Natura

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1. La n. delle cose

Agli inizi della filosofia greca n. indica il principio da cui le cose che nascono e divengono traggono origine e, in senso derivato, anche l’insieme delle cose stesse, compresi i fatti di carattere giuridico-morale. Una determinazione particolare del concetto di ϕύσις si ha con i sofisti, che contrappongono ciò che è ‘per n.’ a ciò che è ‘per legge’ o ‘per convenzione’, intendendo per n. ciò che ha in sé un suo stabile fondamento e non dipende dalle opinioni mutevoli degli uomini. Socrate, che si rivolge al mondo dell’uomo, e i cinici, che propugnano l’ideale della vita secondo n., contribuiscono a una prima definizione della sfera della n. in contrapposizione a quella dell’uomo. Per Platone la n. delle cose si fonda sulla loro realtà ideale, sui modelli eterni e immutabili; su un piano di minor valore, è considerato n. anche il molteplice sensibile. Per Aristotele, che definisce la n. come il principio e la causa del movimento di una cosa, n. è tanto la ‘materia’ su cui si esercita l’azione di questo principio, quanto la ‘forma’ della cosa, in virtù della quale essa si sviluppa e diviene ciò che è. Per gli stoici la divinità stessa è n. in quanto forza che dà vita e conserva il mondo, ed è perciò definita anima del mondo e ragione seminale.

Di contro a questa concezione si colloca, nel mondo tardo antico, quella di Plotino e dei neoplatonici, che svalutano la n., intesa soprattutto come n. corporea, in quanto situata in una sfera inferiore dell’essere rispetto alle prime realtà che gerarchicamente la precedono, pur considerandola anello necessario della catena che lega i vari gradi della gerarchia cosmica. Nella patristica e nella scolastica, la n., in quanto creata, è realtà accidentale e inferiore rispetto all’infinita e perfetta realtà di Dio creatore: essa è ciò che distoglie l’uomo dal suo vero fine, riposto in un mondo superiore e trascendente quello temporale.

Il pensiero umanistico e rinascimentale, riprendendo temi stoici e neoplatonici, rivaluta la n. facendone una realtà dotata di anima e di vita, sede delle corrispondenze ‘simpatiche’ degli esseri, espressione stessa della divinità che attraverso essa si manifesta. Sulla base di tali presupposti si spiega il grande sviluppo nella cultura rinascimentale delle correnti dell’occultismo, della magia e dell’astrologia. Accanto a queste correnti si vengono affermando a poco a poco nuovi atteggiamenti: significativi in tal senso la critica rivolta all’astrologia da G. Pico della Mirandola e da P. Pomponazzi, la considerazione della regolarità matematica della n. (L. Pacioli) e della dinamicità dei fenomeni naturali, il progressivo abbandono della fisica aristotelica e il tentativo di una interpretazione della n. iuxta propria principia, cioè alla luce delle sue forze intrinseche (Telesio).

2. La n. nella scienza e nella filosofia moderna

Con gli inizi del 17° sec., si afferma una concezione meccanicistica della n. che riduce i fenomeni naturali a mere modificazioni di un movimento ovunque uguale. Un contributo decisivo alla nuova scienza è dato da G. Galilei, che legge la n. come un libro che «ci sta aperto innanzi agli occhi […] scritto in lingua matematica». Per Galilei l’indagine deve abbandonare la ricerca dell’‘essenza’ dei fenomeni naturali per coglierne solo il ‘come’ formulandone la legge in termini matematici. Con lo studio matematico del moto e l’unificazione di n. celeste e sublunare Galilei compie la maggiore innovazione rispetto al concetto aristotelico di natura. Anche R. Descartes contribuisce alla concezione matematizzante della n. grazie al concetto della materia come estensione geometrica. La concezione vitalistica e animistica del tardo Rinascimento ha un seguito nella filosofia di B. Spinoza, con cui si effettua il passo decisivo verso una totale identificazione della n. con l’unica sostanza divina, concetto a cui il filosofo perviene soprattutto attraverso la critica del dualismo cartesiano e l’adozione del metodo geometrico deduttivo.

Nell’illuminismo, in particolare in quello francese, prevale, nella metafisica, una concezione materialistica della n. (J.O. de La Mettrie) e, nel campo morale, s’insiste sul ritorno alla n. per il conseguimento della felicità. L’identificazione di n. e ragione, in polemica con le tradizionali concezioni della società, sfocia poi nell’esaltazione del diritto naturale, della religione naturale, del metodo naturale nell’educazione ecc. Nella fondazione gnoseologica kantiana la n. appare come complesso dei fenomeni regolati da leggi universali, costruzione dell’intelletto, che ai dati ricevuti dall’esperienza impone la forma delle sue intuizioni sensibili e dei suoi concetti. Per I. Kant tuttavia, se l’uomo dal punto di vista della scienza naturale è cosa tra cose, soggetto al principio di causalità e quindi privo di libertà, dal punto di vista della ragion pratica si rivela invece libero e padrone del proprio destino. Il superamento di questo dualismo sarà tentato dallo stesso Kant e costituirà poi uno dei temi fondamentali dell’idealismo postkantiano.

Per J.G. Fichte, la n. è il limite, o non-Io, che l’Io pone a sé stesso per vincerlo e realizzarsi come attività etica. Per F. Schelling, la n. è la preistoria dello spirito, in quanto l’assoluto, unità indifferenziata di n. e spirito, si fa prima n. inconsapevole, che evolvendosi mette capo alla consapevolezza dello spirito. In G.W.F. Hegel la n., momento dell’autoalienazione o estraneazione da sé dell’idea assoluta, viene costruita aprioristicamente, secondo lo schema dialettico. Per il positivismo la n. è quella che emerge dall’indagine sperimentale. Il positivismo inoltre bandisce ogni finalismo nella considerazione della n. e, nelle sue versioni evoluzionistiche, attribuisce l’apparente armonia della n. all’operare di meccanismi di adattamento e di selezione, cui vanno ricondotte anche le forme superiori della n., comprese quelle umane.

A questa concezione reagisce, alla fine del 19° sec. e nei primi decenni del 20° sec., il neoidealismo, il quale rivendica il valore originario e assoluto dello spirito e considera la n. una forma di esperienza spirituale. Altri indirizzi della filosofia contemporanea, anche quando accolgono il concetto di evoluzione naturale, ne respingono l’interpretazione meccanicistica, rilevando nella n. l’‘emergere’ di forme nuove e originali. Di qui l’‘evoluzione emergente’ di C. Lloyd Morgan e l’‘evoluzione creatrice’ di H. Bergson.

Il naturalismo americano del primo decennio del 20° sec., pur reagendo al neoidealismo, evita di ricondurre, come aveva fatto il positivismo, le forme superiori della n., comprese quelle umane, alle inferiori, e afferma con G. Santayana: «tutto ciò che è ideale ha una base naturale, e tutto ciò che è naturale ha una base ideale», e con J. Dewey: «non possiamo separare la vita organica e lo spirito dalla n. fisica senza separare anche la n. dalla vita e dallo spirito». Una concezione organicistica della n. è teorizzata da A.N. Whitehead, in contrapposizione a quella astrattamente formale data dalla scienza fisico-matematica.

La considerazione scientifica della n., se da una parte segna il sorgere di una rigorosa filosofia naturalistica che non ammette l’esistenza di realtà extra- o sovrannaturali, dall’altra segna anche la crisi della nozione tradizionale di natura. Vengono abbandonati i progetti di una descrizione generale della n. come totalità, ai quali si sostituisce il compito meno ambizioso di descrizione delle molte n., ovvero dei molteplici settori della natura.

Filosofia della n.

Espressione (ted. Naturphilosophie) resa famosa dall’idealismo postkantiano e specialmente da G.W.F. Hegel, il quale con essa designa una delle tre partizioni fondamentali della filosofia (logica, filosofia della n., filosofia dello spirito). Si distingue dalla scienza come indagine sperimentale in quanto deduce a priori le manifestazioni naturali dall’idea di una n. in generale, e mostra come la n. si risolva nello spirito.


Dizionario di Filosofia (2009)

La primitiva speculazione greca intende per φύσις («natura») l’intero Universo come l’insieme delle cose che nascono e divengono, e di esso ricerca il «principio».

La riflessione sulla natura nel mondo antico. Una determinazione particolare del concetto di n. si ha con i sofisti, che contrappongono alle convenzioni (leggi) la spontaneità degli impulsi della n., che quelle malamente tentano di ostacolare. Socrate, che lascia da parte le ricerche intorno alla n. per rivolgersi al mondo che dipende dall’uomo, e i cinici, che propugnano l’ideale della vita secondo n., contribuiscono a una prima definizione della sfera della n., in contrapposizione a quella dell’uomo. Platone attribuisce alla n., regno della molteplicità sensibile e mutevole, una sua realtà distinta da quella delle idee; ma ponendo l’essenza universale e intelligibile fuori delle cose sensibili tende a considerare la n. come non-ente. Aristotele, rivendicando il valore della n., riunisce quello che Platone aveva separato; la forma e la materia delle cose, ciò che ciascuna di queste è, per cui è pensata, ossia l’essenza, e il sostrato necessario alla sua realizzazione. La n. è così intesa come divenire o generazione continua di forme. Tuttavia il principio del movimento, la radice delle forme, è in qualche cosa che – in quanto principio e non principiato, causa assoluta e non più effetto – è immobile, cioè trascende la n., che è movimento. Quindi la n., benché concepita come unità dinamica di materia e forma, riceve la forma da fuori; e senza questa animazione estrinseca, si riduce a mera possibilità o potenzialità passiva delle forme. Quindi anche in Aristotele vi è una svalutazione della n., che si ritrova altresì nel neoplatonismo, per il quale il mondo dei corpi è ombra e riflesso di Dio e ha come sostrato la materia, che è non-essere. Gli stoici concepiscono invece la n. come totalità autosufficiente, contenente in modo intrinseco il suo principio attivo, non identificabile comunque con la n. stessa, ma presentato piuttosto come anima del mondo, principio vivificante, ragione (λόγος).

Medioevo e Rinascimento. Nella patristica e nella scolastica, la n., in quanto creata, è realtà accidentale e inferiore rispetto all’infinita e perfetta realtà di Dio, creatore e trascendente. E nell’uomo essa è ciò che lo distoglie dal suo vero fine, riposto in un mondo superiore e trascendente quello temporale. Per il pensiero rinascimentale la n. non è allontanamento da Dio, ma al contrario è animata e tutta vibrante dello stesso alito divino. Diversamente da Aristotele, si ritiene ora che la n., come sola concreta realtà, vada studiata di per sé e spiegata iuxta propria principia, senza rimandi a principi estrinseci e non riducibili a essa. Donde la tendenza a identificarla con Dio (panteismo). Tendenza che, attraverso la critica del concetto cartesiano di sostanza, diventa l’assunto di Spinoza, la cui proposizione Deus sive natura esprime un’identificazione perfetta di Dio e natura.

La concezione meccanicistica e matematizzante. Da questo concetto prettamente metafisico della n. nel Rinascimento (che dette luogo anche a una concezione magica e animistica della n.) e poi in Spinoza, si viene facendo luce a poco a poco una diversa concezione, sia attraverso la critica (Pico della Mirandola, Pomponazzi) dell’astrologia, sia attraverso la considerazione della regolarità matematica della n. (Luca Pacioli), evidente particolarmente nell’astronomia, e della dinamicità dei fenomeni naturali; si afferma così una concezione meccanicistica, che riducendo i fenomeni naturali a mere modificazioni di un movimento uguale dappertutto, permetterà lo studio matematico di ogni moto, con cui si costituirà la nuova scienza, che sarà anche una nuova concezione della natura. A questa un contributo decisivo è dato da Galilei, secondo il quale la n. è come un libro che «ci sta aperto innanzi agli occhi [...] scritto in lingua matematica». Non si ha con ciò una semplice ripresa dell’antica concezione pitagorico-platonica della n., in quanto per Galilei l’indagine deve tralasciare di cercare il «che cosa» dei fenomeni naturali per coglierne solo il «come», e deve quindi tendere a ridurre questi alla legge formulata matematicamente. E con lo studio matematico del moto e l’unificazione della n. celeste e di quella sublunare Galilei compie la maggiore innovazione rispetto al concetto aristotelico della natura. Descartes contribuisce da parte sua alla concezione matematizzante della n., non tanto con la spiegazione meccanicistica di essa, fatta, a suo dire, di vortici e di materia sottile, quanto con il concetto della materia come estensione geometrica (il «pieno» degli antichi). La concezione matematizzante della n. viene ribadita dal dinamismo newtoniano, che si sforza di spiegare in modo rigoroso il moto dei corpi introducendo il concetto, non scevro di difficoltà, di forza gravitazionale.

