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Enciclopedia online
Cessazione delle funzioni vitali nell’uomo, negli animali e in
ogni altro organismo vivente o elemento costitutivo di esso.
Antropologia
1. Il concetto di morte
La m., come ogni altro evento del ciclo della vita, impone a tutte le società complesse modalità organizzative, divenendo un fatto sociale che riguarda e coinvolge sia gli individui, sia i diversi gruppi dei quali essi fanno parte, sia ancora la società nel suo insieme. Per far fronte, sui diversi piani, all’evento della m. sono quindi messi in atto particolari rituali funerari. Tra questi, R. Hertz attribuiva particolare importanza a quelli di doppia sepoltura, nei quali, mettendo in atto una dilazione cronologica tra l’evento naturale e la definitiva separazione del defunto dalla comunità, viene posta in risalto l’esigenza umana di una manipolazione, simbolica e psicologica, della morte. Una simile manipolazione, oltre a consentire l’elaborazione di forme di cordoglio, rende possibile la trasformazione del morto, immaginato spesso simbolicamente pericoloso, in antenato, e quindi il controllo della sua potenziale negatività. Anche per E. De Martino, la m. impone alla cultura umana l’obbligo di elaborare modalità rituali in grado di operare una prima presa di distanza culturale dall’evento luttuoso, così da frenare, nell’azione del rito, il rischio di una reale perdita della presenza individuale e collettiva. La m. costituisce, inoltre, una lacerazione di un compatto tessuto sociale fatto di status, ruoli e diritti. È dunque necessario, in ogni società, predisporre forme istituzionalizzate per controllare la trasmissione di simili ‘beni’ e per ricucire, in maniera dotata di senso, lo strappo determinatosi.
La m. pone evidenti problemi di senso, che portano le società a interrogarsi sulla natura di un simile evento. In numerose culture la m. nelle sue diverse modalità è ritenuta causata da fattori e motivazioni di origine e natura sociale. Diviene quindi importante accertare le concrete cause di ogni singola m. (per es., stregoneria, avvelenamento reale o mistico, tensioni sociali di diverso tipo), di solito attraverso pratiche divinatorie e necroscopiche.
2. Le feste dei morti
La festa dei morti, pur variando nei dettagli rituali, nelle particolari credenze connesse, nella durata e nella posizione calendariale, è uno di quei fenomeni religiosi che mostrano caratteri sostanzialmente uguali: in un determinato giorno o periodo dell’anno (che è spesso la fine o il principio dell’anno stesso e cade nella stagione del raccolto o in altro momento saliente della vita della comunità), i morti ritornano tra i vivi, sono da questi ospitati con offerta di cibi, eventualmente di abiti e altri oggetti, partecipano ai banchetti festivi, assistono ai riti, e alla fine della festa vengono invitati a lasciare di nuovo il mondo dei vivi; la loro visita qualche volta è preceduta da un formale invito o evocazione e da una congrua preparazione dei vivi (pulizia sulle strade e nelle case, digiuno, astinenza); essa può svolgersi nelle case stesse dove hanno trascorso la vita, o nei luoghi pubblici della comunità o presso le tombe; dà occasione a riti ora di tipo funebre (lamentazioni), ora di tipo orgiastico (danze, mascherate, orge sessuali), a particolari interdizioni temporanee, a sacrifici e, concludendosi, a riti purificatori destinati a ristabilire l’ordine normale che presuppone una separazione tra vivi e morti.
I temi noti dalle religioni primitive e antiche sopravvivono nelle credenze e usanze popolari europee attuali, raggruppate intorno alla festa ecclesiastica della commemorazione dei defunti (2 novembre). Nelle regioni italiane esistevano usanze caratteristiche: in Friuli per la notte del 2 novembre si lasciava un lume acceso, pane e acqua sul tavolo per i morti che passavano quella notte in casa; in Lombardia vi era l’uso di tavola imbandita, fuoco acceso e sedie vicine al focolare; altrove la gente si alzava prestissimo per lasciare i letti agli spiriti; in Abruzzo si credeva che i morti si trattenessero tra i vivi dal 2 novembre fino all’Epifania. Tra i cibi particolari offerti ai morti in Italia prevalevano le fave, poi diventate per lo più dei dolci fatti a forma di fava; l’offerta ai morti si trasformava anche in distribuzione gratuita di cibi ai poveri. In Sicilia il giorno dei morti era l’occasione per fare regali ai bambini. A Roma tra il 18° e il 19° sec. avevano luogo rappresentazioni sacre organizzate dall’Arciconfraternita dell’orazione e morte.
Filosofia
Due sono fondamentalmente gli atteggiamenti nei confronti della m. che è dato ritrovare nella storia della filosofia: da un lato la m. è intesa come un evento o, meglio, un problema di cui fornire una spiegazione metafisica; dall’altro è concepita come problema relativo all’esistenza umana e alla situazione dell’uomo nel mondo. Entrambi gli atteggiamenti coesistono in tutto il corso del pensiero occidentale, mentre il secondo è tipico dell’esistenzialismo contemporaneo.
