Marxismo
www.treccani.it
Enciclopedia online
Insieme delle dottrine economiche, politiche, filosofiche elaborate da
K. Marx (e da F. Engels) e i loro sviluppi a opera degli intellettuali
che si sono richiamati a esse.
I primi marxisti
Durante la Prima Internazionale i sostenitori di Marx erano
definiti polemicamente marxisti dai loro avversari. Fu Engels a fornire
una prima sistematizzazione del m., con il saggio Anti-Dühring (1878) e
la pubblicazione del secondo e del terzo volume de Il Capitale
(1867-79). Il m., affermatosi nel socialismo tedesco e
nell'Internazionale, penetrò nella cultura europea, sviluppato da
intellettuali come K. Kautsky, G.V. Plechanov, A. Labriola, M. Adler
(1873-1937). Nel contesto della Seconda Internazionale E. Bernstein (I
presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, 1899)
attaccò l'ortodossia marxista, auspicando una declinazione del m. in
senso riformista. Contro i cd. revisionisti si schierarono Kautsky
(punto di riferimento dell'elaborazione politico-strategica ispirata al
m.) e R. Luxemburg.
La fine dell'ortodossia marxista
L'inizio del 20° sec. vide la disgregazione del m. della Seconda
Internazionale e l'emergere di nuove correnti: dopo la rivoluzione
russa del 1905, si consolidò la sinistra marxista radicale animata da
Luxemburg e da V.I. Lenin; negli stessi anni la socialdemocrazia russa
si divise (1902) nelle correnti bolscevica e menscevica, in polemica
sul ruolo della classe operaia nell'imminente processo rivoluzionario;
contemporaneamente si diffusero le tesi del francese G. Sorel
(Riflessioni sulla violenza, 1908), teorico del sindacalismo
rivoluzionario.
Tra Marx e Stalin
La crisi del m. si aggravò con la Prima guerra mondiale, in
seguito al voto dei socialdemocratici tedeschi a favore dei crediti di
guerra (che determinò il radicalizzarsi della polemica tra riformisti e
rivoluzionari) e si compì con la rivoluzione bolscevica (1917); negli
anni successivi si affermò il m. di Lenin, grazie alla fondazione della
Terza Internazionale (1919) e dei partiti comunisti. Negli anni Trenta
si cristallizzò nell'urss il cd. marxismo-leninismo, che assurse a
ideologia ufficiale del partito. Nel resto d'Europa la riflessione
critica sul m. fu condotta da intellettuali come l'ungherese G. Lukács,
il tedesco K. Korsch, l'italiano A. Gramsci, e dagli esponenti del cd.
austromarxismo (Adler, R. Hilferding, O. Bauer).
Dizionario di Filosofia (2009)
Termine usato per designare, generalmente, gli sviluppi e le
interpretazioni cui il pensiero di Marx ha dato luogo soprattutto dal
momento in cui, con la nascita dei primi partiti socialdemocratici, è
divenuto l’ideologia di larga parte del movimento operaio europeo.
L’influenza di Engels.
Questo processo di diffusione e propagazione ideologica, che ha
inizio specialmente dopo la costituzione della Seconda Internazionale
(Parigi 1889), è dominato nei primi anni dalla figura di Engels, che,
dopo la morte di Marx (1883), rimase l’autorità maggiore del m.
europeo. Alcuni suoi scritti di questo periodo – e, in partic., Der
Ursprung der Familie, des Privateigentums und des Staates (1884;
trad. it. L’origine della famiglia, della proprietà privata e
dello Stato), nonché il Ludwig Feuerbach (1888) –
esercitarono un’influenza decisiva sulla nuova generazione,
profondamente permeata di cultura darwinistica e che, per la generale forma
mentis positivistica dell’epoca, trovava particolarmente
congeniale ai propri interessi l’esposizione del m. in chiave di
filosofia generale e dialettica della natura, elaborata da Engels negli
ultimi anni della sua vita. Sia in Russia sia in Germania, cominciò
così ad affermarsi, a cavallo del secolo, un’interpretazione del
pensiero di Marx che respingeva in secondo piano l’analisi del
capitalismo, per dare invece rilievo ed evidenza a una sorta di
ontologia materialistica, suddivisa in filosofia della natura e
filosofia della storia. Ciò si verifica, con tratti più marcatamente
darwinistici, in Kautsky, che diverrà il maggiore rappresentante del m.
teorico in Germania nell’epoca della Seconda Internazionale, e con una
maggiore accentuazione, invece, nel senso del monismo filosofico in
Plechanov, principale esponente del m. in Russia, secondo il quale i
fondamenti ultimi del pensiero di Marx devono essere derivati dalla
filosofia di Spinoza e da quella di Schelling.
Il revisionismo e i suoi critici.
Entro questo orizzonte teorico, fortemente impregnato di positivismo
e di influenze della filosofia romantica della natura, prese corpo,
alla fine del 19° sec., il cosiddetto revisionismo, caratterizzato, in
filosofia, dal tentativo di combinare il materialismo storico con
l’etica kantiana, e, in economia e in politica, dall’esigenza di
sostituire alle finalità rivoluzionarie del m. una visione
gradualistica e riformatrice. I principali esponenti di questo
movimento sono C. Schmidt e Bernstein, il cui libro Die
Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie
(trad. it. I presupposti del socialismo e i compiti della
socialdemocrazia), apparso nel 1899, può essere considerato come
il testo programmatico di tutto questo indirizzo. Le tesi fondamentali
del revisionismo sono, da una parte, il rifiuto della «dittatura del
proletariato» in nome della legalità e del rispetto delle costituzioni
liberaldemocratiche; e, dall’altra, la spiegazione del fenomeno dello
sfruttamento come derivante non dall’organizzazione stessa della
produzione capitalistica, ma soltanto dall’ingiustizia nella
distribuzione: ingiustizia cui si può quindi porre rimedio con
opportuni interventi riformatori e legislativi. La lotta al
revisionismo, condotta in una prima fase da Kautsky e da Plechanov,
vide più tardi balzare in primo piano Lenin in Russia e Rosa Luxemburg
e Mehring in Germania. Il culmine della lotta coincise con gli anni
della Prima guerra mondiale, quando la maggior parte dei partiti
socialdemocratici europei appoggiarono i governi dei rispettivi paesi,
fino a votare in favore degli stanziamenti militari e dell’intervento
in guerra.
La codificazione del marxismo ortodosso: il materialismo
dialettico.
La vittoria della Rivoluzione d’ottobre (1917) in Russia e la
fondazione della Terza Internazionale, avvenuta a Mosca nel 1919,
aprirono una fase nuova, contrassegnata dalla rottura tra l’ala
socialdemocratica e l’ala comunista del movimento operaio. In campo
filosofico questa nuova fase vide una profonda reazione al revisionismo
e il ritorno al m. ortodosso, che, sulla scorta soprattutto degli
scritti filosofici di Engels, fu ormai definitivamente codificato nelle
forme del materialismo dialettico. Tra la Seconda e la Terza
Internazionale, con posizioni intermedie sia sul piano politico sia su
quello teorico rispetto alle ali estreme, si colloca il cosiddetto
«austromarxismo», che annovera tra i suoi principali esponenti il
filosofo M. Adler, gli economisti R. Hilferding e O. Bauer, nonché il
giurista K. Renner. In Italia, al volgere del secolo, emerse la figura
di Labriola, il primo originale filosofo marxista italiano, sulle cui
orme si porrà, più tardi, dopo la Prima guerra mondiale, Gramsci. Nei
primi lustri del 20° sec., in relazione ai complessi problemi sollevati
dai nuovi sviluppi dell’economia capitalistica, presero forma alcune
importanti analisi tese all’aggiornamento del Capitale di
Marx. Tra queste: Die Agrarfrage (1900; trad. it. La
questione agraria) di Kautsky; Das Finanzkapital (1909;
trad. it. Il capitale finanziario) di Hilferding; Die
Akkumulation des Kapitals (1913; trad. it. L’accumulazione
del capitale) di Luxemburg, nonché Imperializm, kak vysaja
stadija kapitalizma (1916; trad. it. L’imperialismo fase
suprema del capitalismo) di Lenin. Negli anni intorno al primo
decennio del secolo è da ricordare, infine, lo sviluppo, soprattutto in
Russia, di una particolare forma di revisionismo filosofico, a opera di
autori come Bogdanov, N. Valentinov e altri che risentivano
particolarmente dell’influenza della filosofia di Mach e di Avenarius
ed erano soprattutto interessati ai problemi della teoria della
conoscenza. Questa corrente, che si proponeva un aggiornamento della
teoria della conoscenza materialistica nel senso
dell’«empiriocriticismo» e che, a differenza del revisionismo di
Bernstein, era estranea a conclusioni politiche riformiste, fu
combattuta soprattutto da Lenin , il quale, proprio nel corso di questa
lotta, definì i lineamenti di quel materialismo dialettico, largamente
ispirato alle posizioni engelsiane, che in seguito alla sua morte, e al
successo della rivoluzione bolscevica, sarebbe poi divenuto l’ideologia
ufficiale dei partiti comunisti riuniti nella Terza Internazionale.
Il rinnovamento degli anni Venti del Novecento.
L’interpretazione del pensiero di Marx subì un radicale
rinnovamento all’inizio degli anni Venti in Europa centrale, a opera di
Lukács e di Korsch, principali esponenti del cosiddetto m.
occidentale. L’opera cui si deve far risalire il maggiore apporto,
in questo campo, è Geschichte und Klassenbewusstsein (1923;
trad. it. Storia e coscienza di classe) di Lukács. Ungherese
di nascita, ma formatosi a Heidelberg alla scuola di Rickert e di Lask,
Lukács rielaborò il pensiero di Marx alla luce delle correnti più
avanzate della filosofia europea. Egli sottopose a una critica radicale
il m. della Seconda Internazionale, respingendone le contaminazioni
positivistiche, nonché il trasferimento, da esso operato, del metodo e
delle categorie, proprie delle scienze naturali, nel campo della
riflessione storico-sociale. La sua critica, che investiva anche la
dialettica della natura elaborata da Engels, oltre che la concezione
della conoscenza come «rispecchiamento» della realtà, sviluppata, sulla
base degli scritti di Engels stesso, da Plechanov e da Lenin,
concludeva con una forte ripresa dei motivi dialettici della filosofia
di Hegel. Il divenire dialettico non è un requisito dell’oggettività
naturale; dialettica, piuttosto, è la relazione soggetto-oggetto e, più
ancora, la «totalità» storica che li ricomprende entrambi.
L’apprensione del mondo nelle forme del pensiero scientifico-naturale è
null’altro che il prodotto e l’effetto della «reificazione» che viene
impressa alla realtà dal feticismo connaturato alla produzione delle
merci. Questa reinterpretazione del pensiero di Marx, in chiave di
teoria dell’«alienazione» e del «feticismo», e con una forte
accentuazione dei motivi hegeliani in esso presenti, fu sottoposta a
una radicale condanna, negli anni intorno al 1925, nella Terza
Internazionale, soprattutto a opera di G.E. Zinov΄ev e degli altri
dirigenti bolscevichi levatisi a difesa dell’«ortodossia»
materialistico-dialettica. Analoga sorte incontrò l’altro esponente del
m. occidentale, Korsch, che, nel 1923, nello stesso anno in cui era
apparsa Storia e coscienza di classe, si era portato su
posizioni analoghe a quelle di Lukács, con il suo libro Marxismus
und Philosophie (trad. it. Marxismo e filosofia).
Senonché, a differenza di Korsch, che, approfondendo la sua critica
della base filosofica comune al m. della Seconda e della Terza
Internazionale, concluse, intorno al 1930, con l’abbandono del
movimento politico organizzato, Lukács autocriticò, in quegli stessi
anni, le sue posizioni filosofiche del 1923, abbracciando il
materialismo dialettico, al servizio del quale mise d’allora in poi la
sua attività storiografica, culminante, nel 1948, nella pubblicazione
di Der junge Hegel (trad. it. Il giovane Hegel e i
problemi della società capitalistica).
L’analisi del rapporto Hegel-Marx.
La vicenda attraversata dal m. occidentale, e, più ancora, gli
scritti giovanili inediti di Marx (in partic. i Manoscritti
economico-filosofici del 1844), la cui conoscenza si diffuse
soprattutto negli anni del secondo dopoguerra, contribuirono ad aprire
un nuovo capitolo nella storia del m. novecentesco, ponendo al centro
della discussione il controverso problema del rapporto Hegel-Marx. In
questo quadro le vicende del m. appaiono intrecciate, in modo più o
meno diretto, con il revival registrato dal pensiero di Hegel
negli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale, quando
l’interpretazione del suo pensiero passò dalle mani della storiografia
neoidealistica in quelle delle correnti esistenzialistiche e
fenomenologiche. Kojève e Hyppolite da una parte, Marcuse, Horkheimer e
soprattutto Adorno dall’altra, appaiono così (quantunque nessuno di
questi autori si richiami in senso stretto al m.) suscitatori di
interpretazioni del pensiero di Hegel che non mancano di condizionare,
per adesione od opposizione, gli sviluppi della discussione marxista
propriamente detta intorno al rapporto Hegel-Marx e ai problemi della
dialettica.
Il marxismo italiano, francese e anglosassone.
Tale orientamento è entrato progressivamente in crisi nel secondo
dopoguerra. In Italia – dove l’opera di Gramsci costituirà un punto di
riferimento essenziale per il m., grazie alla pubblicazione dei Quaderni
del carcere, avviata da P. Togliatti nel secondo dopoguerra – un
ruolo importante è stato svolto, in questo senso, da Della Volpe , il
quale (a partire da Logica come scienza positiva, 1950),
muovendo soprattutto dagli scritti giovanili di Marx, ha accentuato
fortemente il distacco della riflessione storico-sociale di Marx e del
metodo seguito nel Capitale dall’apriorismo speculativo della
dialettica idealistica hegeliana. L’impostazione dellavolpiana è stata
sviluppata e approfondita in modo particolare da Colletti .
Analogamente, in Francia si è assistito, a partire dagli anni Sessanta
del Novecento, soprattutto per opera di Althusser , alla nascita di un
nuovo orientamento del m. teorico, tendente a rimarcare – in contrasto
con le letture esistenzialistiche, umanistiche, neoidealistiche del
passato, e in sintonia con le posizioni epistemologiche dello
strutturalismo francese – il carattere scientifico dell’opera di Marx,
e a svalutare di conseguenza i motivi (alienazione, feticismo, ruolo
storico-politico della classe operaia) legati al dibattito filosofico
tradizionale. Partendo da premesse molto diverse (individualismo
metodologico, teoria delle scelte razionali), al rifiuto della
dialettica e della concezione finalistica della storia, è approdato
anche il principale indirizzo del m. filosofico anglosassone, il
cosiddetto m. analitico, teorizzato negli anni Ottanta del
20° sec. da Elster e da John Roemer (Analytical foundations of
marxian economic theory, 1981; A general theory of
exploitation and class, 1982; Value, exploitation and class,
2001, trad. it. Valore, sfruttamento e classe); i lavori del
secondo, in partic., si caratterizzano per il tentativo di sganciare il
concetto di sfruttamento dalla teoria del valore-lavoro e di aggiornare
la teoria marxiana delle classi.
Enciclopedia del Novecento (1979)
di Lucio Colletti
Sommario: 1. Il materialismo dialettico. 2. La
gnoseologia del materialismo dialettico. 3. L'influenza di Engels. 4.
Il marxismo come scienza. 5. Il marxismo occidentale. 6. Antonio
Gramsci. 7. Della Volpe e Althusser. 8. Questioni di teoria economica.
□ Bibliografia.
1. Il materialismo dialettico
Il marxismo teorico del XX secolo è prevalentemente, sebbene non
esclusivamente, ‛materialismo dialettico'. È materialismo dialettico
l'ideologia dei partiti comunisti. Materialismo dialettico, la
filosofia ufficiale di Stato, dove quei partiti hanno assunto il
potere. La dottrina deriva essenzialmente dagli scritti filosofici di
Engels: in particolare dall'Antidühring (1878), dal Ludwig
Feuerbach (1888) e dalla Dialettica della natura (1927).
Ma, se i principi sono del XIX secolo, l'emergere del materialismo
dialettico come dottrina a sé, distinta e sovrapposta al ‛materialismo
storico', è un fenomeno dei primi lustri del sec. XX: un fenomeno da
ascrivere, soprattutto, alle opere filosofiche di Plechanov e di Lenin.
La struttura della dottrina è quanto di più semplice si possa
immaginare. Dall'identità di materia e movimento (non c'è materia senza
movimento, né movimento senza materia), si passa all'affermazione che
il movimento è unità di ‛essere' e ‛non essere' insieme, cioè
contraddizione dialettica (un corpo in movimento ‛è' e ‛non è', in pari
tempo, nello stesso luogo); infine, dalla tesi che la materia è
movimento e il movimento una contraddizione, si conclude che la materia
è contraddizione dialettica.
Le fonti storiche della dottrina, che vengono indicate, sono in genere
due: da un a parte la filosofia di Hegel, dall'altra il materialismo
sei e settecentesco, culminato da ultimo nel materialismo di Feuerbach.
La dottrina sarebbe una sintesi creatrice di queste due diverse e
opposte tradizioni. Marx ed Engels avrebbero estratto dall'involucro
del sistema idealistico e conservatore di Hegel la dialettica (cioè il
metodo ‛rivoluzionario'), che in Hegel era mera dialettica dei
concetti, per estenderla al campo dei fenomeni storici e naturali.
Senza la dialettica, d'altro canto, il materialismo sarebbe
materialismo meccanicistico e metafisico.
Il primo dei principi che abbiamo sopra ricordato - l'identità di
materia e movimento - sembra a prima vista confermare l'ascendenza
della dottrina nel materialismo scientifico seicentesco. Il principio
parrebbe tolto, in particolare, dalla filosofia di Hobbes. In realtà, a
un esame più attento, si vede che non è così. La meccanica moderna
nasce con la formulazione del ‛principio d'inerzia'. Il movimento, per
essa, è uno ‛stato' tanto quanto la quiete. Nella nuova concezione
sviluppatasi da Galilei e Cartesio fino a Newton, il moto non è più,
come da Aristotele in avanti si era creduto, per circa duemila anni, un
processo di mutamento opposto a quello status vero e proprio
che è la quiete; bensì è anch'esso uno status, vale a dire
qualcosa che, come la quiete, non implica affatto mutamento. Nel caso
del materialismo dialettico, viceversa, la concezione del movimento non
è quantitativa ma qualitativa. Il movimento è qui, di nuovo (come già
per Aristotele), mutamento, cangiamento, divenire. Siamo, com'è
evidente, in un ambito di pensiero del tutto diverso.
Ciò è confermato anche dal secondo dei principi sopra ricordati: che il
movimento è unità di ‛essere' e ‛non essere' insieme, cioè
contraddizione. La tesi non ha nulla a che vedere col materialismo. Si
tratta del celebre argomento di Zenone d'Elea contro il movimento (il
movimento è impossibile perché è contraddizione), ripreso da Hegel -
sebbene con intenti opposti - nel libro II della Scienza della
logica. Hegel, che difende l'oggettività della contraddizione e,
quindi, della dialettica (‟Tutte le cose sono in se stesse
contraddittorie, e ciò propriamente nel senso che questa proposizione
esprima anzi, in confronto delle altre, la verità e l'essenza delle
cose"; v. Hegel, 1812-1816; tr. it., vol. II, p. 490), qui riprende
esplicitamente l'argomento di Zenone volgendolo ad altro significato:
‟Persino l'esterior moto sensibile - scrive - non è che il suo [della
contraddizione] esistere immediato. Qualcosa si muove, non in quanto in
questo Ora è qui, e in un altro Ora è là, ma solo in quanto in un unico
e medesimo Ora è qui e non è qui, in quanto in pari tempo è e non è in
questo Qui. Si debbon concedere agli antichi dialettici le
contraddizioni ch'essi rilevano nel moto, ma da ciò non segue che
pertanto il moto non sia, sibbene anzi che il moto è la contraddizione
stessa nella forma dell'esserci" (ibid., p. 491).
Che questa affermazione di Hegel sul movimento coincida, in tutto e per
tutto, col principio del materialismo dialettico, su richiamato, è
difficile negare. Il testo di Engels, cui si deve la formulazione anche
di questo principio, ne è la prova: ‟Lo stesso movimento - scrive
Engels nell'Antidühring - è una contraddizione; già perfino il
semplice movimento meccanico locale si può compiere solamente perché un
corpo in un solo e medesimo istante è in un luogo e nello stesso tempo
in un altro luogo, è in un solo e medesimo luogo e non è in esso. E il
continuo porre e nello stesso tempo risolvere questa contraddizione è
precisamente il movimento" (v. Engels, 1894; tr. it., p. 133).
Rimarrebbe ora da dire qualcosa sul terzo principio: che la materia è
dialettica. Ma, poiché questo principio chiama in causa, in modo ancora
più stretto, il rapporto del materialismo dialettico con Hegel, sarà
bene, forse, far precedere qualche considerazione.
Abbiamo già accennato, sia pure di scorcio, all'interpretazione della
filosofia di Hegel in chiave di contraddizione tra il metodo e il
sistema. Il metodo dialettico è l'elemento rivoluzionario, il sistema
idealistico quello conservatore. Si tratta di un'interpretazione di
antica data. Essa risale all'inizio degli anni quaranta del secolo
scorso, quando Engels era ancora nel Doktorenclub berlinese.
Venne poi ripresa da Engels stesso, in anni molto più tardi, in
occasione della pubblicazione del Ludwig Feuerbach. È una
formula interpretativa notevolmente diversa da quella cui Marx accenna
nel poscritto alla seconda edizione del Capitale, quando,
dopo aver osservato che in Hegel la dialettica ‟è capovolta", aggiunge:
‟bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio
mistico". È chiaro che, con la metafora del nocciolo e del guscio, qui
Marx accenna a una distinzione o, addirittura, a un taglio chirurgico
da operare ‛dentro' la dialettica stessa di Hegel. Il materialismo
dialettico, invece, non ha prestato attenzione alla differenza di
queste due formule. Esso ha preferito coniugarle e congiungerle
insieme. Il ‟nocciolo razionale" da salvare è così diventata la
dialettica tutt'intera, il ‟guscio mistico" da gettar via il sistema.
È evidente che, se la formula della contraddizione in Hegel tra il
metodo e il sistema deve significare qualcosa, essa non puo voler dire
altro che questo: che, a causa del sistema idealistico, la dialettica
in Hegel è costretta a essere soltanto dialettica di puri concetti,
dialettica di idee e non anche delle cose. L'originalità del
materialismo dialettico - allora - consisterebbe nel fatto di aver
applicato la dialettica alla materia, cioè di averla estesa dal campo
delle idee a quello dei fenomeni storici e naturali. È un fatto che
questo è il modo in cui il materialismo dialettico presenta se stesso.
Il tratto specifico, cui esso affida la sua originalità, è appunto la
dialettica della materia. Non a caso, una delle opere, che la dottrina
considera tra le più importanti, è la Dialettica della natura di
Engels. Senonché, a un esame attento, tutto si presenta meno semplice e
lineare.
Ciò che è difficile concedere, in particolare, è che nella filosofia di
Hegel manchi una dialettica delle cose. È vero il contrario: tutta la
sua filosofia è, in un certo senso, una dialettica della materia.
