disponibili al mutamento, oppure
chiuse, elitarie, rigide, cieche, rovinose. Se in tutte le società
gli esseri umani hanno da costruire la loro umanità, comunque
decidano di intenderla, è ammissibile che tale costruzione possa
essere concepita, a sua volta, in modi difformi. In quali modi,
insomma, gli uomini 'fingono' la loro natura, in quali modi
inventano il rapporto tra natura e cultura, in quali modi
affrontano e trattano la faccenda della costruzione di sé?
Secondo un'opinione assai diffusa, nelle società tradizionali o
premoderne non vi sarebbe una reale coscienza del farsi
dell'umanità. Secondo Eliade, per esempio, in questo tipo di
società l'antropo-poiesi non è affatto concepita come
un'autopoiesi. Nelle "società arcaiche", come Eliade le definisce,
vi sarebbe sì l'idea che "l'iniziazione mette fine all''uomo
naturale' e introduce il novizio alla cultura", ma la cultura non
sarebbe intesa come opera umana, bensì di "origine soprannaturale"
(v. Eliade, 1958; tr. it., p. 15). In tali società - aggiunge
ancora Eliade - "l'uomo si riconosce tale nella misura in cui non
è più un 'uomo naturale', ma è 'fatto' una seconda volta, in
conformità a un canone esemplare e transumano". La vera esistenza
umana non è quella biologica, ma quella determinata da ciò "che
noi chiamiamo genericamente 'cultura"', ossia dal mondo dello
"spirito". "Per il pensiero arcaico" - sostiene sempre Eliade -
l'uomo è dunque fatto, ma "non è lui a farsi da solo": vi sono in
primo luogo "gli anziani iniziati, i maestri spirituali che lo
'fanno"'; ma, a loro volta, "costoro applicano ciò che è stato
rivelato all'inizio dei tempi dagli Esseri soprannaturali" (pp. 13
e 14). Per Eliade, dunque, le società tradizionali - quasi del
tutto dominate dal Sacro - riconoscono in qualche modo
l'antropo-poiesi, ma l'affidano a qualcosa d''altro' rispetto
all'uomo: a entità sovra-umane e sovra-naturali, il cui potere si
collocherebbe all'inizio dei tempi e si ripresenterebbe ogni
qualvolta occorra 'rifare' l'uomo.
Sempre secondo Eliade, le società moderne avrebbero invece
proceduto a una radicale desacralizzazione, e in particolare per
quanto riguarda le idee di antropo-poiesi si sarebbero liberate di
questo tipo di idola, secondo cui l'uomo verrebbe fatto, costruito
una seconda volta con mezzi culturali attribuiti a entità
extra-umane. "Una delle caratteristiche del mondo moderno" sarebbe
infatti "la scomparsa dell'iniziazione" (p. 9), e con ciò
dell'idea stessa che occorra procedere a un 'rifacimento'
dell'uomo. Nel mondo moderno l'uomo non ritiene di dover
rinascere, di dover affrontare una seconda nascita (culturale)
dopo la prima e vera nascita (quella biologica), tanto meno di
dover affidare il suo farsi a qualcosa d'altro rispetto al suo sé
naturale: "l'esistenza puramente biologica è una scoperta recente
nella storia dell'umanità; scoperta resa possibile proprio dalla
desacralizzazione della Natura" compiuta dalla modernità (p. 89).