Per Platone, che subiva l’influsso delle dottrine orfiche, la m. equivale alla separazione dell’anima immortale dal corpo corruttibile e all’inizio di una nuova vita dell’anima individuale. La concezione platonica influenzò anche il cristianesimo, che al concetto biblico della m. come pena affiancò poi quello dell’immortalità personale. In una prospettiva già ‘esistenziale’ si pone il sistema epicureo, che nega che la m. sia un male, non perché momento di passaggio all’immortalità ma in quanto assoluta insensibilità derivante dalla cessazione della vita organica. Se nel Medioevo la m. è considerata soprattutto nella prospettiva teologica cristiana, il Rinascimento oscilla tra concezioni platonico-cristiane e concezioni panteistico-animistiche (legate in qualche modo a concezioni platoniche), mentre nel pensiero moderno è difficile individuare una riflessione specifica sulla m. se non in dipendenza da quelle sull’anima, l’immortalità e il materialismo.
L’idealismo tedesco, soprattutto con F. Hegel, ripropose invece l’antico tema dell’immortalità impersonale in una prospettiva panteistica, prospettiva peraltro comune agli autori del Romanticismo tedesco. Tema articolato specificamente dal giovane L.A. Feuerbach, che sul concetto di m. individuale come espressione della finitezza dell’uomo, riscattata soltanto dall’infinità dello spirito di cui l’uomo è partecipe, fonda la sua polemica anticristiana. Nella filosofia contemporanea l’esistenzialismo, in contrapposizione a qualsiasi caratterizzazione biologica o impersonale, intende la m. come ‘situazione’ decisa, come possibilità esistenziale sempre aperta e tale che in base a essa soltanto, intesa come limitazione dell’esistenza, è possibile valutare e comprendere la vita. Già presente in S. Kierkegaard, questa concezione si precisa in M. Heidegger. L’autenticità dell’esistenza, in contrasto con l’esistenza banale, soggetta alla ‘cura’, è proprio nell’‘essere-per-la m.’ che, in quanto possibilità dell’annullamento di ogni rapporto, è la possibilità più propria dell’Esserci.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
di Maurice Bloch e Carlo Alberto Defanti
Antropologia
di Maurice Bloch
Sommario: 1. Cenni storici. 2. La morte come
processo. 3. La morte e il corpo. 4. Le tombe. 5. L'anima. 6. Le
cause della morte. 7. La morte dei bambini, degli anziani e delle
persone senza figli. 8. Emozioni e sentimenti associati alla morte.
9. La trasmissione delle cariche. 10. L'eredità. 11. La morte nelle
società industrializzate. □ Bibliografia.
1. Cenni storici
Tutte le culture attribuiscono un'importanza centrale
all'interpretazione dei processi dell'esistenza umana. Un rilievo
particolare assumono al riguardo le rappresentazioni del processo
riproduttivo e della morte, con le pratiche a esse associate; per
questo motivo spesso si è indotti a credere che in tutte le culture
il trattamento del cadavere (inumazione, cremazione, ecc.) abbia un
grande rilievo. Sebbene ciò non sia sempre vero, come attestano gli
studi sulle società di cacciatori e raccoglitori africane (v.
Woodburn, 1982), tuttavia è innegabile che i riti funebri
costituiscano un elemento significativo nelle culture della maggior
parte delle civiltà.Questa circostanza è stata messa in evidenza sin
dagli albori dell'antropologia, in parte perché tale disciplina ai
suoi inizi comprendeva anche l'archeologia, che si è sempre
interessata ai sepolcri e ai monumenti funerari, i quali
costituiscono una parte tanto significativa dei reperti delle
culture preistoriche. Gli inizi di un approccio antropologico alla
morte e ai riti funebri più orientato in senso culturale o sociale
si possono far risalire probabilmente all'antropologo svizzero Jacob
Bachofen, il quale nel 1859 pubblicò uno studio dal titolo Versuch
über Grabersymbolik der Alten, in cui metteva in luce, tra le altre
cose, un aspetto che avrebbe affascinato gli antropologi per la sua
apparente stranezza, ossia il legame tra riti funebri e culti della
fertilità. I materiali di cui Bachofen si servì in questo studio
erano attinti in prevalenza da fonti classiche, come ad esempio i
culti misterici e i giochi funebri dell'antichità greca e romana.