Abbiamo già incontrato, incidentalmente, l'affermazione, contenuta nel
libro II della Scienza della logica, che ‟tutte le cose sono
in se stesse contraddittorie". È un'affermazione di principio che
ricorre nei suoi scritti infinite volte. Hegel parla esplicitamente di
‟dialettica del finito". Ricorda, a ogni piè sospinto, che tutte le
cose hanno la dialettica in sé. ‟Quando delle cose diciamo che son
finite - scrive - con ciò s'intende [...] che la lor natura, il loro
essere, è costituito dal non essere" (v. Hegel, 1812-1816; tr. it.,
vol. I, p. 128). Non solo: all'affermazione di principio tien dietro
sempre l'esemplificazione. I casi più noti di dialettica della natura e
della materia son forniti da Hegel per primo. Gli esempi dei ‛salti'
dialettici della quantità in qualità e viceversa si trovano, per
indicare uno dei tanti riferimenti possibili, nel paragrafo del libro I
della Scienza della logica intitolato Linea nodale di
rapporti di misura.
Quasi superfluo, d'altra parte, ricordare la ricchezza strabocchevole
di casi di dialettica della natura nell'Enciclopedia delle scienze
filosofiche in compendio e, soprattutto, nelle Aggiunte (Zusdtze)
che ne integrano i paragrafi. Un esempio può valere per tutti: l'Aggiunta
1 al paragrafo 81 dell'Enciclopedia: ‟Tutto ciò che ci
circonda - scrive Hegel - può essere considerato come un esempio della
dialettica. Noi sappiamo che ogni finito, anziché essere un che di
saldo e di definitivo, è mutevole e caduco, e ciò non è altro che la
dialettica del finito, mediante la quale il finito, come ciò che è in
sé l'altro di se stesso, è sospinto al di là di ciò che è
immediatamente e ribalta nel suo opposto [...]. Noi affermiamo che
tutte le cose (cioè ogni finito in quanto tale) vanno alla lor fine, e
consideriamo perciò la dialettica come quella potenza irresistibile
universale dinanzi alla quale nulla può mantenersi, per saldo e sicuro
che possa anche sembrare. Con questa determinazione, naturalmente, la
profondità dell'essenza divina, il concetto di Dio non è ancora
esaurito; essa costituisce però, certamente, un momento essenziale in
ogni coscienza religiosa. - La dialettica, inoltre, dà prova di sé in
tutti i campi e le sfere particolari del mondo naturale e spirituale.
Così per esempio nel movimento dei corpi celesti. Un pianeta sta ora in
questo luogo, ma esso è in sé di essere anche in un altro luogo, e
porta questo suo esser altro all'esistenza col fatto di muoversi.
Parimenti dialettici si dimostrano gli elementi fisici, la
manifestazione della cui dialettica è il processo meteorologico. E
appunto questa dialettica è il principio che sta alla base di tutti i
restanti processi naturali e in forza del quale la natura è insieme
sospinta al di là di se stessa" (v. Hegel, 1927-1930, vol. I).
È un fatto che tutte le proposizioni principali del materialismo
dialettico si trovano già formulate nell'opera di Hegel. Non a caso,
quando Plechanov, nei suoi Contributi alla storia del materialismo,
deve indicare che cosa sia, per Marx ed Engels, la ‛dialettica', non
trova nulla di meglio che citare e trascrivere largamente (salvo,
beninteso, il riferimento a Dio e alla religione) dalla Aggiunta al
paragrafo 81 dell'Enciclopedia, che abbiamo sopra riportato. È
dubbio, quindi, che si possa parlare di un'originalità teorica del
materialismo dialettico. Il vero atto di fondazione della dottrina
dovrebb'essere, in ogni caso, anticipato, ben prima della nascita di
Marx e di Engels, all'opera stessa di Hegel.
Senonché, se non sono originali le proposizioni che il materialismo
dialettico deriva da Hegel, è originale il modo in cui esso le
interpreta. La filosofia di Hegel contiene una dialettica della materia
o del finito non nel senso che ciò sia in contraddizione col principio
idealistico che la ispira, bensì in pieno accordo e conformità con
esso. I modi della dialettica della materia sono, per Hegel (si veda il
suo scritto del 1801 sul Rapporto dello scetticismo con la
filosofia), i tropi stessi dello scetticismo antico. Il rapporto
essenziale che lega pirronismo e filosofia (idealismo), secondo Hegel,
è che, con i suoi argomenti, lo scetticismo antico si rivolge contro la
credenza del senso comune nell'esistenza delle cose, nella materialità
del mondo; che esso è scepsi contro la materia. Dialettizzando le cose,
mostrando che ciò che sembra ‛così e così' determinato ‛è' e ‛non è'
così, quello scetticismo, dice Hegel, fa vacillare la certezza del
senso comune nell'esistenza degli oggetti, sgombra il campo dal
materialismo e prepara così l'accesso alla vera filosofia. Il suo
limite è solo che, dopo aver operato quella distruzione, il pirronismo
- dice Hegel - conclude negativamente, mentre la vera filosofia, cioè
l'idealismo, va oltre: restaura il finito, prima dissolto
dialetticamente, presentandolo come un'oggettivazione dell'Idea, cioè
come incarnazione della Ragione dialettica (il Logos divino nel mondo).
In conclusione, la dialettica della materia adempie nella filosofia di
Hegel una duplice funzione. Da un lato, dimostra che il mondo
empirico-materiale non è una realtà autonoma o a sé stante, ma che
piuttosto, a fondamento di esso, stanno le stesse determinazioni
logico-razionali che sono proprie del pensiero dialettico, dell'Idea.
Dall'altro, conferisce significato oggettivo a queste determinazioni
logico-ideali (secondo il principio per cui la natura è l'alienazione
dell'Idea), mostrandole incarnate e realizzate in tutte le figure del
mondo storico e naturale. Il materialismo dialettico, invece, valuta
questa presenza della dialettica della materia in modo diametralmente
opposto. La interpreta come una forma superiore di materialismo;
dopodiché deve concludere che essa convive, nella filosofia di Hegel,
in aperto contrasto e contraddizione con il principio del suo
idealismo, tante volte proclamato.
Questa linea interpretativa, che abbiamo ora accennato, è alla base dei
celebri Quaderni filosofici, cioè dei commenti e delle note
che Lenin prese a Berna, nel 1914-1915, nel corso della lettura della Scienza
della logica, dell'Enciclopedia e di altre importanti
opere di Hegel. A commento delle pagine, per es., in cui Hegel illustra
l'affermazione che ‟tutte le cose sono in se stesse contraddittorie",
Lenin annota: ‟Movimento e ‛automovimento' [...], ‛trasformazione',
‛movimento è vitalità', ‛principio di ogni automovimento', ‛impulso' (Trieb)
al ‛movimento' e all'‛attività' - opposto al ‛morto essere': chi
crederebbe che questo è il nocciolo dell'‛hegelismo', dell'astratto e
astruso [...] hegelianismo? Questo nocciolo, lo si dovette scoprire,
afferrare, ‛salvare superandolo', liberarlo dalla scorza, ripulirlo,
cosa che Marx ed Engels hanno anche effettuato" (v. Lenin, 1936; tr.
it., p. 129). Come già Engels, quindi, anche Lenin vede in questa
pagina della Scienza della logica il ‟nocciolo" da salvare
della filosofia di Hegel, l'irrompere di un materialismo genuino in
contraddizione con il ‟guscio" del sistema e con la ‟mistica
dell'Idea". La convinzione che lo domina è quella stessa che egli ha
innalzato a criterio di tutta la sua lettura di Hegel: ‟mi sforzo in
generale di leggere Hegel materialisticamente; Hegel è il materialismo
messo testa all'ingiù (secondo Engels) - vale a dire elimino in gran
parte il buon Dio, l'assoluto, l'Idea pura, ecc." (ibid., p.
92).
Tuttavia i debiti del materialismo dialettico verso Hegel non si
arrestano qui. Un punto cruciale del pensiero hegeliano che passa di
peso nella nuova filosofia è quello della contrapposizione tra logica
cosiddetta formale e logica dialettica. Se ogni particolare, ogni
finito è unità di ‛essere' e ‛non essere' insieme, unità degli opposti
e, quindi, ‛totalità', è evidente che solo la logica dialettica si
rivelerà capace di afferrare la realtà in questa sua struttura
autocontraddittoria. La logica cosiddetta formale, la logica che si
ispira al principio di non-contraddizione, non potrà non manifestare,
in questo caso, la sua insufficienza. Essa è la logica che procede
secondo l'esclusione degli opposti contraddittori. Per essa, A esclude
non-A, l'‛essere' il ‛non essere' e viceversa. Riferita a quel tipo di
realtà, che abbiamo descritto, la logica della non-contraddizione deve
risultare necessariamente unilaterale e astratta. Unilaterale, perché
coglie solo un aspetto del reale, anziché quell'aspetto ‛e' il suo
contraddittorio, cioè la totalità; astratta, perché isola
quest'aspetto, cioè un estremo, separandolo dall'unità degli opposti di
cui esso fa parte.
In questa critica della logica formale Hegel è coerente con tutta la
sua filosofia. Il torto di quella logica, ai suoi occhi, è che essa è
legata ancora al materialismo ingenuo e al senso comune. Tenendo fermo
il particolare (il ‛morto essere') ed escludendo da esso l'opposto,
quella logica si rifiuta di risolvere il particolare nell'unità degli
opposti, cioè nella totalità. Oppone resistenza a che il particolare
sia esibito come il contrario di sé: cioè esso, che è la ‛parte', come
la ‛totalità'. In questo senso, il difetto della logica della
non-contraddizione è, per Hegel, che essa dà credito ancora alle
determinazioni empiriche, impedendo alla certezza sensibile di
vacillare, cioè di confondersi e annullarsi nella relazione dialettica.
Non a caso, Hegel chiama quella logica ‟dogmatica". La chiama così,
perché, coerentemente, il dogmatismo è, per lui, il materialismo e il
senso comune.
Questa stessa situazione si ripresenta anche nel materialismo
dialettico. Ma con una variante. Il materialismo dialettico, che,
giustamente, considera che il dogmatismo sia la metafisica, traduce il
discorso di Hegel in questa forma: la logica della non-contraddizione è
la metafisica e, viceversa, la logica dialettica, la logica
idealistica, è la logica veramente materialistica, la logica del
concreto. Ne risulta così questo paradosso (almeno per una filosofia
che intenda propugnare il materialismo): il senso comune, la pratica
quotidiana, dove vige il principio di non-contraddizione, è dichiarato
il regno della metafisica; e, viceversa, la vera metafisica, cioè il
rovescio del senso comune e della pratica che lo ispira, è dichiarata
conoscenza concreta. La maniera di pensare propria della logica
formale, dice Engels, ‟ci appare a prima vista estremamente plausibile
per il fatto che essa è proprio quella del cosiddetto senso comune.
Solo che il senso comune, per quanto sia un compagno tanto rispettabile
finché sta nello spazio compreso fra le quattro pareti domestiche, va
incontro ad avventure assolutamente sorprendenti appena si arrischia
nel vasto mondo dell'indagine scientifica; e la maniera metafisica di
vedere le cose, giustificata e perfino necessaria in campi la cui
estensione è più o meno vasta a seconda della natura dell'oggetto,
tuttavia, ogni volta, prima o poi, va a urtare contro un limite, al di
là del quale diventa unilaterale, limitata, astratta e si avvolge in
contraddizioni insolubili, perché, attenendosi alle cose singole,
dimentica il loro nesso, attenendosi al loro essere, dimentica il loro
sorgere e tramontare, attenendosi al loro stato di quiete, dimentica il
loro movimento, perché stando davanti a grandi alberi, non vede la
foresta" (v. Engels, 1894; tr. it., p. 28).
La conseguenza più importante di questa adozione, da parte del
materialismo dialettico, del giudizio di Hegel sul rapporto tra logica
formale e logica dialettica, si riflette nella valutazione della
scienza. Per Hegel, la scienza è - come il senso comune e l'‛ordinario
intelletto umano' - ancora prigioniera del materialismo, cioè della
distinzione tra pensiero ed essere. Essa si ispira al principio di
non-contraddizione perché è ancora vincolata alla ‛cerchia della
percezione', cioè alla sfera dell'esperienza empirico-sensibile.
Galilei e Keplero, dice Hegel, si acquistarono meriti immortali
innalzando i ‛quanti empirici' della natura a momenti di un rapporto
razionale, cioè di una ‛legge'. Ma ciò non basta. Mentre, infatti, essi
‟provarono le leggi da loro trovate col mostrar che a esse corrisponde
la cerchia delle singolarità della percezione", si deve esigere ‟una
dimostrazione ancora più alta di queste leggi" (v. Hegel, 1812-1816;
tr. it., vol. I, p. 384), cioè una dimostrazione che le liberi dal loro
condizionamento nell'esperienza e le risolva in relazioni di puri
concetti. Ciò che può fare la filosofia, non la scienza.
Questo giudizio, secondo cui la scienza è ‛dogmatica' perché
subordinata alla necessità di controllare le sue leggi
sperimentalmente, cioè mettendole alla prova della ‛cerchia della
percezione', trapassa da Hegel nel materialismo dialettico, con la
variante, cioè con lo scambio di significati, che abbiamo sopra
accennato. Per Hegel, il dogmatismo della scienza e il suo uso della
logica della non-contraddizione derivano dal fatto che la scienza è
ancora intrisa di materialismo. Per il materialismo dialettico
viceversa (il quale ritiene, giustamente, che il dogmatismo sia la
metafisica, ma ha il torto di far valere questo principio entro uno
schema di discorso desunto da Hegel e, quindi, orientato in tutt'altro
senso), le conclusioni si coordinano, paradossalmente, in quest'altro
modo: che, in quanto la scienza fa uso del principio di
non-contraddizione, essa non è veramente scienza ma metafisica e che,
per divenire scienza effettiva, essa deve convertirsi in conoscenza
dialettica della natura. In altre parole, il materialismo dialettico
scambia la ‛dialettica della materia' dell'idealismo assoluto per
materialismo e il principio materialistico-scientifico di
non-contraddizione per il principio della metafisica. Prende per
scienza la metafisica, cioè la filosofia romantica della natura; e per
metafisica la scienza effettiva, cioè la scienza sperimentale moderna.
Quest'insieme di circostanze permette di spiegare una singolarità
altrimenti incomprensibile, cioè come il materialismo dialettico,
malgrado la sua indubbia professione di fede a favore della conoscenza
scientifica, si sia sempre trovato, di fatto, in un atteggiamento
critico-negativo verso la scienza effettiva. Esso riconosce,
ovviamente, che la scienza moderna ha realizzato negli ultimi
quattrocento anni progressi giganteschi, ma addita in questa scienza un
grave limite di metodo consistente nel fatto che essa ha isolato i
fenomeni, li ha classificati, li ha sezionati, perdendo però il loro
nesso d'assieme. Questo metodo, che ha fatto nascere l'abitudine di
concepire le cose e i fenomeni della natura nel loro isolamento
reciproco, avrebbe prodotto (già a detta di Engels) una maniera di
vedere le cose che, passando dalla scienza della natura nella
filosofia, ha determinato poi la limitatezza specifica degli ultimi
secoli, cioè il ‛modo di pensare metafisico'. A confronto di questa
scienza, il materialismo dialettico esalta la grandezza della filosofia
ionica antica. In essa, naturalmente, proprio perché non si era ancora
arrivati allo smembramento, all'analisi della natura, il nesso
d'assieme dei fenomeni naturali è più intuito che dimostrato nei
dettagli. Ciò non toglie che, malgrado questa insufficienza, si debba
guardare a quella filosofia come a un modello da restaurare.
Si delinea, così, una sorta di visione ciclica a tre stadi, di origine
hegeliana ma dall'andamento assai popolare. Nel primo stadio, segnato
dalla filosofia ionica, la visione del Tutto oscura quella delle parti.
Nel secondo, rappresentato dalla scienza moderna, la visione dei
particolari fa perdere quella della totalità, cioè del nesso d'assieme.
Nel terzo, infine, che dovrà essere riempito dalla scienza nuova
prodotta e favorita dal materialismo dialettico, si ristabilisce la
totalità ma, questa volta (a differenza della filosofia ionica), come
una totalità ricca di molte determinazioni.
Ciò che può consentire questa trasformazione della scienza è,
soprattutto, una rivoluzione nel metodo. La scienza deve abbandonare il
modo metafisico di pensare e familiarizzarsi con il pensiero
dialettico.
L'uso della logica dialettica le permetterà di raccogliere la
moltitudine, sterminata ma disorganica, delle sue conoscenze sotto le
tre grandi leggi della dialettica: l'unità degli opposti, la negazione
della negazione, la conversione della quantità in qualità e viceversa.
Queste leggi, infatti, non essendo empiriche al modo delle leggi
scientifiche propriamente dette né essendo quindi legate a un
particolare ambito di validità, permettono di abbracciare il vasto
quadro d'assieme della natura, unificando i vari campi tra loro e
mostrando che fenomeni diversissimi l'uno dall'altro - come, per es., i
fenomeni fisici, o biologici, o psicologici, o storici - sono governati
dagli stessi principî. E questo appunto - spiega Engels - è il merito
di una legge come, per es., la negazione della negazione: che essa è
‟una legge di sviluppo estremamente generale della natura, della storia
e del pensiero e che appunto perciò ha un raggio d'azione e
un'importanza estremamente grandi; legge che, come abbiamo visto,
risalta nel mondo animale e vegetale, nella geologia, nella matematica,
nella storia, nella filosofia" ecc. (v. Engels, 1894; tr. it., p. 154).
Quale sia la fecondità euristica di questi filosofemi del materialismo
dialettico sulla scienza, è difficile dire (o, forse, fin troppo
facile). Ciò che si può osservare è che, dopo un secolo dalla
composizione della Dialettica della natura, il programma
della dialettizzazione delle scienze non sembra aver registrato il pur
minimo progresso. I manuali del materialismo dialettico ripetono
monotonamente, seppure in cento lingue diverse, gli esempi ben noti di
presunti casi di dialettica della natura, contenuti nell'omonima opera
di Engels, che li aveva a sua volta desunti dalla filosofia della
natura di Hegel. Ma, come è stato tante volte osservato e,
recentemente, anche dal biologo francese J. Monod, ‟questi esempi
illustrano soprattutto l'entità dei guai epistemologici provocati
dall'uso ‛scientifico' delle interpretazioni dialettiche". ‟Fare della
contraddizione dialettica la ‛legge fondamentale' di ogni movimento, di
ogni evoluzione, è come tentare di sistematizzare un'interpretazione
soggettiva della Natura, che permetta di scoprire in essa un progetto
ascendente, costruttivo, creatore; di renderla decifrabile e moralmente
significativa. È ancora la ‛proiezione animistica'" (v. Monod, 1970;
tr. it., p. 48).
E tuttavia sarebbe un errore limitarsi a considerare l'interpretazione
della scienza prospettata dal materialismo dialettico come un innocente
superfiuità filosofica. Giacché, fin dalle origini e poi, sempre di
nuovo, nel corso della sua storia ripetitiva, quella interpretazione si
è rivelata capace di opporre una dura resistenza al progresso del
sapere scientifico. Lo stesso Engels fu indotto a rifiutare, in nome
della dialettica, due tra le più grandi scoperte del suo tempo: il
secondo principio della termodinamica e (malgrado la sua ammirazione
per Darwin) l'interpretazione puramente selettiva dell'evoluzione. Più
tardi, in nome sempre degli stessi principi, il materialismo dialettico
russo ha opposto critiche, tanto aprioristiche quanto severe, alla
teoria della ‛relatività generale' di Einstein. Impossibile, in questa
sede, enumerare i capitoli di questa storia tra le più oscure. In essa
compaiono gli incitamenti di Ždanov ai filosofi russi di muovere
all'attacco delle ‟diavolerie kantiane della scuola di Copenaghen",
cioè di debellare, con le armi del materialismo dialettico, il
‟principio di complementarità" di N. Bohr. Così come vi compaiono le
accuse medievali di Lysenko (presto seguite dallo sterminio fisico
degli avversari) contro i genetisti classici, rei di sostenere una
teoria assolutamente incompatibile con il materialismo dialettico e,
perciò, necessariamente falsa. Qui vorremmo solo completare questo
capitolo della nostra esposizione prendendo, brevemente, in esame
l'epistemologia o, per meglio dire, la teoria della conoscenza del
materialismo dialettico.
2. La gnoseologia del materialismo dialettico
Il principio fondamentale della gnoseologia del materialismo dialettico
è costituito dalla cosiddetta ‛teoria del rispecchiamento' (Widerspiegelungstheorie).
Embrioni di questa teoria sono contenuti nell'opera filosofica di
Engels e, in particolare, nel Ludwig Feuerbach. Tuttavia,
l'elaborazione vera e propria di essa risale a Materialismo ed
empiriocriticismo (1909) di Lenin. Si tratta, nei suoi lineamenti
essenziali, di una ripresa della teoria aristotelica della verità come
‛corrispondenza' di pensiero ed essere. Ma, dissepolta e ricostruita,
per così dire, nell'ignoranza della sua fonte classica: giacché,
all'epoca di Materialismo ed empiriocriticismo, Lenin non
aveva ancora letto Aristotele (ne leggerà la Metafisica solo
nell'inverno 1914-1915).
Il nucleo della teoria del rispecchiamento consiste in poche
affermazioni. La prima è quella dell'oggettività o esteriorità del
reale, cioè dell'essere materiale e sensibile, rispetto al pensiero. La
seconda è l'affermazione della piena conoscibilità del reale da parte
del pensiero: cioè che il pensiero può, in via di principio, penetrare
interamente la realtà, perché infinito al pari di essa. La terza,
infine, è l'affermazione dell'inesauribilità del reale da parte del
pensiero: il che vuoi dire che, se il reale è comprensibile dalla
mente, esso tuttavia non si risolve mai interamente nel pensiero, non
si identifica con esso, ma lo trascende perennemente, così che la
nostra conoscenza è, di volta in volta, solo una conoscenza
approssimata, perfettibile, ma mai capace di adeguarsi perfettamente
alla realtà.
Nell'elaborazione di Lenin questa teoria presenta alcune insufficienze
inevitabili in ogni trattazione non specialistica dell'argomento.
Colpisce, così, che, pur prendendo Lenin a modello di conoscenza la
forma del conoscere scientifico, egli non riesca nella sua analisi a
districare chiaramente la differenza che vi è tra sensazione e
concetto: donde l'assenza, nel suo scritto, di una teoria dell'ipotesi
e della legge scientifica propriamente detta. Tuttavia, malgrado queste
mende e malgrado l'intrusione nel testo di molti elementi ideologici e
politici, l'esposizione di Lenin presenta, quando si guardi alla
sostanza, alcuni innegabili pregi. Ha il pregio, anzitutto, di aver
riproposto la teoria classica della verità (inscindibile da ogni
assunto veramente materialistico) in un'epoca di dominio pressoché
incontrastato dell'idealismo soggettivo e del positivismo. Ma ha il
merito anche di aver elaborato, seppure quasi solo istintivamente,
alcuni temi di fondo che, se fossero stati seriamente ragionati
(anziché essere oggetto di vacue celebrazioni), avrebbero potuto,
almeno in parte, correggere alcuni dei più gravi sviluppi successivi
del materialismo dialettico.
Alludiamo, in particolare, a quella importante conclusione dell'opera -
ancora da meditare per gran parte del marxismo contemporaneo - che è la
distinzione tra il concetto filosofico o ‛gnoseologico' e il concetto
‛scientifico' di materia: distinzione alla luce della quale si può
forse sperare di introdurre qualche elemento di razionalità nel
controverso e confuso problema del rapporto tra marxismo e scienze
della natura. E, infatti, alla luce di quella distinzione, Lenin
afferma che, mentre, in quanto materialismo filosofico, il marxismo è
interessato ad affermare e far valere il ‛concetto gnoseologico di
materia' (per il quale l'‛unica' proprietà della materia, che
interessi, è di essere una realtà obiettiva, esterna al pensiero), il
marxismo stesso non ha e non deve avere, invece, nulla da dire circa le
‛proprietà scientifiche' di questa materia (cioè come essa risulti
strutturata all'analisi di laboratono), dovendosi in ciò rimettere
interamente alle conclusioni del ricercatore.
