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Enciclopedia online
Nella filosofia antica la nozione di m. si connette con il problema della possibilità di un sapere inconscio cui essa dà luogo. Alla sua soluzione sono legate sia la concezione platonica sia quella aristotelica.
In Platone la m. (μνήμη) è una sorta di serbatoio delle conoscenze, in cui l’anima accoglie e ritiene le impressioni; sulla differenza tra questa m. inconsapevole e la reminiscenza consapevole (ἀνάμνεσις), attivata in occasione dei richiami associativi della conoscenza sensibile, Platone imposta poi la sua dottrina sulla conoscenza delle idee come reminiscenza di un sapere che l’anima avrebbe acquisito nella sua precedente esistenza.
Pur senza aderire alla dottrina gnoseologica platonica dell’anamnesi, Aristotele riprendeva la distinzione di Platone su basi psicofisiologiche nel De memoria et reminiscentia, dove la m. è concepita come una funzione che conserva e fissa in immagini i dati del senso, e la reminiscenza come la ricerca attiva di quelle immagini, che si attua secondo un ‘movimento’, così come un movimento aveva dato luogo, tramite la sensazione, all’impronta nell’anima. La concezione della m. come serbatoio di rappresentazioni di derivazione sensoriale è posta in discussione da Plotino, che fa della m. un’attività di esclusiva pertinenza dell’anima, indipendente dalle immagini e dalle rappresentazioni connesse alla sensibilità. In s. Agostino, in cui accenti platonici si mescolano a influenze plotiniane, torna una concezione della m. come luogo in cui si conservano le conoscenze, e questa immagine rimarrà praticamente immutata nel pensiero medievale.
È solo in epoca moderna che essa comincia a essere posta in discussione, soprattutto da parte di J. Locke, per il quale la m. consiste nella capacità di far rivivere idee già avute, capacità che si accompagna alla percezione di averle avute in precedenza: si tratterebbe quindi di una nuova percezione, non già della percezione originaria conservata. Se Locke riduceva la m. a un potere di rivivere percezioni già avute, a G.W. Leibniz e T. Reid questo potere sembrava inconcepibile senza presupporre qualcosa che si conserva in seguito alla percezione. E lo stesso I. Kant non faceva che riprendere la concezione aristotelica parlando della m. come della capacità di riprodurre volontariamente rappresentazioni avute in precedenza.
Nel pensiero contemporaneo il concetto di m. come luogo di conservazione, benché non di tipo fisico, è presente in H.-L. Bergson, che parla di una m. ‘pura’ come luogo psichico e spirituale in cui si conserva in uno stato virtuale l’intera vita vissuta. Schiettamente psicologistica, e anch’essa non estranea al modello del deposito, è la concezione esposta da B. Russell in The analysis of mind, dove la m. è definita come «una parte della nostra conoscenza del passato» e il ricordo come un’immagine mentale di derivazione sensoriale accompagnata da un «sentimento di credenza» relativo a episodi passati. In una prospettiva antimentalistica e antipsicologistica che accantona l’immagine della m. come ritenzione di rappresentazioni si collocano poi le concezioni di G. Ryle e L. Wittgenstein: per il primo ricordare non implica una peculiare immagine mentale di ciò che viene ricordato, ma una capacità di fedele riproduzione di ciò che si è visto, udito ecc.; nella concezione di Wittgenstein le nozioni di m. e di ricordo non rinviano a un insieme di rappresentazioni mentali private e soggettive, ma alla capacità socialmente acquisita di usare certe espressioni linguistiche a fini comunicativi.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)di Alessandro Cavalli
Sommario: 1. La nozione di memoria. 2. La
memoria nelle discipline biologiche e psicologiche. 3. Le forme
della memoria culturale. 4. Memoria, abitudine e tradizione. 5.
Memoria sociale e identità collettiva. 6. Storia e memoria. 7.
Memoria e modernità. □ Bibliografia.
1. La nozione di memoria
In termini molto generali, la memoria può essere intesa come la
capacità di un sistema qualsiasi (un robot, un organismo, un
individuo, un gruppo, un'istituzione, un'intera società) di
ricevere, conservare e recuperare informazioni. L'ampiezza di
questa definizione ci fa subito capire come molte discipline
abbiano fatto della memoria un oggetto delle loro ricerche. I
filosofi, da Platone a sant'Agostino, da Leibniz a Spinoza, fino a
Bergson e molti altri, hanno speculato sulla memoria per oltre
duemila anni. L'interesse scientifico per questo argomento ha
tuttavia poco più di un secolo e l'origine può essere fatta
risalire all'opera pionieristica di uno psicologo tedesco che
scriveva verso la fine del XIX secolo, H. Ebbinghaus (v., 1885).
Anche se nelle pagine che seguono ci soffermeremo in particolare
sul modo in cui le scienze sociali (soprattutto la sociologia,
l'antropologia e la storia) hanno affrontato lo studio della
memoria, è utile richiamare brevemente i contributi che la
biologia e la psicologia sperimentale hanno dato in questo campo,
poiché, come risulterà chiaro in seguito, nello studio della
memoria ricorrono alcune categorie concettuali che sono largamente
comuni a discipline diverse.