In seguito autori quali Edward Tylor e James Frazer si interessarono
anch'essi al tema della morte, ma più che sulle pratiche funerarie
incentrarono la loro attenzione sulle credenze relative alla vita
dopo la morte. In particolare, Tylor sostenne che la credenza
nell'aldilà, a sua volta riconducibile al tentativo di comprendere
il fenomeno dei sogni, è all'origine della religione.Tuttavia fu
solo col famoso saggio dell'antropologo francese Robert Hertz,
Contribution à une étude sur la représentation collective de la mort
(v. Hertz, 1907), che venne formulata per la prima volta una vera e
propria teoria generale sulle pratiche funerarie. Hertz era membro
della "Année sociologique" diretta da Émile Durkheim, e sua
preoccupazione principale fu di affermare il carattere non già
individuale bensì sociale delle pratiche associate alla morte. Hertz
seguiva in questo modo la paradossale tesi sostenuta dal maestro in
Le suicide, secondo cui il suicidio, che spesso viene considerato il
più privato degli atti, può essere in realtà studiato come un fatto
sociale. Secondo Hertz lo stesso vale per le pratiche funerarie;
ogni morte, infatti, comporta una rottura nell'ordine della società,
e i riti funebri hanno il compito di sanare tale rottura, in parte
attraverso il trasferimento e la redistribuzione delle posizioni di
status e delle proprietà appartenute al defunto. I riti funebri
inoltre contribuiscono a riordinare la memoria e a lenire il dolore,
in quanto rappresentano in una storia coerente il viaggio dei
defunti che si dipartono dai vivi. Tale viaggio è spesso concepito
come lungo e complesso, e ciò si riflette anche nel fatto che i
funerali spesso non si esauriscono in un unico rito, ma comportano
un complesso di cerimonie che vanno dall'inumazione del cadavere
alla mummificazione e alla decomposizione parziale. In questo saggio
relativamente breve Hertz formula gran parte delle principali
questioni di cui si occuperanno gli antropologi successivi.
2. La morte come processo
La tesi di Hertz, secondo la quale la morte spesso non viene
considerata come un evento che si verifica istantaneamente bensì
come un lungo processo, può sembrare strana al lettore europeo,
abituato a considerare la vita e la morte come due stati opposti in
modo categorico, senza vie di mezzo. D'altro canto, in quei sistemi
di idee tipici delle società tradizionali del Sudest asiatico che
Hertz porta ad esempio, la morte è considerata essenzialmente solo
una fase di un lungo processo che ha inizio prima che si verifichi
l'evento 'morte' e continua molto dopo di esso. Così in uno studio
intitolato in modo suggestivo A Bornean journey into death, che ha
come oggetto una delle popolazioni del Borneo citate da Hertz, Peter
Metcalf (v., 1982) dimostra che tutta una serie di riti funebri,
alcuni dei quali si svolgono molto tempo dopo la morte e comportano
la manipolazione del cadavere e altre pratiche, come ad esempio la
caccia alle teste, hanno il compito di portare a compimento il
viaggio del defunto, che si trasforma gradualmente in un'anima
sempre più eterea e immateriale.
La complessità delle credenze relative al 'viaggio dentro la morte'
e al suo legame con il processo opposto della vita può essere
illustrata dalle credenze tradizionali dei Merina del Madagascar.
Questi ritengono che l'individuo cambi gradatamente nel corso
dell'esistenza. Dapprima, nell'infanzia, il corpo è umido e molle,
le ossa sono ancora flessibili, la fontanella è "come una pozza
d'acqua". Con la crescita, che avviene grazie alla benedizione degli
antenati sepolti nella tomba di famiglia, si sviluppano gli elementi
duri e asciutti del corpo, che per i Malgasci sono associati alla
dimensione morale della persona e la attestano. Così l'individuo
adulto è una mescolanza di elementi duri e asciutti, costituiti
principalmente dalle ossa, e di elementi molli e umidi, costituiti
principalmente dalla carne. Gradualmente, col passare del tempo, i
primi acquistano la preponderanza, ma non in modo definitivo finché
l'individuo è in vita. Al momento della morte, quindi, il corpo avrà
sviluppato una grande quantità di materia asciutta e dura, ma avrà
ancora alcuni elementi molli e umidi. Questi ultimi sono destinati a
scomparire qualche tempo dopo la morte, con la putrefazione, e in
questo modo si completerà il processo iniziato in vita. Per i Merina
pertanto le trasformazioni del corpo nel corso dell'esistenza e dopo
la morte sono parte di un unico processo più generale, rispetto al
quale ciò che chiamiamo 'morte' non è che un episodio.Questa
concezione della morte si riflette nelle cerimonie funebri dei
Merina, che comportano una prima sepoltura temporanea del cadavere,
immediatamente dopo la morte, affinché le parti umide e molli
possano definitivamente asciugarsi; successivamente, trascorsi due
anni o più, le parti asciutte, ossia le ossa, vengono esumate e
seppellite nella tomba di famiglia, con una elaborata cerimonia di
seconda sepoltura. I due funerali quindi segnalano e sanciscono il
compimento del processo che ha avuto luogo in vita. Inoltre, il
fatto che gli elementi duri e asciutti vengano deposti nella tomba
di famiglia, come accade anche presso altri popoli, indica anche un
altro cambiamento: il cadavere perde ogni individualità e il defunto
va a fondersi con l'intera famiglia in un monumento destinato a
durare in eterno (v. Bloch, 1971 e 1986), che diventerà fonte della
benedizione degli antenati. Le ossa dei morti quindi generano quelle
dei vivi, in una sorta di parziale reincarnazione; il processo
attraverso il quale il cadavere si libera progressivamente della
carne, delle parti molli e umide, è parte del processo di sviluppo
del giovane, che segna la sua trasformazione in un individuo morale
con una quantità crescente di elementi rigidi e asciutti, ossia di
ossa, nel corpo (v. Bloch, 1986).