A questo modo, come si accennava, il rapporto tra il marxismo e le
scienze della natura sembra trovare una più ragionevole impostazione.
In base a essa, infatti, Lenin riconosce, bensì, che il marxismo è
direttamente interessato a tutta la problematica ‛gnoseologica' che
gravita intorno alla ricerca scientifica: per esempio, che esso è
interessato a combattere quelle tipiche extrapolazioni concettuali per
cui la scomparsa, al livello della fisica moderna, di certe proprietà
della materia, che prima sembravano assolute, diviene pretesto nelle
mani del filosofo idealista per conclusioni di ordine gnoseologico e
metafisico del tipo: ‛la materia è scomparsa'. Solo che, proprio in
quanto, per es. ‟la differenza tra le due scuole della fisica
contemporanea è ‛soltanto' filosofica, soltanto gnoseologica" (v.
Lenin, 1909; tr. it., p. 261), il marxismo deve tener ben presente,
dice Lenin, che ‟l'unica proprietà della materia il cui riconoscimento
è alla base del materialismo filosofico è la proprietà di ‛essere una
realtà obiettiva', di esistere fuori della nostra coscienza" (ibid.,
p. 243), ovvero che ‟in gnoseologia il concetto di materia non ha
‛nessun altro' significato all'infuori di ‛questo': realtà obiettiva
esistente indipendentemente dalla coscienza umana e rispecchiata da
essa" (ibid.).
Per il resto - oltre a questo riconoscimento della realtà obiettiva che
è di ordine ‛gnoseologico' e che è già implicito nella ricerca concreta
dello scienziato - il marxismo non ha assolutamente, dice Lenin, alcuna
condizione da porre allo sperimentatore. Esso infatti - non dovendo
essere una filosofia della natura - non ha nulla da dire circa la
struttura e le proprietà del mondo esterno, ma lascia che sia compito
esclusivamente della scienza indagarle e scoprirle.
Abbiamo insistito così a lungo su questa distinzione tra il concetto
scientifico e quello filosofico di materia perché a noi sembra che essa
collochi il pensiero di Lenin, come risulta almeno da quest'opera, su
un versante diverso da quello del materialismo dialettico vero e
proprio. Alla luce di quella distinzione, infatti, non è difficile
vedere che tutta una serie di affermazioni sulla struttura e sulle
proprietà della materia, che, secondo Lenin, sarebbe compito esclusivo
della ricerca scientifica definire, sono invece avocate da Engels alla
filosofia. Ci riferiamo, così dicendo, non solo alle affermazioni di
Engels sulla struttura necessariamente dialettica della materia, ma
anche al programma da lui delineato della progressiva dialettizzazione
delle scienze, cioè al compito da parte delle scienze (e più ancora,
forse, da parte di quella sorta di scientia scientiarum che,
per lui, fu la filosofia) di generalizzare i loro risultati fino a
incastonarli nelle tre grandi leggi della dialettica, così da ottenere
(come dice nel Feuerbach) ‟non soltanto il nesso che esiste
tra i processi della natura nei singoli campi, ma anche il nesso che
unisce i diversi campi tra di loro, e di poter fornire un quadro
sinottico dell'assieme della natura in forma approssimativamente
sistematica, servendoci dei fatti fornitici dalle stesse scienze
naturali empiriche" (v. Engels, 1888; tr. it., p. 55).
Senonché differenze altrettanto profonde (anche se, naturalmente,
sempre taciute dal marxismo ufficiale per la sua intima vocazione
esclusivamente celebrativa) sembra a noi di poter rilevare anche nel
campo della ‛teoria del rispecchiamento' in senso specifico. Mentre,
infatti, Materialismo ed empiriocriticismo mostra per lo più
di intendere bene che il materialismo in gnoseologia non significa
soltanto esteriorità dell'essere rispetto al pensiero ma significa, più
ancora,‛eterogeneità' dei due, così da concludere, opportunamente, per
il carattere non esauriente ma approssimato e relativo, cioè sempre
correggibile, delle nostre conoscenze, non altrettanto sembra che si
possa dire di alcuni cenni in proposito di Engels. Anche in questo
caso, la sua impostazione sembra condizionata in modo decisivo da
quella di Hegel. Engels parla del ‟rispecchiamento" nel Ludwig
Feuerbach, a proposito della ‟riflessione" delle leggi del mondo
esterno da parte del pensiero. Ma, con echi spinoziani e hegeliani
assai evidenti, egli prospetta ‟queste due serie" (v. Engels, 1888; tr.
it., p. 51) di leggi come ‟identiche nella sostanza" (si tratta in
entrambi i casi, infatti, delle tre leggi della dialettica) e
differenti solo ‟nell'espressione" (in quanto, nel mondo esterno, le
leggi della dialettica operano inconsapevolmente e nel nostro pensiero,
invece, in modo consapevole).
L'impressione che ne risulta, se si vuol prestare un senso rigoroso
alle parole, è quella piuttosto di una filosofia dell'identità, anziché
di una teoria materialistica della conoscenza. In quanto le due serie
dileggi sono ‛identiche', la loro compenetrazione, nella conoscenza,
non si può immaginare che perfetta e assoluta. Si delinea, così,
piuttosto una concezione ‛essenzialistica' della verità che non una
teoria della conoscenza come approssimazione.
È importante avere ben chiaro questo punto perché, mentre
nell'elaborazione di Lenin o, quanto meno, nelle sue pagine più valide,
la ‛teoria del rispecchiamento' è una ripresa della teoria aristotelica
della ‛corrispondenza' trasposta nel campo della conoscenza scientifica
e perciò integrata (seppure insufficientemente) da una teoria della
conoscenza sperimentale, negli ulteriori sviluppi del materialismo
dialettico la linea che ha finito col prevalere è piuttosto l'altra,
cioè quella dell'‛essenzialismo' platonizzante contenuta in nuce in
talune enunciazioni di Engels. Ciò è tanto vero che, per esempio,
Lukács, soprattutto in Il giovane Hegel, ha non soltanto
esplicitamente attribuito la Widerspiegelungstheorie a
Hegel, ma ha valutato positivamente lo stesso idealismo oggettivo di
Schelling, il cui ‟rinnovamento della dottrina platonica delle idee"
egli ha considerato ‟un materialismo misticamente capovolto".
3. L'influenza di Engels
Esaurita così l'esposizione dei lineamenti generali del materialismo
dialettico, restano ora da considerare alcuni elementi storici e
ideologici che la nostra trattazione sistematica ha finora taciuto. E
stato già osservato, all'inizio, che, se i principî del materialismo
dialettico sono del sec. XIX, l'emergere di esso come dottrina a sé,
distinta e sovrapposta al ‛materialismo storico', è un fenomeno dei
primi lustri del XX secolo, da ascrivere soprattutto alle opere
filosofiche di Plechanov e di Lenin. Ciò vuol dire che il marxismo
europeo dell'ultimo scorcio del sec. XIX e, più estesamente, potremmo
dire il marxismo della Seconda Internazionale, o ha ignorato del tutto
il materialismo dialettico o ne ha formulato solo incidentalmente
qualche proposizione. Il marxismo, per esso, è stato, essenzialmente,
il ‛materialismo storico'. Il ‛materialismo dialettico', come noi lo
conosciamo, è una creazione pressoché esclusiva del marxismo russo. Qui
gli elementi da considerare sarebbero molti. Ne indicheremo
schematicamente solo alcuni. Nella socialdemocrazia tedesca l'interesse
ai problemi filosofici è assai scarso. Il background ideologico
è, per lo più, il darwinismo, o (ma solo più tardi e, comunque, sempre
in posizione subordinata) il ‛ritorno a Kant'. Nella socialdemocrazia
russa, invece, fin dall'inizio (e malgrado l'assenza di una grande
tradizione filosofica nazionale), esorbitante attenzione è rivolta ai
temi filosofici, soprattutto a partire dall'opera di Plechanov.
All'esplodere della Bernstein-Debatte, i marxisti ortodossi
della socialdemocrazia tedesca replicano con argomenti economici e
politici. Plechanov, viceversa, sviluppa la polemica sul terreno
strettamente filosofico. Da considerare, inoltre, il dibattito che,
intorno al 1908, si aprì nella socialdemocrazia russa (e soltanto in
questa) contro i seguaci dell'empiriocriticismo di Mach e Avenarius.
Anche in questa circostanza, si verifica un fenomeno che non ha
riscontro presso altri partiti: la polemica dilaga nel campo della pura
filosofia; alla pubblicazione di Materialismus militans di
Plechanov nel 1908, tien dietro, l'anno dopo, quella di Materialismo
ed empiriocriticismo di Lenin.
Nel determinare questa situazione, può aver influito, almeno in parte,
il modo in cui avvenne l'acquisizione del marxismo da parte di
Plechanov. Essa si compì riprendendo la tradizione dei democratici
rivoluzionari russi: in particolare, Belinskij, Herzen e Černysevskij.
Ciò significò, di fatto, il collegamento, seppure al di là di un ampio
arco di anni, con le polemiche sviluppatesi in Germania alla
dissoluzione dell'hegelismo (la sinistra hegeliana, Feuerbach, ecc.):
polemiche che avevano influenzato il pensiero dei democratici
rivoluzionari russi e la cui memoria, invece, era andata completamente
perduta nella socialdemocrazia tedesca. Di più: l'aspra lotta di
fazioni sviluppatasi fin dall'inizio nel partito russo tra menscevichi
e bolscevichi deve aver certo favorito la cristallizzazione sempre più
rigida dell'‛ortodossia', anche e soprattutto a livello delle questioni
filosofiche. Questa lotta, che legò progressivamente le sorti del
materialismo dialettico alle sorti politiche di Lenin, spiega poi come,
dopo la Rivoluzione d'Ottobre e soprattutto dopo la fondazione della
Terza Internazionale, il materialismo dialettico sia divenuto la
filosofia ufficiale dei partiti comunisti, rifluendo così fuori dai
confini dell'Unione Sovietica.
Il modo in cui questa cristallizzazione della dottrina si è compiuta
può essere esemplificato dall'articolo Karl Marx che Lenin
scrisse nel giugno-novembre 1914, e che fu pubblicato parzialmente la
prima volta nel Dizionario Enciclopedico Granat. All'esame
della concezione materialistica della storia in Marx, Lenin fa
precedere due paragrafi sul ‛materialismo filosofico' e la
‛dialettica', che serviranno poi di modello a Stalin nella redazione
della prima parte del suo celebre scritto Del materialismo
dialettico e del materialismo storico. La sovrapposizione del
materialismo dialettico al materialismo storico è qui già compiuta. La
trattazione del materialismo dialettico è costruita, appunto,
raccogliendo le sparse considerazioni di Engels, che abbiamo esaminato,
e organizzandole in forma di sistema. Dopodiché, il pensiero di Engels
è automaticamente considerato espressione anche del pensiero di Marx:
sebbene sia significativo che, nella costruzione di entrambi i
paragrafi, Lenin non trovi supporti e materiali negli scritti di questo
ma solo di quello.
Questa rigidità scolastica della dottrina, dopo d'allora, non sarà più
posta in discussione. Oggetto di infinite ripetizioni, lo scheletro
della dottrina resta intangibile nel corso del tempo. Dopo il suo ralliement
al materialismo dialettico, persino uno studioso di vasta cultura
come Lukàcs non è in condizioni di apportarvi innovazioni di sorta. Se
si prescinde dal loro ricco contenuto storico-culturale e si guarda ai
nodi più propriamente teorici, opere di grande impegno come Il
giovane Hegel o La distruzione della ragione appaiono
muoversi, ripetitivamente, nel quadro degli schemi tracciati.
Quest'innalzamento a paradigma, nelle questioni filosofiche, delle
opere di Engels riuscirebbe naturalmente incomprensibile se non si
tenesse conto delle vicende del lascito letterario di Marx. Il marxismo
della fine del secolo scorso, e anche oltre, non dispone quasi di testi
filosofici di Marx. Dispone - ed è pressoché tutto - delle poche pagine
del Vorwort nel 1859 a Per la critica dell'economia
politica e delle prefazioni al Capitale. La stessa Einleitung
del 1857 ai Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie,
sebbene pubblicata da Kautsky nei primi anni del secolo, sembra passata
quasi inosservata, tanto è difficile trovare negli scrittori del tempo
(Lenin compreso) indicazioni che rinviino a essa. Alla fine del secolo,
La sacra famiglia stessa è una rarità bibliografica: dopo
averla cercata invano, Antonio Labriola ne chiede la copia in prestito
a Engels. I più importanti degli scritti di Marx del periodo 1843-1846,
che testimoniano della sua formazione filosofica, sono a quel tempo
ancora sconosciuti. La Critica della filosofia hegeliana del
diritto pubblico, i Manoscritti economico-filosofici del
'44 nonché, infine, l'Ideologia tedesca verranno pubblicati,
per la prima volta, solo intorno all'inizio degli anni trenta del
nostro secolo, in un momento, cioè, in cui l'‛ortodossia' del
materialismo dialettico è da gran tempo già consolidata ed essi non
possono apparire ormai che ‛documenti giovanili', cioè testimonianze di
una fase di pensiero irrevocabilmente superata.
In questa situazione, si può intendere bene il ruolo e il significato
sempre più importanti che, agli occhi della prima generazione di
interpreti marxisti, doveva venire assumendo l'opera filosofica di
Engels: in particolare l'Antidühring e il Ludwig
Feuerbach (ché la Dialettica della natura verrà
pubblicata postuma solo nel 1927). Anche a prescindere dagli stretti
rapporti personali di Engels con tutti i principali rappresentanti
della nuova generazione, è un fatto che la sua opera offriva proprio
ciò che più sembrava mancare in quella di Marx. Lo sfondo filosofico,
la ‛concezione generale', che l'opera prevalentemente economica di Marx
lasciava intravvedere solo a tratti e in mezzo a tante difficoltà,
negli scritti di Engels non solo veniva in primo piano come il
contenuto principale, ma vi si trovava esposta con tale semplicità e
chiarezza divulgativa, che nessuno degli interpreti dimenticò mai di
farne l'elogio (v., per es., Kautsky, 1908, p. 27). Le testimonianze
dei principali protagonisti non lasciano dubbi al riguardo. E tutti
rilevano come il loro accostamento al marxismo si compì soprattutto
attraverso l'opera di Engels.
Nel commento al suo Carteggio con lui, Kautsky, ad es.,
sottolinea questa circostanza in più punti. ‟A giudicare - scrive -
dall'influenza che l'Antidühring ha esercitato su di me, non
vi è alcun libro che abbia tanto contribuito alla comprensione del
marxismo come questo" (v. Engels Briefwechsel mit Kautsky,
1955, pp. 77-79). ‟Il Capitale di Marx è, certo, più
potente. Ma solo attraverso l'Antidühring abbiamo preso a
leggere e comprendere bene il Capitale" (ibid., pp.
82-83). Come ebbe a osservare più tardi anche Rjazanov, ‟la giovane
generazione che iniziò la sua milizia politica verso il 1876-1880
apprese ciò che era il socialismo scientifico, quali erano i suoi
principi filosofici e il suo metodo", soprattutto attraverso gli
scritti di Engels. ‟Bisogna riconoscere - continua Rjazanov - che, per
la diffusione del marxismo in quanto metodo e concezione del mondo,
nessun libro dopo il Capitale ha fatto tanto quanto l'Antidühring.
Tutti i giovani marxisti, Bernstein, Kautsky, Plechanov, che fecero le
loro prime armi tra il 1880 e il 1885, si formarono su quest'opera" (v.
Rjazanov, 1923; tr. it., p. 263).
Ma non solo la prima generazione: anche quella, più giovane,
dell'austro-marxismo - nel riconoscere il suo debito particolare verso
Engels - tenne sempre a sottolineare esplicitamente il ruolo e il
significato speciale che l'opera di lui aveva avuto ai propri occhi.
Dei due fondatori del materialismo storico, Engels era stato quegli che
più aveva sviluppato la parte filosofico-cosmologica o di filosofia
della natura, quegli che aveva ampliato il materialismo storico nel
materialismo dialettico. Anche un pensatore così sottile come M. Adler,
marxista e kantiano al tempo stesso, ancora nel 1920 affermava che
proprio nell'opera di Engels era da ritrovare quella teoria filosofica
generale, di cui già altri prima di lui avevano lamentato invece
l'assenza in Marx. ‟Il grande e originale significato di Engels per lo
sviluppo e la formazione del marxismo - scriveva Adler - sta nel fatto
che fu appunto Engels che liberò il lavoro sociologico di Marx dalla
specifica forma economica in cui esso si offriva a prima vista, per
porlo nel grande quadro di una concezione generale della storia,
procurando, con la sua grandiosa elaborazione di metodo e con il
tentativo di un suo collegamento con le moderne scienze della natura,
di slargare, per così dire, il pensiero marxista a concezione del
mondo". E, poco oltre, Adler aggiungeva: ‟Engels è stato colui che ha
perfezionato e coronato il marxismo", non solo in quanto ci ha dato
‟una sistematizzazione semplice del pensiero di Marx", ma in quanto,
con la sua ricerca ‟originale e creatrice", ‟ha dato un fondamento alle
analisi di Marx" (v. Adler, 1920, pp. 48-49).
4. Il marxismo come scienza
Tuttavia chi, malgrado tutto, seppe mettere veramente a frutto queste
caratteristiche dell'opera di Engels fu, come si è detto, il marxismo
russo di Plechanov e Lenin. Il marxismo di lingua tedesca prese, per lo
più, un'altra strada. Insensibile ai problemi della filosofia, non per
ristrettezza mentale ma per una scelta consapevole dettata dalla
prevalente formazione positivistica, quel marxismo si ispirò, nei suoi
maggiori rappresentanti, a un'interpretazione diversa del pensiero di
Marx. Scelse, potremmo dire, la rappresentazione che Marx aveva dato
della propria opera nella prefazione e, più ancora, nel poscritto alla
seconda edizione del Capitale. L'idea che venne così in primo
piano fu quella del marxismo come scienza: scienza delle leggi di
movimento della società umana e, in particolare, delle ‟leggi naturali
della produzione capitalistica", secondo l'espressione usata da Marx
stesso nella prefazione al Capitale; e, quindi, scienza non
dissimile, nella sostanza, dalle scienze della natura vere e proprie.
Chiarendo, infatti, quale fosse l'oggetto della propria opera, Marx
aveva scritto: ‟In sé e per sé, non si tratta del grado maggiore o
minore di sviluppo degli antagonismi sociali derivanti dalle leggi
naturali della produzione capitalistica, ma ‛proprio di tali leggi', di
tali ‛tendenze' operanti ed effettuantisi con bronzea necessità. Il
paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno
sviluppato l'immagine del suo avvenire [...]. Anche quandò una società
e riuscita a intravedere ‛la legge di natura del proprio movimento - e
fine ultimo al quale mira quest'opera è di svelare la legge economica
del movimento della società moderna, - non può nè saltare nè eliminare
per decreto le fasi naturali dello svolgimento [...]. Il mio punto di
vista [...] concepisce lo ‛sviluppo della formazione economica della
società' come ‛processo di storia naturale'" (v. Marx, 1867-1894; tr.
it., vol. I, pp. 32-34).
In questa prospettiva, il marxismo appare, essenzialmente, materialismo
storico. E il materialismo storico, a sua volta, una spiegazione degli
eventi storici in base al principio di causa. Una ferrea determinazione
oggettiva presiede allo svolgimento della società. In quanto è una
dottrina scientifica, il marxismo consiste fondamentalmente nella
scoperta di nessi causali oggettivi. Esso rivela e analizza le leggi
che fanno funzionare il sistema, descrive le contraddizioni che lo
minano dall'interno e che ne segnano il destino. E tuttavia, in quanto
è opera di scienza e non ideologia, esso non lascia che quest'analisi
sia inquinata da ‛giudizi di valore' o da preferenze soggettive, bensì
esprime solo ‛giudizi di fatto', giudizi oggettivi, affermazioni che,
al limite, possono valere per tutti.
Le proposizioni della scienza sono all'indicativo. Esse non
suggeriscono ‛scelte' o finalità. Dalle oggettive e imparziali
constatazioni della scienza, è impossibile derivare imperativi. E il
discorso sviluppato da Hilferding nella prefazione al Capitale
finanziario (il discorso, press'a poco, di tutto il marxismo
ortodosso della Seconda Internazionale). ‟Il marxismo è solo una teoria
delle leggi del divenire della società". ‟Queste leggi che la
concezione marxista della storia formula in generale, l'economia
marxista le applica all'epoca della produzione delle merci". ‟Il
marxismo, che è dottrina scientificamente logica, oggettiva, non è
vincolato a giudizi di valore". Il compito del marxismo in quanto
scienza è di ‟descrivere nessi causali". Sebbene siano continuamente
confusi tra loro, ‟socialismo" e ‟marxismo" non sono la stessa cosa. Il
socialismo è un fine, una meta, un obiettivo della volontà e
dell'azione politica. Il marxismo viceversa, in quanto scienza, è
conoscenza obiettiva e imparziale. Si può accettare la scienza e non
volere il fine. ‟Riconoscere la validità del marxismo dice Hilferding -
non significa in alcun modo additare una linea di condotta pratica.
Poiché una cosa è riconoscere una necessità, altra cosa è porsi al
servizio di quella necessità" (v. Hilferding, 1910; tr. it., pp. 5-6).
Il tema domina tutte le discussioni del tempo. La preoccupazione
principale è di dare al marxismo la forma di una scienza wertfrei.
Il motivo è al centro anche del pensiero di Kautsky. ‟L'organizzazione
socialdemocratica del proletariato egli scrive in Etica e
concezione materialistica della storia - non può fare a meno
nella sua lotta di classe dell'ideale morale, dell'indignazione etica
contro lo sfruttamento e l'oppressione di classe. Ma quest'ideale non
ha nulla a che vedere con il socialismo ‛scientifico' che è lo studio
delle leggi che governano l'evoluzione dell'organismo sociale" (v.
Kautsky, 1906; tr. it., p. 172). Ben a ragione, quindi, ‟Marx ha
cercato di prescinderne per quanto possibile" (ibid.) nella
sua opera. ‟Giacché, nella scienza, l'ideale morale è una fonte
d'errori" (ibid.).
Da qui il problema, caratteristico di tutto il marxismo di lingua
tedesca del tempo, del rapporto tra etica e scienza, ovvero la
difficoltà di conciliare la visione del corso storico, come di un corso
naturale oggettivo strettamente regolato da leggi, con l'esigenza di
conservare un senso all'intervento e all'azione responsabile dell'uomo
nella storia. Per Kautsky, il pericolo del dualismo è evitato in quanto
la responsabilità morale risulta essa stessa un prodotto
dell'evoluzione: la scelta morale è nulla più che un istinto; la ‛legge
etica', un impulso di natura eguale all'istinto di procreazione. Per O.
Bauer, invece, che ne recensisce criticamente il libro sulle pagine
stesse della ‟Neue Zeit", vale il dualismo kantiano di Müssen e
Sollen, giacché, se l'azione morale fosse un istinto, le
verrebbe a mancare il suo requisito primo, cioè la libertà.