La speculazione settecentesca e ottocentesca. Nell’Illuminismo particolarmente francese, prevale, nella metafisica, una concezione materialistica della n. (La Mettrie) e, nel campo morale, si insiste sul ritorno alla n. per il conseguimento della felicità; l’identificazione di n. e ragione, di ciò che è materiale con ciò che è razionale, in polemica con le cristallizzazioni delle strutture sociali, conduce poi all’esaltazione del diritto naturale e dei diritti naturali dell’uomo e del cittadino, della religione naturale, del metodo naturale nell’educazione, ecc. Una fondazione gnoseologica della n. si ha con Kant, per il quale la n., come complesso dei fenomeni regolati da leggi universali, è costruzione dell’intelletto, che all’informe materia ricevuta dalla realtà in sé impone la forma delle sue intuizioni sensibili e dei suoi concetti. Tuttavia, per Kant, l’uomo, dal punto di vista della stessa scienza naturale, è cosa tra cose, sottoposto alle condizioni spazio-temporali e al principio di causalità, quindi privo di libertà. Dal punto di vista invece della ragion pratica, esso si rivela libero e padrone del proprio destino. Pertanto la libertà e lo spirito sono da Kant contrapposti alla n. quale regno della necessità. Il superamento di questo dualismo e contrapposizione di n. o necessità e di spirito o libertà sarà tentato dallo stesso Kant nella Critica del giudizio (1790) e costituirà poi uno dei temi fondamentali dell’idealismo postkantiano. Per Fichte, la n. è il limite, o non-Io, che l’Io pone a sé stesso, per vincerlo come attività etica. Per Schelling, la n. è la preistoria dello spirito, in quanto l’assoluto, unità indifferenziata di n. e spirito, si fa prima n. inconsapevole, che evolvendosi mette capo alla consapevolezza dello spirito. In Hegel la n., momento dell’autoalienazione o estraneazione da sé dell’idea assoluta, viene costruita aprioristicamente secondo lo schema dialettico. Costruzione che suscita la reazione del positivismo della seconda metà del sec. 19°, il quale faceva appello alla necessità della considerazione della n. attraverso l’indagine sperimentale. Il positivismo inoltre bandisce ogni finalismo nella considerazione della n., in quanto l’apparente armonia di questa non sarebbe altro che un aggiustamento casuale e meccanico, che determina l’eliminazione automatica delle forme naturali meno adatte a sopravvivere. Con questa legge dell’evoluzione naturale si intende ricondurre le forme superiori della n., comprese quelle umane, alle forme inferiori di essa, fino a risolvere lo stesso spirito nella natura.

La filosofia novecentesca e contemporanea. A tale concezione reagisce, alla fine del sec. 19° e nei primi decenni del sec. 20°, il neoidealismo, il quale rivendica il valore originario e assoluto dello spirito e considera la n. una forma di esperienza spirituale. Altri indirizzi della filosofia del Novecento, anche quando accolgono il concetto di evoluzione naturale, ne respingono l’interpretazione meccanicistica, rilevando nella n. l’emergere di forme nuove e originali. Di qui l’«evoluzione emergente» di Conwy Lloyd Morgan e l’«evoluzione creatrice» di Bergson. Per quest’ultimo lo «slancio vitale» della n. organizza la materia in un processo continuo che dà luogo a forme sempre nuove e originali. Il naturalismo americano del primo decennio del 20° sec., pur reagendo al neoidealismo che aveva risolto la n. nello spirito, evita di ricondurre, come aveva fatto il positivismo, le forme superiori della n., comprese quelle umane, alle inferiori, e afferma con Santayana che «tutto ciò che è ideale ha una base naturale, e tutto ciò che è naturale ha una base ideale», mentre sostiene con Dewey che «non possiamo separare la vita organica e lo spirito dalla n. fisica senza separare anche la n. dallo spirito». Altra concezione notevole della n. è quella organicistica teorizzata da Whithead, in contrapposizione alla concezione astrattamente formale della n., data dalla scienza fisico-matematica. La considerazione scientifica della n., se da una parte segna il sorgere di una rigorosa filosofia naturalistica che si rifiuta di ammettere l’esistenza di realtà extra o sovrannaturali, dall’altra segna anche il tracollo della prospettiva tradizionale nei confronti della nozione di natura. Vengono abbandonati infatti i progetti di una descrizione generale della n. come totalità e dell’individuazione di un unico principio che costituisca la n. di tutte le cose. Entra cioè in crisi nel 20° sec. la nozione stessa di n. come oggetto filosofico, che lascia il campo a un compito meno ambizioso di descrizione delle molte n., ossia dei molteplici settori o ambiti della natura.

Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)

di Francesco Remotti

Sommario: 1. Natura/cultura: da domini 'naturali' a costrutti 'culturali'. 2. La cultura prima dell'uomo. 3. Cultura umana. 4. La seconda natura. 5. La seconda nascita: tradizioni e rituali. 6. 'Finzioni' antropo-poietiche. □ Bibliografia.

1. Natura/cultura: da domini 'naturali' a costrutti 'culturali'

Come molte coppie di concetti oppositivi, anche la distinzione natura/cultura può dare a tutta prima l'impressione di un'innegabile ovvietà, correlata persino a un certo grado di osservabilità empirica. Nessuno si sentirebbe di negare che oceani, foreste, catene di montagne, sciami di api, branchi di ippopotami, corpi astronomici, fenomeni meteorologici appartengono alla natura e che, invece, villaggi, città, mezzi meccanici di locomozione, spettacoli teatrali e concerti di musica classica o popolare ineriscono alla cultura. Un'eruzione vulcanica è indubbiamente un fenomeno naturale; una guerra tra esseri umani e conseguente cannibalismo rituale (come succedeva, per esempio, tra i Tupinamba del Brasile) sono invece collocati tra i fatti storici e intesi prevalentemente come fenomeni culturali, in quanto coinvolgono in primo luogo società dotate di una propria struttura economica, di un'organizzazione politica e militare, di specifiche regole di comportamento e di valori. Con un'espressione ormai molto usata si potrebbe tuttavia sostenere che anche natura e cultura, nonché il loro nesso, sono frutto di invenzione. Un tempo considerate come domini autonomi, spesso immaginati come stratigraficamente sovrapposti, intese entrambe come 'dati' pressoché indiscutibili, ed entrambe dotate di un'esistenza e di una realtà 'naturale', natura e cultura vedono invece oggi sottolineato il loro carattere di 'costrutti culturali'. Un tempo (possiamo riferirci, per esempio, al 1949, data della prima edizione de Les structures élémentaires de la parenté di Claude Lévi-Strauss), la cultura, pur essendo accuratamente distinta dalla natura, veniva concepita alla stessa stregua, cioè appunto come un livello di fenomeni inscritto nella realtà delle cose: la stessa distinzione dalla natura era indice e prova dell'esistenza 'naturale' della cultura. Oggi, è un po' come se la prospettiva si fosse ribaltata. Già nella seconda edizione (1967) delle Structures, Lévi-Strauss notava come le linee di confine tra i due domini, un tempo ritenute nette, precise e inequivocabili, sono oggi molto più sfumate e incerte (linguaggio e simbolismo sono fenomeni che sempre meno possiamo accreditare soltanto alla cultura umana). E in concomitanza di ciò prevale sempre più l'idea che le linee di confine tra i due domini, anziché essere date e quindi osservabili direttamente nella realtà, sono incise culturalmente e di volta in volta tracciate a seconda delle prospettive prescelte. Detto in altri termini, natura e cultura sono 'oggetti teorici'. Il che non significa, ovviamente, che i contenuti a cui si riferiscono (le eruzioni vulcaniche o i concerti musicali) non abbiano una loro esistenza ovvero siano prodotti di fantasia. Significa invece che fenomeni come quelli prima esemplificati - che pure avvengono in questo mondo e sono 'naturalmente' osservabili - si trovano a essere classificati in categorie culturalmente elaborate, le quali sono a loro volta risultati di scelte intellettuali (anche se inconsapevoli o sepolte nel passato culturale, nelle tradizioni linguistiche e concettuali), nonché di vere e proprie prospettive scientifiche. Tali risultati e tali scelte, inoltre, sono spesso riconducibili a conflitti di idee e di posizioni, i cui esiti si sedimentano a volte molto a lungo nella storia: a tal punto che per noi è estremamente difficile staccarci da categorie e da opposizioni concettuali in cui si è formato in gran parte il nostro pensiero. È indubbio che natura/cultura sia una di quelle coppie concettuali così 'connaturate' nel nostro modo di pensare da risultare incastonate e quasi scolpite nel nostro mondo, per cui la stessa proposta di considerarle come 'costrutti culturali' (quindi in una certa misura variabili e revocabili) potrebbe suscitare resistenze, dubbi, perplessità.

A spiegare l'idea della 'naturalità', per un verso, e del significato 'culturale', per l'altro, della distinzione natura/cultura contribuiscono non poco l'organizzazione del sapere e in generale la visione scientifica del mondo quale si incarna nelle istituzioni accademiche della civiltà occidentale. Gran parte di queste istituzioni, della loro visione scientifica e del sapere da esse organizzato si fonda infatti su questa prima opposizione fondamentale. Altre distinzioni sono ovviamente previste al loro interno, ma la distinzione natura/cultura (un tempo interpretata soprattutto in termini di natura/spirito) è tuttora dominante. A ben vedere, però, non si tratta soltanto di una distinzione. Certo, si può ben comprendere che un conto è indagare il moto degli astri e la struttura anatomica di uccelli e cetacei, mentre tutt'altra faccenda è l'analisi filologica di un testo poetico. Ma - specialmente se si adotta uno sguardo dall'esterno (quello di un'osservatore da un'altra civiltà o da un altro pianeta) - è difficile non essere sorpresi notando che, in merito alla comprensione generale degli esseri umani (denominata 'antropologia'), non si osserva soltanto una distinzione di nomi ('antropologia fisica' e 'biologica' da un lato, 'antropologia sociale' e 'culturale' dall'altro), ma un'opposizione acuta e quasi inconciliabile. Non si tratta soltanto di approcci diversi, di appartenenza a istituzioni separate, ma anche, il più delle volte, di incomunicabilità, di assenza di scambi e di dialogo, come se davvero le due antropologie si occupassero di oggetti del tutto eterogenei. Nel caso dell'antropologia (l'autointerpretazione degli esseri umani), l'opposizione natura/cultura potrebbe a buon diritto suscitare l'idea non di una semplice complementarità di metodi, di una forse opportuna divisione del lavoro scientifico, bensì di una spaccatura scarsamente motivata sul piano scientifico, di uno smembramento più o meno accorto, di una spartizione alquanto brutale e forse interessata. In questo caso l'alleanza (tra scienze naturali da un lato e scienze della cultura, o socio-umane, dall'altro) risulta probabilmente assai più incerta che altrove: è come se su questo punto specifico - l''uomo' (in sostanza l'argomento per l'uomo stesso di maggiore interesse e di maggiore coinvolgimento) - la "frammentazione cognitiva del mondo" in blocchi discreti e anzi la "spaccatura" tra i due tipi di sapere (v. Gallino, 1992, pp. IX-X e 6) si rendessero più gravi e problematiche, tali da produrre altri motivi di sospetto sulla validità intrinseca e quindi sulla perpetuità di un'impostazione classificatoria natura/cultura troppo rigidamente fissista.

Oltre alla relativa incomunicabilità tra le due sponde vi sono poi ulteriori aspetti che inducono a riflettere sul carattere inevitabilmente storico della formazione dei due tipi di scienze e del loro rapporto: la gerarchia, quindi la competizione e la messa a punto di strategie. Nell'organizzazione del sapere scientifico dell'età moderna, la prima a essere 'inventata' come oggetto propriamente ed esclusivamente scientifico è stata indubbiamente la natura. Nel Seicento Francis Bacon, Galileo Galilei, René Descartes non avevano dubbio alcuno nel conferire priorità epistemologica alla conoscenza della natura, relegando di conseguenza il sapere relativo alla società (ai suoi costumi, ai suoi avvenimenti e al suo linguaggio) in una sfera di interesse decisamente secondario, di cui occorreva diffidare e quindi liberarsi per accedere a una conoscenza 'pura' e 'solida' dell'ordine naturale. In questa prospettiva la natura appare come un mondo ordinato, fatto di leggi rigorose e di relazioni stabili; il mondo della società e della storia risulta invece caratterizzato da variabilità, instabilità, incertezze, spesso da assurdità. Già così si intravvede una forte opposizione tra domini distinti; ma, oltre che di opposizione, si tratta anche di una netta svalutazione del secondo termine. Per molto tempo nel pensiero moderno occidentale il mondo della società e della storia ha goduto di una ben scarsa dignità scientifica, inserito com'era in una gerarchia che si traduceva in un'esplicita esclusione delle 'scienze umane' (espressione già ricorrente nel Cinque-Seicento) dalla 'repubblica delle scienze', dominata dalle scienze della natura con a capo una filosofia che poneva al centro della sua riflessione l'ordine della natura piuttosto che la società o la cultura.
Per guadagnare un 'posticino' (come a questo proposito avrebbe detto Kant) nella repubblica del sapere scientifico, le scienze storiche e sociali hanno dovuto compiere un lungo, secolare processo di riorganizzazione del loro sapere, il cui primo obiettivo doveva essere la dimostrazione di un ordine esistente sia nella storia sia nella società, un ordine spesso garantito dalla provvidenza divina (come è il caso di Vico o di Herder) e proprio per questo ritenuto valido e indiscutibile, o un ordine retto da una necessità immanente e tuttavia ferrea (la dialettica di Marx e di Engels e del marxismo in generale). Anche quando cadono le garanzie teologiche e i riferimenti rassicuranti a una sorta di provvidenza laica, l'appello all'ordine comunque esistente nella società, nella sua struttura, nelle sue funzioni e nelle sue modalità di evoluzione (Comte, Spencer), assume indubbiamente il significato di un'esplicita richiesta di legittimazione delle scienze sociali e di un loro pieno riconoscimento nella repubblica delle scienze. Nella seconda metà dell'Ottocento Edward B. Tylor, l'inventore della "scienza della cultura", ovvero dell'antropologia che poi si sarebbe chiamata culturale, riteneva fondato sostenere che "i nostri pensieri, le nostre volontà e le nostre azioni si conformano a leggi altrettanto determinate quanto quelle che governano il moto delle onde, la combinazione degli acidi e delle basi, la crescita delle piante e degli animali" (v. Tylor, 1871; tr. it., pp. 23 e 8). In pieno Novecento l'antropologo americano George P. Murdock non aveva esitazioni ad affermare che la struttura sociale è dotata di "proprie leggi naturali", le quali regolano le "permutazioni e combinazioni" dei suoi elementi "con una precisione poco meno soddisfacente" di quella degli atomi della chimica e dei geni della biologia (v. Murdock, 1949; tr. it., p. 158). In genere, lo strutturalismo del Novecento (sia nella versione di Alfred R. Radcliffe-Brown sia in quella di Claude Lévi-Strauss) fu in effetti un tentativo di avvicinamento programmatico dell'antropologia (e in generale delle scienze sociali) alle scienze naturali, una richiesta di legittimazione 'scientifica' dell'antropologia sociale, esplicitamente interpretata dall'antropologo inglese come una "scienza naturale della società umana" (v. Radcliffe-Brown, 1948).