3. La morte e il corpo
Il tentativo dei Merina di conservare determinate parti del
corpo dei morti e di eliminarne altre dimostra in che misura le
pratiche funerarie siano strettamente connesse alle concezioni
relative alla natura del corpo. Nella Cina meridionale ad esempio,
dove si crede che gli spiriti degli antenati sopravvivano,
esercitando la loro benefica influenza, sotto forma di una tavoletta
collocata nel tempio di famiglia, la disposizione del cadavere
riveste una grande importanza, in quanto il posto esatto in cui esso
sarà collocato influenzerà la sorte dei discendenti in modo neutro
dal punto di vista morale (v. Watson e Rawski, 1988). Anche in
Europa il trattamento riservato ai cadaveri degli antenati molto
tempo dopo la morte può assumere una notevole importanza; in Grecia,
i crani degli avi vengono riesumati e ripuliti, per essere
conservati in speciali ossari di famiglia.
Oltre a queste pratiche di conservazione dei cadaveri ne esistono
altre, prima fra tutte la cremazione, che sembrano avere esattamente
il fine opposto. Le motivazioni che sono alla base di tali pratiche
tuttavia possono essere molto diverse. Gli indù e i buddhisti
considerano la cremazione l'ultimo stadio della rinuncia
all'attaccamento al corpo e alle sue passioni, cui deve aspirare
l'uomo pio e che, se riesce, porterà a una reincarnazione più
positiva, o, meglio ancora, alla liberazione dal ciclo delle
esistenze terrene e dalle sue inevitabili sofferenze. Nei funerali
indù i corpi dei defunti vengono bruciati su una pira funebre; la
persona più colpita dal lutto tra quanti partecipano al funerale
deve spaccare il cranio del defunto mentre il cadavere brucia, al
fine di liberare l'anima da ogni impedimento materiale. Nella città
santa di Banaras in India migliaia di corpi vengono portati sulle
sponde del Gange per essere cremati; le ceneri vengono poi disperse
tra le acque del fiume come ulteriore atto di annullamento, nella
speranza che il defunto raggiunga la liberazione finale dal ciclo
delle rinascite (v. Parry, 1994).
La cremazione tuttavia può essere effettuata per motivi quasi
opposti. Per gli antichi Greci, che coltivavano l'ideale di forza e
di bellezza della gioventù, l'indebolimento del corpo non
significava liberazione, come in India, bensì decadenza e ridicolo.
Nell'Iliade, ad esempio, la morte ideale è perire in battaglia, nel
fiore della giovinezza, senza che però il corpo resti sfigurato;
perciò il nemico mira a profanare il cadavere dell'avversario, come
ben illustra l'episodio di Achille che trascina col suo carro il
corpo di Ettore tra il fango e le pietre attorno alle mura di Troia.
In Grecia gli eroi fortunati che avevano trovato la morte in
battaglia venivano cremati, affinché la memoria dei loro corpi
perfetti non fosse contaminata dall'immagine del loro progressivo
decadimento (v. Vernant, 1982).
In altre parti del mondo il trattamento riservato ai cadaveri
riflette concezioni diverse. In Melanesia si crede che all'origine
di ogni individuo vi sia uno scambio di doni di cui fanno parte
anche i matrimoni e i pagamenti nuziali. Così i Gimi della Nuova
Guinea (v. Gillison, 1993) credono che ogni persona sia il risultato
di una combinazione tra le ossa, derivate dai membri del suo clan
d'origine, e la carne, derivata dalle donne che appartengono invece
a un clan estraneo. È a questa combinazione che si deve la vita di
ogni individuo; con la morte, ossia con il disfacimento della
persona, si ha una separazione tra gli elementi derivati dal padre e
quelli derivati dalla madre. Questa credenza era alla base di una
pratica cannibalistica: le donne erano obbligate a mangiare la carne
dei morti in modo da liberare le ossa appartenenti ai membri del
clan del coniuge. Così facendo esse si riprendevano ciò che avevano
portato e ponevano fine all'alleanza tra clan incarnata dal corpo
vivente. Questa fine dello scambio tuttavia segnava solo l'inizio
della possibilità di nuovi scambi; il cannibalismo delle donne Gimi
faceva sì che le ossa e la carne degli uomini potessero essere in
ultimo simbolicamente 'riutilizzati' per creare i membri futuri del
clan, attraverso nuove alleanze con altre donne.