Quanto al resto, tuttavia, per entrambi, sia per Kautsky che per Bauer,
vale il principio che, in quanto scienza, il marxismo è lo studio e
l'analisi delle leggi causali che determinano il movimento e lo
sviluppo della società. L'idea che domina, in altre parole, è che il
marxismo è essenzialmente scienza della società, cioè una sociologia
deterministica. In questo punto convengono tutti: persino M. Adler, il
quale - in Kausalität und Teleologie (1904) e poi, più
tardi, nei Marxistische Probleme (1913) - mostra tuttavia
come ciò che, oggettivamente, si presenta nella forma di rapporti
sociali causalmente determinanti, sia in realtà, soggettivamente, il
prodotto dell'agire umano secondo rappresentazioni e fini, in un modo
complesso e sottile ch'egli si sforza di derivare dalla Critica
della ragion pura di Kant ma che, più verosimilmente, deriva
forse da Fichte.
In tutta questa linea di pensiero, Marx appare, dunque, essenzialmente
come uno scienziato della società. Secondo un motivo tipico nella
cultura del tempo, il suo nome è avvicinato a quello di Darwin. Ciò che
Darwin ha fatto nel campo delle scienze biologiche, Marx ha compiuto
nel campo della scienza della società. Egli ha innalzato, per la prima
volta, a scienza l'analisi dei fenomeni storico-sociali. Ha strappato
alla metafisica l'ultima regione in cui essa dominava ancora
incontrastata. Attraverso quest'opera, il sapere scientifico ha esteso
il suo potere a tutti i campi dello scibile umano. Provincia dopo
provincia, la filosofia ha visto sempre più restringersi l'area della
sua influenza. Questi i motivi di fondo che stanno alla base del
marxismo come scienza, scienza della storia, analisi scientifica della
società. E poiché, con Marx, quest'analisi si è riversata nel Capitale,
in direzione di questi problemi deve anche profondersi l'impegno dei
discepoli. Poco produttiva nel campo della filosofia, troveremo questa
linea interpretativa viva e vitale quando passeremo a occuparci dei
problemi dell'analisi economica, dove essa ha prodotto opere come Il
capitale finanziario di Hilferding e l'Accumulazione del
capitale di R. Luxemburg.
Tuttavia, pur degna di grande rispetto, questa linea interpretativa
celava al fondo un nodo irrisolto. La sua concezione della storia
poneva l'accento sulle ‛leggi di movimento' che regolano la crescita,
lo sviluppo e il tramonto di una determinata formazione economica della
società. Essendo una visione del processo storico ricca e articolata,
essa sapeva naturalmente far muovere sulla scena non soltanto le
categorie economiche astratte ma gli agenti storico-sociali, che le
incarnavano. Basta pensare alle pagine memorabili della Luxemburg nell'Accumulazione
sulla penetrazione dirompente del modo capitalistico di produzione
entro il tessuto delle vecchie economie naturali (come l'Egitto), per
rendersi conto di come quella concezione sapesse fondere,
magistralmente, economia e politica. Per riprendere una celebre
considerazione di Schumpeter su Marx, si può ben dire che anche
Hilferding e Rosa Luxemburg capirono e insegnarono ‟in modo sistematico
come la teoria economica possa trasformarsi in analisi storica, e il
racconto storico in histoire raisonnée" (v. Schumpeter, 1954;
tr. it., p. 40). Senonché, coerentemente con la loro impostazione, quei
marxisti tennero sempre a sottolineare la funzione esplicativa causale
che, in quel nesso complesso, era da assegnare all'economia.
Hilferding, che si pose il problema con grande lucidità, indicò
chiaramente quale dovesse esserne, da quel punto di vista, la
soluzione. ‟È stato detto - scrisse - che la politica è una dottrina
normativa, fondata, in ultima istanza, su giudizi di valore che non
rientrano nell'ambito della scienza, sicché la trattazione politica
esulerebbe dalla sfera dell'indagine scientifica. Addentrarsi a questo
punto nelle dibattute questioni teoretico-speculative sui rapporti tra
dottrina delle norme e dottrina delle leggi, tra teleologia e
causalità, è ovviamente impossibile [...]. Qui va detto soltanto che,
per il marxismo, anche il fine della trattazione politica può essere
unicamente la scoperta di nessi causali. La conoscenza delle leggi
della società produttrice di merci mette parimenti in evidenza i
fattori che determinano la volontà delle classi in tale società" (v.
Hilferding, 1910; tr. it., p. 5).
Come risulta chiaramente da questa pagina, sebbene l'analisi economica
dovesse svolgersi al tempo stesso come analisi politica, ‟i fattori che
determinano la volontà delle classi" dovevano esser fatti risalire -
proprio come dall'effetto si risale alla causa - alle leggi economiche
di movimento. Solo a questa condizione, la trattazione politica poteva
rientrare, a pieno diritto, nel campo della scienza. E solo a questa
condizione la scienza poteva confermarsi come sapere avalutativo, cioè
svincolato da qualsiasi giudizio di valore.
Senonché, poste le cose in questi termini, si apriva appunto il
problema che quel marxismo non seppe percepire. Un corso storico
oggettivo, retto da leggi causali, in che senso poteva garantire
l'avvento, dopo il capitalismo, di una società ‛superiore', cioè non
solo più complessa ma più libera, più umana? Nel discorso di Marx e di
Engels, il socialismo non era soltanto un ulteriore tipo di
organizzazione della società, che tenesse dietro al capitalismo. Era la
società dove avrebbe dovuto compiersi l'emancipazione umana. Era il
salto dal ‛regno della necessità' a quello della ‛libertà'. In che modo
un corso storico oggettivo, causalmente regolato e quindi scevro da
ogni finalismo, avrebbe potuto segnare il passaggio a una società non
solo più complessa delle precedenti, ma ‛superiore', cioè più alta
nella scala dei valori? La storia capace di metter capo a una tale
società deve portare nel suo grembo un ‛fine'. In che modo questo
stesso corso storico oggettivo poteva essere regolato in base al
principio di ‛causa' - condizione, d'altra parte, inderogabile perché
il processo potesse esser oggetto di conoscenza scientifica?
Il marxismo dell'epoca non percepì il problema, e lo considerò anzi
risolto, per una ragione semplicissima: per il modo in cui esso aveva
interpretato il concetto di ‛evoluzione'. Questo concetto
naturalistico, e quindi in tutto rispondente ai requisiti della
conoscenza causale, fu da quel marxismo interpretato
(inconsapevolmente) al tempo stesso in chiave etico-politica.
L'evoluzione degli organismi era a un tempo ‛progresso', cioè ascesa
verso il ‛meglio'. Senonché, quanto il problema sia serio, come esso
coinvolga tutto un modo di intendere il marxismo, si può vedere dagli
sviluppi successivi. Nei Problemi economici del socialismo
nell'URSS (1952), Stalin riafferma il carattere obiettivo delle
leggi economiche della società. ‟Alcuni compagni - scrive - negano il
carattere obiettivo delle leggi della scienza, in particolare delle
leggi dell'economia politica nel socialismo. Essi negano che le leggi
dell'economia politica riflettano le leggi di sviluppo di processi che
si compiono indipendentemente dalla volontà degli uomini [...]. Questi
compagni si sbagliano profondamente [...]. Il marxismo intende le leggi
della scienza - si tratti di leggi delle scienze naturali o di leggi
dell'economia politica - come un riflesso di processi obiettivi che si
svolgono indipendentemente dalla volontà degli uomini. Gli uomini
possono scoprire queste leggi, conoscerle, studiarle, tenerne conto
nelle loro azioni, utilizzarle negli interessi della società, ma non
possono cambiarle o abolirle" (v. Stalin, 1952; tr. it., pp. 9-10).
Poste queste premesse, è significativo come Stalin concepisca la
differenza tra socialismo e capitalismo. La differenza è del solo tipo
che possa prospettarsi in una visione oggettivistica. È una differenza
assolutamente avalutativa. Non si parla di una società che sia
‛inferiore' o ‛superiore' all'altra, più libera o meno libera. Tutto è
messo in termini, dal punto di vista etico-politico, rigorosamente
neutrali. Nel capitalismo la ‛legge della corrispondenza' tra base e
sovrastruttura è turbata: vi è contraddizione tra forze produttive e
rapporti sociali. Nel socialismo viceversa, dove questa contraddizione
è stata abolita, la ‛corrispondenza' tra forze produttive e rapporti
sociali è tornata a vigere ‛armonicamente'. La trasformazione della
società, il passaggio da un tipo a un altro di società non ha da
realizzare finalità umane. Ha l'unica finalità di ristabilire il
funzionamento pieno della legge causale della ‛corrispondenza'. Il
socialismo non ha che fare con la libertà. Ristabilita quella
‛corrispondenza', esso sopporta benissimo anche i campi di
concentramento.
Sarebbe un errore vedere in ciò il riflesso di una mentalità personale.
Si tratta piuttosto di un esito logico, cui, poste certe premesse, è
impossibile sfuggire. Ne è una conferma il riproporsi della stessa impasse
all'interno del marxismo strutturalista francese contemporaneo. In
una sua recente polemica con L. Sève, e probabilmente ignorando il
testo di Stalin, M. Godelier ne riproduce le conclusioni. Premesso di
aver ‟a più riprese lottato contro ogni tentativo di ‛fondare' su un
umanesimo, fosse pure materialista, la ‛dimostrazione' della ‛necessità
storica' del passaggio al socialismo e della ‛superiorità' di
quest'ultimo sul modo di produzione capitalistico", Godelier rileva:
‟quando Marx scrive che il capitalismo, sviluppando continuamente le
forze produttive, crea precisamente ‛senza saperlo' le condizioni
materiali di un modo di produzione ‛superiore', l'unica ragione che
dimostra questa necessità e questa superiorità è il fatto che la
‛struttura' dei rapporti di produzione socialisti ‛corrisponde'
funzionalmente alle condizioni di sviluppo delle nuove forze
produttive, gigantesche e sempre più socializzate, create dal
capitalismo. Questa corrispondenza è un fatto ‛inintenzionale' che
esprime le ‛proprietà oggettive' di una struttura sociale e, nella sua
essenza, totalmente indipendente da qualsiasi idea a priori sulla
felicità, l'‛essenza' dell'uomo, la ‛vera' libertà" (v. Godelier, 1966;
tr. it., p. 126).
D'accordo: se dei fatti storici e sociali si deve trattare in termini
di scienza, dire che una società è ‛più umana' o ‛migliore' di un'altra
non ha senso. Ma il marxismo non ambisce essere soltanto una scienza.
Esso è portatore anche di un programma etico-politico. Nell'opera di
Marx, la socializzazione dei mezzi di produzione è destinata, sì, a
creare la struttura ‛corrispondente' alle condizioni di sviluppo delle
nuove forze produttive. È però destinata, almeno altrettanto, a creare
le condizioni dell'emancipazione umana, cioè della liberazione
dell'uomo dall'asservimento all'altro uomo: le condizioni della società
senza classi. Tolto quest'aspetto, eliminata cioè la funzione che il
marxismo ha - oltre che come scienza - come ideologia, è perduto, con
ciò stesso, il suo rapporto col movimento operaio.
5. Il marxismo occidentale
È importante avere ben chiara quest'alternativa, perché essa è al
centro dell'interpretazione del marxismo che ci accingiamo a esaminare:
l'interpretazione sviluppata da Lukàcs in Storia e coscienza di
classe (1923) e da Korsch in Marxismo e filosofia (1923).
L'idea del marxismo come sociologia scientifica è qui negata alla
radice. Lukács mette in discussione il concetto stesso di ‛fatto'. I
fatti, i ‟cosiddetti fatti", ‟gli idoli ai quali l'intera letteratura
revisionistica offre sacrifici" (v. Lukács, 1923; tr. it., p. 7), non
sono un dato ma un prodotto storico. Il marxismo della Seconda
Internazionale si richiama ‟al metodo delle scienze della natura, al
modo in cui queste sono in grado di esibire, attraverso l'osservazione,
l'astrazione, l'esperimento, ecc., fatti ‛puri' e di giustificare le
loro connessioni" (ibid., p. 8). Esso dimentica, però, che ‟lo
stesso sviluppo capitalistico tende a produrre una struttura della
società che asseconda ampiamente una simile impostazione di pensiero" (ibid.).
I fatti - ‟proprio nella struttura della loro oggettualità" - sono
‟prodotti di un'epoca storica determinata: quella del capitalismo". ‟Di
conseguenza quella ‛scienza' che riconosce il modo in cui essi sono
dati immediatamente come base della fattualità scientificamente
rilevante e la loro forma oggettuale come premessa della formazione
scientifica del concetto, si dispone semplicemente e dogmaticamente sul
terreno della società capitalistica, assumendo acriticamente la loro
essenza, la loro struttura oggettuale, la loro legalità come base
immodificabile della ‛scienza'" (ibid., p. 10).
In altre parole, l'oggettività fattuale con cui la società si prospetta
ai suoi membri, nelle condizioni capitalistiche, non è un'oggettività
reale e, tantomeno, naturale. È, bensì, un'oggettività fittizia,
artefatta. E l'oggettivazione (reificazione o alienazione) dei rapporti
sociali stessi che - essendo sfuggiti al controllo degli uomini e
perciò divenuti ‛indipendenti' da loro - hanno assunto la forma di
‛cose', cioè di entità ‛estranee' come oggetti, sebbene non siano
veramente cose ma rapporti interumani e tra persone.
Così, come con un colpo di bacchetta magica (e, per di più, vari anni
prima della pubblicazione dei Manoscritti economico-filosofici),
Lukács fa emergere dal Capitale quella tematica -
fondamentale - del feticismo e dell'alienazione, che era rimasta chiusa
con sette sigilli (per oltre mezzo secolo), sia per il materialismo
dialettico che per il marxismo della Seconda Internazionale.
L'idea del marxismo come scienza è la falsificazione che, del pensiero
di Marx, hanno operato i partiti socialdemocratici della Seconda
Internazionale. Essi hanno considerato le ‛leggi di movimento' della
società capitalistica come leggi naturalistiche. Si tratta, è vero,
dileggi oggettive che operano indipendentemente dalla coscienza e
addirittura ‛alle spalle' degli uomini. Solo che la loro è
un'oggettività affatto speciale: è un'oggettività falsa e che si deve
abolire. È vero che le leggi del mercato valgono per gli uomini della
società capitalistica come una ‛necessità naturale'; che i movimenti
del mercato sono imprevedibili come i terremoti. Ma non perché il
mercato sia un fenomeno ‛naturale'. Ciò che qui ha preso la forma
oggettiva di ‛cose' e di processi tra cose non sono altro, in effetti,
che i rapporti sociali stessi degli uomini tra loro.
In tali condizioni, disporsi di fronte a quest'oggettività alienata
nello stesso atteggiamento con cui lo scienziato si pone dinanzi ai
fatti significa dimenticare che ‟è proprio dell'essenza del capitalismo
produrre i fenomeni in questa forma" (v. Lukács, 1923; tr. it., p. 8).
È sposare il punto di vista stesso del sistema. Assumerlo come un ‛dato
naturale', al modo in cui esso stesso si propone e si prospetta. E non
basta. ‟Questa tendenza dello sviluppo capitalistico si spinge ancora
più in là. Il carattere feticistico delle forme economiche, la
reificazione di tutti i rapporti umani, l'estensione costantemente
crescente di una divisione del lavoro che scompone il modo di
produzione in modo astrattamente razionale, senza preoccuparsi delle
possibilità umane e della capacità dei produttori diretti, ecc.,
trasformano i fenomeni della società e contemporaneamente, insieme a
essi, la loro appercezione. Sorgono fatti ‛isolati', complessi isolati
di fatti, settori parziali (economia, diritto, ecc.) con leggi proprie,
che sembrano essere già ampiamente predisposti nelle loro forme
fenomeniche immediate a un'indagine scientifica di questo genere.
Cosicché assume necessariamente un valore particolarmente ‛scientifico'
sviluppare conseguentemente questa tendenza - che risiede nelle cose
stesse - elevandola alla scienza" (ibid., pp. 8-9).
Il punto di vista decisivo, dunque, è ben altro che quello della
scienza. La scienza assume una differenza tra soggetto e oggetto,
pensiero ed essere. Questa differenza è illusoria. Se infatti
l'oggettività è l'oggettivazione di forze essenziali umane sfuggite al
controllo degli uomini stessi, è chiaro che proprio quella separazione,
che la scienza assume come il non plus ultra, è ciò che deve
essere superato. I fatti non sono ‛isolati'. Non vi sono complessi di
fatti isolati, regioni separate tra loro, come economia, diritto, ecc.
Questa è solo l'apparenza alienata. È l'oggettività feticistica del
mondo delle merci, dei prodotti del lavoro umano che si sono resi
indipendenti dai produttori. Per attingere la realtà il cammino è
inverso. Si tratta non solo di collegare tra loro quei complessi di
fatti isolati, di fluidificarli, così da cogliere l'unità o totalità
che li salda organicamente gli uni agli altri. Ma, più ancora, di
sciogliere quell'oggettività rigida per ritrovarvi dentro la proiezione
del mondo sociale umano da cui essa è scaturita.
Nel corso di questo processo totalizzante, tutto si presenta allora
capovolto. Il mondo dei produttori non ha più dinanzi a sé un mondo
estraneo, retto da leggi proprie, a cui subordinarsi. Bensì riconosce
quell'oggettività come l'essenza sua propria alienata. Acquisisce una
nuova coscienza e vede, al tempo stesso, mutato il proprio essere.
Nella società capitalistica, la classe operaia è solo un anello
dell'ingranaggio. Nel processo di produzione del capitale, essa figura
solo come una parte del capitale stesso: è il capitale variabile. Da
parte che era, essa si trasforma ora nel centro da cui si irradia tutta
la vita della società.
Conoscenza ed emancipazione qui si producono insieme. Il tema della
liberazione dell'uomo, che non trovava posto nel marxismo come scienza,
diviene ora il motivo centrale. Il socialismo è ben più che il
ristabilimento della ‛corrispondenza' tra base e forze produttive. È il
ristabilimento della corrispondenza tra mondo soggettivo e mondo
oggettivo: è il superamento dell'alienazione umana.
Senonché, come avvenga questo superamento e quale ne sia la garanzia, è
solo appeso all'atto di fede in un postulato filosofico. Lukàcs procede
dall'identità hegeliana di soggetto e oggetto. Come per Hegel, il suo
nemico principale è la ‛filosofia della riflessione', l'‛ordinario
intelletto umano', il punto di vista del senso comune che distingue tra
soggetto e oggetto, tra pensiero ed essere. Il prezzo di
quest'impostazione - come ha riconosciuto molti anni dopo l'autore
stesso in sede autocritica - è il ripudio del materialismo e della
scienza. Poiché la reificazione è identificata puramente e
semplicemente con l'oggettività naturale, l'atto d'accusa di Lukàcs
investe simultaneamente tanto il capitalismo quanto la scienza. E, per
meglio dire, una critica indiscriminata sia del fatto che esistano
oggetti fuori di noi, sia del fatto che questi oggetti - in conseguenza
di particolari rapporti sociali - abbiano assunto la forma di merce. È
la critica dell'oggettività del capitale ma anche dell'oggettività
della natura.
Il risultato è quanto mai problematico. La scienza diventa il modo
d'apprendere la realtà, che è proprio del capitalismo. Il suo emergere
appare ‛strutturalmente e organicamente' legato alla struttura
economica del capitalismo. E poiché l'una sta e muore con la morte
dell'altro, sotto le mentite spoglie di una critica della società
capitalistica moderna, viene avanti, in realtà, la critica del
materialismo e della scienza.
Così, nel momento stesso in cui la critica del capitalismo dovrebbe
farsi cogente, universale e necessaria, capace di strappare il consenso
alle menti, essa si produce, simultaneamente, come critica della
scienza, cioè di quella forma di sapere che, per le sue procedure e i
suoi controlli, è la sola in grado di esigere per sé valore di
necessità e obiettività. Il superamento del capitalismo e della scienza
debbono compiersi insieme; e la possibilità dell'uno è legata a quella
dell'altra. Il risultato è che il superamento del capitalismo appare
alla fine appeso a una conoscenza metascientifica, cioè a un atto di
fede, o, se si preferisce, all'identificazione mistica di soggetto e
oggetto.
Naturalmente, Storia e coscienza di classe è un libro
importante. Non foss'altro, è merito suo aver individuato e portato
alla luce una dimensione profonda, e fino allora ignorata, di tutta
l'opera di Marx, come la teoria dell'alienazione e del feticismo che
traversa l'opera giovanile fino a quella della piena maturità. Da Storia
e coscienza di classe ha inizio un capitolo nuovo nella storia
delle interpretazioni di Marx. Ma, non meno indubbio del merito, è
anche il limite di quest'opera. Con la teoria del feticismo, Lukàcs ha
afferrato un bandolo della complessa opera di Marx. Ha permesso, così,
di capire quanto in essa sia importante la dimensione
‛dialettico-teleologica'. La dialettica: perché, senza di essa, non vi
può essere, evidentemente, teoria dell'alienazione: l'alienazione
infatti nasce dalla separazione di ciò che originariamente è unito,
cioè dalla divisione o rottura di un'‛unità originaria'. La teleologia:
perché il tema del superamento dell'alienazione non può non imprimere a
tutta l'opera una prospettiva palesemente finalistica. Senonché,
nell'estrarre questi motivi dal Capitale, Lukács ha
semplicemente ignorato gli altri che ad essi vi sono intrecciati. Il
tema della scienza è risultato, così, violentemente escluso dalla
prospettiva di Marx, quasi che esso fosse una semplice deformazione da
imputare agli interpreti e non anche un motivo radicato profondamente
nella concezione dei due fondatori del ‛socialismo scientifico'. Con la
conseguenza che Lukàcs non si è mai posto il problema della
compresenza, nell'opera di Marx, di queste due prospettive
profondamente diverse, né ha cercato in qualche modo di spiegarla.
Un'integrazione interessante, sotto questo profilo, a Storia e
coscienza di classe è venuta da Marxismo e filosofia di
Korsch. I due libri, com'è noto, non dipendono l'uno dall'altro:
appaiono pressoché simultaneamente. Ancora più sorprendente è, perciò,
la forte convergenza di vedute. Hegel e la categoria della ‛totalità'
dominano anche nel libro di Korsch. Il marxismo, dice Korsch, non si
lascia collocare in nessuno dei comparti tradizionali delle ‛scienze
borghesi'. Economia, filosofia, storia, teoria del diritto e dello
Stato, nessuno di questi comparti è in grado di contenere il marxismo,
ma nessuno di essi sarebbe al sicuro dalle sue incursioni se si
intendesse collocarlo in un altro. Gli eruditi borghesi si sbagliano di
grosso quando partono dal presupposto che il marxismo intenda
sostituire la tradizionale filosofia con una nuova ‛filosofia', la
tradizionale teoria dello Stato e del diritto con una nuova ‛teoria
dello Stato e del diritto'. La teoria non si propone nulla di tutto
questo, così come il movimento politico e sociale del marxismo non mira
a sostituire nuovi Stati e un nuovo ‛sistema di Stati' al tradizionale
sistema degli Stati borghesi.
Ciò che Marx piuttosto si propone, dice Korsch, è la ‛critica' della
filosofia, la ‛critica' di tutte le ‛scienze morali', in breve la
‛critica' dell'ideologia borghese nel suo complesso. Quest'ideologia,
per Marx, fa corpo con la società reale di cui è espressione.
L'economia politica, la teoria dello Stato e del diritto, la filosofia
speculativa non sono altro, per lui, che aspetti e istituti di questa
stessa società. Come la massima opera economica di Marx, Il
Capitale, è un'analisi critica della società borghese e, insieme
(come sottolinea espressamente il sottotitolo), è una ‛critica
dell'economia politica', così è anche di tutto il rimanente del suo
pensiero. Il marxismo, in breve, è un'analisi globale del mondo
borghese. Esso è una critica della società borghese nella sua totalità
e quindi anche di tutte le sue forme di coscienza che costituiscono
‛istituti reali' non meno degli istituti economici propriamente detti.