2. La memoria nelle discipline biologiche e
psicologiche
Le discipline biologiche si occupano di memoria in due
ambiti molti diversi: la genetica e la neurobiologia. Si può
parlare di memoria genetica in almeno tre contesti: nell'ambito
della teoria dell'evoluzione biologica (che studia il processo di
differenziazione delle varie forme di vita dalle più semplici alle
più complesse), nell'ambito della genetica delle popolazioni (che
studia i processi di differenziazione, trasmissione e diffusione
di determinati caratteri genetici in popolazioni diverse
appartenenti alla stessa specie) e, infine, nell'ambito della
genetica in senso stretto, che studia la trasmissione delle
informazioni genetiche dai genitori alla prole. In ognuno di
questi ambiti (specie, popolazioni, individui) si pongono problemi
di formazione, selezione e trasmissione di insiemi (stocks) di
informazioni racchiuse in codici genetici. Fin dal concepimento
ogni individuo porta dentro di sé (nella sua memoria genetica) le
informazioni necessarie a farlo diventare un membro della sua
specie, un appartenente a una determinata popolazione e, infine,
figlio o figlia di determinati genitori: quello che i biologi
chiamano un genotipo. Dalla nascita in poi (e quasi certamente
anche in ambiente prenatale), l'individuo incomincia a ricevere
informazioni dall'ambiente in cui cresce, a elaborarle,
conservarle e utilizzarle nel suo agire. Acquisisce, cioè, oltre
alla memoria genetica di cui già dispone, una memoria prodotta
dall'esperienza. Questa memoria, per così dire, acquisita, rientra
nel campo di studio della neurobiologia e, più in generale, delle
scienze che si occupano del cervello, dette appunto neuroscienze,
un campo che ha visto negli ultimi decenni sviluppi assai
consistenti. La ricerca sperimentale, condotta prevalentemente su
animali da laboratorio, ha consentito di accertare che certi tipi
di esperienza che conducono all'apprendimento di determinati
tratti comportamentali (ad esempio evitare di beccare chicchi di
grano dal sapore disgustoso da parte di pulcini appena nati)
mettono in moto complessi processi biochimici ed elettrochimici
nelle cellule nervose in modo tale che l'informazione ricevuta
viene registrata, codificata e rievocata quando l'esperienza
ripropone circostanze analoghe (v. Rose, 1992; v. Schmidt, 1991).
Il sistema nervoso centrale (e in particolare il cervello per gli
animali che ne sono dotati) non è quindi soltanto un luogo dove le
informazioni vengono immagazzinate, ma un sistema complesso di
interconnessioni in continua attività dove le informazioni vengono
organizzate e rielaborate oltre che conservate.
I risultati degli studi sperimentali sulla memoria negli animali
non possono certo essere automaticamente trasferiti nello studio
della memoria umana: il cervello umano presenta non solo
dimensioni maggiori, ma anche proprietà strutturali assai più
complesse, le quali tuttavia restano ancora largamente oscure, se
non altro per il fatto che la sperimentazione con esseri umani
incontra degli ovvi ostacoli di natura etica. Inoltre la
collaborazione tra neurobiologi che studiano il cervello e
psicologi che studiano la mente presenta molte difficoltà di
ordine epistemologico e metodologico. Ciò non toglie che la
ricerca nelle aree di confine tra i due campi disciplinari possa
generare in futuro risultati molto importanti.Anche in psicologia
sperimentale, infatti, gli studi sulla memoria hanno visto uno
straordinario sviluppo nei decenni più recenti, soprattutto in
relazione alla diffusione dell'approccio cognitivista indirizzato
in particolar modo ad analizzare i processi di apprendimento e di
comprensione e a misurarne gli effetti. L'attenzione degli
studiosi si è concentrata sui modi nei quali gli individui
procedono all'immissione in memoria di informazioni
(archiviazione) e al loro recupero (rievocazione). I risultati
delle loro ricerche hanno condotto alla conclusione che si
conserva in memoria ciò che è stato immagazzinato in modo
ordinato; l'oblio, infatti, non dipende dall'affievolimento o dal
deterioramento delle tracce mnestiche (come può avvenire, ad
esempio, per effetto di processi chimico-fisici, all'inchiostro di
stampa, a una pellicola fotografica, o agli impulsi magnetici di
un dischetto da personal computer), ma dal cattivo funzionamento
dei sistemi di codificazione che presiedono all'archiviazione e al
recupero delle informazioni.
Gli studiosi sono abbastanza concordi nel distinguere una memoria
a breve termine (MBT) e una memoria a lungo termine (MLT), detta
anche memoria permanente. Nella memoria a breve termine le
informazioni vengono immesse dal sistema della percezione, ma non
vi si possono trattenere a lungo. Data la sua limitata capacità di
ricezione ed elaborazione, la MBT trattiene, codifica e archivia
una parte delle informazioni, che viene inviata nella MLT, mentre
un'altra parte viene 'cancellata' per far posto a nuove
informazioni. Sulla scorta, tra l'altro, delle ipotesi ricavate
dalla grammatica generativa di Chomsky, la ricerca sperimentale ha
infatti accertato che in memoria si conserva il prodotto di una
codifica, la quale sottopone le informazioni a un trattamento in
base a regole grammaticali e sintattiche. In altri termini, la
nostra capacità di ricordare non è indipendente dalla nostra
capacità di pensare e di comprendere facendo uso di strutture
linguistiche.In seguito agli studi più recenti di Baddeley (v.,
1986) il concetto di memoria a breve termine è stato sostituito
con il concetto più complesso di memoria di lavoro. Questa
funziona da centrale di regolazione e di controllo dei flussi di
informazione in ingresso (input) e in uscita (output) dai
magazzini della memoria. Per poter organizzare il materiale
percettivo, infatti, la memoria di lavoro deve recuperare dalla
memoria permanente i criteri in base ai quali procedere alle
operazioni di selezione e di codifica, per poi rimandare alla
memoria permanente le nuove informazioni così codificate in modo
che possano essere facilmente recuperate quando occorre farne uso.
Quello che è importante ritenere dagli studi psicologici sulla
memoria è il fatto che in ogni stadio dei processi di
memorizzazione entrano in gioco criteri selettivi i quali a loro
volta dipendono sia da ciò che è stato memorizzato in precedenza
(quindi dalle 'mappe cognitive' conservate nella memoria
permanente), sia dal piano d'azione del soggetto, dalle
aspettative e intenzioni che guidano la sua attenzione percettiva
in una situazione specifica. Come hanno messo bene in luce le
ricerche di Bartlett (v., 1932), la presenza di questi criteri
selettivi fa in modo che i nostri ricordi non siano una replica
delle nostre esperienze, ma una loro rielaborazione. La memoria
risulta quindi, più che un deposito di tracce delle esperienze
passate, una rete complessa di attività che ristrutturano
costantemente il passato alla luce della situazione presente del
soggetto e del suo piano d'azione indirizzato al futuro. Un
risultato, questo, coerente con le conclusioni alle quali sono
giunti i neurobiologi nello studio del cervello.
