Mentalismo
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Dizionario di Filosofia (2009)
Termine adoperato per indicare le concezioni che identificano il
contenuto della conoscenza con stati mentali; in questo senso nel
sec. 20° è stata considerata una forma di m. la gnoseologia di
Locke, Berkeley e Hume, che riduce i dati della conoscenza a
percezioni della mente. Forme di m. sono state anche considerate la
filosofia di J.S. Mill e l’atomismo logico di Moore e di Russell.
L’etichetta di m. è stata abitualmente usata in senso critico per
riferirsi alle teorie psicologiche che fanno ricorso a entità,
processi e stati mentali inosservabili (come intenzioni, desideri,
credenze, ecc.) per spiegare il comportamento umano, e al m., in
quanto dottrina psicologica non empiricamente controllabile, sono
stati contrapposti, come teorie più soddisfacenti, il
comportamentismo e l’organicismo pragmatistico. Dewey, tra gli
altri, ha intrapreso una critica sistematica del m. in Logic,
the theory of inquiry (1939; trad. it. Logica, teoria
dell’indagine), offrendo come alternativa una concezione che
vede l’attività della mente come prosecuzione naturale del
comportamento organico. Il m. è stato fortemente criticato anche da
Wittgenstein e dalla sua scuola e, più recentemente, da Quine, che,
considerando non scientifico l’appello alle nozioni mentali nella
teoria del significato oltre che in psicologia, in una serie di
influenti opere e saggi ha avanzato argomenti a favore del
comportamentismo skinneriano. Più recentemente, tuttavia, alle
difficoltà che hanno messo in crisi il comportamentismo ha fatto
seguito una ripresa del m. nel cognitivismo, dove i processi mentali
sono considerati come un legittimo oggetto di studio della
psicologia.