Nei programmi ora ricordati è significativo però rilevare che la nozione di 'cultura' (nonostante Tylor) svolgeva un ruolo decisamente secondario, quasi fosse d'impaccio e di ostacolo ai tentativi di assimilazione delle scienze umane alle scienze della natura (e alla loro legittimazione). In effetti nel vocabolario concettuale degli antropologi e degli scienziati sociali in genere la nozione di cultura dimostrava una distanza maggiore, una resistenza più pronunciata, una maggiore refrattarietà all'ordine che non la natura, un'opposizione più sorda e qualitativamente meno riducibile. Su questo punto, tra Ottocento e Novecento, le scienze umane hanno per lo più oscillato in modo assai vistoso e contraddittorio tra due strategie nettamente divergenti.

La prima strategia (A) era volta a dimostrare che le scienze umane sono anch'esse scienze allo stesso titolo delle scienze della natura, poiché è unico il modo di procedere scientifico. In questa strategia si preferisce di solito ricorrere alla nozione di società piuttosto che a quella di cultura, dato che risulta più agevole interpretare la società come dotata di strutture in qualche modo autonome rispetto alle azioni degli individui e caratterizzata da funzioni che prescindono dai significati che gli stessi individui conferiscono loro. In questo tipo di prospettive (il positivismo nell'Ottocento, il funzionalismo e lo strutturalismo nel Novecento) alla nozione di cultura viene assegnato un ruolo decisamente secondario, mentre sono favorite le nozioni - come, in modo tipico, quella di 'struttura sociale' - che assicurano un avvicinamento più deciso alle scienze naturali. Le stesse scienze umane vengono in effetti interpretate come un'applicazione - sia pure non sempre garantita e soddisfacente - dei metodi d'indagine delle scienze naturali alla realtà storica e culturale dell'uomo. Potremmo raffigurare questa strategia di avvicinamento, fondata sull'idea della superiorità delle scienze della natura, con lo schema seguente: sN( + )←sC( - ).

La seconda strategia (B) coincide invece con una rivendicazione esplicita dell'autonomia delle scienze umane, interpretate significativamente come 'scienze dello spirito' o della 'cultura'. In questa prospettiva non si tratta di attenuare le divergenze e accorciare le distanze, ma di accettare e anzi di accentuare la differenza tra scienze umane e scienze naturali e di affermare che esistono non uno, ma due tipi di scientificità. Pertanto - come è apparso evidente nelle correnti di solito designate come 'storicismo tedesco' (da Wilhelm Dilthey a Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert, da Georg Simmel a Max Weber) - l'obiettivo non era quello di entrare nella repubblica delle scienze già occupata dalle scienze naturali facendo proprie le loro caratteristiche di fondo, bensì di rivendicare la possibilità di una configurazione autonoma, di una repubblica a parte. Significativamente in queste correnti, così come nelle tendenze più recenti che a esse si ispirano in sociologia e in antropologia, la nozione di cultura svolge spesso un ruolo di primo piano: il suo carattere oppositivo e differenziante (rispetto alla natura o alla biologia) viene infatti utilizzato come base e giustificazione dell'autonomia delle scienze che la assumono a oggetto. È molto probabile che un ricorso esplicito e massiccio alla nozione di cultura (piuttosto che a quella di struttura sociale) porti con sé un'impostazione che privilegia la ricerca del particolare rispetto al generale, delle differenze rispetto alle uniformità, dei significati rispetto alle leggi. Il caso dell'antropologia di Clifford Geertz (v., 1973) è emblematico al riguardo. In modo analogo, raffiguriamo questa strategia autonomistica, motivata dalla duplicità dei tipi di sapere scientifico, con uno schema siffatto: sN( + )//sC( + ).

Occorre però evitare una visione bipolare che fissi le due alternative ora enunciate (A e B), con le scienze umane continuamente indecise o alternativamente oscillanti tra un programma di avvicinamento e di assimilazione alle scienze della natura (A) e un programma di rivendicazione di una propria peculiarità e autonomia (B). Questa visione non terrebbe in debito conto i mutamenti che pure avvengono sull'altro versante, quello delle scienze naturali. Una terza posizione (C) si è infatti venuta a delineare in modo sempre più chiaro e incisivo, soprattutto grazie alle analisi che filosofi ed epistemologi hanno condotto nell'ultimo trentennio sulle vicende, sulle conquiste e sulle modalità di mutamento del pensiero scientifico. Lungi dall'apparire come lo specchio fedele della natura, la scienza (anche il tipo più 'duro' di scienza) è stata interpretata come un'impresa collettiva che funziona normalmente attraverso l'elaborazione e la condivisione di paradigmi, ovvero di schemi mentali che guidano e orientano la ricerca e la raccolta dei dati (v. Kuhn, 1962).
Certo, proprio Kuhn ha sottolineato come vi siano posizioni diverse circa l'accettazione e il consenso sui paradigmi: è evidente, per esempio, secondo Kuhn, che la situazione delle scienze sociali è talvolta 'pre-paradigmatica' rispetto a quella delle scienze naturali, in quanto nelle prime esiste un tasso notevolmente maggiore di confusione e di incertezza su obiettivi e metodi, mentre nelle seconde l'esistenza di paradigmi garantisce un ordine maggiore e dunque anche una maggiore efficacia e operatività (ibid.; tr. it., p. 10). Ma i paradigmi (anche quelli delle scienze naturali) sono schemi mentali, curiosamente molto avvicinabili alla nozione di cultura imperante o prevalente nelle scienze umane e nelle discipline umanistiche. I paradigmi non sono il rispecchiamento della natura: sono invece - per Kuhn - il prodotto di scelte di orientamento generale che si verificano - e che di solito competono tra loro - nella storia delle comunità scientifiche. Avendo alla loro base delle scelte, i paradigmi comportano sempre una qualche dose di arbitrarietà e una natura comunque 'convenzionale', nonostante gli sforzi di coloro che vi aderiscono di occultare questi caratteri.Senza dubbio i paradigmi sfruttano indicazioni oggettive e appigli naturali; non solo, ma quanto più sono buoni, tanto più promuovono osservazioni dettagliate, accumulo di dati e verifiche, approfondimenti teorici, insomma 'progresso' scientifico. E tuttavia, per la loro radicale arbitrarietà e convenzionalità, anche i migliori paradigmi tendono alla fine a esaurirsi. Un'osservazione più accurata, un'analisi più approfondita non possono che generare anomalie, ovvero una sempre più consistente e preoccupante messa in evidenza dei limiti, delle ottusità e delle oscurità dei paradigmi adottati: l'aumento dei casi anomali, dei casi cioè che non possono più semplicemente essere relegati nella categoria residua e innocua delle eccezioni, provoca una sorta di erosione dei paradigmi, un progressivo venir meno della loro credibilità. Anche sotto questo profilo, essi appaiono come frutto di intese, accordi, convenzioni, da cui si generano tradizioni più o meno produttive che le comunità scientifiche tendono di volta in volta ad adottare e difendere, o a combattere e distruggere, a mantenere nonostante tutti i fallimenti o a sovvertire in modo più o meno repentino e violento.

Con la nozione kuhniana di paradigma si è fatta strada nell'epistemologia del secondo Novecento l'idea che anche la scienza naturale sia un fatto di cultura: tra l'occhio 'puro' dello scienziato e le strutture oggettive della realtà che egli indaga, o pretende di indagare, con atteggiamento libero (secondo una visione 'a-culturale' o 'pre-culturale' della scienza), si inserisce un'altra realtà, quella delle varie comunità scientifiche con i loro presupposti non sempre dichiarati, i loro pregiudizi, le loro tradizioni più o meno imponenti e autorevoli, i loro 'costumi mentali', in definitiva con la loro 'cultura' (in senso inequivocabilmente antropologico). Saranno perciò anche diverse, di fatto, le situazioni delle comunità scientifiche (più ordinate e paradigmatiche quelle naturalistiche, più disordinate e pre-paradigmatiche quelle umanistiche); ma lo scarto non è più così decisivo da invocare (strategia B) una differenza qualitativa di metodo o di oggetti (secondo le opzioni di tipo storicistico), né le scienze naturali possono più vantare una stabilità e una trasparenza tanto adamantina da trasformarle in un modello a stento avvicinabile da parte delle scienze della cultura (strategia A). Con la situazione descritta le strategie A e B divengono indubbiamente obsolete. Ciò che si prospetta è invece (C) un avvicinamento consistente di scienze della natura e scienze della cultura sulla base del riconoscimento che anche le scienze della natura esprimono ed elaborano - con i loro paradigmi - una cultura (quella, se non altro, delle comunità scientifiche). Si tratta dunque di un avvicinamento (secondo la strategia A), ma di un avvicinamento operato mediante una nozione - quella di cultura - centrale e decisiva nella prospettiva opposta, della separazione e dell'autonomia (strategia B). Per fissare anche qui il concetto con una formula, proponiamo il seguente schema: sN( + )↔sC( + ), in cui la doppia freccia sta a indicare la diminuzione della distanza e il venir meno della separazione qualitativa. Ma è importante notare che nella situazione C sono soprattutto le scienze della natura (sN) ad accogliere - o a dover accogliere - come parte irrinunciabile dei loro programmi un fattore fondamentale e decisivo delle scienze opposte, la cultura - fattore che (come abbiamo visto nella strategia B) era stato utilizzato per giustificare la separazione e legittimare l'autonomia epistemologica delle scienze che l'assumevano come oggetto. Un po' come dire che con C non solo viene meno la gerarchia sN>sC, già contestata dalla strategia B, ma si registra un'apertura delle scienze della natura nei confronti delle scienze della cultura, una maggiore attenzione per ciò che le sC avrebbero (potenzialmente) da dire sulla stessa formazione e organizzazione delle sN. Con il riconoscimento della cultura nelle scienze della natura come loro dimensione insopprimibile e vitale si apre la strada a forme di sapere sC che, con maggiore o minore cautela, si introducono nella repubblica delle scienze sN. E questa introduzione - come è il caso della sociologia della scienza e, più recentemente, dell'antropologia della scienza - non comporta soltanto l'occupazione di uno scranno, ma assume anche il significato di una ricognizione della composizione della 'repubblica' e di un'indagine critica sui principî e sulle categorie generali o particolari mediante cui essa è organizzata, ponendo in luce - indipendentemente dalla loro efficacia - il loro carattere convenzionale, anziché naturale, negoziale e sempre un po' arbitrario, 'finzionale' invece che necessario e inevitabile. È in questo modo che l'opposizione certa e sicura di natura e cultura ha perso la sua parvenza naturalistica per assumere invece una pregnanza eminentemente culturale.

2. La cultura prima dell'uomo

Anche sul piano oggettivo (e non solo su quello metodologico) si assiste, ormai da alcuni decenni, a un riconoscimento significativo della cultura nel regno della natura. Molte delle posizioni adombrate nei punti precedenti (in particolare A e B) condividevano il presupposto di una coincidenza e sovrapponibilità quasi perfetta di 'cultura' e 'umanità': l'uomo è fatto di cultura e la cultura sarebbe una prerogativa riservata all'uomo, un suo appannaggio esclusivo. Buona parte dell'antropologia culturale del Novecento ha ereditato e fatto proprio questo presupposto umanistico: un accoppiamento unico e inscindibile che appare nella stessa denominazione di questa disciplina. Ma anche questo paradigma (cultura = umanità) che ha avuto molta fortuna e ha fatto indubbiamente la fortuna degli antropologi culturali, per quanto difeso strenuamente, svela smagliature e cedimenti almeno locali: non si è ancora assistito, forse, a una sua decisiva perdita di credibilità solo in quanto si è avuta l'accortezza di fare concessioni parziali e circoscritte. Ormai, anche gli antropologi culturali sono disposti (v. per esempio Harris, 1987) a riconoscere che la cultura non è un fatto esclusivamente umano. Esempi di cultura (tradizioni, costumi socialmente acquisiti o appresi) sono infatti rinvenibili in diverse specie animali: non soltanto nei macachi dell'isoletta di Koshima che inventano e trasmettono l'abitudine di gettare manciate di chicchi di grano nell'acqua marina per liberarli dalla sabbia, non soltanto nella capacità di usare strumenti da parte dello scimpanzé che infila un ramoscello nel termitaio per catturarvi le termiti (e dunque in esseri animali indubbiamente vicini all'uomo sotto il profilo genetico), ma anche nelle cinciallegre che hanno imparato e insegnato a bucare la stagnola delle bottiglie di latte depositate sulla soglia delle case inglesi o negli usignoli che inventano stili di canto diversi a seconda dei luoghi e delle zone, vere e proprie tradizioni locali che gli individui devono apprendere (v. Bonner, 1980). Episodi minimi, forse, e che certamente non intaccano la validità della tesi secondo cui, tra tutte le specie, Homo è la 'più culturale' che sia possibile osservare sulla terra, quella che ha affidato alla cultura le sorti della sua sopravvivenza e del suo stesso successo biologico. Ma per quanto minime possano essere considerate le manifestazioni culturali delle altre specie animali rispetto a quelle dell'uomo, esse valgono comunque a smentire la tesi secondo cui la cultura è un'invenzione esclusivamente umana. La cultura si prospetta invece come una possibilità zoologica, di cui l'uomo si è certamente impadronito e avvalso, e che è tuttavia preesistente all'uomo stesso. Sotto questo profilo la cultura non può più essere considerata come termine antitetico rispetto alla natura, bensì come una sua dimensione interna di per sé indipendente dall'uomo, che perciò - al di là di ogni proclamazione di esclusività antropologica - riconduce inesorabilmente l'uomo all'ambito della natura.