4. Le tombe
Assai spesso, come abbiamo visto nel caso dei Merina e dei
Greci moderni, la tomba non è tanto il luogo di sepoltura del
singolo individuo quanto piuttosto il sito in cui vengono riunite le
spoglie dei membri di una grande famiglia o di un intero lignaggio.
Le tombe, in questo caso, diventano spesso simbolo dell'unità
familiare. Inoltre, per il loro carattere permanente, le tombe
possono diventare il punto focale del legame tra i vivi e una
particolare area o territorio o paese, attraverso la presenza dei
defunti che vi sono sepolti. Si tratta di un tema che ricorre in
molte regioni dell'Europa e dell'Africa. Questo legame spiega anche
l'importanza cruciale che assumono i luoghi di sepoltura per i
movimenti nazionalistici: la loro riconquista può essere presentata
come una motivazione delle lotte per l'indipendenza, e viceversa la
distruzione delle tombe dei precedenti abitanti può costituire un
modo teatrale di abolirne la memoria stessa.
Per motivi analoghi gli emigranti assai spesso attribuiscono grande
importanza al fatto che i loro corpi vengano restituiti ai luoghi
d'origine. Così gli immigrati dalla Corsica nelle Americhe spendono
somme ingenti per costruire grandiose tombe di famiglia, spesso
situate al centro delle terre dei loro avi anziché in cimiteri
consacrati come richiederebbe la Chiesa cattolica. Questa pratica ha
trasformato certe zone della Corsica in vere e proprie
necropoli.Spesso l'aspetto delle tombe segnala lo status sociale del
defunto. Nell'Ottocento e nel Novecento le grandiose cripte della
borghesia francese avevano la funzione di attestare il successo
sociale di chi vi era sepolto; per contro, il timore di finire nella
fossa comune dei poveri diventava una vera e propria ossessione. Per
questa ragione in tutta Europa, e specialmente in Inghilterra, le
cooperative e le compagnie di assicurazione si proposero sin
dall'inizio di assicurare una sepoltura decorosa ai propri affiliati
proletari.
Al vertice della scala sociale i potenti sono celebrati col massimo
fasto in grandiosi monumenti, quali il Taj Mahal in India o le
Piramidi nell'antico Egitto, nella cui costruzione sembra sia
concentrata la maggior parte delle risorse della società. Arrivando
al vertice dell'ordinamento sociale, di solito, come nei due casi
menzionati, i monumenti funerari non ospitano gruppi familiari ma
singoli individui. Ciò annulla il carattere spersonalizzante di
molti riti funebri, e l'individualità di una particolare persona
viene trasformata in un aspetto durevole del paesaggio politico e
sociale. I funerali in questo caso non sono più diretti a
trasformare il corpo in qualche altra entità, bensì a preservarlo
come parte del monumento, spesso mediante l'imbalsamazione. Ne sono
un esempio le piramidi dei faraoni, ma anche monumenti funebri quali
il mausoleo di Lenin. Una conseguenza inevitabile di questa pratica
è che la reputazione politica successiva di tali personaggi può
influenzare il modo in cui vengono trattati i monumenti in cui sono
sepolti.
5. L'anima
I funerali non sono solo cerimonie in cui si dispone dei
resti materiali dei defunti; in molte culture sussiste la credenza
che dopo la morte permanga un elemento immateriale, ciò che siamo
soliti chiamare 'anima'. Le credenze relative al destino dopo la
morte sono spesso assai incerte e contraddittorie. Alcuni ritengono
che i morti passino in un altro mondo, ma continuino a tormentare i
vivi sotto forma di fantasmi. Gli Indiani del Sudamerica, come del
resto molte altre popolazioni, credono che i morti abitino un mondo
che è un'immagine speculare di quello dei vivi, sicché ad esempio i
defunti coltivano la terra esattamente nei mesi che i vivi dedicano
al riposo. In alcune culture si crede nell'esistenza non di una
singola anima, ma di una pluralità di anime, che sopravvivono tutte
alla morte in modi differenti e avranno diverse destinazioni. La
funzione dei riti funebri può essere quella di guidare le anime - o
l'anima se si crede nell'esistenza di una singola anima - verso tali
destinazioni. Molte comunità melanesiane (v. Damon e Wagner, 1989)
credono che le anime si reincarnino nei futuri membri del gruppo, e
le elaborate cerimonie funebri hanno come scopo principale quello di
assicurare la riuscita di tale processo. In altre culture i riti
funebri hanno la funzione di guidare l'anima in un lungo e
pericoloso viaggio, spesso verso una qualche sorta di paradiso. Il
famoso Libro tibetano dei morti è precisamente la descrizione di
tale viaggio e una guida per l'anima che lo affronta. Non di rado
però i riti funebri non hanno tanto lo scopo di assicurare un
approdo sicuro delle anime nell'aldilà, quanto piuttosto quello di
evitare che esse disturbino i vivi. In effetti molte delle offerte
nelle cerimonie funebri sono destinate a scongiurare il pericolo che
l'anima indugi tra i vivi sotto forma di spirito, o che causi altri
tipi di disagio (v. Goody, 1962). Ciò vale non solo per i riti
funebri, ma anche per molte di quelle pratiche che vengono definite
'culto degli antenati'. Questo può configurarsi come richiesta di
benedizione da parte degli avi, o di invocazione di una punizione
per le cattive azioni commesse dai discendenti; tuttavia questi
aspetti del culto degli antenati non rivestono l'importanza che,
influenzati dall'ottica giudaico-cristiana, siamo portati ad
attribuire loro, dimenticando che spesso le anime dei defunti sono
considerate capricciose e invidiose dei vivi e dei loro piaceri. Il
culto degli antenati diventa allora una reazione al ricatto da parte
dei morti, cui vengono offerti sacrifici affinché si allontanino.