Le tesi di Eliade sono utili nella loro linearità per un'analisi
conclusiva del tema dell'antropo-poiesi (e quindi del rapporto
natura/cultura) nel passaggio da società definite tradizionali o
premoderne alle società moderne, ma non sono affatto
condivisibili. In primo luogo, sarebbe ormai bene prendere le
distanze da categorie troppo ampie e uniformizzanti, come quella
generica di 'società premoderne' o come quella- ancor più
screditata - di 'pensiero arcaico'. Anche per quanto concerne le
idee (e le ideologie) antropo-poietiche, occorre essere disposti a
riconoscere differenze sostanziali, che fanno esplodere questo
tipo di categorie. È vero: vi sono società che - come suppone
Eliade - affidano al Sacro (a entità sovra-umane e sovra-naturali)
il compito di forgiare o 'fabbricare' esseri umani. Ma
un'eccessiva (e interessata) propensione a considerare le società
premoderne come immerse nel Sacro (nella religione o nella magia)
ha impedito di scorgere in esse atteggiamenti di
de-sacralizzazione, di autentica laicità e di profonda
riflessività. Quasi mai ci si è soffermati, per esempio, sul tema
della casualità e dell'accidentalità che così spesso, invece,
emerge dai racconti (o dai miti) inerenti le origini dei riti di
iniziazione attraverso i quali vengono trasmessi i modelli di
umanità. Perché porre in luce così insistentemente la casualità,
se non per sottolineare e far apprendere - insieme ai modelli di
umanità - un insopprimibile grado di arbitrarietà? Nel momento
stesso in cui si diventa uomini in un certo modo (in questa o in
quella società), e si acquisisce quindi un senso di necessità
(quasi di ineluttabilità), si apprende anche che l'umanità (la
nostra umanità) è fatta così, ma potrebbe essere altrimenti.
Dall'Africa tribale all'America indigena, dall'Asia all'Oceania, i
cosiddetti rituali di iniziazione si prestano spesso a essere
interpretati non già come mera introiezione della necessità,
bensì, al contrario (o contemporaneamente), come esplorazione
delle possibilità, come esercizio del senso delle possibilità. Tra
i Nande dello Zaire, così come tra i Konjo e i Gisu dell'Uganda,
la più importante raccomandazione paterna al figlio che si
incammina per il rituale di circoncisione, da cui dovrebbe
'nascere' vero uomo, è di non andare con i paraocchi, con
eccessiva determinazione e cocciutaggine. Nel suo studio sul
rituale di circoncisione tra gli Ndembu (Zambia) Victor Turner
mostra come i giovani siano indotti, anche attraverso il dolore,
ad abbandonare il loro "abituale e precedente modo di pensare" e
come nello stesso tempo siano "incoraggiati a meditare sulla loro
società" (v. Turner, 1967; tr. it., p. 137), e quindi anche sul
tipo di umanità che viene loro trasmesso. Per Turner la
"liminarità" - la condizione di crisi e di isolamento doloroso e
violento in cui i giovani si vengono a trovare - "spezza, per così
dire, la crosta del costume", interrompendo bruscamente il senso
di 'naturalità' che avvolge di norma le consuetudini e la cultura
in cui un individuo si trova a crescere (p. 138). I rituali di
iniziazione - che definiremmo antropo-genetici o antropo-poietici
- non si limitano affatto a "conservare la tradizione": la
liminarità che li contraddistingue si configura invece come "il
campo della possibilità pura, dal quale possono sorgere
configurazioni nuove di idee e di rapporti", "pensiero nuovo e
costumi nuovi" (p. 127).