La cultura è stata spesso utilizzata come un mezzo per segnare il territorio propriamente umano, per far sembrare l'uomo come un essere a parte rispetto al restante mondo animale e in generale alla natura. Presupposto di questa operazione di 'recinzione' dell'umanità è stata la tesi della coincidenza esclusiva di umanità e cultura. L'uomo come unico inventore, costruttore o fruitore di cultura è l'immagine che promana da quella tesi, il cui significato è rivendicare per l'uomo un ruolo unico e irripetibile, che lo rende incomparabile con qualsiasi altro animale. La funzione un tempo svolta da concetti sostanzialmente religiosi come anima e spirito - quella cioè di rendere l'essere umano una realtà qualitativamente distinta nel regno animale - è stata svolta più di recente e in modo più laico (con l'affermazione delle scienze umane e sociali) dalla nozione di cultura. Questa funzione non può più però essere attribuita alla cultura in quanto tale nel momento in cui si riconosce che anche altri esseri animali sono 'culturali' (per quanto in gradi diversi) e che dunque la cultura, come possibilità zoologica, ha preceduto e non seguito l'origine e la storia dell'umanità. L'aver spezzato il legame di corrispondenza biunivoca tra cultura e umanità non comporta soltanto una dilatazione extra-antropologica, e dunque zoologica, della cultura, ma anche una ridiscussione (se non proprio una smentita) dell'unicità dell'uomo nella natura. La tesi della priorità della cultura (come dimensione biologica o zoologica) sull'uomo impone inoltre una revisione dello stesso processo di ominazione. La cultura non è più configurabile come un obiettivo e neppure come una tappa di tale processo, bensì si caratterizza come una delle sue condizioni iniziali: è stato cioè possibile innescare un processo che ha biologicamente condotto all'umanità, in quanto la cultura rientrava già tra le possibilità a disposizione di esseri che certamente non erano umani. Detto in altro modo, non vi sarebbe stata l'umanità se prima non vi fosse stata cultura. La priorità biologica della cultura va quindi intesa nel suo più ampio senso zoologico: essa è infatti una possibilità comportamentale riscontrabile anche in esseri animali che non hanno nulla a che vedere con il processo di ominazione. Non si tratta dunque soltanto di retrodatare l'invenzione della cultura alle fasi iniziali del processo di ominazione (anziché porla tra i suoi esiti più cospicui), ma di vedere distribuita questa possibilità in varie forme del mondo animale, in modo indipendente e prioritario rispetto alle vicende biologiche che hanno dato luogo agli esseri umani.In che cosa consiste questa cultura pre-umana? Dire 'cultura' significa riferirsi a una dimensione del comportamento animale non determinata geneticamente. 'Cultura' implica infatti un'opposizione con ciò che si considera innato, istintivo, fissato rigidamente - sia nel comportamento, sia nella struttura fisica - dalle leggi dell'ereditarietà. Affinché la definizione del comportamento culturale non rimanga nel vago e non sia data solo in termini negativi, John T. Bonner ha proceduto a una riformulazione indubbiamente efficace e significativa. Egli propone infatti di tradurre l'opposizione innato/culturale nella distinzione tra comportamenti "con risposta singola" e comportamenti come "risultato di una scelta multipla". Anche a prescindere dallo sviluppo culturale umano, e dunque in una visione globalmente zoologica, la cultura si prospetta come una dimensione "fortemente condizionata dal sorgere e dal progressivo affermarsi di comportamenti che presentano possibilità molteplici di scelta" (v. Bonner, 1980; tr. it., pp. 191-192). Sotto il profilo evolutivo la flessibilità comportamentale dovuta alla molteplicità di scelte ha dimostrato un alto valore adattivo, soprattutto per quanto riguarda l'accesso a nuovi territori e a nuove fonti di cibo (p. 203). La trasmissione di informazioni per via genetica ovviamente non scompare, ma - se si considera l'evoluzione dei vertebrati - pare di poter scorgere una successione di tappe, in riferimento alle quali il cervello si pone come un "sistema in più" rispetto al genoma per immagazzinare, elaborare e trasmettere informazioni, e anzi finisce per prendere funzionalmente il sopravvento, come sarebbe comprovato dalla sua acquisizione di dimensioni sempre maggiori (p. 218). Apprendimento e insegnamento (e ciò, ancora una volta, a prescindere dalle linee evolutive che avrebbero condotto all'umanità) si rivelano tanto più efficaci e indispensabili allorché si tratta di fronteggiare situazioni caratterizzate da molteplici possibilità di scelta. Ma non si tratta soltanto di possibilità offerte dall'ambiente; lo stesso cervello con il suo funzionamento inventivo e creativo incrementa il loro numero (p. 221).
Per quanto aurorali questi elementi possano apparire presso gli altri animali - se confrontati con il loro enorme sviluppo nella realtà umana -, il criterio della molteplicità di scelte e quindi il processo di insegnamento/apprendimento che ne consegue si configurano come condizioni ampiamente verificabili in molte specie (si tratti di mammiferi o di uccelli), cosicché risulta legittimo parlare di cultura in relazione a diversi loro moduli comportamentali. Bonner individua cinque categorie di comportamento, nelle quali si articola prevalentemente la cultura animale: 1) destrezza fisica, che consente l'uso di strumenti (come le spine con cui i fringuelli delle Galapagos estraggono larve dagli alberi, o i ramoscelli con cui gli scimpanzé catturano le termiti); 2) rapporti con specie diverse (soprattutto le tecniche per sfuggire ai predatori); 3) comunicazione acustica tra conspecifici (forme di canto dialettali tra uccelli); 4) riconoscimento di aree geografiche (capacità di molti uccelli di scegliere la direzione corretta nei voli a lunga distanza, rotta migratoria, individuazione del luogo di destinazione); 5) invenzioni e innovazioni che, dovute indubbiamente a un primo individuo (o anche a più individui), si impongono come tradizioni (pp. 227 ss.).

Un punto su cui riflettere è costituito dall'instaurarsi di tradizioni locali. Sembra di poter affermare che in una prospettiva etologica vi sia un'equivalenza tra cultura e tradizioni, ovvero che le tradizioni - riscontrabili in diverse specie animali - vengano intese come il prodotto di un atteggiamento o di un comportamento culturale. Se così è, si determina allora una differenza significativa tra la condizione preliminare che consentirebbe lo sviluppo della cultura e il suo esito terminale: la condizione iniziale coincide con una molteplicità di alternative possibili tra cui scegliere; l'esito terminale è invece il frutto dell'esercizio di una scelta consolidata (tradizione). Anche attraverso i 'rituali', riscontrabili presso diversi animali, si produce un irrigidimento comportamentale che riduce drasticamente le molteplicità inizialmente offerte dall'ambiente o elaborate autonomamente dal cervello. Tradizioni e rituali - segni caratteristici e inequivocabili di cultura - si trovano per così dire sul versante produttivo e riduttivo della cultura, la quale, dunque, è sì sollecitata dalla molteplicità delle scelte (momento sorgivo e inventivo), ma finisce per ridurne drasticamente numero e portata. Una cultura che si limiti al momento nascente, alla situazione pluralistica del suo relativo inizio, è inesorabilmente condannata a spegnersi, a svanire nel breve (e quasi istantaneo) spazio dell'invenzione. Ritualità e tradizione svolgono infatti funzioni conservative e ripetitive delle scelte inizialmente adottate e, con la memoria, garantiscono la continuità culturale, sottraendo la cultura (fascio o flusso di informazioni trasmesse attraverso il medium comportamentale, non iscritte nel patrimonio genetico) al rischio dell''evanescenza' e della dispersione delle informazioni, che incombe in effetti su ogni forma di cultura, sia essa animale o umana. Il rischio dell'evanescenza dell'informazione è il prezzo che tutti gli animali culturali (uomo compreso, ovviamente) sono costretti a pagare per poter sfruttare al meglio il vantaggio della molteplicità di scelte e della flessibilità comportamentale. Per ridurre tale prezzo e per ovviare a tale rischio gli animali culturali ricorrono all'irrigidimento rituale del comportamento e ai meccanismi ripetitivi tipici delle tradizioni. La cultura dunque si sviluppa a partire da una situazione caratterizzata da una molteplicità di scelte; ma i suoi prodotti più tipici, i suoi segni più inequivocabili (ritualità e tradizioni) riducono drasticamente la molteplicità originaria, incanalando il comportamento ed eliminando (o emarginando) le possibilità alternative.

3. Cultura umana

Posta in una prospettiva largamente zoologica, la cultura appare come una dimensione dotata di una certa 'normalità': si tratta infatti dello sfruttamento sul piano comportamentale di possibilità alternative che garantiscono un maggiore successo evolutivo. In questa prospettiva (che, come abbiamo visto, rifiuta la coincidenza esclusiva tra cultura e umanità) il caso della 'cultura umana' si impone però in modo particolarmente vistoso. È indubbio che l'uomo sia l'animale maggiormente culturale, quello che ha affidato allo sviluppo della cultura le sue chances evolutive in misura straordinaria e senza paragone alcuno con altre specie. Si potrebbe persino asserire che dal punto di vista zoologico (e cioè a confronto delle altre specie animali) il ricorso degli esseri umani alla cultura assume un aspetto quasi abnorme: la capacità culturale delle altre specie è assai più contenuta e controllata, mentre nella specie umana essa ha assunto non solo dimensioni inedite, ma anche possibilità autoproduttive e autoriflessive che ben difficilmente potremmo immaginare in altre parti del mondo animale.

La prospettiva zoologica della cultura determina due effetti. Il primo (come abbiamo già visto) consiste nel ribaltare fondamentalmente i termini del rapporto causale e cronologico umanità-cultura: non è più l'umanità a essere considerata l'unica produttrice di cultura (U→C) ma, al contrario, si pensa che la cultura sia stata una delle condizioni che hanno reso possibile l'emergere dell'umanità (C→U). Il secondo effetto concerne le modalità di acquisizione della cultura umana. Fino a quando si riteneva l'umanità unica produttrice di cultura, il paradigma imperante nelle scienze umane è stato quello stratigrafico: a una natura umana già completata si sarebbe sovrapposta la cultura, e l'uomo, originariamente nudo e integro, dotato delle sue specifiche strumentalità naturali, avrebbe a un certo momento inventato e acquisito la cultura. Secondo questo paradigma, la cultura viene necessariamente 'dopo' e interviene per fornire soprattutto utilità e comodità. Senza cultura, l'essere ominide o protoumano avrebbe incontrato maggiori difficoltà di adattamento ambientale; con l'invenzione della cultura questo essere avrebbe invece risolto più rapidamente i suoi problemi di sopravvivenza, dando inizio in tal modo a un altro tipo di evoluzione, ovvero l'evoluzione tipicamente ed esclusivamente umana della cultura. Caratteristica significativa del modello stratigrafico è l'idea dell'inizio della cultura come un punto di innesto o momento di attacco pressoché subitaneo. In effetti, prima non c'era affatto cultura; 'ora' (anche se è impossibile posizionare cronologicamente tale momento) comincia a esserci. Si tratta di un momento breve, ma anche di un passaggio decisivo: un punto critico, un salto, un balzo. Per Alfred Kroeber esso coincide con "una profonda alterazione", non con "un mero miglioramento di ciò che già esisteva", con l'emergere di un "fattore nuovo", non "un anello di una catena, un passo lungo un cammino, ma un balzo su un piano diverso". L'inizio della cultura viene paragonato all'inizio della vita: un evento "a prima vista di scarsa importanza", "apparentemente trascurabile", i cui effetti si sarebbero però fatti vedere nell'"aggiunta di qualcosa di qualitativamente nuovo", un nuovo ordine di fenomeni, che certamente non elimina le leggi della fisica o della chimica, né quelle della biologia (v. Kroeber, 1917; tr. it., pp. 88-89). Secondo questo paradigma, la nascita della cultura può essere descritta come il raggiungimento di un punto critico che non pone da parte la natura, ma determina al suo interno un livello dotato di sue caratteristiche, di fattori e principî del tutto peculiari.