Questa componente si ritrova anche in alcune religioni universali,
come ad esempio il buddhismo. Nel buddhismo Bon, diffuso in
Giappone, esiste una festa annuale in cui si invitano le anime dei
defunti a visitare le dimore dei discendenti presentando loro una
serie di offerte; ma dopo tre giorni tali offerte vengono portate
presso un torrente che scorre lontano dall'abitazione dei vivi, in
modo che i defunti si allontanino per seguire i doni, almeno sino
alla prossima festa.
Anche nei paesi in cui non esiste il culto degli antenati il
rapporto con i morti può essere estremamente ambiguo. Spesso si
crede che sussista uno stretto rapporto tra lo stato del corpo e il
destino dell'anima. Così, ad esempio, in molti paesi europei l'odore
gradevole o sgradevole emanato dal cadavere dopo la morte viene
considerato un segno sicuro del fatto che l'anima andrà in cielo
oppure all'inferno. Ancora, l'assenza di fenomeni di putrefazione in
un cadavere era spesso interpretata in passato come un segno
dell'assenza di corruzione (sia fisica che morale) del defunto;
questi allora veniva considerato un santo la cui anima era andata
diritta in cielo. In Portogallo, tuttavia, lo stesso fenomeno poteva
anche significare che il defunto era stato un gran peccatore la cui
anima era rimasta attaccata al corpo; ciò dava luogo ad accese
discussioni che spesso venivano risolte mediante la bizzarra pratica
di frustare il cadavere: se il corpo si decomponeva significava che
si trattava di un peccatore, in caso contrario di un santo (v.
Pina-Cabral, 1980).
6. Le cause della morte
Altrettanto varie quanto le credenze relative all'anima e al
suo destino sono quelle relative alle cause della morte. Molte
culture, soprattutto quelle in cui dominano le religioni semitiche,
hanno miti che parlano di un tempo in cui la morte non esisteva, e
ne spiegano la comparsa con un peccato originale compiuto da un
antenato - anche se non è mai ben chiaro in che misura questi miti
vengano ritenuti veri, o costituiscano invece una sorta di
speculazione intellettuale. Più direttamente legata a preoccupazioni
pratiche è la credenza, diffusa in Africa e in Sudamerica, che la
morte sia da attribuire alla malevolenza degli uomini, spesso a una
stregoneria. Alla morte di ogni individuo deve far seguito una
pratica divinatoria per individuare il responsabile, oppure un atto
di vendetta. In altre culture invece la morte è sempre causata da un
dio che agisce come una forza impersonale, e di conseguenza non
richiede pratiche del genere.
Anche il suicidio viene interpretato in modi assai diversi nelle
varie culture. Nella Francia medievale ad esempio la morte per
suicidio era ritenuta talmente immorale che per essa non veniva
officiato alcun rito funebre in chiesa. In Giappone per contro il
suicidio era considerato un atto onorevole in molte circostanze. In
altri paesi esso è ritenuto la conseguenza inevitabile di
determinate condizioni sociali e fisiche (v. Catedra, 1992). In
India le vedove che si sacrificano sulla pira funebre del consorte
sono spesso ricordate e celebrate come sante, e il luogo in cui si è
consumato quest'atto di devozione coniugale è fonte non solo di
ispirazione, ma anche di guarigione.