3. Le forme della memoria culturale
Gli psicologi studiano i meccanismi della memoria in relazione al
funzionamento del sistema cervello-mente che gestisce i processi
cognitivi. Gli studiosi dell'evoluzione biologica sostengono che
il cervello umano non si è modificato sostanzialmente dall'avvento
della specie Homo sapiens sapiens. La mente, invece, che funziona
da interfaccia tra il cervello e il mondo della cultura simbolica
ha probabilmente subito profonde modificazioni proprio in
relazione ai cambiamenti intervenuti nella sfera della cultura.
Questi cambiamenti hanno modificato radicalmente anche le forme
della memoria culturale, intendendo con questo termine i modi di
conservazione, selezione e trasmissione del sapere.Il primo grande
spartiacque è senza dubbio rappresentato dal passaggio dalla
cultura orale alla cultura scritta (v. Cardona, 1986; v.
Leroi-Gourhan, 1964-1965; v. Ong, 1982). Prima dell'invenzione
della scrittura la memoria non poteva che essere trasmessa
oralmente.
Ciò non vuol dire tuttavia che le culture orali non
abbiano sviluppato sistemi di memoria anche assai elaborati. Basti
pensare soltanto alla funzione delle genealogie, che consentono di
stabilire i rapporti di discendenza sui quali si fonda il
principio di legittimità nelle dinastie degli antichi imperi. Ma
anche la ricerca antropologica è ricca di esempi che mettono in
luce le funzioni sociali della memoria nelle società preletterate.
Un caso particolarmente significativo di sistema di memorizzazione
legato alle genealogie ci è fornito da Evans-Pritchard (v., 1940)
nella sua famosa ricerca sui Nuer. I Nuer sono un popolo di
pastori nel quale la ricchezza è costituita dal bestiame e dove
quindi le obbligazioni che sorgono in occasione degli scambi
matrimoniali (la dote dello sposo), oppure il risarcimento dovuto
ai parenti per l'uccisione di una persona (guidrigildo), si
misurano in capi di bestiame. I Nuer inoltre sono un popolo
fortemente egualitario che non conosce forme di potere di tipo
ereditario-dinastico. Per determinare e ricordare chi è obbligato
con chi e per quanto tempo, essi hanno elaborato un sistema
genealogico che comporta nello stesso tempo una forma
istituzionalizzata sia di memoria sia di amnesia. I Nuer calcolano
le generazioni sia dall'alto (partendo dagli antenati, i
progenitori della tribù), sia dal basso. Partendo dall'alto
calcolano di padre in figlio al massimo sei generazioni; queste
rimangono fisse, nel senso che ogni individuo sa quali sono i suoi
progenitori originari. Partendo dal basso calcolano però non più
di cinque generazioni. In totale quindi le generazioni che vengono
memorizzate non sono più di undici, soltanto che a ogni nuova
generazione una generazione di antenati scompare (cade, per così
dire, in un baratro istituzionalizzato di oblio), anche perché,
dopo cinque generazioni, le obbligazioni contratte cadono, diremmo
noi, in prescrizione. Questo sistema di memorizzazione evita che
si consolidino nel tempo forme ereditarie di disuguaglianza (v.
Douglas, 1986).
A parte i casi di società preletterate che hanno potuto essere
studiate dagli etnologi e dagli antropologi in epoca moderna (e
che ormai sono tutte praticamente scomparse o si sono trasformate
per effetto del contatto con società letterate), quello che noi
sappiamo delle società preletterate dell'antichità è dovuto al
fatto che a un certo punto la tradizione orale, prima di
interrompersi, è stata fissata in qualche testo scritto.Non solo i
poemi omerici, ma neppure la Bibbia sarebbero arrivati fino a noi
se inizialmente varie generazioni di mnemones (così erano chiamati
nell'antica Grecia coloro che erano incaricati di tramandare il
sapere) non avessero incamerato nelle cellule del loro cervello,
cioè imparato a memoria, migliaia e migliaia di versi. Con la
diffusione della scrittura (i primi testi giunti fino a noi
risalgono alla fine del quarto millennio a.C., ma l'invenzione è
senza dubbio molto precedente e si è diffusa solo lentamente), la
conservazione e la trasmissione della memoria passa dallo mnemon
allo scriba. La memoria cioè può avvalersi, come diremmo noi oggi,
di un supporto materiale esterno al cervello umano e rimanere
disponibile per le generazioni future finché si conserva il testo
nel quale è depositata e, anche e soprattutto, la chiave
interpretativa per poterlo decifrare.
I codici mesopotamici, dai quali possiamo ricavare indicazioni
sulla organizzazione politico-giuridica di quegli imperi, le
iscrizioni sui monumenti funerari che comunicano ai posteri la
memoria delle opere del defunto, fino all'opera degli annalisti
cinesi o romani che annotavano in ordine cronologico gli
avvenimenti salienti della loro epoca, sono tutti esempi della
grande svolta rappresentata dalla comparsa della scrittura.Il
secondo grande spartiacque che ha modificato le forme della
memoria sociale è senz'altro l'invenzione della stampa. Finché la
cura della memoria era lasciata agli amanuensi e ai copisti che,
soprattutto nei conventi, avevano trasferito i testi antichi dal
papiro alla 'pergamena' (da Pergamo, dove era una delle
biblioteche più antiche), la memoria culturale rimaneva comunque
circoscritta a una cerchia ristrettissima di persone. La
diffusione della stampa nell'Europa del Cinquecento fu
estremamente rapida e, da allora, la memoria culturale è
depositata negli archivi e nelle biblioteche a disposizione di
tutti coloro che hanno voglia e capacità di utilizzarla. Le
invenzioni della fotografia e della riproduzione sonora, che hanno
permesso di fissare la memoria di immagini e suoni, sono fatti
assai vicini ai nostri giorni, come pure l'invenzione del
calcolatore elettronico che permette di conservare le
informazioni, tanto linguistiche quanto iconiche e sonore,
opportunamente codificate.