Questa sorta di 'modello Rubicone' (v. Geertz, 1973; tr. it., p. 88) va inevitabilmente incontro a smentite allorché non soltanto si adotta una visione più largamente zoologica (le culture degli altri animali), ma si riconsidera anche il processo di ominazione. La cultura c'era già prima (una cultura 'animale', se vogliamo una 'protocultura'), e non possiamo dunque pensare che la sola evoluzione organica abbia condotto l'uomo a essere quello che è, pronto a scoprire in un dato momento critico della sua storia "l'alba" della cultura (v. Kroeber, 1917; tr. it., p. 89). Piuttosto, è la stessa evoluzione organica dell'uomo a inglobare in sé la dimensione della cultura. I 4 o 5 milioni di anni che dividono le prime testimonianze di ominidi - esseri già dotati di stazione eretta e capaci di un uso per quanto rudimentale di utensili (varie forme di Australopithecus) - dal tipo 'moderno' di umanità (Homo sapiens sapiens) costituiscono un arco di tempo, certamente enorme dal punto di vista umano, in cui le modificazioni che hanno caratterizzato l'evoluzione organica degli ominidi si sono accompagnate e, con ogni probabilità, sono state stimolate da avanzamenti di ordine culturale. I vantaggi del bipedismo, che lasciava le mani libere per il trasporto di cibo e di oggetti e per la manipolazione di utensili, si collocano in tipi di vita in cui le soluzioni di ordine culturale appaiono decisive, se non preponderanti. Le mani di Australopithecus robustus, per esempio, "completamente idonee alla presa di precisione", inducono a ritenere che l'uso e la fabbricazione di utensili - un'eredità comune a ominidi e a scimpanzé - dessero ormai luogo a tradizioni culturali (v. Klein, 1989; tr. it., p. 131). In insediamenti e manufatti della Gola di Olduwai (Tanzania), risalenti a circa due milioni di anni fa, possono forse essere intravisti campi base o strutture domestiche che implicherebbero l'adozione di comportamenti tipicamente umani (p. 133), specialmente per quanto riguarda l'organizzazione sociale e una collaborazione di tipo familiare, come la divisione del lavoro tra i sessi. In Homo erectus, apparso più di un milione di anni fa, può essere colto l'indizio di "una incipiente ma effettiva capacità di discorso": a causa dell'abbassamento della laringe, mediante cui è possibile produrre suoni fondamentali presenti in tutte le lingue, "è il primo ominide per il quale si possa inferire il discorso articolato" (p. 158). Homo erectus, che grazie al suo apparato locomotore e al controllo del fuoco ebbe la possibilità di espandersi al di là dell'Africa, in Eurasia, ha dispiegato un'inedita capacità di colonizzazione di nuovi ambienti (l'Uomo di Pechino e l'Uomo di Giava appartengono infatti a questa specie). Il suo cervello, però, risulta più piccolo di quello che poi contraddistinguerà Homo sapiens; ed è a questo fatto che si può far risalire "la straordinaria uniformità dei manufatti" di Homo erectus nel tempo e nello spazio (p. 175). Con Homo sapiens arcaico, attestato anch'esso in Africa e precedente all'apparizione in Eurasia dell'Uomo di Neanderthal, si assiste a un deciso incremento della capacità cranica. Lo stesso Uomo di Neanderthal, una sorta di "ramo morto" che verrà soppiantato dalle forme più moderne di Homo sapiens (p. 207), costituisce la riprova della tendenza evolutiva verso l'accrescimento cerebrale. Si suppone che l'Uomo di Neanderthal, a causa della base cranica relativamente piatta, non disponesse dell'intera gamma di suoni tipica dell'uomo moderno, e non è escluso che questo suo limite anatomico abbia condizionato la sua capacità di comunicazione (p. 222). Eppure all'Uomo di Neanderthal, così diverso da Homo sapiens, si ascrivono in buona parte il complesso industriale musteriano (Le Moustier, Paleolitico medio) e, soprattutto, le pratiche funerarie. L'Uomo di Neanderthal non sembra essere un ascendente diretto di Homo sapiens sapiens: pare, anzi, che sia stato spazzato via da quest'ultimo nella sua espansione europea, ma sarebbe difficile negare che buona parte della sua vita dipendesse da un apparato culturale di tutto rispetto.

Dalle sintesi più recenti dei dati paleoantropologici risulta che l'evoluzione organica la quale ha infine condotto a Homo sapiens sapiens non è stata uniforme: essa "si è svolta a mosaico, l'apparato motore e gli altri organi postcraniali essendo diventati completamente moderni prima del cranio e del cervello" (p. 175). Il cervello è - per così dire - in coda: viene per ultimo. I lunghi periodi di tempo in cui ominidi e prime forme di esseri umani facevano già assegnamento su specifici comportamenti e soluzioni culturali (manufatti, comunicazione linguistica, organizzazione familiare e sociale, dieta carnea, fuoco, caccia e uso di armi) sono stati contrassegnati dalla compresenza di cultura e di modeste capacità craniche. "In meno di due milioni di anni" - sostiene Björn Kurtén (v., 1971; tr. it., p. 98) - "il cervello triplica il suo volume", e questo è un fatto di notevole interesse se valutato con il metro dell'evoluzione organica. Nella lunga vicenda di Homo erectus è possibile cogliere un consistente progresso e vistose accelerazioni, le quali potrebbero essere collegate - secondo questo autore - a determinate innovazioni culturali: manualità, linguaggio articolato, uso e controllo del fuoco potrebbero configurarsi non solo come risultati, bensì anche come cause scatenanti o come fattori di stimolo per l'espansione della capacità cranica. Con Homo sapiens appare comunque un cervello di tipo moderno; e non si tratta soltanto di un aumento dimensionale (rispetto a Homo erectus), bensì di un maggiore sviluppo sia degli emisferi sia della corteccia cerebrale e delle aree di associazione.

È un dato incontestabile che nel Paleolitico superiore si assiste a una grande 'esplosione' culturale (per la prima volta affiorano manufatti di tipo non utilitario, veri e propri oggetti d'arte, con tradizioni culturalmente diversificate) e questa esplosione non può non essere ricondotta al cervello di Homo sapiens (v. Klein, 1989; tr. it., p. 269). Tuttavia il cervello umano, che funziona come il grande coordinatore del comportamento, delle attività e delle funzioni fondamentali della cultura (dall'uso delle mani al comportamento sessuale, al linguaggio), viene portato a maturazione in termini ontogenetici nel corso di un processo molto lungo, il quale ha luogo in buona parte al di fuori dei confini dell'organismo. Tra tutti gli animali l'uomo è la specie i cui piccoli conoscono il più lungo periodo di dipendenza e di maturazione, nel corso del quale essi debbono apprendere a usare correttamente gli arti inferiori per camminare, le mani per manipolare gli oggetti e portarsi il cibo alla bocca, le emissioni verbali per parlare e comunicare in modo significativo ed efficace. È indubbio che tra le varie condizioni organiche che presiedono a questi processi di apprendimento quella preminente è rappresentata dal cervello: sono rilevanti i casi in cui gli individui riescono a sopperire con l'attività coordinatrice del cervello a handicaps di vario genere (il caso di Helen Keller è emblematico sotto questo profilo). Ma tra attività culturali e maturazione del cervello vi è un'indubbia circolarità: se è indispensabile il cervello per apprendere e agire culturalmente, altrettanto indispensabili sono l'apprendimento e l'azione culturale per garantire l'adeguato sviluppo e la maturazione di questo organo. Il funzionamento sia del cervello sia del sistema nervoso in generale richiede un ambiente sociale e culturale. Il cervello funziona solo entro un habitat culturale: se da un punto di vista organico esso è inserito e protetto nella scatola cranica, da un punto di vista funzionale opera in un contesto assai più ampio, non organico ma sociale. Alla nascita il cervello di ogni essere umano è molto immaturo, giacché i neuroni non hanno ancora portato a termine la loro crescita: i prolungamenti che ne stabiliscono i contatti non sono stati completati e non sono ancora ricoperti dalla mielina che solo più tardi assicurerà "una propagazione accelerata dell'informazione nervosa" (v. Dreifuss, 1987, p. 55). Solo dopo la nascita lo sviluppo cerebrale si completa, e "questa 'rifinitura' tardiva" - sostiene Dreifuss - è ciò che consente alle prime esperienze vissute dall'individuo di influire, in modo favorevole o sfavorevole, sullo sviluppo del programma genetico, nello stesso tempo in cui conferisce un ruolo decisivo all'apprendimento del linguaggio.

Non si tratta di proiettare semplicemente su un piano paleoantropologico e filogenetico un modello di sviluppo ontogenetico, ma di cogliere sull'uno e sull'altro piano la stretta circolarità che caratterizza il rapporto cervello/cultura umana. Il cervello è indubbiamente l'organo per eccellenza della cultura umana. Come fa notare Klein (v., 1989; tr. it., p. 269), si deve attribuire al cervello umano di tipo moderno la grande fioritura culturale che ha contraddistinto il Paleolitico superiore: è questo cervello che ha consentito un'evoluzione culturale senza precedenti, un'evoluzione che ha smesso di accompagnare l'evoluzione organica e che - per così dire - se n'è andata per proprio conto, con una velocità inusitata, con ritmi del tutto inconcepibili in termini di evoluzione organica. Da allora in poi i rappresentanti di Homo sapiens sapiens sono stati in grado di accorciare sempre più i tempi delle loro realizzazioni culturali. La cultura umana, sostenuta da un cervello del tutto 'umano', è in un certo senso cresciuta su se stessa, acquisendo quelle capacità di autoproduttività e di autoriflessività (testimoniate dall'arte e dal linguaggio) che la separano da qualsiasi altra cultura animale.

4. La seconda natura

Per le caratteristiche individuate prima (autoproduttività e autoriflessività) ogni cultura 'umana' è di per sé molto complessa. Nessuna cultura umana si riduce a una serie di rapporti strumentali in vista di uno scopo: nessuna cultura umana, di cui si abbia notizia storica o etnografica, può essere considerata semplicemente come un insieme di risposte primarie a 'bisogni primari'. Vi è da chiedersi se tutte le altre culture animali possano davvero essere concepite secondo questo schema riduzionistico, o se l'ammissione di una componente culturale - non importa in quale specie animale - non implichi esattamente il rifiuto di uno schema siffatto: BP→RP (bisogni primari / risposte primarie), che ricalcherebbe lo schema di tipo comportamentistico S→R (stimolo / risposta). Riconoscere 'cultura' nel comportamento sia di animali sia di esseri umani significa infatti, in primo luogo, ammettere una pluralità di risposte possibili (v. Malinowski, 1931) che sono oggetto non soltanto di scelta, ma anche di invenzione e di elaborazione da parte degli individui e dei gruppi interessati. Una risposta culturale a un bisogno primario è una risposta possibile tra altre; ed essendo possibile, è pure modificabile, sostituibile, revocabile. Affinché sia mantenuta e costituisca una tradizione, o entri a farne parte, occorre davvero provvedere a una sua 'culturalizzazione', ovvero alla messa in campo di meccanismi che ne garantiscano la riproducibilità nel tempo, attraverso le generazioni. Una risposta culturale non è mai lasciata a se stessa e la sua esistenza non è mai decisa soltanto dalla sua capacità di soddisfare in maniera adeguata bisogni primari. Quanto più certe specie si affidano alle risposte di ordine culturale, sfruttando le qualità dell'immediatezza o comunque della rapidità e della revocabilità (non vi è nulla sul piano organico che impedisca a un gruppo di cacciatori-raccoglitori di sostituire le asce di pietra con asce di acciaio e di aumentare così d'un sol colpo la produttività del proprio lavoro), tanto più si pone il problema della riconoscibilità di tali risposte e della loro conservazione nel tempo. I meccanismi di ordine rituale - i quali implicano la 'definitezza' e la 'ripetibilità' dei comportamenti - assicurano ancor più la riproducibilità delle risposte culturali. Come si vede da queste argomentazioni, le risposte culturali suscitano almeno due tipi diversi di problemi: a) la loro adeguatezza a bisogni, imperativi, necessità (soprattutto per ciò che concerne la sopravvivenza degli individui); b) la loro riproducibilità nel tempo.

È opportuno valutare bene che cosa comporta l'affidarsi - da parte di una determinata specie - a risposte di ordine culturale. È ovvio infatti che vi sono gradi diversi di affidamento e che - tra tutte le specie animali - la specie umana è quella che si è maggiormente affidata, per la sua stessa sopravvivenza, a risposte culturali, a tal punto che, senza cultura, non solo i suoi successi biologici, ma la sua stessa esistenza sarebbero impensabili. Alla luce di questo enorme (quasi spropositato) affidamento culturale occorre riconsiderare il problema della conservazione o della riproducibilità nel tempo delle risposte culturali, tenendo conto della situazione paradossale in cui gli esseri umani si sono messi. È stato certamente decisivo e premiante per la specie umana affidarsi a risposte culturali per tutta una serie di problemi e di necessità (dalla ricerca del cibo all'allevamento dei figli, dal rapporto tra i sessi all'organizzazione familiare e domestica, dai sistemi di riparo e di regolazione termica alle esigenze di trasporto e di comunicazione). Sono state queste risposte a garantire il suo successo, anche questo inedito (per lo meno tra i mammiferi), come è rilevabile dalla capacità di diffusione della specie umana in ogni tipo di ambiente e dalla sua capacità di sfruttamento di una grande quantità di risorse. Ma le risposte culturali - così immediatamente fruibili e rapidamente verificabili - non sono inscritte in nessuna parte dell'organismo umano (v. Kroeber, 1917). Le risposte culturali - a cui gli esseri umani si sono così massicciamente affidati e da cui dipendono in modo tanto profondo e decisivo - sono scritte, per così dire, sull'acqua. La paradossalità della situazione umana consiste dunque proprio in questo: da un lato c'è l'affidamento alla cultura di una parte così consistente e rilevante dell'essere umano, che senza cultura soccomberebbe; dall'altro il fatto che la cultura non possiede, in quanto tale, alcuna possibilità di essere riprodotta geneticamente, ossia nel passaggio da un organismo all'altro. Gli esseri umani si sono affidati sempre più a una realtà che, quanto a riproduzione, manifesta una irrimediabile precarietà: la perdita della cultura, delle sue informazioni, delle sue risorse è un pericolo ricorrente e incombente sugli esseri umani.

Affidarsi alla cultura, perché? Una delle risposte più suggestive e convincenti proviene dalla teoria dell'uomo come animale 'manchevole', 'difettoso', 'carente'. Assai diffusa è l'idea che, a confronto di altri animali, l'uomo si presenti come un essere organicamente assai poco specializzato: esso non è, per esempio, dotato sul piano anatomico di organi particolarmente adattati alla difesa o alla predazione, così come sul piano comportamentale non manifesta un apparato istintuale sicuro ed efficiente. Sotto questo profilo va ricondotto anche il fatto che gli esseri umani conoscono un periodo estremamente lungo di dipendenza dalle cure parentali e devono apprendere con molta fatica moduli comportamentali indispensabili per la fonazione e la deambulazione o per le attività che consentono di procurarsi il cibo.