Ora, il legame essenziale tra Hegel e Marx sta, secondo Korsch, appunto
nella scoperta di questa connessione, cioè nella consapevolezza
profonda che entrambi ebbero della ‛coincidenza di coscienza e realtà',
nel principio che fu comune a entrambi della coincidenza di pensiero ed
essere e, quindi, della dialettica.
Senonché, se questa è stata l'intuizione profonda di Marx, non tutta la
sua opera ne è espressione adeguata. In realtà, essa si è atteggiata
diversamente a seconda dell'evolvere della situazione economica e
politica. Korsch distingue tre grandi periodi che il marxismo ha
attraversato dopo il suo sorgere. Il primo ha inizio verso il 1843 e si
conclude con la rivoluzione del 1848, nella storia delle idee con il Manifesto
del partito comunista. Il secondo ha inizio nel giugno del 1848
con la sanguinosa sconfitta del proletariato parigino e con la
successiva distruzione di tutte le organizzazioni e di tutti i sogni di
emancipazione della classe operaia, ‟in un'epoca di febbrile attività
industriale, di abbrutimento morale e di reazione politica" (v. Korsch,
1923; tr. it., p. 54), che Marx ha descritto nell'Indirizzo
inaugurale del 1864. (Questo secondo periodo si protrae
all'incirca fino alla fine del secolo). Il terzo, infine, è quello in
corso mentre Korsch scrive.
È evidente quale sia il significato di questa periodizzazione. Korsch
si propone di spiegare, con essa, quella ch'egli giudica una relativa
involuzione dell'opera di Marx in corrispondenza del secondo periodo -
il periodo occupato dalla stesura del Capitale. La sconfitta
della rivoluzione, la dissoluzione, prima, e, poi, il lento
ricostituirsi delle organizzazioni politiche del proletariato, hanno
gettato più che un'ombra sul pensiero di Marx: ne hanno alterato in
parte la natura. La teoria che, nella fase rivoluzionaria
prequarantottesca, aveva considerato la rivoluzione sociale una
‛totalità vivente', dove la trasformazione della coscienza e quella
dell'essere sociale si compiono a un tempo, ripiega ora su una linea
diversa. Recedono gli elementi dialettici e prendono il sopravvento
quelli scientifici. Il corso della rivoluzione sembra affidato allo
svolgersi delle leggi oggettive. È l'epoca, dice Korsch, del
‛socialismo scientifico' del Capitale e degli altri scritti
tardi di Marx ed Engels. E la trasformazione consiste precisamente nel
fatto che ‟nella fase più tarda i singoli elementi della totalità:
economia, politica, ideologia, teoria scientifica e prassi sociale, si
sono maggiormente staccati gli uni dagli altri" (ibid., p. 56).
Korsch, dunque, non solo rintraccia, a differenza di Lukács, entrambe
le due prospettive - dialettica e scienza - nell'opera stessa di Marx,
ma tenta in qualche modo di spiegarne la genesi. Solo che la sua scelta
conclusiva è, alla fine, quella stessa già compiuta da Lukács. La
critica marxiana del capitale e dello Stato gli si confonde, così, con
la critica hegeliana dell'‛intelletto scientifico' e della
‛positività'. La critica della società borghese gli si confonde con la
critica idealistica e romantica della scienza.
Queste linee saranno in parte corrette nell'opera di molti anni dopo su
Karl Marx (1938). Lasciati cadere alcuni presupposti
hegeliani, Korsch vi tenta una valutazione più equilibrata del modo
complesso in cui esigenza della scientificità e teoria dell'alienazione
si compenetrano nell'opera di Marx. E tuttavia, a un esame attento,
l'opera, più che fondere le due prospettive, sembra viverne, cautamente
ma fino in fondo, l'interna incompatibilità, così da segnare in qualche
modo un rispettoso distacco di Korsch dal marxismo.
6. Antonio Gramsci
L'interpretazione di Marx sviluppata in Storia e coscienza di
classe e in Marxismo e filosofia costituisce ciò che
si suole chiamare, da molti anni, il ‛marxismo occidentale'. Questa
denominazione non pretende a nessun particolare rigore. Fu coniata, o,
forse, solo rimessa in circolazione, all'inizio degli anni cinquanta da
Merleau Ponty. Ciò non toglie che, per molti aspetti, essa colga nel
segno. Il ‛marxismo occidentale', in effetti, ha alcuni tratti
distintivi comuni che valgono a differenziarlo non solo
dall'interpretazione (tendenzialmente positivistica) del marxismo come
scienza ma anche dal materialismo dialettico russo. Storia e
coscienza di classe è, non a caso, il primo testo marxista che
contenga una critica della dialettica della natura di Engels.
Elementi analoghi ricorrono anche negli scritti di Korsch. In entrambi
gli autori, d'altra parte, sono palesi, come già si è visto, alcuni
orientamenti comuni, dal rifiuto del materialismo e, più ancora, delle
sue ascendenze settecentesche, a quello della scienza, che è
identificata col positivismo. Nel libro di Lukàcs, inoltre, sono già
esplicite riserve critiche di fondo verso la Widerspiegelungstheorie.
Esse diventeranno particolarmente forti in Korsch, dopo il 1927,
allorché la traduzione inglese e tedesca di Materialismo ed
empiriocriticismo diffonderà in occidente il pensiero filosofico
di Lenin, che fino allora vi era pressoché sconosciuto.
In positivo, gli elementi comuni sono non meno evidenti. Essi
consistono, anzitutto, in una marcata accentuazione del momento della
soggettività rivoluzionaria contro ogni concezione deterministica;
nella netta curvatura storico-dialettica che viene attribuita al
pensiero di Marx; nonché, infine, nel ruolo centrale che viene
assegnato all'influenza esercitata da Hegel sui fondatori della
concezione materialistica della storia, soprattutto in ragione del
metodo dialettico. Anche se non può essere considerato in alcun senso
un ‛sistema', si può dire, dunque, che il ‛marxismo occidentale'
presenta alcuni caratteri inconfondibili propri: prontamente rilevati,
del resto, dalle accoglienze nettamente critiche riservate, all'opera
di Lukács come a quella di Korsch, sia dai marxisti ortodossi della
Seconda Internazionale sia dai materialisti dialettici russi.
Ma, se in senso stretto è chiaro che al ‛marxismo occidentale' possono
ascriversi solo alcuni autori di lingua tedesca che furono influenzati
più o meno direttamente dall'opera di Lukács e Korsch (come, almeno in
parte, è il caso per gli esponenti della Scuola di Francoforte), in
senso lato, invece, è avvicinabile a questo indirizzo anche un
pensatore come Antonio Gramsci, che, sebbene abbia svolto la propria
ricerca in piena autonomia e senza aver conosciuto neppure le opere in
questione, presenta tuttavia punti innegabili di contatto con esse, non
foss'altro che per la matrice di cultura idealistica e storicistica che
fu comune anche a lui.
La possibilità di quest'accostamento è confermata dalla convergenza dei
giudizi critici che Lukács e Gramsci formularono sulla Teoria del
materialismo storico, manuale popolare di sociologia marxista
(1921) di Nikolaj Bucharin: il primo nel Grünbergs Archiv del
1923, il secondo dieci anni più tardi, ma indipendentemente, nei Quaderni
del carcere. I temi critici che si incontrano, nelle pagine di
Lukács, sono quelli ormai consueti. La posizione filosofica di Bucharin
è il materialismo volgare, intuitivo. Se questo suo atteggiamento può
considerarsi una reazione comprensibile all'idealismo kantiano dei
socialdemocratici, da Bernstein a Cunow, resta pur sempre il fatto che
esso esclude dal marxismo tutti gli elementi che provengono dalla
filosofia classica tedesca. Bucharin ignora, in particolare, la
dialettica. In luogo di essa, egli presenta una scienza oggettivistica,
positivistica, dominata da una cosalità irrisolta e feticistica.
Essenziale al marxismo è invece ricondurre tutti i fenomeni
dell'economia e della sociologia a rapporti sociali degli uomini tra
loro.
Lungo queste stesse linee, anche le considerazioni critiche di Gramsci.
Egli rileva, anzitutto, che Bucharin perde l'originalità del
materialismo storico o ‟filosofia della praxis", come Gramsci lo
chiama, confondendolo col ‟materialismo metafisico". ‟La filosofia del Saggio
popolare (implicita in esso) - egli scrive - può essere chiamata
un aristotelismo positivistico, un adattamento della logica formale ai
metodi delle scienze fisiche e naturali. La legge di causalità, la
ricerca della regolarità, normalità, uniformità sono sostituite alla
dialettica storica. Ma come da questo modo di concepire può dedursi il
superamento, il ‛rovesciamento della praxis'? L'effetto,
meccanicamente, non può mai superare la causa o il sistema di cause,
quindi non può aversi altro svolgimento che quello piatto e volgare
dell'evoluzionismo" (v. Gramsci, 1975, vol. II, pp. 1402-1403).
Al pari di Lukács, Gramsci investe subito il concetto di scienza: ‟è il
concetto stesso di ‛scienza', quale risulta dal Saggio popolare,
che occorre distruggere criticamente; esso è preso di sana pianta dalle
scienze naturali, come se queste fossero la sola scienza, o la scienza
per eccellenza, così come è stato fissato dal positivismo" (ibid.,
p. 1404). Il materialismo scientifico di Bucharin è il portato ‟di una
concezione antidialettica, dogmatica, prigioniera degli schemi astratti
della logica formale" (ibid., p. 1408).
Anche l'uso che Bucharin fa del termine di ‛materialismo dialettico'
non sfugge alla critica di Gramsci. Marx, egli rileva, ‟non adopera mai
la formula di ‛dialettica materialistica' ma ‛razionale' in
contrapposto a ‛mistica', ciò che dà al termine ‛razionale' un
significato ben preciso" (ibid., p. 1411).
Tuttavia il commento critico dei Quaderni del carcere si
appunta soprattutto contro il materialismo. ‟Il pubblico ‛crede' che il
mondo esterno sia obbiettivamente reale, ma qui appunto nasce la
questione: qual è l'origine di questa ‛credenza' e quale valore critico
ha ‛obbiettivamente'?" Gramsci ritiene che ‟questa credenza è di
origine religiosa, anche se chi vi partecipa è religiosamente
indifferente" (ibid., pp. 1411-1412). ‟Oggettivo significa
sempre ‛umanamente oggettivo', ciò che può corrispondere esattamente a
‛storicamente soggettivo', cioè oggettivo significherebbe ‛universale
soggettivo'". ‟Il concetto di ‛oggettivo' del materialismo metafisico
pare voglia significare una oggettività che esiste anche all'infuori
dell'uomo, ma quando si afferma che una realtà esisterebbe anche se non
esistesse l'uomo o si fa una metafora o si cade in una forma di
misticismo" (ibid., p. 1416).
Circa la mancanza di uno sviluppo adeguato della dialettica da parte di
Bucharin, Gramsci rileva: ‟L'assenza di una trattazione della
dialettica può avere due origini: la prima può essere costituita dal
fatto che si suppone la filosofia della praxis scissa in due elementi:
una teoria della storia e della politica concepita come sociologia,
cioè da costruirsi secondo il metodo delle scienze naturali
(sperimentale nel senso grettamente positivistico) e una filosofia
propriamente detta, che poi sarebbe il materialismo filosofico o
metafisico o meccanico (volgare) [...]. La seconda origine pare sia di
carattere psicologico. Si sente che la dialettica è cosa molto ardua e
difficile, in quanto il pensare dialetticamente va contro il volgare
senso comune che è dogmatico, avido di certezze perentorie ed ha la
logica formale come espressione" (ibid., pp. 1425-1426).
Non meno significativo il giudizio sulla sociologia. ‟La sociologia -
scrive Gramsci - è stata un tentativo di creare un metodo della scienza
storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato,
il positivismo evoluzionistico, sul quale la sociologia ha reagito, ma
solo parzialmente. La sociologia è quindi diventata una tendenza a sè,
è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e
classificare schematicamente fatti storici e politici, secondo criteri
costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un
tentativo di ricavare ‛esperimentalmente' le leggi di evoluzione della
società umana in modo da ‛prevedere' l'avvenire con la stessa certezza
con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia.
L'evoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può
conoscere il principio dialettico col passaggio della quantità alla
qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità
intesa in senso volgarmente evoluzionistico" (ibid., p. 1432).
Come è facile vedere da questa rapida silloge, le opinioni filosofiche
di Gramsci appaiono fortemente influenzate dai temi del neo-hegelismo
italiano e, in particolare, dalla filosofia di Croce. La ripugnanza
verso la sociologia e il giudizio sulle scienze della natura derivano
largamente dalla critica del neo-idealismo italiano: critica che
congiunge i motivi della ‛creazione idealistica contro la scienza',
prodottasi in Europa verso la fine del secolo scorso sulla scia della
dissoluzione del vecchio positivismo, coi temi della critica al senso
comune e all'‛ordinario intelletto umano', sviluppati dalla filosofia
romantica tedesca e, in particolare, da Hegel. È significativa, da
questo punto di vista, la triade che corre, come un Leitmotiv,
lungo tutto il testo di Gramsci: materialismo, logica formale e
metafisica. I tre concetti sono avvicinati fino al punto da risultare,
in pratica, intercambiabili.
Vi è evidentemente anche l'influenza dell'Antidühring di
Engels con la sua equazione ‛senso comune-logica formale-metafisica',
ma, a differenza e contro Engels, Gramsci non esita a riprendere la
genuina formulazione hegeliana (per lui mediata da Croce e Gentile),
identificando il senso comune e, quindi, la cosiddetta logica formale,
con il materialismo propriamente detto.
Non meno evidente il tributo all'idealismo nelle pagine sulla realtà
del mondo esterno. La distinzione di pensiero ed essere e, quindi,
l'eterogeneità o esteriorità di quest'ultimo rispetto al primo è
addossata al dualismo cristiano. È considerata una credenza religiosa.
In realtà, anche qui Gramsci eredita passivamente la critica
idealistica hegeliana contro il materialismo dell'‛ordinario intelletto
umano' e la Reflexionsphilosophie.
Malgrado, quindi, tutte le differenze storiche e culturali, può dirsi
che, anche in Gramsci, l'orizzonte filosofico sembra non estraneo o non
troppo dissimile (limitatamente, ripetiamo, ai temi filosofici) dai
motivi che abbiamo visto affiorare nel cosiddetto ‛marxismo
occidentale'. La sua polemica è indirizzata, anzitutto, contro l'idea
del marxismo come scienza, ben al di là delle insufficienze del manuale
di Bucharin. Ma, non meno che in Lukács e Korsch, affiora anche in lui
la critica del materialismo dialettico, nei limiti almeno in cui era
dato a Gramsci conoscerlo.
Significativo, a questo riguardo, il giudizio critico, espresso in due
punti, sull'Antidühring di Engels. La prima volta, quando
egli rileva: ‟È certo che in Engels (Antidühring) si trovano
molti punti che possono portare alle deviazioni del Saggio.
Si dimentica che Engels, nonostante che vi abbia lavorato a lungo, ha
lasciato scarsi materiali sull'opera promessa per dimostrare la
dialettica legge cosmica e si esagera nell'affermare l'identità di
pensiero tra i due fondatori della filosofia della praxis" (v. Gramsci,
1975, vol. II, p. 1449).
La seconda volta, quando Gramsci osserva che ‟l'origine di molti
spropositi contenuti nel Saggio è da ricercarsi nell'Antidühring
e nel tentativo, troppo esteriore e formale, di elaborare un
sistema di concetti, intorno al nucleo originario di filosofia della
praxis, che soddisfacesse il bisogno scolastico di compiutezza. Invece
di fare lo sforzo di elaborare questo nucleo stesso, si sono prese
affermazioni già in circolazione nel mondo della cultura e sono state
assunte come omogenee a questo nucleo originario, affermazioni che
erano già state criticate ed espulse da forme di pensiero superiore,
anche se non superiore alla filosofia della praxis" (ibid.,
vol. III, p. 1786).
7. Della Volpe e Althusser
La storia del marxismo teorico del XX secolo pone lo studioso di fronte
a una serie di eventi brutali. L'avvento del nazismo in Germania, del
fascismo in Italia e dello stalinismo in Unione Sovietica, segna, per
un ampio arco di anni, la morte del pensiero marxista in tre delle aree
culturali dove esso era stato fino allora più vivo. Se a ciò si
aggiunge il pesante dominio politico e ideologico esercitato dallo
stalinismo su tutti i partiti comunisti formatisi nel seno della Terza
Internazionale almeno fino al XX Congresso (1956) del PCUS, è facile
intendere come, dall'inizio degli anni trenta agli anni sessanta, venga
quasi a mancare, di fatto, materia per una tale storia. Senza tema di
esagerare, si può dire che l'inizio degli anni trenta segna la fine del
marxismo teorico in quella parte del mondo dove esso era nato e si era
diffuso. La Seconda e la Terza Internazionale vengono meno. Si
esauriscono i grandi dibattiti e le controversie teoriche
internazionali, che, malgrado tutto, esprimevano ancora una forma di
rapporto. Restano poche figure isolate di intellettuali, a volte anche
eminenti, la cui elaborazione teorica si risolve ormai nel chiuso della
vita accademica.
Una di queste figure è, in Italia, quella di G. Della Volpe. La sua Logica
come scienza positiva (1950) è un tentativo di rifondazione
teorica del marxismo. Della Volpe muove dalla riscoperta della
giovanile Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico,
cpera gli offre è quello della critica dei processi di ipostatizzazione
(o sostantificazione dell'astratto o realismo degli universali) in cui
incorre la logica dialettica hegeliana. La filosofia di Hegel trasforma
il predicato logico (l'idea) in soggetto a sé, cioè in un sostrato o
sostanza indipendente; contemporaneamente, lascia decadere il reale
empirico, o subjectum del giudizio, a predicato del suo
predicato, cioè lo trasforma in manifestazione essoterica
dell'universale logico sostantificato. Questo processo di
ipostatizzazione, analizzato criticamente da Marx soprattutto nelle
opere giovanili ma richiamato anche in taluni scritti della maturità,
come l'Einleitung del ‛57 o il poscritto alla seconda
edizione del Capitale, è ricollegato da Della Volpe alla
critica sviluppata da Aristotele contro Platone, da Galilei contro la
fisica scolastica, nonché da Kant contro il platonismo di Leibniz. In
tutti questi casi, all'apriorismo dei principî logici si accompagna
un'interpolazione dell'empiria, che è restaurata surrettiziamente,
anziché essere vagliata e depurata criticamente. Da questo punto di
vista, Marx diventa colui che ha coronato il processo di dissoluzione
della vecchia filosofia speculativa. Alle idee-sostanza si
sostituiscono, così, concetti-funzione che, in quanto elaborano
particolari contenuti dell'esperienza, non hanno più validità
universale-generica ma specifica, cioè correlata ai loro contenuti.
Importante, in questa analisi di Della Volpe, la restaurazione del
principio di non-contraddizione, non nella versione scolastica ma in
quella aristotelica o materialistica originaria. E, insieme a questa
restaurazione, la denuncia della portata romantica e speculativa della
critica hegeliana dell'‛intelletto scientifico': critica che è invece
passata quasi di peso nell'opera filosofica di Engels.
La critica delle idee-ipostasi della filosofia si accompagna, come già
si è detto, alla elaborazione della teoria delle astrazioni determinate
o specifiche, le astrazioni della scienza. Queste astrazioni segnano la
trasformazione del vecchio sapere filosofico nel nuovo tipo di
conoscenza posto in essere dal marxismo con la fondazione di una
scienza materialistica della società e della storia o sociologia
scientifica propriamente detta. In questo senso, Marx appare a Della
Volpe come il ‟Galilei del mondo morale", cioè come colui che ha
strappato alla metafisica l'ultima regione in cui essa ancora dominava:
quella delle scienze storico-morali o, più propriamente,
economico-politiche.
Sebbene impegnata anzitutto coi problemi della gnoseologia filosofica,
l'opera di Della Volpe si iscrive nella linea interpretativa del
marxismo come scienza. I suoi tratti più rilevanti sono: il tentativo
di separare il più nettamente possibile Marx da Hegel; il ripudio della
logica dialettica idealistica e a maggior ragione, quindi, del
programma engelsiano di dialettizzazione delle scienze; il tentativo,
infine, di ritrovare negli scritti di Marx i lineamenti di una logica
sperimentale o scientifica dalla cui messa in opera deriverebbero, poi,
i concetti-chiave dell'analisi economica marxiana: dal concetto di
formazione economico-sociale, al concetto di lavoro astratto, di
capitale, di plusvalore, ecc.
È significativo che, sebbene Della Volpe abbia a lungo lavorato intorno
alla critica marxiana dei processi di ipostatizzazione, o scambio di
soggetto e predicato, egli non abbia mai allargato la sua analisi alla
teoria dell'alienazione e del feticismo. Il fatto è, a prima vista,
sorprendente. Tanto più sorprendente se si considera che, per Marx,
questi due processi reali sono strutturati esattamente allo stesso modo
dell'inversione di soggetto e predicato ch'egli imputa alla logica di
Hegel e, in genere, a ciò ch'egli chiamò la ‟metafisica dell'economia
politica". Ma, a un esame più attento, si comprende come questa
omissione da parte di Della Volpe non sia stata casuale. Il
riconoscimento che, per Marx, il denaro, il capitale, lo Stato sono
processi di ipostatizzazione reali e che, perciò, lo scambio di
soggetto e predicato non riguarda soltanto la logica ma la realta
stessa del mondo capitalistico (in quanto mondo ‛capovolto',
‛sottosopra' o ‛testa all'ingiù') avrebbe chiaramente insidiato il
tentativo di Della Volpe di ricostruire l'opera di Marx in termini di
scienza positiva. Quel riconoscimento, infatti, avrebbe comportato -
come avevano visto bene Lukàcs e Korsch - la scoperta di figure
hegeliane, non risolte, nell'opera di Marx: giacché - è evidente - solo
l'identità hegeliana di soggetto e oggetto o la coincidenza di pensiero
ed essere potevano spiegare come Marx considerasse strutturati allo
stesso modo processi logici e processi oggettivi.
La nessuna attenzione riservata alla teoria dell'alienazione e del
feticismo (in conformità, del resto, con tutta la linea interpretativa
del marxismo come scienza) spiega, infine, come il tentativo di Della
Volpe non abbia offerto spazio alla ricostruzione dell'opera di Marx in
chiave di ‛critica dell'economia politica': chiave tanto più importante
se si considera che il tema è enunciato nel sottotitolo del Capitale
e nel titolo dello scritto del 1859 Per la critica
dell'economia politica. In materia di analisi economica, Marx è
apparso a Della Volpe esclusivamente come uno scienziato dell'economia
politica, anzi come colui che, poggiando sugli antecedenti di Smith e
Ricardo, ha costruito per la prima volta l'economia politica come
scienza. Senza che, nella valutazione delle differenze di Marx rispetto
a Smith e Ricardo, venisse mai prestata attenzione a quella tematica
dell'alienazione che, del tutto estranea agli economisti classici
inglesi, entra a costituire tanta parte dell'opera cosiddetta economica
di Marx, dal concetto di lavoro astratto al concetto di valore e, in
genere, al concetto del mondo delle merci e del capitale come mondo del
feticismo.