Se davvero l'interesse prioritario fosse quello del senso della
necessità, di una trasmissione quasi naturale (sicura e
automatica) di modelli di umanità peculiari di un determinato
gruppo, perché la liminarità, l'interruzione brusca dei rapporti e
degli affetti, la violenza fisica e morale, gli interventi spesso
cruenti che i giovani sono costretti a subire? Perché questo
andare 'contro natura' da parte di una determinata cultura? Tutto
un apparato rituale messo in atto per un periodo di tempo anche
molto lungo (in certi casi persino alcuni anni) allo scopo di
apprendere 'soltanto' un modo abituale e tradizionale di vita? Non
sarebbe sufficiente, più efficace e più vantaggiosa la
partecipazione alla normale vita quotidiana? D'altronde, gli
stessi Ndembu dispongono di una teoria che sottolinea
l'acquisizione naturale dei costumi, paragonandola alla suzione
del latte materno: le consuetudini si assimilano come il latte
vivendo semplicemente nel proprio gruppo, all'interno del proprio
villaggio. L'iniziazione invece è interruzione, dislocazione,
discontinuità: per diversi mesi si va a vivere nella foresta, a
contatto diretto della natura e lontano dalla società di
appartenenza; spesso si vive nudi e muti, configurando e
sperimentando così una sorta di ritorno alla natura, o di 'perdita
della cultura': una situazione comunque di profondo disagio e di
sofferenza. La tesi che si vuole qui avanzare è che un
investimento così cospicuo di energie fisiche e mentali persegue
obiettivi più profondi che non quelli della semplice conservazione
dei costumi. In queste vere e proprie 'scuole nella foresta' -
come potrebbero essere definiti molti di questi rituali - vengono
certamente trasmessi specifici modelli di umanità (le cui origini
sono fatte risalire a epoche più o meno lontane); ma l'obiettivo
principale - ottenuto anche attraverso il dolore, i tagli, le
incisioni - sembra essere davvero (come suggerisce Turner) quello
della riflessione e della capacità critica di 'vedere', di
rendersi conto. Gli individui sono indotti, anzi costretti a
riflettere, e non solo sulla loro società e sull'ambiente che la
circonda. La riflessione - di ordine storico, sociologico,
antropologico, oltre che naturalistico - investe molto spesso la
maniera in cui i modelli di umanità vengono 'finti', non solo nel
senso per così dire nobile del termine (finzione come
costruzione), ma in certi casi persino nel senso deteriore
dell'inganno e della falsità (v. per esempio Lattas, 1989). Prove
così dure, quali appunto i rituali di iniziazione in tutte le
parti del mondo, non possono non costringere a riflettere su ciò
che esattamente si sta facendo, ovvero sul processo
antropo-poietico in atto. E il tema della finzione nel suo duplice
significato (di costruzione e di modellamento per un verso, di
inganno e di mistificazione per l'altro) tende a emergere con
particolare frequenza, come è dimostrato per esempio dal confronto
di rituali africani e oceaniani (v. Remotti, Tesi per..., 1996).
Sensazione dell'accidentalità, nozione di un'insopprimibile
arbitrarietà, senso delle possibilità, riflessività critica,
coscienza del carattere finzionale dei processi antropo-poietici
posti in essere nei rituali difficilmente si conciliano con
l'immagine tradizionale di società a così stretto contatto con la
natura da non potersene distinguere (l'idea ottocentesca dei
Naturvölker), così vincolate ai ceppi dei loro costumi e delle
loro tradizioni da non essere in grado di produrre storia e
inventare forme alternative di umanità, così dominate dall'idea
del Sacro da non assumersi responsabilità alcuna in merito a
processi e modelli antropo-poietici. Ma anche l'immagine della
modernità - quale viene offerta dal testo sopra citato di Eliade -
come di una società in cui con il Sacro sarebbe anche scomparsa
l'idea di un farsi o costituirsi culturale dell'uomo al di là del
suo essere biologico, appare se non altro unilaterale. Anche nella
modernità occidentale i temi antropo-poietici (cioè di
un'autopoiesi che si impone dopo aver revocato deleghe a entità
extra-umane) - sono ovviamente ben rappresentati, come è
dimostrato, per esempio, dal pensiero di Marx. Rimane vero però
che all'immagine di una modernità che si autorappresenta come
lontana dalla natura si oppongono i vari e significativi momenti
del pensiero moderno in cui l'appello e il ricorso alla natura
(contro la società e contro i suoi costumi, la sua cultura, i suoi
idola, le sue finzioni e rappresentazioni teatrali) vengono fatti
valere al fine di far emergere un uomo 'naturale', più aderente
(grazie alla scienza moderna) ai principî e ai dettami naturali.