Tuttavia anche questa memoria è affidata a materiale fragile e
facilmente deperibile (v. Gregory e Morelli, 1994). Soprattutto da
quando verso la metà del secolo scorso si è incominciato a usare
carta ricavata dalla pasta di legno per la stampa dei libri, si è
affidata la memoria a un materiale assai più labile delle antiche
tavolette di argilla, del papiro o della pergamena. Gli esperti
calcolano che circa un quarto del patrimonio librario delle
maggiori biblioteche del mondo è a rischio di estinzione, se non
si troveranno sistemi efficaci per fermare il processo di
acidificazione della carta o non si provvederà presto al
trasferimento di intere biblioteche su microfilm o supporti
magnetici, anch'essi, tuttavia, soggetti a rapido deterioramento.
A parte il rapido deperimento fisico delle tracce magnetiche (che
impone comunque una frequente e periodica copiatura), la rapida
evoluzione tecnologica sia nel campo delle macchine (hardware) che
in quello dei programmi di codifica e decodifica delle
informazioni (software) pone il problema che in futuro potrebbe
esserci preclusa la possibilità di accedere alle informazioni
depositate nelle memorie elettroniche. Già questo succede oggi con
testi memorizzati solo dieci anni fa con programmi e macchine
ormai irrimediabilmente fuori uso. Archivisti e bibliotecari,
soprattutto di fronte all'enorme massa di informazioni che vengono
continuamente prodotte dalle più diverse fonti, dovranno decidere
di volta in volta ciò che è destinato all'oblio e ciò che merita
di essere conservato. Saranno loro i filtri della memoria
culturale dell'umanità. Poiché non è pensabile l'istituzione di un
'Ministero mondiale della memoria' che, non si sa in base a quali
criteri, stabilisca quello che merita di essere conservato per il
futuro dell'umanità, oppure quello che può essere tranquillamente
dimenticato, il destino della memoria culturale è affidato al
caso, cioè a un numero grandissimo di decisioni prese da ogni
archivista e bibliotecario in ogni angolo del mondo (v.
Martinotti, 1994). Non dobbiamo allarmarci oltre misura per questi
rischi di perdita della memoria: non tutto merita di essere
ricordato, non possiamo sovraccaricare la memoria, soprattutto
quella delle generazioni future, di informazioni inutili ed
eccedenti. Per poter ricordare bisogna anche saper dimenticare (v.
Wiehl, 1988).
4. Memoria, abitudine e tradizione
Prima di affrontare la tematica della memoria sociale è necessario
discutere alcune distinzioni concettuali per cercare di mettere
ordine in un campo dove è facile la confusione. È noto come certe
caratteristiche comportamentali della specie umana siano iscritte
nel patrimonio genetico e si manifestino in quelli che la
psicologia tardo-ottocentesca chiamava 'istinti'. Ora, vi sono
molti altri tratti comportamentali che certo non sono trasmessi
per via genetica, ma sono appresi culturalmente da pressoché tutti
gli individui che nascono e crescono in una determinata cultura.
Parliamo in questo caso di abitudini e tradizioni. In entrambi i
casi si tratta di modelli di comportamento adottati nel passato
che vengono trasmessi di generazione in generazione attraverso il
processo di socializzazione. Nel corso di questo processo gli
esseri umani apprendono a tappe accelerate gran parte di quello
che la specie in generale, e la specifica società in particolare,
hanno accumulato nel corso dell'evoluzione culturale, salvo quei
tratti che sono stati scartati nei vari passaggi generazionali.
Questa caratterizzazione tuttavia è ancora troppo generale. È
infatti necessario introdurre qualche criterio per poter
distinguere tra abitudini e tradizioni.
La gran parte del sapere trasmesso dal passato si presenta sotto
forma di abitudine, vale a dire come un sapere che non richiede,
per tradursi in azioni e comportamenti, processi di riflessione e
di decisione. Le abitudini non sono istinti, in quanto sono
costituite da informazioni apprese e non trasmesse geneticamente,
ma hanno in comune con gli istinti il fatto che per venir attivate
non richiedono il pensiero riflessivo. Evidentemente le abitudini
sono di grande aiuto nella vita di tutti i giorni; se ogni nostro
atto dovesse essere oggetto di riflessione e di scelta, ciò
richiederebbe un tale dispendio di energie e di tempo da impedirci
effettivamente di agire. Le abitudini liberano la nostra mente dai
compiti di routine e permettono la concentrazione sugli atti che
richiedono l'impiego di volontà e deliberazione. Si tratta, in
altre parole, di modelli di comportamento che vengono attivati
automaticamente, senza che noi abbiamo bisogno di richiamarli
consapevolmente.
È evidente, tuttavia, che noi possiamo acquisire delle abitudini solo se possiamo dare largamente per scontata e affidabile la realtà che ci circonda, se possiamo assumere che nella maggior parte dei casi gli oggetti e le persone con le quali entriamo in rapporto non ci riserveranno delle sorprese, ma risponderanno alle aspettative che implicitamente nutriamo nei loro confronti. Le abitudini ci consentono di regolare il nostro comportamento senza essere consapevoli di seguire delle regole e senza sapere quali regole stiamo seguendo, e assumiamo tacitamente che anche gli altri facciano lo stesso. Senza quel particolare tipo di memoria incorporato nelle abitudini, la vita sociale sarebbe impossibile.
Le abitudini vengono spesso confuse con le tradizioni.