Alcune delle considerazioni qui svolte per Della Volpe si attagliano
anche all'opera del marxista francese L. Althusser, il cui merito
principale sembra esser quello di aver animato, coi propri scritti, la
tradizione assai povera del marxismo francese: rudimentale nei suoi
esordi con Lafargue e Guesde e poi abbrutita nella stanca ripetizione
delle forme più viete del materialismo dialettico russo (è
interessante, sotto questo profilo, l'introduzione di Althusser al suo
libro Pour Marx). Anche in questo caso, si tratta di un
tentativo di interpretare l'opera di Marx come opera di scienza. Marx
sarebbe, secondo Althusser, colui che ha aperto alla scienza ‟il
continente Storia". Ma ciò che Althusser intende per scienza rimanda
alle elaborazioni degli strutturalisti francesi, in particolare
Foucault. Questa situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che, in
materia di epistemologia, Althusser è interamente debitore (secondo una
pratica non inconsueta al centralismo culturale francese e non esente,
in qualche caso, da punte di provincialismo o, addirittura, di
sciovinismo culturale) verso l'opera di G. Bachelard, nel silenzio (e
si può anche supporre nell'ignoranza totale) di ciò ch'è stato prodotto
dall'epistemologia contemporanea più significativa, da Hempel a Popper,
da Carnap a Nagel, ecc.
L'insistenza posta sul carattere scientifico del pensiero di Marx ha
riproposto, nel caso di Althusser, l'annoso problema dell'unità
dell'opera marxiana o, più semplicemente, del giudizio circa il
rapporto degli scritti giovanili con quelli della piena maturità.
Questo problema era già affiorato in modo piuttosto acuto nel secondo
dopoguerra, allorché divenne nota a un pubblico più largo di studiosi
l'opera giovanile - e, in particolare, i Manoscritti
economico-filosofici - che era stata pubblicata postuma intorno
all'inizio degli anni trenta. In Francia, per particolari ragioni, il
problema fu più acuto che altrove. Il marxismo francese, infatti, in
quanto materialismo dialettico, non poteva sviluppare alcuna
comprensione per la tematica dell'alienazione contenuta nei Manoscritti.
Esso era attestato sull'Antidühring e sulla Dialettica
della natura. Da questi testi, tentare di gettare un ponte verso
l'opera giovanile di Marx era impresa, più che ardua, assurda. Il
risultato fu che quest'opera venne abbandonata dal marxismo nelle mani
delle varie correnti esistenzialistiche o di umanesimo spiritualista
che allora erano in voga in Francia. Su questo terreno, già
sfavorevolmente predisposto alla comprensione degli scritti giovanili,
è sopravvenuta infine la condanna senza appello formulata nei loro
confronti da Althusser.
Le ragioni di questa condanna sono semplici. Gli scritti giovanili e,
in particolare, i Manoscritti, sono dominati, come già si è
detto, dal tema dell'alienazione. Lo schema, che presiede a essi, è
quello di un movimento a tre fasi. Originariamente, vi è l'unità di
uomo e natura. A questa unità succede, nella storia, la separazione
dell'uomo dall'uomo e dell'uomo dalla natura, che è a un tempo
contrapposizione, nell'uomo stesso, tra essenza ed esistenza. Infine,
con il superamento dell'alienazione, si ha il recupero, a un livello
naturalmente superiore, dell'unità originaria. Questa tematica, cosi
fortemente segnata dai motivi dell'umanesimo e del finalismo storico, è
respinta da Althusser come ‟ideologica". Essa è considerata da lui come
il residuo della fase feuerbachiana del pensiero di Marx. Il residuo da
cui Marx si sarebbe liberato quando, in forza della coupure
épistémologique (concetto che Althusser deriva da Bachelard),
egli sarebbe approdato alla scienza della storia.
Senonché il difficile di quest'operazione - e Althusser l'ha
sperimentato - è dove sistemare la coupure. Contrariamente
infatti a molte leggende, che vorrebbero il tema dell'alienazione e del
feticismo confinato soltanto nei Manoscritti e nel paragrafo
del Capitale sul ‛carattere di feticcio della merce', è un
fatto che il tema è invece presente - e in posizione, come si dice
oggi, strategica - in tutta l'opera economica di Marx della maturità.
La coupure, quindi, che, originariamente, sembrava dovesse
coincidere con l'Ideologia tedesca (1846) è stata
progressivamente spostata da Althusser sempre più avanti fino al punto
di cadere (non senza qualche effetto comico) nel momento (1882-1883) in
cui Marx, pochi mesi prima della morte, annotò alcune brevi glosse
marginali al manuale di economia politica di A. Wagner.
Ma, a parte la coupure, la questione che più lascia perplessi
nell'opera di Althusser è il fatto che, mentre da una parte egli ha
sempre avversato come ‟ideologico" il tema dell'umanesimo e bandito,
con esso, qualsiasi elemento di finalismo storico, fino al punto di
considerare come decisiva in Marx la concezione della storia come
‟processo senza soggetto"; da un'altra parte, egli ha continuato a
considerare essenziale, nell'opera di Marx, la dialettica come scienza
delle contraddizioni.
Althusser può obiettare che la dialettica in Marx c'è veramente. E noi
condividiamo la sua obiezione. Può aggiungere che, per Marx, nella
lotta di classe, non si tratta di un'‛opposizione reale' di forze
contrarie che si affrontano, ma di forze che sono saldate l'una
all'altra nel loro conflitto in modo tale che il conflitto stesso,
lungi dal distruggere l'una o dall'annullarle entrambe (come accadrebbe
nell'‛opposizione reale'), le riproduce costantemente nella loro stessa
conflittualità: così che occorre che vi sia unità nella divisione e
divisione nell'unità; che l'unità e la divisione siano una sola e
medesima cosa. E, di nuovo, noi condividiamo l'obiezione.
Ciò, però, che egli non può negare, a questo punto, è che, proprio un
processo (come quello descritto), il quale giunto alla fine riproduce
il punto d'inizio, è la definizione stessa di ciò che, in filosofia, si
chiama processo teleologico. E, del resto, che la dialettica implichi
siffatto finalismo (che è poi la ragione per cui la dialettica stessa è
estranea alla scienza e da questa, a sua volta, è sentita come nemica)
è ciò che si apprende non appena si comincia a studiare la dialettica
di Hegel. Giacché, è noto, questa dialettica implica la rottura
dell'unità originaria, l'alienazione di quest'unità da sé, nonché,
infine, l'Aufhebung dell'alienazione e il ristabilimento
dell'unità stessa.
A questo punto, l'obiezione di prima può essere riformulata. Ciò che
più lascia perplessi nell'opera di Althusser è come - essendo nemico
dell'alienazione perché nemico del finalismo - egli accetti poi la
dialettica in Marx: senza rendersi conto che la teoria della dialettica
e la teoria dell'alienazione sono la stessa cosa e che prendere l'una
credendo di respingere l'altra, è impresa contraddittoria e vana.
Ma, per paradossale che possa sembrare, ciò che vi è di importante in
Althusser è proprio questo: che, mirando giustamente alla scienza, egli
ha aiutato, forse più di ogni altro, a capire l'incompatibilità che vi
è tra qualsiasi interpretazione dell'opera di Marx come opera di
scienza e la pretesa di salvare e saldare ad essa una teoria
dell'alienazione. Anche se si deve poi aggiungere che, in questo
lavoro, egli si è fermato a mezza strada, senza vedere che
l'incompatibilità tra scienza e alienazione portava con sé,
inevitabilmente, anche quella tra scienza e dialettica.
8. Questioni di teoria economica
Da collocare nell'ambito del marxismo come scienza sono anche i
dibattiti intorno alla teoria economica marxista che punteggiano il XX
secolo. In tutte queste discussioni, ovviamente, non una parola
sull'alienazione e sul feticismo (gli economisti non ne sanno nulla).
Marx è considerato essenzialmente uno scienziato che ha proseguito e
sviluppato l'opera di Smith e di Ricardo. Un economista, non un
‛critico dell'economia politica': giacché a una tale espressione non si
saprebbe neppure dare un senso. Anche il tema dell'influenza di Hegel è
in genere, almeno tra gli studiosi meno prevenuti, minimizzato e
respinto in secondo piano. Tipico, in questo senso, il giudizio di
Schumpeter in Capitalismo, socialismo e democrazia.
Per lui, insistere sull'influenza di Hegel nell'opera di Marx ‟non è
soltanto commettere un errore: è far torto alle capacità scientifiche
di Marx. E vero ch'egli rimase fedele per tutta la vita al primo amore,
si dilettò di certe analogie formali tra il ragionamento di Hegel e il
suo, tenne sempre a ribadire il proprio hegelismo e a servirsi della
terminologia hegeliana; ma tutto finisce qui. Non mostrò mai una vera
tendenza alla metafisica; lo dichiara egli stesso nella prefazione alla
seconda edizione di Das Kapital, e che tale affermazione
corrisponda alla realtà si può dimostrare esaminando il tipo delle sue
argomentazioni, che poggiano sempre sul fatto sociale, e le fonti delle
sue proposizioni, nessuna delle quali si ritrova nel campo della
filosofia" (v. Schumpeter, 1954; tr. it., pp. 8-9).
Marx, dunque, come uno scienziato positivo. E naturalmente, sotto
questo profilo, torna in primo piano, anche per le necessità della
polemica contro il soggettivismo delle teorie marginaliste,
l'insistenza sulle ‛leggi economiche di movimento', le leggi oggettive
di cui si occupa, o si dovrebbe occupare, l'economia politica: leggi
che, a parte tutte le altre differenze, sussistono tanto nel
capitalismo quanto nel socialismo. Il tema è già toccato da Hilferding,
nel 1904, nella sua Böhm-Bawerks Marx-Kritik, cioè nella
replica allo scritto di Böhm-Bawerk Zum Abschluss des Marxschen
Systems (1896). Ma resta un punto fermo attraverso i decenni.
Abbiamo già visto le dichiarazioni di Stalin, a questo proposito, nei Problemi
economici del socialismo nell'URSS.
Si può ora aggiungere che esse erano già state anticipate da M. Dobb in
due suoi interventi su Economic theory and the problem of a
socialist economy del dicembre 1933 e del febbraio 1935,
rispettivamente sull'‟Economic journal" e su ‟The review of economic
studies". In quest'ultimo scritto, la formulazione è particolarmente
chiara. Polemizzando contro la ‟pericolosa eredità lasciataci
dall'economia soggettivistica", Dobb afferma: ‟Le leggi economiche di
cui parlava l'economia politica classica erano leggi oggettive che
stringevano gli uomini - qualsiasi fossero i loro progetti coscienti -
come in una ‛mano invisibile', un regno della legge nel campo sociale
simile a quello del determinismo, che la scienza stava allora scoprendo
nel campo naturale. Queste leggi, queste tendenze oggettive, esistono
oppure non esistono: in quest'ultimo caso l'economia politica, così
com'è stata tradizionalmente concepita, è una pura illusione". E poco
oltre aggiungeva: ‟Le leggi economiche che governano un'economia
socialista, quali che siano, assomiglieranno all'economia politica
classica solo in questo senso: saranno rapporti oggettivi tra eventi,
capaci di determinare le azioni umane e a cui dovrà essere adattato un
piano efficace. Engels disse una volta che il socialismo avrebbe
rappresentato la transizione ‛dal regno della necessità a quello della
libertà' - col che non voleva dire che le leggi economiche avrebbero
cessato di operare, ma che non avrebbero più operato ‛ciecamente',
‛alle spalle dei produttori individuali', per raggiungere fini diversi
da quelli coscientemente voluti e intesi dagli uomini. L'attività
economica sarebbe stata regolata dal consapevole riconoscimento delle
leggi obiettive che la determinano, mentre l'uomo collettivo, conscio
dei propri limiti, avrebbe adattato i propri propositi alle possibilità
oggettive" (v. Dobb, 1935; tr. it., pp. 49-50).
In questa prospettiva, la legge del valore-lavoro contenuto appare come
una legge scientifica nel senso pieno della parola. E una legge non
dissimile da quella della caduta dei gravi, che, una volta scoperta,
permette di afferrare l'interna razionalità di fenomeni che sarebbero
destinati, altrimenti, ad apparire inspiegabili, privi di qualsiasi
regolarità, soggetti a spinte puramente casuali. ‟Ove si consideri -
scrive Hilferding - la complessità dei rapporti proporzionali,
indispensabili in un sistema di produzione, per anarchico che sia; si
affaccia immediatamente il problema di chi mai si prenda cura di
mantenere questi rapporti. E chiaro che solo la legge dei prezzi può
svolgere questa funzione, giacché sono proprio i prezzi che regolano la
produzione capitalistica, e sono le loro variazioni a determinare
l'espansione o la limitazione della produzione, l'avvio di una nuova
produzione, ecc. Anche qui si dimostra la indispensabilità di una legge
obbiettiva del valore, quale unico possibile regolatore dell'economia
capitalistica" (v. Hilferding, 1910; tr. it., p. 335).
A questa stessa accezione pensa anche P. M. Sweezy quando - dopo aver
osservato che ‟la legge del valore è essenzialmente una teoria di
equilibrio generale" - rileva che ‟ciò implica che una delle principali
funzioni della legge del valore è di porre in chiaro che in una società
produttrice di merci, nonostante manchi una formazione centralizzata e
coordinata delle scelte, esiste un ordine e non il semplice caos". Ed
egli prosegue: ‟Nessuno ha il potere di decidere come deve essere
distribuita la forza produttiva o in quale quantità debbono essere
prodotti i vari tipi di merce; eppure il problema trova la sua
soluzione, e non in maniera esclusivamente arbitraria e
incomprensibile. È compito della legge del valore spiegare come ciò
accade e quale ne sia il risultato" (v. Sweezy, 1949; tr. it., p. 81).
Su questa stessa linea, e con il vantaggio di indicarne il luogo di
nascita in Smith e Ricardo, si iscrive anche l'interpretazione che
della legge del valore ha dato Dobb. ‟Con l'opera di Smith e la sua più
rigorosa sistemazione da parte di Ricardo, l'economia politica - egli
scrive - ha creato un principio quantitativo di unificazione, che l'ha
messa in condizione di formulare postulati in termini di equilibrio
generale del sistema economico e di formulare leggi sui rapporti
generali tra i maggiori elementi del sistema. Nell'economia politica
questo principio di unificazione, o sistema dileggi generali espresso
in forma quantitativa, è costituito dalla teoria del valore" (v. Dobb,
1937; tr. it., p. 17).
Abbiamo insistito su queste enunciazioni a proposito della teoria del
valore perché esse mostrano bene quale sia l'interpretazione prevalente
tra gli economisti marxisti, a partire dalla Seconda Internazionale
fino a oggi. La legge è considerata una legge oggettiva, al modo stesso
delle leggi indagate dalle scienze della natura. E l'elemento
unificatore che permette di intendere come tutto ciò che nella
produzione capitalistica sembra a prima vista irrazionale e fortuito
sia invece regolato e dominato da un'interna razionalità. In breve, si
tratta di una legge che consente di esprimere in termini quantitativi
(questo è da sottolineare) i rapporti generali tra i maggiori elementi
del sistema. Alla luce di essa, il sistema capitalistico, che a prima
vista sembra un caos in perenne tumulto, si scopre, nel profondo, come
un organismo equilibrato in cui tutte le parti sono in corrispondenza
armonica tra loro.
Se si riflette a queste caratteristiche che la legge del valore assume
presso la maggior parte degli economisti marxisti, è facile trarre una
conclusione: la legge è considerata come il principio che dà ragione
‛del funzionamento' del sistema. Essa spiega come, malgrado tutte le
contraddizioni e gli attriti, il sistema funzioni e come dal caos
rinasca costantemente un ordine. È, insomma, una ‛legge di equilibrio'.
Senonché proprio questa caratteristica mostra a qual genere di
inconvenienti vada incontro questo tipo di interpretazione. Se infatti
la legge è una ‟teoria di equilibrio generale" (Sweezy), è evidente
che, concesso ch'essa risulti capace di ricostruire il funzionamento
del sistema, non sarà però in grado di esprimere nessuna delle ragioni
per cui il sistema stesso è destinato a essere superato. Di più: poiché
in questa interpretazione la legge è essenzialmente un ‟principio
quantitativo di unificazione" (Dobb), ne deriva che essa deve assumere
anche solo in termini quantitativi i ‛valori' delle merci. Con il
risultato, che la legge si mostra in tal modo incline a considerare
esclusivamente i rapporti quantitativi' in base a cui le merci si
scambiano tra loro, cioè il ‛valore di scambio' propriamente detto,
anziché porsi il problema ‛qualitativo' (per Marx, il problema del
feticismo o arcano della merce') di spiegare perché il prodotto del
lavoro umano prenda la forma di ‛merce', ovvero perché il lavoro speso
nella produzione si presenti reificato come ‛valore' di cose.
Quest'ultimo aspetto, che è il nodo centrale della teoria del valore in
Marx, risulta quasi completamente ignorato in questa interpretazione,
per la quale, si direbbe, la forma di merce torna a essere considerata
la ‛forma naturale' del prodotto del lavoro umano, così come già era in
Smith e Ricardo. Le conseguenze più rilevanti di questo modo di vedere
sono fondamentalmente due. La prima è quella di una radicale riduzione
della teoria del valore-lavoro di Marx a quella dei classici. L'idea
che prevale è che questa teoria sia sostanzialmente quella stessa di
Ricardo. Non si avverte la differenza tra la teoria del valore di Marx
e quella di Ricardo. La seconda, che è poi un modo diverso di
riformulare la prima, investe la natura stessa del ‛lavoro' che,
secondo Marx, entra a costituire il valore della merce.
In questo caso gli interpreti insistono sul concetto di ‛lavoro sociale
medio', ma senza rendersi conto che ciò è solo la metà del discorso di
Marx. Infatti, per Marx, il lavoro sociale medio presuppone il ‛lavoro
astratto', ciò che coinvolge di nuovo il rapporto ‛qualitativo' di cui
prima si è detto. Ciò risulta in modo particolarmente chiaro da un
passo del terzo volume delle Theorien über den Mehrwert (o,
secondo il titolo della traduzione italiana, della Storia delle
teorie economiche). ‟Che il quantum di lavoro contenuto
in una merce - scrive Marx - sia il quantum ‛socialmente
necessario' alla sua produzione - che il tempo di lavoro sia dunque
‛tempo di lavoro necessario - e una determinazione che si riferisce
solo alla ‛grandezza di valore'. Ma il lavoro che costituisce l'unità
della merce non è solo lavoro medio eguale, semplice. Il lavoro è
lavoro dell'individuo privato, rappresentato in un prodotto
determinato. Tuttavia, in quanto valore, il prodotto dev'essere
incorporazione del lavoro sociale, e in quanto tale dev'essere
immediatamente trasformabile da un valore d'uso in ogni altro [...]. Il
‛lavoro privato' deve dunque rappresentarsi immediatamente come il suo
contrario, come lavoro ‛sociale'; il lavoro così trasformato come suo
immediato contrario, come lavoro ‛astrattamente generale', che si
rappresenti quindi anche in un equivalente generale. È solo con la sua
alienazione che il lavoro individuale si rappresenta realmente come il
suo contrario" (v. Marx, 1905-1910; tr. it., vol. III, p. 151).
Ora, poiché gli interpreti non sanno nulla di questa alienazione e
opposizione dialettica tra lavoro privato, utile o concreto, e lavoro
sociale astratto, è evidente come la loro concezione di quello che,
secondo Marx, è il lavoro produttore di valore, sia assolutamente
manchevole. Essi si tengono fermi alla determinazione puramente
‛quantitativa', ignorando l'analisi ‛qualitativa' che descrive il
processo sociale che sta dietro la formazione stessa della grandezza di
valore. Il risultato è che confondono il ‛lavoro astratto' di Marx con
il ‛lavoro incorporato' di Ricardo e che, considerando quest'ultimo
come rappresentativo a tutti gli effetti del primo, riducono la
‛grandezza di valore' a una misura puramente contabile, tecnica, priva
di qualsiasi connotazione storico-sociale, com'è appunto il caso
dell'ultimo Dobb nonché di Produzione di merci a mezzo di merci (1960)
di P. Sraffa. (Per amore di completezza va detto che una coscienza
almeno iniziale del problema è presente, invece, nella Teoria
dello sviluppo capitalistico di Sweezy con la sua distinzione tra
l'aspetto ‛qualitativo' e ‛quantitativo' del valore, nonché nel libro
postumo di H. Grossmann su Marx, l'economia politica
classica e il problema della dinamica).
È importante avere ben chiara quest'interpretazione della teoria del
valore come ‛teoria di equilibrio generale' perché essa costituisce uno
dei capisaldi che è alla base della controversia, nata nel seno del
marxismo della Seconda Internazionale, sul fatto se in Marx esista o
meno una ‛teoria del crollo'. Il dibattito, com'è noto, nacque
originariamente dal libro di E. Bernstein, Le premesse del
socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899).
Per Bernstein, il crollismo di Marx era fuori discussione. Esso nasceva
dalla sua visione ‛fatalistica' del corso storico, che era, a sua
volta, una conseguenza dell'applicazione della dialettica hegeliana. Le
reazioni dei marxisti ortodossi furono, com'è noto, per lo più di
avviso contrario. Tuttavia chi determinò l'affermazione come
maggioritaria della linea contro il crollo fu essenzialmente il Capitale
finanziario (1910) di Hilferding (malgrado che del crollo il
libro non si occupi quasi affatto). E impossibile, in questa sede,
entrare nel merito della discussione. Essa verte, fondamentalmente,
sull'interpretazione dei cosiddetti schemi della riproduzione semplice
e allargata elaborati da Marx nel libro II del Capitale.
Impossibile, nel nostro caso, soffermarci anche sull'analisi
dell'influenza determinante esercitata su Hilferding (ma anche su
Lenin) dall'economista russo M. Tugan-Baranovskij con la sua Teoria
e storia delle crisi commerciali in Inghilterra (1894) nonché con
le sue Theoretische Grundlagen des Marxismus (1905). Ciò che
interessa ai nostri fini è solo afferrare la questione nei suoi termini
più generali. L'interpretazione della teoria del valore, di cui si è
detto, scopre qui tutta la sua portata ‛armonicistica'. Nata
dall'esigenza di spiegare il funzionamento interno del sistema, essa si
dimostra incapace di trascenderlo. Ricordando nel 1926 la sua
opposizione di sempre alla Zusammenbruchstheorie ed
esprimendo la convinzione di essersi in ciò trovato sempre ‟in completo
accordo con le dottrine di K. Marx", Hilferding osservava che ‟proprio
il secondo libro del Capitale mostra come all'interno del
sistema capitalistico la produzione sia possibile a una scala sempre
maggiore": fino ad aggiungere poi, scherzando, che ben per questo egli
si era spesso rallegrato che ‟questo secondo libro sia così poco letto,
giacché, in certi casi, si potrebbe ricavare da esso un Cantico dei
Cantici del capitalismo".
Se alla tesi di Hilferding si affianca ora quella, opposta, della
Luxemburg, la regina dei teorici del crollo, contenuta nell'Accumulazione
del capitale (1913), si hanno chiari gli estremi dell'alternativa
in cui l'analisi marxiana si scompone agli occhi degli interpreti.
L'opera di Marx è un intreccio di motivi assai complesso. È una critica
del capitalismo, un'analisi delle contraddizioni interne che lo minano;
ma è anche, al tempo stesso, l'esposizione e la ricostruzione del modo
in cui, malgrado tutto, il sistema esiste e funziona. Detto in modo più
semplice e chiaro, ciò significa che l'analisi di Marx si muove su un
difficile ‛filo di rasoio', che la discrimina da due altri modi di
vedere radicalmente diversi. E cioè: 1) da quelle critiche del
capitalismo che, per così dire, ‛dimostrano troppo', ossia che, nello
sforzo di acutizzare le contraddizioni interne al sistema, finiscono
col dimostrare non già la contraddittorietà del sistema esistente ma
addirittura la sua ‛impossibilità', l'impossibilità della sua esistenza
e del suo funzionamento; e 2) da quell'opposto modo di vedere che
invece - tutto preso e compreso dall'‛esistenza' del meccanismo che
indaga - ne attenua e minimizza gli squilibri interni, fino al punto di
rendere quell'esistenza ‛assoluta' ed ‛eterna' e, quindi, di non vedere
più le ragioni per cui il sistema stesso non può funzionare e durare
all'infinito.