Molto spesso la ragione, di cui la modernità ha preteso essere la
maggiore fruitrice, è stata imposta come un organo naturale, come
uno strumento che consente di azzerare costumi e credenze, di
perforare lo schermo culturale delle finzioni sociali per accedere
direttamente alle strutture naturali. Da Francis Bacon, il quale
nel Novum Organum proponeva di rinnegare e spazzar via tutti
questi idola mediante una sorta di asportazione chirurgica, a René
Descartes, che indicava la via per raggiungere le strutture
naturali dell''io' nell'allontanamento dal mondo delle
rappresentazioni sociali e delle finzioni teatrali, ad Adam Smith,
per il quale si doveva lasciar affiorare il comportamento
economico naturale, liberato dagli impacci delle convenzioni e dei
costumi, si può sostenere che numerosi e autorevoli rappresentanti
della modernità hanno pensato di dar luogo a una sorta di 'società
naturale'.In una modernità siffatta non ci sarebbe posto per
un'antropo-poiesi realizzata con mezzi culturali o cultuali
(rituali). Una modernità così concepita non sopporta le finzioni:
essa strappa di dosso all'uomo costumi e tradizioni nella
presunzione di lasciar affiorare la sua natura nuda e integra, le
sue potenzialità naturali non contaminate da tradizioni devianti,
da costumi assurdi. Per questi pensatori della modernità è
inconcepibile la teoria dell'uomo come essere biologicamente
manchevole. Alla base dell'uomo non vi sarebbero lacune e vuoti
(essi, come Descartes, sono teorizzatori del pieno). Al contrario,
la natura dell'uomo è integra: è uno strato roccioso (per usare
un'immagine di Descartes), ed è pure un'isola sicura (Kant) su cui
è possibile costruire in modo saldo e duraturo, non in modo
finzionale, revocabile, precario. Possono far riflettere allora
questi diversi modi di atteggiarsi nei confronti della natura: da
un lato avvertita come una fase da cui inesorabilmente la
modernità si sarebbe allontanata (nel bene o nel male); dall'altro
invece concepita come un obiettivo o un modello da raggiungere,
suggerendo alla stessa modernità di dar luogo - almeno per certi
aspetti - a una società naturale, priva in gran parte di rituali
fastidiosi e di costumi assurdi. Nel primo caso si tratta di
'costruire' un uomo storico, non naturale; nel secondo caso non si
tratta di costruzione, con relative aggiunte e accumuli, ma semmai
di purificazione, di eliminazione, di sottrazione. Questa vistosa
oscillazione è sufficiente a porre in luce la gamma di
interpretazioni alternative e anche contrastanti, che all'interno
di un medesimo tipo di società possono essere elaborate per quanto
riguarda l'incidenza rispettivamente attribuita alla natura e alla
cultura nel farsi o nel divenire dell'uomo.
La varietà degli atteggiamenti di fronte al compito
antropo-poietico (qui assunto come irrinunciabile a seguito della
teoria dell'uomo come essere manchevole) va ricondotta ad almeno
due ordini di motivi. Il primo attiene a ciò che si può indicare
come la relativa insostenibilità di tale compito. L'obiettivo del
'fare l'uomo' difficilmente può essere sostenuto a lungo, tenuto
costantemente presente. Come si è già detto, esso è probabilmente
il compito più impegnativo affidato a una cultura, ma sul piano
psicologico non può non produrre disagi dovuti a incertezze nelle
scelte, indeterminazioni di forme, responsabilità nella selezione
e nella proposizione. È facile e inevitabile tralasciare tale
compito rifugiandosi nella normatività quotidiana dove esso viene
celato. Il secondo motivo è poi dato dalla questione della
reperibilità dei modelli di umanità. Le fonti dei modelli sono
ovviamente diverse e qui se ne indicano almeno tre: a) le
tradizioni del proprio gruppo, gli antenati, in definitiva la
propria storia o cultura intesa come matrice della propria
identità; b) l'alterità, che in quanto tale contiene modelli di
umanità alternativi e per contrasto, come in un gioco dialettico,
diviene ispiratrice e mediatrice della stessa identità (l'esogamia
che induce a sposare i propri nemici e il cannibalismo nei
confronti dei vicini possono risultare esempi molto istruttivi,
nei quali, oltretutto, una cultura incontra l'alterità attraverso
operazioni che sono alla base naturali e biologiche); c) la stessa
natura, infine, che si prospetta praticamente in tutte le società
come un'ulteriore fonte di modelli di umanità (non sono solo le
società di tipo totemico, ovviamente, che ricorrono a esseri
animali, per esempio, per definire, mettere a fuoco, convalidare e
persino legittimare modelli di umanità).