Uno dei primi sostenitori della teoria dell'uomo come animale manchevole è stato, nella seconda metà del Settecento, Johann Gottfried Herder. Da Herder questa teoria passa, un secolo dopo, a Friedrich Nietzsche, per poi approdare nel Novecento in esponenti dell'antropologia filosofica tedesca, tra cui soprattutto Arnold Gehlen (v., 1940; tr. it., pp. 110-117) e Helmut Plessner (v., 1981), e infine nell'antropologia culturale di Clifford Geertz. Per quest'ultimo, in particolare, che collega la teoria dell'uomo come essere incompiuto alle ricostruzioni paleoantropologiche, la carenza dell'essere umano non è un difetto di strumentalità organica: è invece una carenza che attiene anche alla sua organizzazione mentale, intellettuale ed emozionale. Senza l'intervento o il ricorso a modelli culturali specifici, "il comportamento dell'uomo sarebbe praticamente ingovernabile, un puro caos di azioni senza scopo e di emozioni in tumulto, la sua esperienza sarebbe praticamente informe" (v. Geertz, 1973; tr. it., p. 87). Tutti gli autori ora esaminati sostengono, dal più al meno, che l'invenzione o il ricorso alla cultura è stato il rimedio che ha salvato gli esseri umani da una sicura fine. Il presupposto - come abbiamo detto - è che gli esseri umani erano animali manchevoli, difettosi, incompiuti e proprio per questo si sono affidati alla cultura.

L'affidamento alla cultura si configura, quindi, come la conseguenza di una originaria situazione di precarietà biologica. Quanto avrebbe potuto perdurare però questa situazione di precarietà prima dell'intervento della cultura? Se consideriamo la lunga durata dell'evoluzione che dagli ominidi avrebbe condotto a Homo sapiens e in particolare alla cultura più specificamente umana, difficilmente potremo immaginare che a minacciosi fattori di precarietà, a lacune e a carenze decisive, si potesse rispondere in modo adeguato dopo così tanto tempo. La teoria dell'uomo come essere manchevole ha diversi argomenti a suo favore, tratti non solo dalla paleoantropologia, ma un po' da tutte le scienze umane, siano esse del versante fisiologico-neurologico, o del versante sociale e culturale (soprattutto psicologia, linguistica, antropologia culturale). Ma per essere più convincente, essa dovrebbe probabilmente considerare la 'carenza' umana non già come una causa o un fatto originario (a cui si sarebbe posto rimedio con la cultura), bensì piuttosto come un effetto o una conseguenza. È stato l'affidamento progressivo alla cultura (una possibilità zoologica preesistente, come si è argomentato nel cap. 2) che ha 'svuotato', almeno entro una certa misura, l'essere umano di caratteristiche e determinazioni innate. L'aver progressivamente puntato su soluzioni di ordine culturale (una scelta evolutivamente vincente, come si è visto) ha innescato un processo evolutivo in cui sono stati favoriti quegli esseri che in misura maggiore si adattavano ad ambienti culturali: esseri dunque maggiormente indeterminati, più aperti e flessibili, meno rigidamente programmati, e perciò più disponibili alla varietà delle soluzioni culturali.

È la cultura, tutto sommato, che ci ha resi - attraverso i ritmi dell'evoluzione biologica - animali manchevoli sul piano organico e dotati di un cervello che, significativamente, funziona soltanto in ambienti culturali.Sotto questo profilo si può apprezzare meglio la tesi secondo cui la cultura (i costumi o le consuetudini) costituirebbe la 'seconda natura' dell'uomo. Non nel senso che la cultura si aggiunge alla natura umana, ma nel senso che in qualche modo e misura ne prende il posto. In effetti, diversi sono i meccanismi mediante cui la cultura si 'naturalizza': essa si sostituisce alla natura, anche nel senso che ne assume talvolta le sembianze e produce gli stessi (o analoghi) effetti di uniformazione. Gli espedienti di naturalizzazione della cultura - posti in atto, per esempio, dai rituali della vita quotidiana che per il loro carattere laico e anonimo si occultano in modo quasi impercettibile tra le pieghe del comportamento abitudinario - sono particolarmente efficaci nell'indirizzare la condotta umana, così da sanzionare come 'innaturali' gli atteggiamenti devianti. Ma questa seconda natura è, letteralmente, una 'finzione' (un apparato costruito, foggiato, inventato), una finzione però che per poter funzionare non deve essere svelata del tutto.Se affidarsi alla cultura significa suscitare il problema della sua riproducibilità, tale problema diventa tanto più grave quanto più gli esseri umani si affidano alla cultura non solo sotto il profilo della sua strumentalità, ma anche come a una loro 'seconda natura'. Difficoltà di conservazione della cultura e interruzioni nei processi di trasmissione comportano qualcosa di più che non semplici disagi di ordine pratico (potrebbe esserne un esempio la difficoltà per molti individui di produrre del fuoco in mancanza di fiammiferi o di accendini); difficoltà e interruzioni nella trasmissione culturale non mettono semplicemente a nudo l'essere umano, bensì fanno emergere il 'vuoto' della natura umana e quindi la stessa impossibilità di sopravvivere e di affrontare sensatamente i problemi dell'esistenza individuale e collettiva. È questo vuoto che richiede che venga assicurata una continuità nella trasmissione culturale.

La seconda natura non è però soltanto una faccenda di copertura e non ha soltanto una funzione di 'tappabuchi'. Per assicurarsi continuità nel tempo, la seconda natura deve essere credibile; occorre quindi che abbia una sua coerenza e capacità di convincimento. La seconda natura va letteralmente costruita, e ciò implica uno sforzo immaginativo per un verso e logico per l'altro, così che ciò che viene trasmesso sia davvero un modello di umanità condivisibile ed efficace. Molti mezzi concorrono a elaborare un modello culturale di umanità: dalla tecnologia al linguaggio, dal pensiero logico all'estetica, dai rapporti con le cose e con la natura ai rapporti sociali. Come affermava Herder nel Settecento, "in tutte le condizioni e in tutte le società, l'uomo non ha potuto aver altro disegno, non ha potuto costruire altro che l'umanità, comunque la intendesse" (v. Herder, 17841791; tr. it., p. 345). Se questo è in definitiva il compito principale della cultura umana - la costruzione di modelli di umanità socialmente accettabili - si comprende come una delle caratteristiche che maggiormente la distinguono da altre forme culturali sia un grado elevatissimo di autoproduttività e di autoriflessività. Affidandosi sempre più alle risposte culturali, gli esseri umani hanno finito per caricare la cultura di una serie di compiti molto impegnativi: non soltanto rispondere a bisogni primari e imprescindibili, non soltanto garantire nel tempo la continuità delle risposte culturali, bensì anche inserirle in un insieme accettabilmente coerente e soprattutto costruire un modello di umanità tanto convincente da potervisi identificare.

5. La seconda nascita: tradizioni e rituali

Potremmo dire che all'interno di ogni cultura umana vi è inevitabilmente un progetto antropologico. Lo 'svuotamento' di cui abbiamo parlato in precedenza impone non soltanto un riempimento strumentale, ma una vera e propria invenzione di umanità. Probabilmente questo è il compito più delicato e impegnativo che ogni gruppo umano affida alla propria cultura. Ciò significa in primo luogo che ogni cultura ha da elaborare una qualche 'antropologia', ovvero una concezione dell'essere umano che tenga conto di una molteplicità di fattori, di principî e di criteri. Per questa elaborazione esistono infatti limiti o punti di riferimento imprescindibili, imposti dalle caratteristiche immodificabili del corpo umano, dalle necessità ineludibili della sopravvivenza o da certe costrizioni ambientali. Essi potrebbero essere intesi alla luce di un principio che ha ottenuto un ragguardevole successo nell'antropologia culturale della prima metà del Novecento, ovvero il 'principio delle possibilità limitate' (da Alexander Goldenweiser a Edward Sapir, da Bronislaw Malinowski a George P. Murdock, a Claude Lévi-Strauss). Questo principio invita a esplorare i margini di variabilità delle antropologie insite in ogni cultura concentrando la propria attenzione sull'invalicabilità di certi confini. Partendo dal presupposto della limitazione delle possibilità, esso favorisce la comparazione tra prodotti culturali (in questo caso le 'etnoantropologie' o 'antropologie indigene', come potrebbero essere chiamate) che altrimenti sfuggirebbero a ogni tentativo di reciproca comprensione.

Ammettere confini e margini di variabilità che impongono una limitazione delle possibilità non significa tuttavia poter predeterminare il loro numero e la loro forma. Sembra di poter affermare infatti che nel campo delle elaborazioni antropologiche vi sia all'origine una notevole irreperibilità di modelli. Sotto questo profilo la posizione di Stephen J. Gould, con la sua insistenza sulla grande variabilità di alternative, sulla flessibilità dei programmi e quindi sulla sostanziale imprevedibilità del comportamento umano fin dalla sua radice genetica, appare decisamente più convincente e interessante delle posizioni fondamentalmente deterministiche di Edward O. Wilson (per un confronto puntuale delle loro rispettive tesi v. Rossi, 1990, p. 357). Il relativo 'svuotamento' biologico indotto dal sempre più massiccio affidamento alle risposte culturali fa sì che difficilmente si possa utilizzare la natura umana come modello o come matrice di modelli: anzi, il suo stesso svuotamento obbliga a inventare e a reperire altrove modelli di umanità. Come affermano Steven Rose (un neurobiologo), Richard Lewontin (un genetista) e Leon Kamin (uno psicologo), "l'unica cosa ragionevole che si possa dire sulla natura umana è che è 'insito' in essa costruire la propria storia" (v. Rose e altri, 1983; tr. it., p. 51 - corsivo nostro) ovvero la propria 'antropologia'. "In conclusione" - essi ribadiscono (p. 297) - "è proprio la nostra biologia a renderci liberi". L'impostazione di Rose, Lewontin e Kamin è dichiaratamente antideterministica (in polemica soprattutto con la sociobiologia di Wilson: v., 1975 e 1978); ma non si tratta di opporsi soltanto a un determinismo biologico, bensì anche a un determinismo culturale. Il principio delle possibilità limitate, evocato prima, non dovrebbe infatti tradursi nell'idea che la cultura interviene semplicemente a elaborare - una volta per tutte - una determinata serie di modelli di umanità e che poi questi sarebbero tranquillamente riproposti dalle tradizioni, conservati e trasmessi dai rituali. È indubbio che le tradizioni culturali vengono incontro all'esigenza di una certa reperibilità di modelli, ma il rifiuto del determinismo culturale obbliga a scorgere nella cultura e nelle stesse tradizioni un "continuo processo di riorganizzazione e di ridefinizione" (v. Rose e altri, 1983; tr. it., p. 282). Di più: se è vero che la trasmissione culturale è affidata soltanto all'effettiva possibilità di comunicazione sociale, le tradizioni - depositarie di modelli di umanità - esistono solo in quanto vengono di volta in volta reinventate. Non si tratta dunque di rifiutare il determinismo biologico per cadere nelle trappole del determinismo culturale, liberarsi dai vincoli di un naturalismo astorico per finire vittime di un "volgare naturalismo storico" (v. Benjamin, 1982; tr. it., p. 597). Culture e tradizioni, storie e società possono subire entificazioni che le trasformano in qualcosa di 'dato' e quasi di 'naturale', in realtà che sopravviverebbero e agirebbero in modo indipendente dagli individui, dalle loro azioni, dalle loro scelte. Ma si tratta di 'fallacie' da cui occorre guardarsi, specialmente quando è in discussione un argomento così delicato come i modelli di umanità.

Vi è infatti un interesse abbastanza evidente, da parte di chi detiene il potere o si arroga il compito di trasmettere o imporre modelli di umanità, a farne realtà definite e autonome che si tramandano pressoché inalterabili nel tempo. La loro relativa o supposta inalterabilità, la loro stessa vetustà conferiscono loro una ben maggiore autorevolezza rispetto a proposte che invece venissero avanzate sul momento e proprio per questo fossero più disponibili alla discussione, più suscettibili di contestazione. Sono numerosissimi gli esempi di società in cui la trasmissione di specifici modelli di umanità avviene in uno spazio-tempo determinato, ritualmente connotato e circoscritto, in cui le tradizioni che incorporano i modelli da trasmettere assumono un aspetto oggettivo, fisso, incontestabile: si tratti di libri - più o meno sacri - che fissano nel tempo (e quasi per l'eternità) messaggi filosofici e religiosi (come è ben attestato nelle tradizioni di pensiero della civiltà occidentale), si tratti di maschere e statuine raffiguranti antenati (come avviene in diverse società africane), si tratti infine di oggetti di pietra o di legno su cui sono incisi segni simbolici (come i famosi churinga degli Aranda dell'Australia centrale). Di solito, i momenti in cui vengono illustrati e spiegati specifici modelli di umanità sono chiamati dagli etnologi e dagli storici delle religioni 'rituali di iniziazione', volendo con ciò significare che la trasmissione esplicita - quasi una consegna - dei modelli di umanità richiede un passaggio, spesso traumatico, e un nuovo inizio. Si dice che con l'insegnamento della tradizione, con l'esibizione di oggetti sacri e con la loro ricezione i giovani subiscano una profonda trasformazione del loro essere. Molto spesso la trasformazione a cui sono sottoposti non è soltanto di ordine mentale o psicologico; è anche una trasformazione fisica - come se i modelli di umanità dovessero essere incorporati nel senso organico e reale del termine, e non semplicemente conosciuti e indagati. Nei rituali di iniziazione di cui ci parla l'etnologia, infatti, l'assimilazione dei modelli di umanità tradizionale comporta spesso un'incisione e quindi anche una modellazione culturale del corpo (mediante scarificazione, per esempio, o mutilazione degli organi genitali, come la circoncisione e la subincisione per i maschi, l'escissione del clitoride e l'infibulazione per le femmine). Sono troppo diffusi i rituali di iniziazione - maschile o femminile - aventi un aspetto organico (e cruento) perché sia consentito sbarazzarsene come sopravvivenze inutili di un passato ormai privo di senso e comunque relativo a qualche sperduto angolo del mondo. Essi esprimono in modo significativo l'importanza che rivestono la trasmissione, l'imposizione e l'acquisizione di specifici modelli di umanità, in base a previste modalità rituali. Diversi elementi si impongono così all'attenzione. In primo luogo, con l'istituzione di questi rituali di passaggio (v. Van Gennep, 1909) si tende a distinguere in modo netto l'assimilazione quotidiana, continua e per lo più inconsapevole della cultura (inculturazione) dall'assimilazione più critica e consapevole di specifici modelli di umanità. In diverse società si distingue perciò una crescita che segue alla nascita biologica e avviene secondo ritmi e criteri quasi naturali (i Nande dello Zaire paragonano in questo senso il crescere degli individui a quello delle piante) e una crescita o meglio una 'nascita' non più biologica, ma sociale. Questa distinzione è alla base di un'idea altrettanto diffusa dei rituali di iniziazione, quella della 'ri-nascita' o della seconda nascita. Si ritiene cioè che gli esseri umani non nascano una sola volta e che il nascere all'umanità sia una faccenda che si decide non già nel grembo materno o subito dopo, ma in un momento (coincidente abbastanza spesso con la pubertà) in cui gli individui possono far propri, in modo più meditato, i criteri e i principî che definiscono un determinato tipo di umanità (una determinata cultura). Per esempio, nell'India antica la cerimonia upanayana ('introduzione') consisteva nell''introdurre' un ragazzo presso il precettore, il quale l'avrebbe conservato - si diceva - per tre notti nel suo ventre (come se si trattasse di una gestazione) per poi farlo rinascere nella condizione di brahmano: per questo il giovane veniva poi chiamato dvi-ja (o dvijati), 'due volte nato' (v. Eliade, 1958; tr. it., pp. 81-82). Riscontriamo inoltre abbastanza spesso, in relazione a questa seconda nascita, l'idea che gli esseri umani debbano essere fatti, costruiti, modellati, secondo processi che non sono biologici (affidati alla natura) ma culturali e rituali, anche se coinvolgono direttamente l'organismo. Il 'fare l'umanità', andando decisamente oltre ciò che la natura può dare in questo campo (o addirittura andando 'contro' la natura - come si potrebbe sostenere specialmente nei casi delle mutilazioni rituali), sembra essere un compito che molte società si sono assunte in modo esplicito e forse temerario: un compito comunque curiosamente collimante con la teoria dell'uomo come essere biologicamente 'carente', il quale proprio per questo ha da farsi, da completarsi o da perfezionarsi mediante l'acquisizione di specifici modelli culturali e anzi modelli di umanità (v. cap. 4).