Con una certa dose di semplificazione, si può dire che il secondo caso
contemplato si attaglia a Hilferding, il primo alla Luxemburg. È
evidente che, anche questa volta, non possiamo entrare nell'analisi
degli argomenti sviluppati dall'Accumulazione del capitale.
Non diremo quindi nulla né delle ragioni per cui la Luxemburg considera
impossibile l'accumulazione in condizioni capitalistiche ‛pure' né del
ruolo essenziale, ma destinato a inevitabile esaurimento, che, secondo
lei, svolgono le cosiddette ‛terze persone', cioè gli elementi esterni
al mercato capitalistico. Ciò che interessa, ai fini del nostro
discorso, è registrare l'impasse a cui perviene, su questo
terreno, l'interpretazione del marxismo come scienza. Nel caso di
Hilferding e di tutti i teorici cosiddetti ‛armonicisti' (Kautsky, O.
Bauer, Eckstein, ecc.), l'analisi delle ‛leggi di movimento' si risolve
nell'analisi di condizioni che sostanzialmente concorrono
all'‛equilibrio': alla luce dei fattori evidenziati si capisce come
funziona il sistema e quali sono i principi che lo regolano, ma non
altrettanto la possibilità di superarlo e trascenderlo. Nel caso,
viceversa, della Luxemburg e, più ancora, dell'analisi sviluppata da H.
Grossmann in Das Akkumulations-und Zusammenbruchsgesetz des
kapitalistischen Systems, il crollo del sistema è fin troppo
garantito, è automatico; ma esso si determina, proprio come il blocco
di un motore, in forza di ragioni meccaniche e senza che a esso
concorrano minimamente nè la lotta delle classi nè la coscienza
rivoluzionaria dei protagonisti.
Ci siamo soffermati a lungo nel corso della nostra esposizione
sull'interpretazione della legge del valore come teoria dell'equilibrio
e come regolatore del sistema economico. L'esame dell'ultimo approdo di
questa linea interpretativa nello scritto di O. Lange On the
economic theory of socialism (1936-1937) ci permette anche di
menzionare la celebre discussione sui problemi del calcolo economico
nello Stato socialista che vide impegnati, in momenti diversi, N. G.
Pierson, L. von Mises, G. Halm e, infine, F. A. von Hayek, che ne
raccolse i documenti in Collectivist economic planning, nel
1935.
Diciamo subito che è lungi da noi l'intenzione di sottovalutare i seri
e importanti problemi che stanno dietro allo scritto di Lange e, più
ancora, a tutto il dibattito che, circa vent'anni dopo quello scritto,
si è aperto nei paesi dell'Europa dell'Est sul cosiddetto ‛socialismo
di mercato'. Ciò non toglie che sia altamente significativo, nella
storia del marxismo teorico del XX secolo, valutare quanto
l'interpretazione, da parte di Lange, della legge del valore e della
funzione del mercato sia ormai lontana, e quasi agli antipodi, rispetto
a quella di Marx. Il problema delle condizioni storiche e sociali in
cui il prodotto del lavoro prende la forma di merce, che è il problema
centrale nella teoria del valore di Marx, qui non esiste più. La ‛forma
di merce' è tornata a essere, a tutti gli effetti, la ‛forma naturale'
del prodotto. I prezzi, sia pure nella forma di ‛prezzi contabili',
sono i soli indici razionali delle alternative disponibili. La tesi, in
breve, è che il mercato - che in Marx era la somma dell'irrazionalità
sociale - è il solo meccanismo che consenta, anche in condizioni di
pianificazione, il dispiegarsi della razionalità economica. Giacché,
spiega Lange all'inizio della seconda parte del suo saggio, ‟la
concorrenza costringe gli imprenditori in un mercato concorrenziale ad
agire esattamente nello stesso modo in cui dovrebbero agire se fossero
direttori di produzione in un sistema socialista". E conclude: ‟il
fatto che la libera concorrenza tenda a imporre regole di comportamento
simili a quelle di una economia perfettamente pianificata fa della
concorrenza stessa l'idea favorita degli economisti" (v. Lange, 1937;
tr. it., p. 97).
Enciclopedia delle Scienze sociali (1996)
di Pietro Rossi
Sommario: 1. Il marxismo come scienza della
società. 2. Il marxismo come concezione generale della storia e come
prospettiva rivoluzionaria. 3. L'analisi dello sviluppo capitalistico.
4. La critica dell'economia politica e la teoria del valore-lavoro. 5.
Il rapporto con l'antropologia evoluzionistica e l'origine della
società e dello Stato. 6. La teoria del crollo del capitalismo. 7. La
teoria dell'estinzione dello Stato e il ruolo del partito. 8. Marxismo
e scienza economica: dalla critica della teoria del valore-lavoro alle
teorie dello sviluppo. 9. Marxismo e sociologia: la critica del
materialismo storico e l'eredità della teoria delle classi. 10.
Marxismo e antropologia: le 'rivoluzioni' produttive e la natura
dell'economia primitiva. 11. Il marxismo tra concezione del mondo,
critica delle ideologie e ideologia. 12. Conclusione. □ Bibliografia.
1. Il marxismo come scienza della società
Il marxismo nasce, negli scritti di Marx e di Engels degli anni
quaranta dell'Ottocento, sotto forma di una scienza della società che
intende fornire un'interpretazione complessiva della nascente società
borghese-capitalistica e della sua direzione di sviluppo. Naturalmente
il marxismo non è soltanto questo, e lo vedremo in seguito; ma fin
dall'inizio è anche e soprattutto questo. A partire dal 1845, e ancor
più esplicitamente nel Manifesto del partito comunista scritto alla
vigilia della rivoluzione europea del 1848, Marx ed Engels hanno preso
posizione nei confronti di quello che hanno definito il socialismo
"utopistico", contrapponendogli il proprio come socialismo
"scientifico". E nella prefazione al Capitale (1867) Marx ha dichiarato
che oggetto della sua indagine era "il modo capitalistico di produzione
e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono", di cui
si proponeva - in analogia con il procedimento delle scienze della
natura - di scoprire le "leggi naturali", cioè le tendenze "che operano
e si fanno valere con bronzea necessità". Questa rivendicazione di
scientificità non è affatto estrinseca; essa è invece un elemento
costitutivo dell'analisi marxiana (e poi marxistica) della società. Ciò
che Marx ed Engels si propongono è infatti, in primo luogo, individuare
gli aspetti caratteristici di una nuova struttura sociale che si è
venuta affermando nel mondo europeo nel corso degli ultimi secoli, e di
cui lo sviluppo dell'industria, dapprima sul suolo inglese poi anche
nel continente, ha ormai posto in luce l'irriducibilità alle società
del passato; in secondo luogo, spiegare il processo di trasformazione
che ha messo capo ad essa e che potrà condurre, in futuro, alla nascita
di un'altra società che ne costituisca il "superamento".
La prima linea di analisi ha il proprio centro di gravità nel
riconoscimento della struttura capitalistica della società moderna -
una struttura assente nelle società del passato - la quale si è venuta
costituendo nel corso di un processo secolare che ha avuto inizio nel
tardo Medioevo. Questa struttura risulta caratterizzata dal prevalere
della proprietà privata o, più precisamente, di un tipo particolare di
proprietà privata - la proprietà capitalistica - che comporta, per un
verso, la trasformazione delle forme di proprietà precedenti e, per
l'altro, un processo di crescente concentrazione nelle mani di un
determinato gruppo sociale, ossia della classe dei "capitalisti".
Caratteristica fondamentale della proprietà capitalistica è infatti la
separazione tra capitale e lavoro, e quindi tra la classe che possiede
i mezzi di produzione e quella che fornisce la forza-lavoro. Marx ha
collegato questa analisi alla distinzione, formulata da Smith e
largamente recepita dall'economia politica dei primi decenni del secolo
XIX, tra salario, rendita e profitto, definendo il reddito del capitale
investito in termini di profitto. Mentre la classe proprietaria di
origine feudale aveva la propria base economica nella rendita, la
classe capitalistica vive del profitto ricavato dall'investimento del
capitale, e perviene ad accumulare capitale in misura crescente
attraverso il profitto.
Ma nel passaggio dalla società feudale, fondata sulla proprietà
terriera, alla società borghese-capitalistica non si ha soltanto uno
spostamento di importanza dalla rendita al capitale; la rendita stessa
viene trasformata in capitale, cosicché la classe percettrice di
rendita vede progressivamente diminuita, insieme al proprio peso
economico, anche la propria importanza sociale. E come la classe
capitalistica viene assorbendo i ceti redditieri, così la classe
operaia assorbe, da parte sua, i ceti artigianali e piccolo-borghesi.
Al processo di concentrazione del capitale fa riscontro la
proletarizzazione della forza-lavoro, che viene a trarre la fonte
esclusiva del proprio sostentamento dal salario.Questa analisi, ripresa
e ampiamente sviluppata nel primo libro del Capitale - pubblicato a
distanza di circa un ventennio, nel 1867 -, poggia su
un'interpretazione conflittuale della struttura dicotomica della
società moderna. Capitale e lavoro, profitto e salario non sono infatti
componenti che cooperano al processo produttivo integrandosi a vicenda;
sono invece elementi contrapposti, in quanto la classe capitalistica
tende ad accrescere il proprio profitto riducendo la quota di ricavo
destinato ai salari al minimo possibile, a un livello di pura e
semplice sussistenza, mentre la classe operaia è in balia delle crisi
ricorrenti che producono disoccupazione. Il rapporto tra le due classi
si configura perciò agli occhi di Marx e di Engels - i quali guardano
soprattutto alle condizioni del lavoro nelle manifatture e nelle
fabbriche inglesi, e al pauperismo che ne costituiva l'inevitabile
conseguenza - come un conflitto permanente e non suscettibile di
composizione, come una lotta. La lotta di classe è un elemento
costitutivo, non eliminabile, della società borghese-capitalistica.
Tale elemento è rintracciato, fin dalla Deutsche Ideologie (1845),
anche nelle società del passato: questa è la seconda fondamentale
direzione dell'analisi marxiana. Tutte le società finora succedutesi
nella storia presentano infatti un'analoga struttura dicotomica, anche
se le classi "polari" e contrapposte sono diverse in ognuna di esse. E
ciò per la correlazione che sussiste tra proprietà e stratificazione
sociale. Richiamandosi su questo punto alla tesi largamente diffusa
nella cultura socialista francese e inglese della prima metà
dell'Ottocento, che aveva collegato l'origine della diseguaglianza
sociale alla nascita della proprietà (secondo un modello interpretativo
che risale a Rousseau e che è stato in seguito ampiamente sviluppato
nei testi di Proudhon), Marx ed Engels ritengono che la divisione della
società in classi sia un fenomeno universale riconducibile
all'esistenza di una qualche forma di proprietà. Ma essi relativizzano
questo fenomeno, cercando di determinare il rapporto esistente tra la
successione storica delle formazioni economiche della società e quella
delle forme di proprietà. E - fatto ancor più decisivo - pongono la
struttura della proprietà in relazione con il progredire della
divisione del lavoro. La divisione del lavoro è un processo per così
dire lineare, che però dà luogo a una successione di modi di produzione
tra loro qualitativamente distinti. Già nella Deutsche Ideologie
s'incontra infatti la distinzione tra proprietà tribale, proprietà
comunitaria, proprietà feudale e proprietà capitalistica, intese come
le strutture portanti di forme differenti di organizzazione sociale.
Nella comunità primitiva la divisione del lavoro ha una base naturale,
essendo il semplice prolungamento della divisione per sesso e per età
presente all'interno della famiglia, e la proprietà appartiene non al
singolo ma alla tribù, cosicché in essa non esiste ancora proprietà
privata; nelle forme successive la proprietà è invece nelle mani di una
classe detentrice anche del potere politico, la quale trae il proprio
sostentamento dal lavoro o degli schiavi o dei servi della gleba o,
nella società borghese-capitalistica, del proletariato industriale. A
differenza di quanto avviene nella comunità primitiva, queste forme di
organizzazione poggiano tutte su una divisione tra classe possidente e
classe non possidente, la quale coincide con quella tra classe
dominante e classe dominata: tra cittadini e schiavi nella comunità
antica, tra signori e servi della gleba nella società feudale, tra
capitalisti e lavoratori salariati nella società borghese-capitalistica.
Marx ha ripreso i termini della sua analisi nei Grundrisse - un testo
composto nel 1857-1858, ma pubblicato soltanto a metà di questo secolo,
nel 1939-1941. Se nella Deutsche Ideologie l'elenco dei modi di
produzione era riferito in modo esclusivo allo sviluppo europeo, nei
Grundrisse se ne aggiungeva ad essi un altro estraneo a questo
sviluppo, vale a dire il modo di produzione asiatico. Anche qui il
punto di partenza era rappresentato dalla comunità primitiva,
corrispondente all'organizzazione tribale. Da essa trae origine la
comunità di villaggio diffusa soprattutto, ma non soltanto, nel
subcontinente indiano, che detiene collettivamente il possesso della
terra ma non la sua proprietà: questa è infatti nelle mani di un potere
esterno alla comunità stessa, cioè del sovrano. Si ha così una
dissociazione tra possesso comunitario e proprietà, la quale
costituisce il fondamento del modo di produzione asiatico. Esso è
infatti caratterizzato non soltanto, e non tanto, dall'appropriazione
collettiva e dallo sfruttamento collettivo del terreno, già presenti
nella comunità primitiva, quanto dal sorgere di un potere dispotico che
si colloca al di fuori della comunità di villaggio e al quale va -
sotto forma di prelievo fiscale o di prestazioni per lavori pubblici -
il prodotto eccedente di ogni comunità.
A questa forma di organizzazione sociale se ne affiancano altre due, in
un rapporto che per certi versi è di parallelismo, per altri versi di
sequenza: la comunità antica e la comunità germanica, caratterizzate
l'una dall'affermarsi della distinzione tra proprietà pubblica e
proprietà privata e l'altra dal prevalere della proprietà individuale o
familiare. Se la comunità germanica tenderà a scomparire dal quadro
dell'analisi marxiana, il modo di produzione asiatico finirà per
caratterizzare la prima formazione economica della società nata dalla
dissoluzione della comunità primitiva. All'estremo opposto della serie
a cui esso ha dato inizio si colloca, dopo le tappe intermedie
rappresentate dal modo comunitario e dal modo feudale di produzione -
che sembra affondare le sue radici nella comunità germanica più che in
quella antica - la società strutturata su base capitalistica. Ma,
comunque si configuri la classe proprietaria - sotto forma di un
despota esterno alle comunità di villaggio o della classe possidente
della città antica o della nobiltà feudale, o ancora della classe
capitalistica - le si contrappone sempre una classe dominata, dal cui
lavoro essa trae il proprio sostentamento.Questa concezione dicotomica
della società distingue nettamente la marxiana scienza della società
dall'impostazione della sociologia positivistica, quale era stata
formulata negli scritti di Saint-Simon e di Auguste Comte successivi al
1815 e poi sistematizzata dallo stesso Comte nel Cours de philosophie
positive (1830-1842).
Anche per Comte, come già per Saint-Simon, la società moderna che sta
sorgendo dal processo di industrializzazione rappresenta una forma di
organizzazione radicalmente nuova, irriducibile alle società del
passato; anche per Comte la società moderna si distingue da queste in
virtù dell'affermarsi di nuove classi sociali. Ma questa struttura non
riveste affatto un carattere dicotomico. Il passaggio da una società
all'altra si compie attraverso un processo di sostituzione delle classi
detentrici del potere, tanto temporale quanto spirituale: dalla nobiltà
feudale e dal clero che dominavano nel vecchio sistema ai giuristi e ai
metafisici che nel periodo di transizione hanno minato le basi di quel
sistema, agli industriali e agli scienziati positivi che costituiscono
la base del nuovo sistema, cioè del sistema industriale. Ma all'interno
di ognuno di questi sistemi non vi è una divisione rigida, e tanto meno
una contrapposizione, tra le classi detentrici del potere e il resto
del corpo sociale; vi è, anzi, una solidarietà che affida alle classi
detentrici del potere la rappresentanza legittima degli interessi
dell'intero corpo sociale. Non la lotta di classe, ma il progresso
intellettuale dell'umanità - quale si manifesta nel passaggio dal
sapere teologico al sapere positivo, attraverso l'intermediazione dello
stato metafisico - costituisce il "motore" della storia.
Emerge qui la profonda distanza che separa la marxiana scienza della
società dalla sociologia positivistica. Quest'ultima si richiama
infatti al modello di una società organica fondata su rapporti di
solidarietà, sia che si tratti della società sviluppatasi nel corso del
Medioevo sulla base dell'autorità di una fede religiosa condivisa,
oppure di quella che - dopo l'azione dissolutrice della Riforma, della
cultura dei Lumi e della Rivoluzione francese - sta nascendo in seguito
all'affermarsi dell'industria, e che trova la sua base nel sapere
positivo e nel potere che dev'essere riconosciuto agli scienziati. In
questa prospettiva il conflitto è un elemento transitorio della vita
sociale, destinato a scomparire allorché la società poggia su
un'autorità legittima e sul consenso che questa riscuote. Marx ed
Engels proiettano invece la visione di una società organica nel futuro,
nella formazione che dovrà nascere dalla dissoluzione della società
borghese-capitalistica: per quanto riguarda il passato e ancor più il
presente, la storia è - secondo la formulazione del Manifesto - lotta
di classe, conflitto permanente tra classi contrapposte. E tale è stata
fin dal momento dell'uscita dell'uomo dalla comunità primitiva, in cui
il carattere collettivo della proprietà e dell'uso dei beni non
consentiva il sorgere di divisioni al suo interno. O, più precisamente,
tale è stata non la storia, ma la "preistoria" dell'umanità; perché la
storia vera e propria avrà inizio soltanto con l'eliminazione delle
classi e quindi del loro conflitto. Mentre la teoria comtiana (ma già
quella di Saint-Simon) vedeva nella società industriale la forma
definitiva di organizzazione sociale, la marxiana scienza della società
fa del futuro, non del presente, il luogo della liberazione dell'uomo
dalle catene prodotte dalla proprietà privata. Essa sfociava così in
una filosofia della storia di chiara impronta escatologica.
2. Il marxismo come concezione generale della storia
e come prospettiva rivoluzionaria
Fin dall'inizio, infatti, il marxismo si presenta anche come una
concezione dell'uomo e della storia dell'umanità, formulata in
riferimento a Hegel e alle posizioni della sinistra hegeliana. Per Marx
l'uomo è essenzialmente un essere sociale, un essere che ha bisogni e
che cerca di soddisfarli trasformando la natura mediante il lavoro.
Correlativamente, la società non è altro che l'insieme dei rapporti
reciproci tra gli uomini, di rapporti storicamente determinati che
sono, in primo luogo, rapporti di produzione.
L'uomo si realizza nel lavoro, ma al tempo stesso viene a perdere la
propria essenza, ad "alienarsi", in quanto è costretto a cedere ad
altri il prodotto del proprio lavoro. Questa prospettiva è stata
enunciata da Marx fin dagli Oekonomisch-philosophische Manuskripte del
1844 (rimasti inediti fino al 1932), in cui egli ha per la prima volta
preso in esame la situazione del lavoratore salariato nella società
borghese-capitalistica. Il rapporto tra capitalista e lavoratore è, per
Marx, un rapporto di diseguaglianza, nel quale il lavoratore non può
determinare il prezzo del proprio lavoro ma è costretto a sottostare
alle condizioni che gli vengono imposte dal capitalista. In tale
situazione anche il lavoro, che pure appartiene all'essenza dell'uomo,
viene ridotto a merce, non differente dalle altre merci; e dalla
mercificazione del lavoro deriva l'estraniazione del lavoratore dal
processo produttivo, vale a dire la sua alienazione. Questa assume una
triplice forma: nei confronti del prodotto del proprio lavoro, che non
appartiene più a lui bensì al capitalista; nei confronti del lavoro,
che risulta estraneo al lavoratore; e, infine, nei confronti
dell'essenza stessa dell'uomo, che diventa estranea all'uomo in quanto
semplice mezzo della sua esistenza. Marx riprendeva così la nozione
hegeliana di alienazione per caratterizzare la situazione del
lavoratore nella società borghese-capitalistica, definita dalla
separazione tra la proprietà dei mezzi di produzione e la disponibilità
della forza-lavoro. Ma l'alienazione, a rigore, non si ha soltanto
nella società borghese-capitalistica; essa accompagna lo sviluppo
dell'umanità fin dalla nascita della proprietà privata e quindi della
divisione in classi, pur assumendo forme diverse nelle diverse forme di
organizzazione sociale. L'uomo può liberarsi dall'alienazione soltanto
dando vita a una società senza classi, compiendo cioè il passaggio al
"comunismo".
Questo passaggio è reso non soltanto possibile, ma necessario, dalla
dialettica della storia. Il trapasso da un modo all'altro di
produzione, e quindi da una forma all'altra di organizzazione sociale,
avviene in virtù del meccanismo tipicamente hegeliano dell'insorgenza
di una contraddizione all'interno di una data società e della sua
risoluzione in una struttura ad essa superiore. Ma la dialettica
marxiana si presenta come il "rovesciamento" di quella hegeliana; si
presenta non come dialettica dell'idea, ma come dialettica reale. In
polemica con Hegel, ma anche con Feuerbach, Marx ed Engels fanno valere
- a partire dalla Deutsche Ideologie - il principio secondo cui non è
lo sviluppo dell'idea a determinare la vita degli uomini, ma sono i
rapporti tra gli uomini a determinare le forme della coscienza, le
quali non posseggono di per sé alcuna autonomia e quindi neppure, a
rigore, una storia. La dialettica marxiana ha infatti il proprio
fondamento nella relazione tra lo sviluppo delle forze produttive e i
rapporti di produzione, cioè tra lo sviluppo della divisione del lavoro
e dell'organizzazione produttiva e i rapporti sociali che
caratterizzano una data formazione della società. Il che vuol dire che
essa ha un fondamento economico, e che su questa base poggiano gli
altri aspetti della vita dell'uomo. Lo stato di sviluppo delle forze
produttive dà luogo a un determinato tipo di rapporti sociali; ma,
mentre questi tendono a stabilizzarsi permanendo più o meno immutati
nel tempo, quello sviluppo procede ininterrotto, mettendo in crisi i
rapporti a cui ha dato origine.
Questa concezione si trova espressa in forma sintetica nella prefazione
a Zur Kritik der politischen Oekonomie, che risale al 1859. "Nella
produzione sociale della loro esistenza gli uomini entrano in rapporti
determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di
produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle
loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di
produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la
base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica
e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.
Il mondo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il
processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza
degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro
essere che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro
sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in
contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i
rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l'espressione giuridica)
dentro i quali tali forze per l'innanzi si erano mosse. Questi rapporti
si convertono, da forme di sviluppo delle forze produttive, in loro
catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. E con il
mutamento della base sociale si sconvolge, più o meno rapidamente,
tutta la gigantesca sovrastruttura".Marx collegava in tal modo la
concezione del processo storico come movimento dialettico e la teoria
del materialismo storico. La contraddizione tra lo sviluppo delle forze
produttive, che tende a procedere al di là dell'assetto esistente, e i
rapporti sociali che corrispondono a un momento precedente di tale
sviluppo, rappresenta il meccanismo che conduce da una formazione
economica a un'altra, in cui la contraddizione risulta "risolta". In
questa maniera la società borghese-capitalistica è sorta dalla società
feudale; e analogamente da tale società nascerà un'altra forma di
organizzazione, il comunismo.