Dalle considerazioni precedenti dovrebbe emergere l'improponibilità di uno schema che, a proposito di antropo-poiesi e del rapporto natura/cultura, opponga in modo ormai tradizionale e obsoleto società premoderne a società moderne: le possibilità di reazione nei confronti del compito antropo-poietico paiono infatti distribuirsi in una maniera che non tiene conto della distinzione ora menzionata. Tenendo fermo il presupposto della relativa insostenibilità nel tempo del compito antropo-poietico (un altro aspetto della paradossalità della situazione umana), ciò che possiamo ipotizzare sono alcune possibili reazioni, a prescindere del tutto dalla distinzione (ormai troppo screditata nella sua rozza elementarità) tra società premoderne e società moderne.In primo luogo (estremo A), troviamo rituali dichiaratamente antropo-poietici o antropo-genetici, la cui ideologia esplicita è quella di costruire o generare uomini: l'olusumba dei Nande dello Zaire è inteso come 'viaggio' che ha da generare degli uomini (v. Remotti, "Che il nostro..., 1996); l'imbalu dei Gisu dell'Uganda è una 'fabbricazione di uomini' (v. Heald, 1982); una moltitudine di altri esempi sono reperibili in Eliade (v., 1958). All'estremo opposto (B) vi sono concezioni che negano ogni efficacia alla ritualità e tanto più alla ritualità antropo-poietica. Ottimi esempi di negazione del potere antropo-poietico dei rituali sono rintracciabili - come si è visto - nella modernità occidentale, allorché si pensa di far emergere l'uomo naturale liberandolo dagli impacci delle rappresentazioni rituali della società. Vi è dunque un bivio a questo punto: o ci si pone dal punto di vista della modernità qui descritta, e allora i progetti antropo-poietici esibiti da questi rituali appaiono come un ammasso di fandonie, di finzioni nel senso deteriore, di cui occorre liberarsi; oppure ci si colloca in una prospettiva dichiaratamente antropo-poietica, e allora quelle manifestazioni della modernità occidentale - il rifiuto della ritualità, così come il richiamo e la rivendicazione di strutture 'naturali' - potrebbero apparire come un rifiuto ideologico del compito antropo-poietico (e delle responsabilità che esso comporta), un suo occultamento, dunque ancora una finzione.