7. La morte dei bambini, degli anziani e delle
persone senza figli
In molte culture la morte dei bambini, degli anziani e delle
persone senza figli è considerata in modo diverso rispetto alla
morte di altre categorie di individui. In varie parti del mondo,
come ad esempio nella Cina rurale, i bambini non vengono considerati
esseri umani compiuti, e di conseguenza l'infanticidio è largamente
tollerato; uccidere un bambino è ritenuto ben diverso che uccidere
un adulto. L'infanticidio in genere riguarda le figlie femmine, e
ciò può determinare significativi squilibri tra i due sessi nella
popolazione adulta. Sempre legato alla credenza che i bambini non
siano esseri umani pienamente sviluppati è il fatto che in molte
culture, come ad esempio quelle dell'Africa subsahariana, la morte
dei neonati non è segnata da particolari riti. Lo stesso accade in
molti casi per le persone senza figli, che si ritiene non abbiano
raggiunto un pieno status sociale. In queste stesse società, per
contro, la morte degli anziani che hanno avuto molti figli è spesso
occasione di elaborate cerimonie in cui alle manifestazioni di
dolore per la morte della persona si accompagna la gioiosa
celebrazione dei suoi successi.
8. Emozioni e sentimenti associati alla morte
La diversità delle emozioni manifestate nei differenti tipi
di riti funebri solleva il problema centrale del rapporto tra morte
ed emozioni. Sarebbe un errore pensare che i funerali siano solo
un'occasione di tristezza. Spesso i riti funebri, oltre che
celebrare la fine della vita, hanno la funzione di organizzarne e
illustrarne la continuazione e rigenerazione. Ciò spiega perché
l'idea della fertilità e della crescita sia spesso intrecciata alla
rappresentazione della morte e della corruzione (v. Bloch e Parry,
1982).In tutte le culture la morte è causa di dolore, ma non sempre
questo viene manifestato pubblicamente. In Madagascar la morte dei
figli può suscitare un intenso dolore nei genitori, ma questo non
viene manifestato in forme istituzionalizzate. In altri luoghi
sembra che, in certe situazioni, la morte dei figli non sia
necessariamente causa di dolore. Nancy Sheper-Hughes (v., 1992) ad
esempio ha sostenuto che nelle favelas brasiliane i genitori sono
così avvezzi alla morte dei figli che esternamente non manifestano
alcuna emozione, e forse non ne provano affatto. La manifestazione
pubblica del dolore per contro può essere organizzata secondo schemi
obbligati, ma non è dato sapere quali effetti abbia tale
istituzionalizzazione sulle emozioni individuali. Certe
manifestazioni emotive che in Europa sono considerate spontanee e
individuali, come ad esempio il pianto, possono essere orchestrate -
come avviene nei paesi mediorientali e in molte altre parti del
mondo - e affidate a un particolare gruppo, in genere di donne. Lo
stesso discorso vale per l'usanza di segnalare il lutto attraverso
l'aspetto esteriore. Radersi il capo o al contrario lasciarsi
crescere disordinatamente i capelli, oppure ancora indossare
particolari capi di vestiario per un determinato periodo sono alcuni
dei modi di segnalare il lutto. In molti casi sembra che ciò che si
richiede a chi è in lutto sia non solo di mostrare esteriormente il
proprio dolore, ma anche di prendere su di sé parte della
contaminazione comportata dalla decomposizione. In molte parti della
Melanesia, ad esempio, alle vedove non è consentito lavarsi per un
certo periodo dopo la morte del coniuge.
Di frequente nei riti funebri si osserva un netto contrasto tra il
comportamento improntato al dolore e alla tristezza che ci si
aspetta dai parenti più stretti del defunto, e quello dei parenti
più lontani, il cui ruolo non è tanto quello di condividere tali
sentimenti, quanto piuttosto di mostrare solidarietà. Ciò spiega
perché le veglie funebri, per quanti non sono direttamente colpiti
dal lutto, siano un'occasione in cui si canta, si danza e si gioca
d'azzardo - attività, quest'ultima, stranamente associata al lutto.
9. La trasmissione delle cariche
La morte influisce sui vivi anche in altri modi. Lo status
sociale e le proprietà del defunto devono essere trasmessi a un
successore, e i funerali possono essere la cerimonia che sancisce
tale trasferimento. Ciò vale in particolare per i funerali dei
sovrani, i quali spesso comportano lunghi rituali che sono parte
integrante dell'incoronazione del successore. Nell'antica Roma si
usava bruciare in pubblico effigi in cera dell'imperatore defunto,
ma nello stesso tempo veniva liberata un'aquila per simboleggiare
l'ascesa in cielo dell'anima del morto, primo stadio della sua
trasformazione in divinità. In certe società africane i funerali del
sovrano sono occasione di cerimonie a livello nazionale durante le
quali si inscenano drammi cosmici in cui tutti i sudditi e la natura
sembrano morire con il loro re, per poi rinascere con il successore;
tali cerimonie coinvolgono a intervalli tutta la popolazione per
periodi spesso assai lunghi, a volte per più di un anno (v. Adler,
1982).
10. L'eredità
Più concreti e assai più comuni sono i problemi comportati
dall'eredità, che tuttavia si presentano solo in alcune società e
solo per alcuni beni; la distruzione delle proprietà del defunto
infatti è altrettanto comune della loro trasmissione agli eredi.