6. 'Finzioni' antropo-poietiche

L'idea del 'farsi' dell'umanità mediante la cultura può essere vantaggiosamente sintetizzata dall'espressione "antropo-poiesi" (v. Remotti, Tesi per..., 1996). Ma per quanto si sia giunti all'idea dell'antropo-poiesi a partire da una teoria (quella dell'uomo come essere biologicamente carente) che gode di riconoscibilità e diffusione sia nelle scienze del versante culturale sia in quelle del versante biologico, non si può ignorare il sospetto che il farsi dell'umanità possa essere una specie di idola tribus (come avrebbe detto Francis Bacon), piuttosto che un'idea scientificamente valida. A generare questo sospetto sono i rituali antropo-genetici o antropo-poietici che garantirebbero per l'uomo una seconda, vera nascita, coincidente con l'assunzione di una seconda natura fornita da modelli specifici di umanità. Non è forse una credenza piuttosto risibile quella del rituale brahmanico upanayana, secondo la quale il giovane nascerebbe una seconda volta dopo aver passato tre notti nel ventre del suo maestro? Far convergere sul tema dell'antropo-poiesi non solo prospettive scientifiche, ma anche idee elaborate in merito da società esotiche e comunque lontane dalle comunità scientifiche, potrebbe rivelarsi un atteggiamento controproducente. Anche in periodo umanistico - come è attestato dal pensiero di Pico della Mirandola e di Charles Bouillé (Carlo Bovillo) - erano affiorate idee antropo-poietiche. Ma anche questa ulteriore indicazione, anziché essere una conferma, potrebbe suscitare il sospetto che siamo di fronte a un certo tipo di ideologia, quella dell'uomo che 'costruisce se stesso', che è faber sia del suo destino, sia (in parte almeno) della sua natura. Le questioni fondamentali potrebbero essere allora così formulate: l'idea del "'fare' l'uomo" (v. Eliade, 1958; tr. it., p. 89) con mezzi culturali, quindi questa seconda nascita, è un'autoillusione "umana, troppo umana", oppure è un compito a cui - lo riconosca o meno - l'umanità non può sottrarsi? Su quale lato della questione si erge l'ideologia? In quale direzione si muove? L'ideologia consiste nell'affermare, ribadire, esaltare, più drasticamente nel 'fingere' i poteri antropo-poietici dell'uomo oppure nel non riconoscere, nel celare e occultare i processi (e le relative responsabilità) mediante cui l'uomo in qualche modo fabbrica se stesso? È opportuno anticipare che entrambi i tipi di ideologia sono possibili.Nello spazio lasciato libero dallo 'svuotamento' (v. cap. 5), nella relativa libertà e indeterminazione a cui la nostra stessa biologia sembrerebbe 'condannarci' (v. Rose e altri, 1983; v. Gould, 1980; v. Sartre, 1943), l'esigenza antropo-poietica (di costruzione o fabbricazione di umanità) si configura come reale, autentica, irrinunciabile: essa appare come un compito a cui è difficile, anzi impossibile, sottrarsi. I tentativi e i processi che ne conseguono sono però necessariamente 'finzionali', e i prodotti che ne scaturiscono non possono che essere definiti 'finti'. In qualunque condizione, come in tutte le società - secondo la tesi già utilizzata di Herder -, l'uomo non ha potuto assumere altro compito che quello di 'costruire' l'umanità, e nel far ciò l'uomo deve 'inventarla' e quindi 'fingerla'. È bene rendersi conto che questo spazio di libertà poietica (di autopoiesi) coincide con la molteplicità delle forme che l'uomo può assumere, edificanti o aberranti, condivisibili o incompatibili, fruibili, aperte, disponibili al mutamento, oppure chiuse, elitarie, rigide, cieche, rovinose. Se in tutte le società gli esseri umani hanno da costruire la loro umanità, comunque decidano di intenderla, è ammissibile che tale costruzione possa essere concepita, a sua volta, in modi difformi. In quali modi, insomma, gli uomini 'fingono' la loro natura, in quali modi inventano il rapporto tra natura e cultura, in quali modi affrontano e trattano la faccenda della costruzione di sé?
Secondo un'opinione assai diffusa, nelle società tradizionali o premoderne non vi sarebbe una reale coscienza del farsi dell'umanità. Secondo Eliade, per esempio, in questo tipo di società l'antropo-poiesi non è affatto concepita come un'autopoiesi. Nelle "società arcaiche", come Eliade le definisce, vi sarebbe sì l'idea che "l'iniziazione mette fine all''uomo naturale' e introduce il novizio alla cultura", ma la cultura non sarebbe intesa come opera umana, bensì di "origine soprannaturale" (v. Eliade, 1958; tr. it., p. 15). In tali società - aggiunge ancora Eliade - "l'uomo si riconosce tale nella misura in cui non è più un 'uomo naturale', ma è 'fatto' una seconda volta, in conformità a un canone esemplare e transumano". La vera esistenza umana non è quella biologica, ma quella determinata da ciò "che noi chiamiamo genericamente 'cultura"', ossia dal mondo dello "spirito". "Per il pensiero arcaico" - sostiene sempre Eliade - l'uomo è dunque fatto, ma "non è lui a farsi da solo": vi sono in primo luogo "gli anziani iniziati, i maestri spirituali che lo 'fanno"'; ma, a loro volta, "costoro applicano ciò che è stato rivelato all'inizio dei tempi dagli Esseri soprannaturali" (pp. 13 e 14). Per Eliade, dunque, le società tradizionali - quasi del tutto dominate dal Sacro - riconoscono in qualche modo l'antropo-poiesi, ma l'affidano a qualcosa d''altro' rispetto all'uomo: a entità sovra-umane e sovra-naturali, il cui potere si collocherebbe all'inizio dei tempi e si ripresenterebbe ogni qualvolta occorra 'rifare' l'uomo.

Sempre secondo Eliade, le società moderne avrebbero invece proceduto a una radicale desacralizzazione, e in particolare per quanto riguarda le idee di antropo-poiesi si sarebbero liberate di questo tipo di idola, secondo cui l'uomo verrebbe fatto, costruito una seconda volta con mezzi culturali attribuiti a entità extra-umane. "Una delle caratteristiche del mondo moderno" sarebbe infatti "la scomparsa dell'iniziazione" (p. 9), e con ciò dell'idea stessa che occorra procedere a un 'rifacimento' dell'uomo. Nel mondo moderno l'uomo non ritiene di dover rinascere, di dover affrontare una seconda nascita (culturale) dopo la prima e vera nascita (quella biologica), tanto meno di dover affidare il suo farsi a qualcosa d'altro rispetto al suo sé naturale: "l'esistenza puramente biologica è una scoperta recente nella storia dell'umanità; scoperta resa possibile proprio dalla desacralizzazione della Natura" compiuta dalla modernità (p. 89).

Le tesi di Eliade sono utili nella loro linearità per un'analisi conclusiva del tema dell'antropo-poiesi (e quindi del rapporto natura/cultura) nel passaggio da società definite tradizionali o premoderne alle società moderne, ma non sono affatto condivisibili. In primo luogo, sarebbe ormai bene prendere le distanze da categorie troppo ampie e uniformizzanti, come quella generica di 'società premoderne' o come quella- ancor più screditata - di 'pensiero arcaico'. Anche per quanto concerne le idee (e le ideologie) antropo-poietiche, occorre essere disposti a riconoscere differenze sostanziali, che fanno esplodere questo tipo di categorie. È vero: vi sono società che - come suppone Eliade - affidano al Sacro (a entità sovra-umane e sovra-naturali) il compito di forgiare o 'fabbricare' esseri umani. Ma un'eccessiva (e interessata) propensione a considerare le società premoderne come immerse nel Sacro (nella religione o nella magia) ha impedito di scorgere in esse atteggiamenti di de-sacralizzazione, di autentica laicità e di profonda riflessività. Quasi mai ci si è soffermati, per esempio, sul tema della casualità e dell'accidentalità che così spesso, invece, emerge dai racconti (o dai miti) inerenti le origini dei riti di iniziazione attraverso i quali vengono trasmessi i modelli di umanità. Perché porre in luce così insistentemente la casualità, se non per sottolineare e far apprendere - insieme ai modelli di umanità - un insopprimibile grado di arbitrarietà? Nel momento stesso in cui si diventa uomini in un certo modo (in questa o in quella società), e si acquisisce quindi un senso di necessità (quasi di ineluttabilità), si apprende anche che l'umanità (la nostra umanità) è fatta così, ma potrebbe essere altrimenti.

Dall'Africa tribale all'America indigena, dall'Asia all'Oceania, i cosiddetti rituali di iniziazione si prestano spesso a essere interpretati non già come mera introiezione della necessità, bensì, al contrario (o contemporaneamente), come esplorazione delle possibilità, come esercizio del senso delle possibilità. Tra i Nande dello Zaire, così come tra i Konjo e i Gisu dell'Uganda, la più importante raccomandazione paterna al figlio che si incammina per il rituale di circoncisione, da cui dovrebbe 'nascere' vero uomo, è di non andare con i paraocchi, con eccessiva determinazione e cocciutaggine. Nel suo studio sul rituale di circoncisione tra gli Ndembu (Zambia) Victor Turner mostra come i giovani siano indotti, anche attraverso il dolore, ad abbandonare il loro "abituale e precedente modo di pensare" e come nello stesso tempo siano "incoraggiati a meditare sulla loro società" (v. Turner, 1967; tr. it., p. 137), e quindi anche sul tipo di umanità che viene loro trasmesso. Per Turner la "liminarità" - la condizione di crisi e di isolamento doloroso e violento in cui i giovani si vengono a trovare - "spezza, per così dire, la crosta del costume", interrompendo bruscamente il senso di 'naturalità' che avvolge di norma le consuetudini e la cultura in cui un individuo si trova a crescere (p. 138). I rituali di iniziazione - che definiremmo antropo-genetici o antropo-poietici - non si limitano affatto a "conservare la tradizione": la liminarità che li contraddistingue si configura invece come "il campo della possibilità pura, dal quale possono sorgere configurazioni nuove di idee e di rapporti", "pensiero nuovo e costumi nuovi" (p. 127).
Se davvero l'interesse prioritario fosse quello del senso della necessità, di una trasmissione quasi naturale (sicura e automatica) di modelli di umanità peculiari di un determinato gruppo, perché la liminarità, l'interruzione brusca dei rapporti e degli affetti, la violenza fisica e morale, gli interventi spesso cruenti che i giovani sono costretti a subire? Perché questo andare 'contro natura' da parte di una determinata cultura? Tutto un apparato rituale messo in atto per un periodo di tempo anche molto lungo (in certi casi persino alcuni anni) allo scopo di apprendere 'soltanto' un modo abituale e tradizionale di vita? Non sarebbe sufficiente, più efficace e più vantaggiosa la partecipazione alla normale vita quotidiana? D'altronde, gli stessi Ndembu dispongono di una teoria che sottolinea l'acquisizione naturale dei costumi, paragonandola alla suzione del latte materno: le consuetudini si assimilano come il latte vivendo semplicemente nel proprio gruppo, all'interno del proprio villaggio. L'iniziazione invece è interruzione, dislocazione, discontinuità: per diversi mesi si va a vivere nella foresta, a contatto diretto della natura e lontano dalla società di appartenenza; spesso si vive nudi e muti, configurando e sperimentando così una sorta di ritorno alla natura, o di 'perdita della cultura': una situazione comunque di profondo disagio e di sofferenza. La tesi che si vuole qui avanzare è che un investimento così cospicuo di energie fisiche e mentali persegue obiettivi più profondi che non quelli della semplice conservazione dei costumi. In queste vere e proprie 'scuole nella foresta' - come potrebbero essere definiti molti di questi rituali - vengono certamente trasmessi specifici modelli di umanità (le cui origini sono fatte risalire a epoche più o meno lontane); ma l'obiettivo principale - ottenuto anche attraverso il dolore, i tagli, le incisioni - sembra essere davvero (come suggerisce Turner) quello della riflessione e della capacità critica di 'vedere', di rendersi conto. Gli individui sono indotti, anzi costretti a riflettere, e non solo sulla loro società e sull'ambiente che la circonda. La riflessione - di ordine storico, sociologico, antropologico, oltre che naturalistico - investe molto spesso la maniera in cui i modelli di umanità vengono 'finti', non solo nel senso per così dire nobile del termine (finzione come costruzione), ma in certi casi persino nel senso deteriore dell'inganno e della falsità (v. per esempio Lattas, 1989). Prove così dure, quali appunto i rituali di iniziazione in tutte le parti del mondo, non possono non costringere a riflettere su ciò che esattamente si sta facendo, ovvero sul processo antropo-poietico in atto. E il tema della finzione nel suo duplice significato (di costruzione e di modellamento per un verso, di inganno e di mistificazione per l'altro) tende a emergere con particolare frequenza, come è dimostrato per esempio dal confronto di rituali africani e oceaniani (v. Remotti, Tesi per..., 1996).