Esiste tuttavia una posizione intermedia dalla quale si possono osservare le ideologie opposte, quelle (A) dell'esaltazione e della sopravvalutazione delle capacità antropo-poietiche (ritenere che davvero si dia luogo con qualche rituale, per quanto lungo e complesso, a una trasformazione radicale, a una nuova nascita, a una effettiva fabbricazione di uomini) e quelle (B) della possibilità di far a meno di 'costruire' umanità, anzi di essere in grado di distruggere ed eliminare tutte le finzioni di ordine rituale, limitandosi in tal modo a un'operazione di svelamento-affioramento della natura umana. La posizione intermedia (C) ritiene che, volenti o meno, consapevoli o no, non si possa sfuggire al compito antropo-poietico, per lo stesso fatto che "l'uomo [...] non può sottrarsi a questa cultura che forma e deforma", una cultura che - per Herder (v., 1784-1791; tr. it., pp. 215 e 217) - rappresenta davvero una "seconda genesi dell'uomo, che dura per tutta la vita": "noi non siamo ancora uomini, ma lo diventiamo ogni giorno". Questa posizione di mezzo ha il vantaggio di non cadere nella trappola ideologica dei rituali antropo-poietici, dove l'antropo-poiesi rischia di essere eccessivamente ideologizzata ed enfatizzata, e in cui i modelli di umanità trasmessi appaiono troppo nitidi, definiti, esclusivi, per essere poi davvero applicabili. La posizione C scorge invece nella quotidianità - al di fuori dei momenti più esaltanti dei rituali - un più umile e nascosto lavorio antropo-poietico. Qui non ci sono momenti eccezionali di 'nuova nascita'; c'è invece un divenire sotterraneo e continuo di umanità; e di solito non spiccano modelli ben delineati di umanità, né ci si dispone a progettarli in modo consapevole e programmatico.
Qui si fanno scelte più minute, e si
decidono scarti e mutamenti in apparenza di poco conto, che però
comunque coinvolgono il 'divenire' di umanità. Se di modelli si
tratta, essi sono sfocati, sottoposti a compromessi incessanti,
resi spuri e impuri da frammischiamenti e mescolanze di ogni tipo.
Anche questa è antropo-poiesi, ma è una costruzione di umanità
assai meno impegnata dalle opposte ideologie di A e di B: la prima
(ritualista e creazionista) pretende quasi di soverchiare la
natura (come nel caso dei maschi che in certe società rivendicano
una capacità procreativa analoga o superiore a quella femminile:
v. per esempio Lattas, 1989); la seconda, al contrario, pretende
di essere in grado di aderire alle strutture naturali e, grazie a
una ragione naturale, di poter fare a meno della cultura e delle
sue capacità (e dei suoi trucchi) finzionali.
Tra i rituali che si autodefiniscono antropo-poietici e il loro
azzeramento totale, una buona mediazione è in effetti
rappresentata dai rituali anonimi del comportamento quotidiano,
indagati (e ciò può essere significativo) sia da etologi sia da
antropologi. La posizione C si identifica dunque con una
concezione dell'antropo-poiesi che si configura come assai più
conciliante rispetto alla separazione e alla drastica opposizione
tra natura e cultura. Essa riconosce l'esigenza di fare o di
costruire l'umanità come effetto dello svuotamento culturale della
natura umana, o dell'assenza di un'essenza (Gould, Rose, Lewontin,
Kamin, ecc.), e trova perciò poco accettabile il riduzionismo
naturalistico di certe prospettive della modernità; ma è anche
disposta a riconoscere e a svelare limiti naturali (principio
delle possibilità limitate) che le ideologie antropo-poietiche di
qualunque tempo potrebbero essere indotte - talvolta con effetti
anche paurosi - a trascurare. Proprio per questo la posizione C
(un'antropo-poiesi limitata, funzionante a tratti, mai definitiva,
totale, acquisita una volta per tutte, e che però dura tutta la
vita) potrebbe essere considerata in modo ambiguo e ambivalente
sia come spunto per fughe ideologiche di tipo A, sia come pretesto
per rinnegamenti o occultamenti altrettanto ideologici di tipo B.
Proprio per questo potrebbe anche essere considerata come luogo di
convergenze e scambi tra quelle che continuiamo a chiamare scienze
della natura e scienze della cultura, specialmente da quando si è
riconosciuto che la cultura non è solo una faccenda umana, bensì
un problema che inerisce anche alle scienze naturali, e
prospettive che si richiamano a processi di autopoiesi compaiono
nei più diversi tipi di sapere (v. Zeleny, 1981).