Spesso la distruzione degli oggetti personali e della casa del
defunto segna la fine dei riti funebri. Ciò vale in particolare, a
quanto sembra, per i gruppi marginali quali le società di cacciatori
e raccoglitori dell'Africa e dell'Asia, o gli zingari europei, tra i
quali vi è l'usanza di distruggere o perlomeno di evitare le
proprietà del morto. Così, nel suo studio sugli zingari francesi
Patrick Williams (v., 1993) descrive come questi distruggano parte
delle proprietà del defunto e, paradossalmente, ne mantengano viva
la presenza evitando ostentatamente altre cose che gli erano
appartenute, ad esempio astenendosi dal cantare le sue canzoni
favorite o dal menzionare la sua persona.
Il trasferimento dei beni può essere effettuato prima della morte
del proprietario, come avviene in alcune famiglie contadine, in cui
la terra viene trasmessa ai figli quando gli anziani non sono più in
grado di lavorarla. Più di frequente tuttavia la trasmissione
ereditaria avviene dopo la morte, a volte molto dopo di essa, come
nel caso delle famiglie congiunte indiane, in cui la divisione tra
gli eredi può essere procrastinata il più a lungo possibile al fine
di mantenere uniti i fratelli. Possono esistere regole precise in
merito alla successione ereditaria, che stabiliscono se l'eredità
spetti a tutti i figli o solo ad alcuni di essi. A volte un certo
tipo di beni è riservato ai figli maschi e un altro tipo alle
femmine. In molti paesi tuttavia, come ad esempio nel Madagascar,
non esistono regole precise; in questo caso hanno valore vincolante
le ultime volontà del defunto, espresse in un testamento o con le
'ultime parole'.
In diverse società i problemi legati all'eredità acquistano un peso
notevole; le liti per la successione ereditaria possono creare
inimicizie che coinvolgono tutti i parenti del morto, bloccando
altresì importanti risorse che restano a lungo inutilizzate. In
alcune parti del mondo si attribuisce importanza non tanto al valore
materiale dei beni ereditati, quanto piuttosto al loro valore
simbolico. Così ad esempio in molte società del Sudest asiatico i
beni trasmessi agli eredi - in genere si tratta di ceramiche e
oggetti in rame - diventano il simbolo stesso della continuità del
lignaggio o della famiglia, e rappresentano pertanto il legame tra i
vivi e i morti.
11. La morte nelle società industrializzate
Gli atteggiamenti nei confronti della morte nel XX secolo
sembrano aver conosciuto una duplice evoluzione. Da un lato i
massacri su vasta scala della prima guerra mondiale e la
razionalizzazione della macchina di sterminio nei campi di
concentramento nazisti del secondo conflitto mondiale sembrano aver
conferito un'importanza centrale ai luoghi di commemorazione dei
defunti, tanto che i monumenti ai caduti occupano uno spazio
privilegiato in molte città e villaggi, e diventano il centro di
cerimonie simboliche a livello locale e nazionale.
Dall'altro lato in alcune società industrializzate - soprattutto
negli Stati Uniti e nell'Europa occidentale - sembra si sia andata
affermando la tendenza a evitare il contatto con la morte. Si
preferisce non essere presenti quando questa si verifica, e i
moribondi vengono allontanati negli ospedali e negli ospizi, dove a
prendersi cura di loro sono anonimi professionisti anziché i
parenti. Analogamente i medici, spesso con la connivenza dei
familiari, cercano di nascondere al moribondo l'imminenza della
morte, e ciò a volte dà luogo a complicate finzioni in cui tutti
sanno come stanno realmente le cose, ma nessuno lo ammette. Questa
rimozione della morte si estende anche a chi per professione si
trova ad avere a che fare quotidianamente con essa. Un recente
studio antropologico, ad esempio, ha dimostrato che gli studenti di
medicina si abituano alla vista dei cadaveri che devono
dissezionare, ma nello stesso tempo attuano una forma di rimozione
facendoli oggetto di macabri scherzi.
Non solo si cerca di ignorare il processo della morte, ma i parenti
del morto si mostrano anche restii a vedere i cadaveri a meno che
non siano stati in qualche modo imbalsamati, così da non dover
assistere ai fenomeni della decadenza e della corruzione del corpo.
Ciò spiega la diffusione della cremazione nei paesi dell'Europa
settentrionale e negli Stati Uniti, in cui tale pratica ha
soppiantato quasi interamente la sepoltura. Un caso estremo sono i
tentativi di conservare il corpo attraverso l'ibernazione, nella
vana speranza che i futuri progressi della scienza medica rendano
possibile una qualche forma di resurrezione. Tali pratiche sono
state ben descritte nel libro per certi versi divertente di Nancy
Mitford, The American way of death, e sono stati studiati nel più
ampio contesto della storia occidentale da Philippe Ariès.