Sensazione dell'accidentalità, nozione di un'insopprimibile arbitrarietà, senso delle possibilità, riflessività critica, coscienza del carattere finzionale dei processi antropo-poietici posti in essere nei rituali difficilmente si conciliano con l'immagine tradizionale di società a così stretto contatto con la natura da non potersene distinguere (l'idea ottocentesca dei Naturvölker), così vincolate ai ceppi dei loro costumi e delle loro tradizioni da non essere in grado di produrre storia e inventare forme alternative di umanità, così dominate dall'idea del Sacro da non assumersi responsabilità alcuna in merito a processi e modelli antropo-poietici. Ma anche l'immagine della modernità - quale viene offerta dal testo sopra citato di Eliade - come di una società in cui con il Sacro sarebbe anche scomparsa l'idea di un farsi o costituirsi culturale dell'uomo al di là del suo essere biologico, appare se non altro unilaterale. Anche nella modernità occidentale i temi antropo-poietici (cioè di un'autopoiesi che si impone dopo aver revocato deleghe a entità extra-umane) - sono ovviamente ben rappresentati, come è dimostrato, per esempio, dal pensiero di Marx. Rimane vero però che all'immagine di una modernità che si autorappresenta come lontana dalla natura si oppongono i vari e significativi momenti del pensiero moderno in cui l'appello e il ricorso alla natura (contro la società e contro i suoi costumi, la sua cultura, i suoi idola, le sue finzioni e rappresentazioni teatrali) vengono fatti valere al fine di far emergere un uomo 'naturale', più aderente (grazie alla scienza moderna) ai principî e ai dettami naturali. Molto spesso la ragione, di cui la modernità ha preteso essere la maggiore fruitrice, è stata imposta come un organo naturale, come uno strumento che consente di azzerare costumi e credenze, di perforare lo schermo culturale delle finzioni sociali per accedere direttamente alle strutture naturali. Da Francis Bacon, il quale nel Novum Organum proponeva di rinnegare e spazzar via tutti questi idola mediante una sorta di asportazione chirurgica, a René Descartes, che indicava la via per raggiungere le strutture naturali dell''io' nell'allontanamento dal mondo delle rappresentazioni sociali e delle finzioni teatrali, ad Adam Smith, per il quale si doveva lasciar affiorare il comportamento economico naturale, liberato dagli impacci delle convenzioni e dei costumi, si può sostenere che numerosi e autorevoli rappresentanti della modernità hanno pensato di dar luogo a una sorta di 'società naturale'.In una modernità siffatta non ci sarebbe posto per un'antropo-poiesi realizzata con mezzi culturali o cultuali (rituali). Una modernità così concepita non sopporta le finzioni: essa strappa di dosso all'uomo costumi e tradizioni nella presunzione di lasciar affiorare la sua natura nuda e integra, le sue potenzialità naturali non contaminate da tradizioni devianti, da costumi assurdi. Per questi pensatori della modernità è inconcepibile la teoria dell'uomo come essere biologicamente manchevole. Alla base dell'uomo non vi sarebbero lacune e vuoti (essi, come Descartes, sono teorizzatori del pieno). Al contrario, la natura dell'uomo è integra: è uno strato roccioso (per usare un'immagine di Descartes), ed è pure un'isola sicura (Kant) su cui è possibile costruire in modo saldo e duraturo, non in modo finzionale, revocabile, precario. Possono far riflettere allora questi diversi modi di atteggiarsi nei confronti della natura: da un lato avvertita come una fase da cui inesorabilmente la modernità si sarebbe allontanata (nel bene o nel male); dall'altro invece concepita come un obiettivo o un modello da raggiungere, suggerendo alla stessa modernità di dar luogo - almeno per certi aspetti - a una società naturale, priva in gran parte di rituali fastidiosi e di costumi assurdi. Nel primo caso si tratta di 'costruire' un uomo storico, non naturale; nel secondo caso non si tratta di costruzione, con relative aggiunte e accumuli, ma semmai di purificazione, di eliminazione, di sottrazione. Questa vistosa oscillazione è sufficiente a porre in luce la gamma di interpretazioni alternative e anche contrastanti, che all'interno di un medesimo tipo di società possono essere elaborate per quanto riguarda l'incidenza rispettivamente attribuita alla natura e alla cultura nel farsi o nel divenire dell'uomo.
La varietà degli atteggiamenti di fronte al compito antropo-poietico (qui assunto come irrinunciabile a seguito della teoria dell'uomo come essere manchevole) va ricondotta ad almeno due ordini di motivi. Il primo attiene a ciò che si può indicare come la relativa insostenibilità di tale compito. L'obiettivo del 'fare l'uomo' difficilmente può essere sostenuto a lungo, tenuto costantemente presente. Come si è già detto, esso è probabilmente il compito più impegnativo affidato a una cultura, ma sul piano psicologico non può non produrre disagi dovuti a incertezze nelle scelte, indeterminazioni di forme, responsabilità nella selezione e nella proposizione. È facile e inevitabile tralasciare tale compito rifugiandosi nella normatività quotidiana dove esso viene celato. Il secondo motivo è poi dato dalla questione della reperibilità dei modelli di umanità. Le fonti dei modelli sono ovviamente diverse e qui se ne indicano almeno tre: a) le tradizioni del proprio gruppo, gli antenati, in definitiva la propria storia o cultura intesa come matrice della propria identità; b) l'alterità, che in quanto tale contiene modelli di umanità alternativi e per contrasto, come in un gioco dialettico, diviene ispiratrice e mediatrice della stessa identità (l'esogamia che induce a sposare i propri nemici e il cannibalismo nei confronti dei vicini possono risultare esempi molto istruttivi, nei quali, oltretutto, una cultura incontra l'alterità attraverso operazioni che sono alla base naturali e biologiche); c) la stessa natura, infine, che si prospetta praticamente in tutte le società come un'ulteriore fonte di modelli di umanità (non sono solo le società di tipo totemico, ovviamente, che ricorrono a esseri animali, per esempio, per definire, mettere a fuoco, convalidare e persino legittimare modelli di umanità).

Dalle considerazioni precedenti dovrebbe emergere l'improponibilità di uno schema che, a proposito di antropo-poiesi e del rapporto natura/cultura, opponga in modo ormai tradizionale e obsoleto società premoderne a società moderne: le possibilità di reazione nei confronti del compito antropo-poietico paiono infatti distribuirsi in una maniera che non tiene conto della distinzione ora menzionata. Tenendo fermo il presupposto della relativa insostenibilità nel tempo del compito antropo-poietico (un altro aspetto della paradossalità della situazione umana), ciò che possiamo ipotizzare sono alcune possibili reazioni, a prescindere del tutto dalla distinzione (ormai troppo screditata nella sua rozza elementarità) tra società premoderne e società moderne.In primo luogo (estremo A), troviamo rituali dichiaratamente antropo-poietici o antropo-genetici, la cui ideologia esplicita è quella di costruire o generare uomini: l'olusumba dei Nande dello Zaire è inteso come 'viaggio' che ha da generare degli uomini (v. Remotti, "Che il nostro..., 1996); l'imbalu dei Gisu dell'Uganda è una 'fabbricazione di uomini' (v. Heald, 1982); una moltitudine di altri esempi sono reperibili in Eliade (v., 1958). All'estremo opposto (B) vi sono concezioni che negano ogni efficacia alla ritualità e tanto più alla ritualità antropo-poietica. Ottimi esempi di negazione del potere antropo-poietico dei rituali sono rintracciabili - come si è visto - nella modernità occidentale, allorché si pensa di far emergere l'uomo naturale liberandolo dagli impacci delle rappresentazioni rituali della società. Vi è dunque un bivio a questo punto: o ci si pone dal punto di vista della modernità qui descritta, e allora i progetti antropo-poietici esibiti da questi rituali appaiono come un ammasso di fandonie, di finzioni nel senso deteriore, di cui occorre liberarsi; oppure ci si colloca in una prospettiva dichiaratamente antropo-poietica, e allora quelle manifestazioni della modernità occidentale - il rifiuto della ritualità, così come il richiamo e la rivendicazione di strutture 'naturali' - potrebbero apparire come un rifiuto ideologico del compito antropo-poietico (e delle responsabilità che esso comporta), un suo occultamento, dunque ancora una finzione.

Esiste tuttavia una posizione intermedia dalla quale si possono osservare le ideologie opposte, quelle (A) dell'esaltazione e della sopravvalutazione delle capacità antropo-poietiche (ritenere che davvero si dia luogo con qualche rituale, per quanto lungo e complesso, a una trasformazione radicale, a una nuova nascita, a una effettiva fabbricazione di uomini) e quelle (B) della possibilità di far a meno di 'costruire' umanità, anzi di essere in grado di distruggere ed eliminare tutte le finzioni di ordine rituale, limitandosi in tal modo a un'operazione di svelamento-affioramento della natura umana. La posizione intermedia (C) ritiene che, volenti o meno, consapevoli o no, non si possa sfuggire al compito antropo-poietico, per lo stesso fatto che "l'uomo [...] non può sottrarsi a questa cultura che forma e deforma", una cultura che - per Herder (v., 1784-1791; tr. it., pp. 215 e 217) - rappresenta davvero una "seconda genesi dell'uomo, che dura per tutta la vita": "noi non siamo ancora uomini, ma lo diventiamo ogni giorno". Questa posizione di mezzo ha il vantaggio di non cadere nella trappola ideologica dei rituali antropo-poietici, dove l'antropo-poiesi rischia di essere eccessivamente ideologizzata ed enfatizzata, e in cui i modelli di umanità trasmessi appaiono troppo nitidi, definiti, esclusivi, per essere poi davvero applicabili. La posizione C scorge invece nella quotidianità - al di fuori dei momenti più esaltanti dei rituali - un più umile e nascosto lavorio antropo-poietico. Qui non ci sono momenti eccezionali di 'nuova nascita'; c'è invece un divenire sotterraneo e continuo di umanità; e di solito non spiccano modelli ben delineati di umanità, né ci si dispone a progettarli in modo consapevole e programmatico.

Qui si fanno scelte più minute, e si decidono scarti e mutamenti in apparenza di poco conto, che però comunque coinvolgono il 'divenire' di umanità. Se di modelli si tratta, essi sono sfocati, sottoposti a compromessi incessanti, resi spuri e impuri da frammischiamenti e mescolanze di ogni tipo. Anche questa è antropo-poiesi, ma è una costruzione di umanità assai meno impegnata dalle opposte ideologie di A e di B: la prima (ritualista e creazionista) pretende quasi di soverchiare la natura (come nel caso dei maschi che in certe società rivendicano una capacità procreativa analoga o superiore a quella femminile: v. per esempio Lattas, 1989); la seconda, al contrario, pretende di essere in grado di aderire alle strutture naturali e, grazie a una ragione naturale, di poter fare a meno della cultura e delle sue capacità (e dei suoi trucchi) finzionali.

Tra i rituali che si autodefiniscono antropo-poietici e il loro azzeramento totale, una buona mediazione è in effetti rappresentata dai rituali anonimi del comportamento quotidiano, indagati (e ciò può essere significativo) sia da etologi sia da antropologi. La posizione C si identifica dunque con una concezione dell'antropo-poiesi che si configura come assai più conciliante rispetto alla separazione e alla drastica opposizione tra natura e cultura. Essa riconosce l'esigenza di fare o di costruire l'umanità come effetto dello svuotamento culturale della natura umana, o dell'assenza di un'essenza (Gould, Rose, Lewontin, Kamin, ecc.), e trova perciò poco accettabile il riduzionismo naturalistico di certe prospettive della modernità; ma è anche disposta a riconoscere e a svelare limiti naturali (principio delle possibilità limitate) che le ideologie antropo-poietiche di qualunque tempo potrebbero essere indotte - talvolta con effetti anche paurosi - a trascurare. Proprio per questo la posizione C (un'antropo-poiesi limitata, funzionante a tratti, mai definitiva, totale, acquisita una volta per tutte, e che però dura tutta la vita) potrebbe essere considerata in modo ambiguo e ambivalente sia come spunto per fughe ideologiche di tipo A, sia come pretesto per rinnegamenti o occultamenti altrettanto ideologici di tipo B. Proprio per questo potrebbe anche essere considerata come luogo di convergenze e scambi tra quelle che continuiamo a chiamare scienze della natura e scienze della cultura, specialmente da quando si è riconosciuto che la cultura non è solo una faccenda umana, bensì un problema che inerisce anche alle scienze naturali, e prospettive che si richiamano a processi di autopoiesi compaiono nei più diversi tipi di sapere (v. Zeleny, 1981).