Lo stesso Max Weber, nel definire l'agire tradizionale nel primo
capitolo di Economia e società, parla di un agire determinato "da
un'abitudine alla quale ci si è assuefatti" ("durch eingelebte
Gewohnheit"), anche se poi in un passo successivo della parte
dedicata alla sociologia del diritto parla del passaggio tra
costume (Sitte) e convenzione (Konvention) come di un processo di
"formazione di tradizione" (Traditionsbildung) che presuppone
l'assunzione consapevole di una norma dell'agire. Il passaggio,
sempre secondo Weber, risulta comunque in ogni caso fluido
(überall flüssig). Anche Edward Shils (v., 1981), che pure critica
Weber per non aver adeguatamente distinto tra abitudine e
tradizione, definisce poi la tradizione in termini molto generali
come qualsiasi cosa che il passato lascia in eredità al presente,
comprendendo quindi anche le abitudini.
Per uscire da questa confusione concettuale sembra opportuno
riservare il termine 'tradizione' a quella parte della cultura che
viene trasmessa di generazione in generazione in quanto ad essa
viene consapevolmente attribuito un valore. Molti tratti culturali
si estinguono nel tempo, per così dire, di morte naturale, senza
che nessuno si preoccupi della loro scomparsa, perché risultano
inadeguati come modelli per affrontare i problemi del presente. Se
lasciano delle tracce, queste potranno essere conservate a futura
memoria negli archivi, nei musei e nelle biblioteche (su questo
torneremo in seguito). Le società, come gli individui, sono dotate
della capacità di dimenticare e solo così possono affrontare con
strumenti adeguati i nuovi problemi che continuamente si
presentano.
Vi sono però altri tratti culturali la cui eventuale perdita viene
valutata come una minaccia proprio perché a essi viene attribuito
un valore; sono questi tratti che vengono a far parte della
tradizione e rispetto ai quali vengono messe in atto pratiche
consapevoli volte alla loro conservazione e trasmissione.
Questa distinzione, del resto, si riscontra anche nel linguaggio
comune. A nessuno, ad esempio, verrebbe in mente di dire che nelle
società moderne vi è una tradizione di insegnare ai bambini nelle
scuole la lettura e la scrittura. Questa pratica è da noi così
universalmente accettata e data per scontata che la riteniamo
'naturale' e infatti le abitudini vengono definite 'naturali' per
indicare il fatto che non vengono messe in discussione, non sono
cioè oggetto di deliberazione e di scelta. Diciamo, invece, non a
caso, che vi è una tradizione dell'insegnamento delle lingue
antiche (da noi il greco e il latino) proprio perché a questo
insegnamento non viene attribuito un valore universale, ed esso,
per essere mantenuto, richiede di essere deliberatamente difeso.
È pur vero che il confine tra abitudini e tradizioni resta fluido,
sia perché vi sono pratiche difficilmente ascrivibili all'una o
all'altra categoria (ad esempio, la celebrazione del Natale o
della Pasqua hanno senza dubbio perso gran parte del loro
significato tradizionale per trasformarsi in pratiche di routine),
sia perché certe abitudini si possono trasformare in tradizioni e
viceversa.
Tuttavia, la distinzione in termini analitici è importante per
almeno due ragioni. Primo, perché permette di liberare il concetto
di tradizione dalla contrapposizione tradizione-modernità. Se la
tradizione è quella parte dell'eredità del passato che viene
consapevolmente valorizzata nel presente, non solo non risulta in
sé incompatibile con la modernità, ma può addirittura diventare un
fattore che la favorisce (si veda, ad esempio, la rivitalizzazione
in senso 'moderno' di tratti tradizionali della famiglia
giapponese). Secondo, perché permette di riattualizzare una
distinzione, già avanzata da Bergson, tra memoria volontaria, che
richiede l'intervento di custodi, di interpreti e di mediatori, e
memoria involontaria, la cui trasmissione avviene metaforicamente
in modo 'naturale'.
5. Memoria sociale e identità collettiva
Come abbiamo visto, in biologia si può parlare di memoria genetica
sia individuale (iscritta nel patrimonio genetico trasmesso dai
genitori ai figli), sia di una determinata popolazione, sia di
un'intera specie (ad esempio, quella della specie Homo sapiens
sapiens). Analogamente, oltre che della memoria individuale, i cui
meccanismi sono stati studiati dalla psicologia sperimentale, si
può parlare anche di una memoria di gruppo o, più in generale, di
una memoria sociale, e ci si può chiedere quali siano i rapporti
tra memoria individuale e memoria sociale.
Il primo studioso ad aver fornito un'analisi approfondita della memoria come fenomeno sociale è senza dubbio Maurice Halbwachs, un sociologo francese di scuola durkheimiana. Nel suo primo lavoro importante sull'argomento (Les cadres sociaux de la mémoire, del 1924) egli parte da una critica all'analisi filosofica che Bergson aveva condotto dei fenomeni della memoria. Per Bergson, accanto alla memoria che condividiamo coi nostri simili e con i membri dei gruppi ai quali apparteniamo, vi è una memoria squisitamente individuale, non riducibile e non riconducibile alla nostra esperienza sociale. Coerente con la propria impostazione durkheimiana, Halbwachs sostiene invece che anche i ricordi più individuali sono mediati dall'appartenenza di gruppo e possono essere rievocati solo attraverso le interazioni sociali con coloro che condividono gli stessi ricordi. Il passaggio dalla memoria individuale alla memoria collettiva avviene infatti attraverso la mediazione dei quadri sociali, cioè delle categorie a priori (il linguaggio, le rappresentazioni sociali dello spazio e del tempo, le classificazioni delle cose del mondo) che consentono sia la fissazione, sia la rievocazione dei ricordi.
Nell'argomentare la
sua tesi, Halbwachs si serve essenzialmente di un procedimento
introspettivo che scava nei sottili meccanismi psichici della
introiezione e della rievocazione per dimostrare che anche i
processi psichici apparentemente più individuali sono socialmente
prodotti. Almeno in questa sua prima formulazione, più che una
sociologia della memoria, quella di Halbwachs appare quindi come
una psicologia sociale del ricordo o, meglio, del
ricordarsi.Nell'opera postuma, e incompiuta, sulla Mémoire
collective del 1949 (Halbwachs morì a Buchenwald nel 1945) egli
adotta un'impostazione più marcatamente sociologica. Accanto ai
'quadri sociali della memoria' appaiono in primo piano le forme
oggettivate della memoria nelle quali si esprimono le identità di
gruppo. In ogni società alla pluralità dei gruppi (classi, ceti,
istituzioni, comunità di credenti, associazioni, famiglie, ecc.)
corrispondono altrettante memorie collettive (versioni e
ricostruzioni del passato proprio e dell'intera società) e si
generano processi di gerarchizzazione dinamica dei quadri della
memoria collettiva riconducibili ai conflitti, alle tensioni e ai
compromessi all'interno di ogni singolo gruppo e tra i diversi
gruppi. Halbwachs quindi indica come campo specifico di una
sociologia della memoria lo studio delle pratiche sociali che
conducono alla costruzione di queste memorie collettive, alla loro
combinazione e influenza reciproca e al loro mutamento. Egli
analizza una serie di ambiti dove queste pratiche danno luogo alla
formazione di memorie collettive: la famiglia (il culto degli
antenati, la ricostruzione dell'albero genealogico, la
conservazione dell'albo delle fotografie di famiglia, la
trasmissione di oggetti simbolici di generazione in generazione),
il gruppo religioso (dove il corpo sacerdotale custodisce le sacre
scritture, ne fornisce l'interpretazione ufficiale e gestisce
l'apparato rituale che rinnova costantemente la memoria dei
fedeli), il gruppo professionale (dove la memoria si conserva
attraverso la trasmissione di un patrimonio di competenze e di
simboli, come, ad esempio, il sistema della notazione musicale nel
caso dei musicisti), la classe sociale (l'esempio è quello della
classe operaia la cui memoria è subalterna e colonizzata in quanto
riflette una condizione sociale di subordinazione).
Da questa sommaria ricostruzione di un pensiero in realtà assai
articolato e complesso possiamo riassumere in tre punti il
contributo di Halbwachs allo studio della memoria: 1) gli
individui ricordano perché sono in grado di organizzare la memoria
in base a criteri (i quadri sociali) che condividono con i loro
simili; 2) la memoria non consente di rivivere il passato, ma di
ricostruirlo in base alle esigenze del presente e alle
aspettative/intenzioni del futuro; 3) la memoria è una componente
essenziale dell'identità di gruppo. Quest'ultimo punto è
evidentemente cruciale per un approccio sociologico allo studio
della memoria.Che l'identità (quale che sia l'unità alla quale ci
si riferisce) sia una costruzione temporale nella quale si
combinano le dimensioni del passato, del presente e del futuro e
che quindi la memoria, come pure le aspettative e il progetto, ne
sia una componente essenziale, è un punto di partenza che non
richiede in questa sede ulteriore approfondimento. Vi è un'immensa
letteratura, anche assai eterogenea, che va dagli studi di
psicopatologia clinica sull'amnesia (v., per tutti, Wilson, 1987;
v. Parkin, 1987) agli studi filosofici sul concetto stesso di
identità (v., per citare solo uno dei più recenti, la discussione
contenuta in Parfit, 1984), che non lascia dubbi sull'esistenza di
un nesso profondo tra memoria e identità, al punto che qualcuno
tende perfino a confondere i due concetti. In realtà, però,
l'identità di qualsiasi attore (individuo o gruppo) si estende in
entrambe le dimensioni del passato e del futuro, ciò che varia è
il rapporto tra memoria e aspettative/progetto. Vi sono gruppi nei
quali l'appartenenza è determinata prevalentemente in base a
criteri ascrittivi, ai quali si appartiene per nascita
indipendentemente dalla volontà dei singoli membri, e che
sviluppano la loro identità soprattutto nella dimensione della
memoria, mentre vi sono altri gruppi, come ad esempio le
associazioni finalizzate al conseguimento di uno scopo comune, che
guardano più al progetto e al futuro che non al passato per
definire la propria identità. Gruppi puramente ascrittivi, così
come 'pure associazioni di scopo' (reine Zweckverbände, per
riprendere l'espressione usata da Weber) rappresentano gli estremi
di un continuo e quindi possono essere considerati dei 'tipi
ideali'; i gruppi reali si collocano in genere in una posizione
intermedia tra questi due estremi e mostrano un'interdipendenza
più o meno stretta tra le dimensioni della memoria e del progetto.
Un esempio particolarmente illuminante del rapporto talvolta
conflittuale tra memoria e progetto nella costruzione
dell'identità collettiva è fornito dallo studio dei partiti
politici nei sistemi democratici, fondati su libere elezioni. La
strategia elettorale di un partito persegue un duplice fine:
attirare consensi da elettori di altri partiti e da nuovi
elettori, conservare il più possibile i consensi dei propri
elettori tradizionali. Per fare questo le parole d'ordine nelle
campagne elettorali devono contenere messaggi di due tipi: da un
lato devono confermare la fiducia di chi è già stato convinto,
dall'altro lato devono creare fiducia in chi non lo è ancora. Il
primo tipo di messaggi deve fare appello alla tradizione e alla
memoria collettiva del partito, il secondo deve porre l'accento
sul progetto o sul programma per il futuro. In tempi 'normali' i
due tipi di messaggi possono integrarsi ed equilibrarsi
reciprocamente, mentre si pongono seri problemi quando il partito
deve far fronte a una svolta strategica che mette in gioco la sua
stessa identità (ad esempio, un cambiamento di alleanze). In
questo caso la sua storia deve essere rivisitata, gli accenti e i
silenzi spostati, così come devono essere modificati i programmi
di indottrinamento per la formazione dei nuovi militanti. Questi
processi non avvengono senza difficoltà, contrasti e resistenze
interne che mettono a dura prova la fedeltà degli antichi
militanti e sostenitori, alcuni dei quali non si riconosceranno
più nella nuova entità che emerge dalla 'svolta' e abbandoneranno
il partito. Le chances di sopravvivenza del partito dipenderanno
dalla sua capacità di far fronte al problema della divaricazione
tra memoria e progetto.
Un altro esempio particolarmente significativo per illustrare
l'interdipendenza tra memoria e progetto è fornito dai processi di
costruzione della memoria storica delle nazioni che si sono
liberate nella seconda metà del XX secolo dal dominio coloniale.
Si tratta spesso di nazioni la cui popolazione è di origine etnica
assai eterogenea, la cui unità territoriale è il risultato della
politica della potenza coloniale, il cui passato precoloniale si
fonda quasi esclusivamente su una tradizione orale, le cui élites
si sono formate prevalentemente nei luoghi della cultura
occidentale e la cui indipendenza si è realizzata mediante una
serie di confronti (talvolta anche militari) con la potenza
coloniale. La mobilitazione delle forze disponibili nella lotta
per l'indipendenza è in genere avvenuta attraverso l'elaborazione
di una 'promessa', vale a dire di una rappresentazione del futuro
possibile per la società postcoloniale.
Ottenuta l'indipendenza, le élites di questi paesi hanno senza
dubbio dovuto far fronte a un problema di identità nazionale. Non
solo hanno probabilmente adottato una bandiera e un inno nazionali
(cioè dei simboli di unità), ma hanno anche provveduto a scrivere,
o riscrivere, la storia nazionale, la quale, pressoché
inevitabilmente, risulterà periodizzata in tre fasi: il passato
precoloniale, l'epoca della dominazione straniera, la lotta per
l'indipendenza. Le inevitabili tensioni e i conflitti del presente
e il bisogno di legittimazione che le nuove élites avvertono
presiedono a quest'opera di elaborazione dell'identità storica. È
facile ipotizzare come il passato precoloniale venga ricostruito
come l'età dell'oro e dell'armonia originaria, l'epoca coloniale
come il periodo oscuro al quale far risalire le attuali divisioni
e la fase della lotta per l'indipendenza come la fase della
'ri-nascita', culminata nel 'giorno dell'indipendenza' che verrà
in seguito celebrato ritualmente come simbolo dell'unità. Questa
versione della storia nazionale sarà quella che verrà insegnata
nelle scuole alle nuove generazioni, affinché in esse si rinnovi e
si rafforzi il senso dell'appartenenza comune.
Non si deve pensare tuttavia che l'uso della storia per la
costruzione di memorie e identità collettive riguardi
esclusivamente i 'paesi nuovi'. Anche negli Stati del Vecchio e
del Nuovo Continente, da quelli di più antica (come la Gran
Bretagna, la Francia, la Spagna) a quelli di più recente
formazione (come gli Stati Uniti, la Germania e l'Italia), il
rapporto tra storia, memoria e identità nazionali risulta quanto
mai stretto.A questo proposito Eric J. Hobsbawm (v. Hobsbawm e
Ranger, 1983, p. 1) propone di usare l'espressione "tradizioni
inventate" per indicare quell'insieme di pratiche che tendono a
inculcare valori e norme di comportamento attraverso la
ripetizione di atti che implicano una continuità con un passato
spesso del tutto immaginario, oppure radicalmente ricostruito e
interpretato. Ciò si verifica soprattutto in quelle situazioni
dove trasformazioni sociali rapide e improvvise indeboliscono la
presa delle 'vecchie' tradizioni e impongono il ricorso a un
passato 'mitico' per ricostruire il senso della continuità. In
generale, ogni collettività umana, tanto più se organizzata in
forma di Stato, ha bisogno di giustificare a sé e agli altri le
ragioni della propria esistenza e della propria persistenza nel
tempo, al di là del ricambio continuo dei membri che la
compongono, soprattutto quando i processi di mutamento sociale
sottopongono a tensione la stabilità del vincolo societario. Il
ricorso alla storia e la trasformazione della storia in memoria
collettiva rispondono a questo bisogno di legittimazione. Il
rapporto tra storia e memoria è tuttavia assai problematico.
6. Storia e memoria
"Storia e memoria - scrive Le Goff (v. AA.VV., 1990, p. XVI) - si
nutrono l'una dell'altra, ma non si confondono tra loro". Come
abbiamo accennato nel capitolo precedente, la storia è ed è stata
di fatto manipolata, e in molti casi letteralmente falsificata,
dal potere politico per scopi ideologici di legittimazione. In
particolare, i regimi totalitari che si sono succeduti nel XX
secolo (fascismo, nazismo e stalinismo non si differenziano molto
da questo punto di vista) hanno asservito brutalmente la
storiografia per costruire qualche mitico passato, celebrare le
proprie glorie e nascondere le proprie nefandezze. In questi casi
la manipolazione della storia serve per manipolare la memoria.
Nelle società pluralistiche e democratiche, dove i vari ambiti
della vita sociale mantengono gradi variabili di reciproca
autonomia, anche il lavoro dello storico gode di questa relativa
autonomia ed è in grado di svincolarsi dalle richieste, implicite
o esplicite, di legittimazione. "A fianco della storia manipolata
dai vari poteri - scrive sempre Le Goff nel passo citato - bisogna
continuare a costruire un sapere storico fondato sulla ricerca
della verità". Significativo a questo proposito è il richiamo
implicito ai principî deontologici e ai valori della comunità
scientifica. Tra storia (intesa qui sempre come storiografia) e
memoria è necessario che sia mantenuta una tensione, che non si
generi identificazione. Il rigore critico del mestiere dello
storico richiede intelligenza nella formulazione delle ipotesi,
scrupolosità nella raccolta e nell'analisi delle fonti e nella
valutazione della loro attendibilità, cautela nel suggerimento
delle interpretazioni. La memoria, invece, risponde a esigenze e a
criteri diversi. Come scrive Pierre Nora, "la memoria è la vita,
sempre invariabilmente riferita a gruppi viventi e, a questo
titolo, è in evoluzione permanente, aperta alla dialettica del
ricordo e dell'amnesia, inconsapevole delle deformazioni che
subisce, vulnerabile a tutte le utilizzazioni e manipolazioni,
suscettibile di lunghe latenze e di improvvisi risvegli. La storia
[invece] è la ricostruzione sempre problematica e incompleta di
ciò che è stato" (v. Nora, 1984-1986, p. XIX).
Su un punto, tuttavia, storia e memoria inevitabilmente
convergono, e spesso collidono: l'insegnamento della storia.
Attraverso l'insegnamento della storia, infatti, assai più che
attraverso altri tipi di insegnamento, non si trasmettono solo
competenze e conoscenze, ma anche valori e atteggiamenti che hanno
a che fare con la sfera civile e politica. Quale storia insegnare
e come? La storia del genere umano e di tutte le grandi civiltà,
oppure la storia della civiltà occidentale, dell'Europa, oppure
soltanto la storia nazionale? Fino a quando risalire
nell'antichità e nella preistoria, e fino a quando spingersi nella
contemporaneità e nell'attualità? Restare ancorati alla
tradizionale storia politico-militare, oppure allargare lo spettro
alla storia economica, sociale, della cultura e delle mentalità?
Quale 'memoria', in definitiva, affidare alle future generazioni e
in funzione della formazione di quali 'identità collettive'? Non è
certo questa la sede per discutere e tanto meno per tentare una
risposta a questi interrogativi. Tuttavia, essi segnalano quanto
sia problematico il rapporto tra storia e memoria e come solo
criteri selettivi ancorati a qualche visione del presente e del
futuro siano in grado di indirizzare la ricerca delle risposte.
7. Memoria e modernità
Dalla rivoluzione industriale in poi, ma in realtà
dall'inizio dei lunghi processi che questa rivoluzione hanno
preparato nei secoli precedenti, le società moderne sono entrate
in una fase in cui i mutamenti si succedono a ritmi sempre più
accelerati. Più che quello di velocità, è il concetto di
accelerazione ad essere in grado di descrivere adeguatamente i
radicali cambiamenti che le nostre società hanno subito negli
ultimi due secoli. Soltanto poche generazioni fa, la vita dei
contadini nelle campagne non era poi così diversa da quella che
avevano vissuto i loro predecessori anche mille anni prima. Ma
anche nelle città, dove la dinamica sociale è stata da sempre più
vivace che non nelle campagne, i cambiamenti erano difficilmente
percepibili nell'arco di una singola vita. Il mondo che un
individuo lasciava in eredità ai propri figli era quasi identico
al mondo che aveva ricevuto in eredità dai genitori; nel corso di
una vita umana (peraltro mediamente assai più breve della nostra),
il mondo esterno restava pressoché immutato. La nostra esperienza
è assai diversa. Noi vediamo il mondo cambiare incessantemente
sotto i nostri occhi e solo la fantascienza ci aiuta a immaginare
il mondo nel quale abiteranno i nostri figli e nipoti. Questa
"grande trasformazione", come l'ha chiamata K. Polanyi, ha
senz'altro modificato anche il nostro modo di percepire il tempo e
le funzioni della memoria. Vivendo in un mondo che sappiamo
provvisorio, in cui il futuro è incerto e il passato diventa
rapidamente obsoleto, operiamo in una dimensione temporale
essenzialmente centrata sul presente (v. Jedlowski, 1989).
Nell'ansia del futuro, si pensi appunto al 'futurismo', il passato
viene cancellato, quando non intenzionalmente negato. Eppure,
proprio in questa situazione nasce, paradossalmente, un bisogno
nuovo di memoria.
"Non si parla tanto di memoria che quando non ce n'è più [...] vi
sono dei luoghi della memoria, perché non ci sono più ambienti
della memoria", scrive P. Nora (v., 1984-1986, p. XVII)
nell'introduzione a un'opera imponente sui luoghi della memoria
della Francia repubblicana. Da Proust a Musil a Benjamin, la
nostalgia del 'tempo perduto' è un tema ricorrente nella
letteratura del Novecento. Ma anche in altri campi si afferma la
tendenza alla conservazione delle tracce, dei manufatti, delle
informazioni. Non vi è epoca che, come l'attuale, abbia sviluppato
la stessa cura nella conservazione e nel restauro dei monumenti,
così come nell'organizzazione di musei, archivi e biblioteche.
Ogni epoca si è sovrapposta alle precedenti, spesso cancellandone
le tracce; si pensi, per fare solo qualche esempio, all'uso che i
latini hanno fatto dei templi greci o al 'rispetto' che gli
architetti del barocco hanno mostrato nei confronti delle chiese
gotiche, adattandole al loro nuovo modo di sentire lo spazio e la
religiosità. Nell'epoca moderna si sviluppa invece una forma di
'culto' della memoria del tutto nuovo, che diventa un tratto
caratteristico della modernità stessa e che assume forme
diversissime e spesso anche contraddittorie: dalla ricostruzione
'filologica' di monumenti secondo il principio 'dov'era, com'era',
al restauro delle opere d'arte, all'adozione imitativa di modelli
e stili di epoche passate (ad esempio il neoclassico o il
neogotico), dalla tutela dei 'centri storici' alla diffusione
dell'antiquariato, dalla fondazione di musei per ogni tipo di
vestigia all'interesse per la 'storia orale', fino alle forme più
banali di collezionismo.
La ragione di questo culto del tutto moderno per la memoria non è
difficile da spiegare. Si ricordi quanto abbiamo scritto sopra in
merito alla distinzione tra abitudine e tradizione. In un'epoca,
come l'attuale, di innovazioni continue in ogni ambito che
modificano le pratiche stesse della vita quotidiana, il senso
della continuità, indispensabile per mantenere stabile qualche
elemento di identità nel flusso del mutamento, non può più fare
affidamento sulla ripetizione spontanea e quasi automatica di
modelli tramandati. La tradizione e la memoria diventano oggetto
di azione consapevole e intenzionale, non tanto volta a ostacolare
il mutamento quanto a evitare che il mutamento diventi, attraverso
l'oblio del passato, un regresso a stadi più primitivi di civiltà.