Anche per il marxismo, dunque, la storia dell'umanità ha un andamento
progressivo; ma la base di questo progresso non è il movimento
dell'idea, bensì lo sviluppo delle forze produttive - la divisione del
lavoro e l'organizzazione della produzione. Se il "motore" della storia
è, come si è visto, la lotta di classe, in quanto la contraddizione
interna a ogni formazione si esprime appunto attraverso il conflitto
tra classe dominante e classe dominata, il fondamento di esistenza
delle classi è la struttura economica. In ciò consiste il materialismo
storico, elemento fondamentale della concezione marxistica, dove per
"materia" s'intende appunto la "struttura" economica della società in
antitesi a ciò che è invece "sovrastruttura", vale a dire la sfera dei
rapporti politici e quella dei fenomeni ideologico-culturali.La storia
non è infatti altro che una sequenza di formazioni economiche della
società, ognuna delle quali corriponde a un determinato grado di
sviluppo delle forze produttive. E soltanto la struttura economica
possiede propriamente una storia. Lo Stato e il diritto, infatti, non
sono altro che un apparato istituzionale creato dalla classe dominante
a difesa dei propri interessi; analogamente, le idee di una data
società sono le idee elaborate dalla classe dominante, che ne
riflettono la concezione del mondo. Anche tra struttura e
sovrastruttura, però, si ha una relazione dialettica, vale a dire
un'azione reciproca. Se nel testo della Deutsche Ideologie il rapporto
tra i due termini si configura piuttosto come un rapporto unilaterale,
di determinazione della sovrastruttura da parte della struttura, in
seguito alla struttura sarà attribuito da Engels il carattere di
fondamento "in ultima istanza", e alla sovrastruttura sarà riconosciuta
la possibilità di reagire sulla base economica della società, e in
qualche misura di modificarla. Anche allora, però, il movimento della
sfera politica come di quella ideologico-culturale sarà ricondotto al
movimento della struttura, senza acquisire una propria autonomia
sostanziale. Lo Stato e il diritto, al pari della cultura, sono pur
sempre espressione di una particolare classe in conflitto con la classe
ad essa antagonistica. E l'autonomia della sovrastruttura consisterà
soprattutto nella capacità riconosciuta anche alla classe dominata di
dare vita a una propria organizzazione politica e a una propria
ideologia, in antitesi a quelle della classe dominante.
La storia non è però soltanto uno sviluppo avente carattere
progressivo; è anche sviluppo che tende a un fine. E questo fine, che
segna il passaggio dall'alienazione all'umanità liberata, è appunto il
comunismo. Sul processo di transizione al comunismo, come sui caratteri
che in esso contraddistingueranno i rapporti sociali, Marx e anche i
successivi teorici del marxismo sono stati piuttosto generici. Negli
scritti giovanili il comunismo è definito di solito in termini
negativi, come "la soppressione dell'auto-alienazione" o "l'espressione
positiva della proprietà privata soppressa" (com'è detto nel testo
degli Oekonomisch-philosophische Manuskripte); ma anche in seguito, nel
Capitale, esso sarà sempre caratterizzato in maniera piuttosto
generica. Una cosa, tuttavia, è certa. Come per Hegel lo Stato moderno,
quale si è configurato nel mondo cristiano-germanico, segna il culmine
dello spirito oggettivo, così per Marx il comunismo rappresenta
l'ultima possibile formazione della società, una formazione priva di
quel carattere conflittuale che costituiva un elemento comune a quelle
che l'hanno preceduta. Il comunismo non segna soltanto, infatti,
l'eliminazione delle classi e quindi la scomparsa della lotta di
classe; esso segna anche la liberazione dell'uomo dall'alienazione e il
recupero della sua essenza, vale a dire - come si espresse Engels - il
trapasso dal regno della necessità al regno della libertà.
Per realizzare il comunismo è però necessario il ricorso all'azione
rivoluzionaria. In conformità al principio - enunciato nelle Thesen
über Feuerbach - secondo cui "i filosofi hanno soltanto interpretato
diversamente il mondo" e "si tratta ora di trasformarlo", Marx ritiene
che la futura società senza classi possa essere instaurata soltanto
attraverso la rivoluzione del proletariato. La necessità che presiede
allo sviluppo storico, e che rende inevitabile la fine della società
borghese-capitalistica, non può prescindere dall'intervento attivo
degli uomini, di quegli "individui reali" la cui esistenza costituisce
il primo presupposto della storia. Il passaggio da un modo di
produzione all'altro non avviene in virtù di un processo evolutivo, ma
attraverso la contraddizione che lo sviluppo delle forze produttive
introduce nell'assetto sociale e la rottura di quest'ultimo. E la
storia del modo di produzione capitalistico è costellata, del resto, da
una serie di rivoluzioni non soltanto politiche ma anche sociali,
culminanti nel 1848 e più tardi nella Comune parigina. Esse
preannunciano, in qualche maniera, la rivoluzione del proletariato, che
provocherà la fine della società borghese-capitalistica; e tuttavia
questa dovrà avere caratteristiche peculiari. Essa sarà infatti, a
differenza delle precedenti, una rivoluzione generale condotta dal
proletariato nei confronti della classe che detiene la proprietà dei
mezzi di produzione, una rivoluzione destinata a diffondersi in tutto
il mondo. E ciò in quanto nel corso degli ultimi secoli si è venuto
formando, a causa dello sviluppo della società borghese-capitalistica,
un mercato mondiale, che ha trasformato la storia in "storia
universale".
L'unificazione del globo in un mercato privo di confini, determinata
dalla capacità espansiva del modo di produzione capitalistico, ha come
conseguenza che la rivoluzione del proletariato, pur avendo inizio nei
paesi in cui esso ha raggiunto il maggior grado di sviluppo, sarà
anch'essa una rivoluzione universale.
3. L'analisi dello sviluppo capitalistico
Il marxismo è dunque sì una scienza della società, ma è anche - e in
maniera indissolubile - una filosofia della storia che si propone di
determinare lo sviluppo dell'umanità tanto nel passato quanto nel
futuro, e una teoria della rivoluzione del proletariato come condizione
necessaria del trapasso dal capitalismo al comunismo. Il cuore di
questa complessa costruzione, quale è stata delineata da Marx dapprima
nei Grundrisse e poi soprattutto nel Capitale, è costituito
dall'analisi della società borghese-capitalistica, della sua origine,
del suo sviluppo e delle tendenze che dovranno condurre alla sua
scomparsa. Si tratta di un'analisi che ha per oggetto la struttura di
tale società, vale a dire il funzionamento del sistema ecomico
capitalistico, e che lascia in secondo piano - in quanto, tutto
sommato, secondaria - la sua sovrastruttura, cioè i fenomeni
appartenenti alla sfera politica e a quella ideologico-culturale. Essa
riveste un carattere che si può dire storico-sociologico. Non si tratta
infatti di un'analisi puramente storica, in quanto il suo scopo non è
quello di delineare lo sviluppo del sistema capitalistico quale si è
venuto configurando nelle varie epoche nei diversi paesi in cui si è
diffuso; ciò che si propone è piuttosto l'individuazione delle sue fasi
e la determinazione delle leggi del suo sviluppo. E neppure è
un'analisi puramente sociologica, poiché queste leggi sono viste
all'opera in contesti specifici, assumendo anzi come modello e come
campo privilegiato d'indagine lo sviluppo del paese all'avanguardia
nella trasformazione in senso capitalistico e poi
nell'industrializzazione, vale a dire l'Inghilterra. Marx procede
'concettualizzando' i processi che prende in esame, riportando la loro
dinamica a categorie desunte dall'economia politica al fine di darne
una spiegazione teorica.
In questo procedimento il problema che inizialmente si pone è quello
della formazione stessa del capitale, e quindi dell'origine della
distinzione tra capitale e lavoro. Il problema è formulato teoricamente
distinguendo l'accumulazione originaria, che consente la nascita del
capitale, dall'accumulazione progressiva, che è all'opera nel
successivo sviluppo capitalistico. Ciò conduce Marx a cercare i
presupposti storici del capitale nel passaggio dalla società feudale
alla società borghese-capitalistica. Il modo di produzione feudale
poggiava sul lavoro della terra da parte dei servi della gleba, e la
proprietà s'identificava perciò con il possesso del terreno. Con la
fuga dei servi della gleba dalla campagna, con il loro insediamento in
città e con l'affrancamento che essi vi ottengono, il modo di
produzione feudale entra in crisi; i settori produttivi che si
sviluppano in città assorbono la popolazione rurale che vi si insedia,
e giungono a produrre in misura eccedente rispetto ai bisogni del suo
sostentamento. Si ha così non soltanto un trasferimento crescente di
manodopera dalla campagna alla città, e quindi dall'agricoltura
all'attività artigianale, ma anche un ricavo crescente da parte di
quest'ultima, che si traduce in capitale accumulato. Al rapporto
dominio-servitù, caratteristico del modo di produzione feudale,
subentra un diverso rapporto tra imprenditore e lavoratore, fondato
sullo scambio, cioè un rapporto contrattuale: il lavoratore vende
all'imprenditore il proprio lavoro in cambio del salario, mentre
l'imprenditore investe il capitale che è venuto accumulando e se ne
serve da un lato per procurarsi gli impianti produttivi (capitale
costante), dall'altro per remunerare i lavoratori dipendenti (capitale
variabile). La proprietà privata capitalistica presuppone la
progressiva distruzione della proprietà feudale.
Marx ha collocato lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo modo di
produzione, tra società feudale e società borghese-capitalistica,
all'inizio dell'età moderna, tra Quattro e Cinquecento.
Ma questa determinazione cronologica è, in fondo, secondaria: ciò che
conta è il fatto che l'accumulazione originaria presuppone l'esistenza
della città come centro produttivo e lo sviluppo di un'economia
cittadina svincolata dal modo di produzione feudale. Come la città e
l'economia cittadina abbiano potuto sorgere in concomitanza, e in certo
senso in concorrenza, con la società feudale - anche se, per la verità,
nella Deutsche Ideologie esse erano viste piuttosto come un suo
correlato, e i rapporti di lavoro nella bottega artigiana erano in
qualche modo assimilati a quelli della servitù della gleba - è un
problema che Marx ha lasciato in ombra. Ciò che gli preme è stabilire
le modalità dell'accumulazione originaria, per muovere di qui alla
delineazione delle fasi successive di sviluppo del modo di produzione
capitalistico.Queste fasi sono tre: la cooperazione, la manifattura e,
infine, la grande industria. La fase della cooperazione segna la
nascita del sistema economico capitalistico, ed è rintracciabile anche
in contesti storici diversi da quello europeo - in contesti, cioè, che
richiedono l'impiego su scala più o meno ampia di manodopera per
effettuare opere pubbliche. Nello sviluppo storico europeo essa assume
però una fisionomia specifica, in quanto la manodopera è fornita non
più dalla tribù o dalla comunità di appartenenza del lavoratore, ma da
lavoratori liberi i quali instaurano un rapporto contrattuale con
l'imprenditore capitalistico.
Ed essa giunge fin verso la metà del Cinquecento, mentre la fase
successiva, quella della manifattura, si estende fino all'inizio del
processo di industrializzazione, che ha luogo verso gli anni settanta
del Settecento. Più che lo spartiacque storico, però, interessa a Marx
la distinzione concettuale tra queste tre fasi. La cooperazione
comporta infatti l'attività in comune di più lavoratori nello stesso
luogo e per la produzione dello stesso genere di merci; è cioè un
lavoro in comune nell'ambito del medesimo mestiere. La manifattura
sorge invece attraverso la concentrazione in una medesima officina di
mestieri diversi in vista della fabbricazione dello stesso prodotto,
oppure attraverso la cooperazione di addetti che, pur nell'ambito del
medesimo mestiere, si suddividono le operazioni necessarie in vista di
tale scopo. Il passaggio dall'una all'altra fase comporta però sempre
la scomposizione di un'attività artigianale unitaria in operazioni
parziali, svolte non più dallo stesso lavoratore ma da lavoratori
diversi. Se la base tecnica dell'attività produttiva rimane quella
artigianale, la sua configurazione viene però a mutare. La manifattura
introduce infatti all'interno una gerarchia di funzioni e una
corrispondente scala di salari, sotto la direzione dell'imprenditore
capitalistico, e all'esterno una situazione di concorrenza tra i
diversi produttori. Ne deriva la tendenza all'aumento delle dimensioni
dell'impresa per quanto riguarda sia il numero dei lavoratori occupati
sia il volume del capitale investito e quello della merce prodotta -
una tendenza che mette capo alla terza e ultima fase del modo di
produzione capitalistico, quella dell'industria.
L'industria non rappresenta quindi, per il marxismo, il punto di
partenza di una nuova forma di organizzazione sociale, come riteneva
invece la sociologia positivistica: essa rientra nel modo di produzione
capitalistico, distinguendosi dalle due fasi precedenti in quanto il
processo produttivo ha la sua base non più nella forza-lavoro e nella
sua organizzazione, ma nel mezzo di lavoro, cioè nell'impiego su larga
scala delle macchine. Essa rientra nel modo di produzione capitalistico
perché il suo fondamento rimane pur sempre lo stesso, cioè la
separazione tra capitale e lavoro, tra una classe proprietaria dei
mezzi di produzione e una classe che fornisce la forza-lavoro: la sua
specificità poggia sul progressivo trasferimento delle operazioni
lavorative dall'uomo alla macchina. Non già che le macchine fossero
assenti nelle fasi precedenti; ma in quest'ultima fase si ha dapprima
la cooperazione di diverse macchine omogenee all'interno dell'impresa,
poi il sorgere di un sistema di macchine eterogenee che vengono a
formare una catena. Il trasferimento di operazioni dal lavoratore alla
macchina non significa però - ed è questa una tesi centrale del
marxismo - una liberazione dal lavoro, e neppure un miglioramento delle
condizioni di vita della classe lavoratrice. Nell'analisi di queste
condizioni Marx poteva richiamarsi infatti alle conclusioni cui erano
pervenuti, negli anni trenta, Charles Babbage e Andrew Ure, e
soprattutto al libro di Engels Die Lage der arbeitenden Klasse in
England (1845), che aveva posto in luce le conseguenze socialmente
negative del lavoro industriale e il processo di pauperizzazione che ne
era derivato. Lungi dall'inaugurare un'epoca di libertà, l'industria
comporta un grado crescente di alienazione del lavoratore.
Come ciò sia possibile, e anzi necessario, viene spiegato sulla base
del rapporto di dipendenza che s'instaura tra il lavoratore e la
macchina. Il passaggio dalla manifattura all'industria richiede
l'aumento dei lavoratori salariati, e quindi il ricorso su larga scala
anche al lavoro femminile e infantile, nonché il prolungamento della
giornata lavorativa. All'aumento della manodopera impiegata subentra,
in seguito, l'intensificazione del lavoro, cioè la sua condensazione:
cresce la velocità delle macchine, e cresce pure il numero delle
macchine che il singolo addetto deve sorvegliare. Lo sfruttamento
estensivo della forza-lavoro cede il passo a uno sfruttamento
intensivo. Ne deriva una diversa organizzazione del lavoro: come aveva
già osservato Ure, la gerarchia di lavoratori specializzati, che
caratterizzava la manifattura, tende a essere sostituita dal
livellamento delle funzioni, in quanto gli addetti alle macchine
risultano fungibili tra loro. Lungi dal liberare il lavoratore, la
macchina lo ha asservito a sé. Tra il lavoratore e la macchina
s'instaura perciò una competizione crescente: la macchina compie le
operazioni che erano prima effettuate dai lavoratori, e questi vengono
espulsi, in numero sempre maggiore, dal processo produttivo. Mentre
all'inizio l'industrializzazione comporta l'aumento della manodopera,
in seguito l'impiego delle macchine comporta il diffondersi della
disoccupazione, cioè la creazione di quello che Marx ha chiamato
"l'esercito industriale di riserva".
Il rapporto tra il capitalista e il lavoratore risulta nettamente
squilibrato in favore del primo; anzi, lo scambio che in esso si ha tra
forza-lavoro e salario risulta una "pura forma che è estranea al
contenuto e lo mistifica soltanto". Ma lo sviluppo dell'industria ha
effetti di ampia portata anche sul capitale, sia sotto l'aspetto
quantitativo sia soprattutto sotto quello qualitativo. Non soltanto il
progredire dell'accumulazione fa sì che il capitale investito assuma
dimensioni sempre maggiori, ma cambia anche la composizione del
capitale stesso: dal momento che il processo produttivo richiede
l'impiego crescente di macchine, la parte investita in mezzi di lavoro,
cioè il capitale costante, cresce a scapito della parte impiegata in
salari, cioè del capitale variabile. Il monte salari diventa così una
parte sempre minore del capitale complessivo. Diminuisce la domanda di
lavoro, non già nel senso che la manodopera impiegata decresca in senso
assoluto, ma nel senso che essa aumenta in proporzione decrescente
rispetto al periodo iniziale del processo di industrializzazione. E
tende a diminuire anche il livello della remunerazione, poiché il
lavoro specializzato prima svolto dall'artigiano viene ora compiuto
dalle macchine, e le operazioni lavorative risultano sempre più
uniformate, con la conseguenza che vengono meno le differenze di
funzione (e di retribuzione) tra i lavoratori.Attraverso questa analisi
Marx è pervenuto, nel primo libro del Capitale, a enunciare la legge
generale dell'accumulazione capitalistica, vale a dire la legge dello
sviluppo crescente dell'esercito industriale di riserva.
Parallelamente all'aumento del capitale e al mutamento della sua
composizione cresce anche la popolazione operaia in cerca di
occupazione, e si ha quindi quella che egli chiama un'"accumulazione di
miseria". Il pauperismo non è un elemento transitorio dello sviluppo
capitalistico nella fase industriale, ma è il suo destino inevitabile.
Alla concentrazione del capitale in una classe sempre più ristretta fa
riscontro la proletarizzazione del resto della popolazione: come la
classe capitalistica assorbe in sé la classe che viveva di rendita,
trasformando la proprietà fondiaria in capitale da investire, così i
ceti intermedi vengono progressivamente cancellati e ricondotti
anch'essi nell'ambito del lavoro salariato. Ne risulta una
polarizzazione della società che rende sempre più aspro il conflitto di
classe, ponendo le condizioni per la rivoluzione del proletariato.
Nel terzo libro del Capitale questa analisi viene integrata con la
formulazione di un'altra legge, quella della caduta tendenziale del
saggio di profitto. Con l'aumento del capitale costante e la
diminuzione di quello variabile si realizza, nel processo di
industrializzazione, un incremento progressivo della produttività: ogni
prodotto contiene una quantità di lavoro via via minore, e quindi ne
risulta diminuito il margine di profitto che all'imprenditore
capitalistico deriva dal plusvalore in esso incorporato. L'aumento
della produttività che si attua nello sviluppo capitalistico si rivela
infatti ambivalente: da una parte esso accresce il plusvalore, in
quanto a una medesima quantità di lavoro corrisponde una maggior
quantità di merci prodotte, ma dall'altra, in quanto richiede un
investimento crescente in macchinario, riduce la proporzione del
capitale variabile rispetto a quello costante, e quindi proprio quella
parte di capitale che genera plusvalore. Se la massa del capitale
aumenta, e con essa anche la quantità assoluta del profitto che il
capitalista ne ricava, diminuisce invece, con il mutamento della
composizione del capitale stesso, il rapporto tra il profitto e il
capitale complessivo investito, ossia il saggio del profitto. È pur
vero che a questa tendenza generale si contrappongono delle
"controtendenze": aumenta il grado di sfruttamento del lavoro, si
riduce il salario individuale e con esso il monte salari, diminuisce
altresì il prezzo degli elementi che compongono il capitale costante,
vale a dire il prezzo delle macchine, diminuisce il numero dei
lavoratori impiegati; e inoltre il commercio estero allarga le
possibilità di sbocco delle industrie, mentre la massa del capitale
investito tende pur sempre ad aumentare. Ma queste "controtendenze" non
sono tali da poter eliminare la tendenza di lungo periodo alla
diminuzione del profitto che l'imprenditore può ricavare dal capitale
investito. E con il declino del profitto viene meno la stessa ragion
d'essere del sistema economico capitalistico.
C'è dunque una "necessità logica" interna allo sviluppo del modo di
produzione capitalistico che deve condurre - come Marx sostiene nella
prefazione alla seconda edizione del Capitale - a una crisi generale.
Da una parte le condizioni di vita del proletariato si sono fatte
insostenibili a causa della subordinazione del lavoratore alla macchina
e del venir meno della sua capacità contrattuale nei confronti
dell'imprenditore capitalistico; dall'altra il processo di
concentrazione del capitale nelle mani di un numero sempre più
ristretto di persone comporta l'espropriazione di molti capitalisti.
Alla proprietà diffusa del capitale si sostituisce la sua
monopolizzazione; e così "suona l'ultima ora della proprietà
capitalistica", la quale va ora incontro allo stesso processo di
espropriazione che aveva colpito la classe lavoratrice. A ciò si
aggiungono le crisi ricorrenti dovute allo squilibrio tra la produzione
e il consumo, cioè quelle crisi di sovrapproduzione che, mentre
accrescono la pressione sulla classe lavoratrice, impediscono il
realizzo delle merci prodotte al loro valore, e quindi incidono sulla
stessa formazione del plusvalore. Dall'analisi dello sviluppo del modo
di produzione capitalistico Marx approda dunque all'affermazione
dell'inevitabilità della fine della società borghese-capitalistica. La
previsione - o, se si preferisce, la profezia - di questa fine fa parte
integrante del corpus teorico del marxismo, e pone in luce il nesso che
lega l'impianto della scienza della società con la prospettiva
escatologica della filosofia della storia di Marx.
4. La critica dell'economia politica e la teoria del
valore-lavoro
Come si è visto, nessun rapporto intercorre tra la marxiana scienza
della società e la sociologia positivistica, portatrice di
un'interpretazione della società moderna non soltanto differente ma
sostanzialmente alternativa. E neppure essa si richiama alla tradizione
della scienza politica settecentesca, inaugurata dall'Esprit des lois
di Montesquieu, e al suo duplice sforzo di determinare da un lato la
natura e il principio delle diverse forme di governo, dall'altro i
diversi poteri che, nella loro distinzione, garantiscono la possibilità
di un ordinamento fondato sulla libertà. Lo precludeva la stessa
considerazione della politica come sfera appartenente alla
sovrastruttura, e la conseguente interpretazione dello Stato come
espressione degli interessi della classe dominante. Anzi, Marx ed
Engels ritenevano che lo Stato fosse destinato a scomparire nella
futura società senza classi, e che le funzioni politiche dovessero
ridursi - come aveva suggerito Saint-Simon - a compiti di pura e
semplice amministrazione.
Centrale è invece, per la formazione della teoria marxistica, il
rapporto con l'economia politica, con Adam Smith ma soprattutto con
Ricardo. Marx aveva letto la Wealth of nations e i Principles of
political economy fin dal 1843-1844, accompagnando tale lettura con
quella degli economisti posteriori, sia inglesi che francesi, da James
Mill e John Ramsay McCulloch a Jean Baptiste Say; dopo il fallimento
della rivoluzione del 1848 riprenderà sistematicamente lo studio
dell'economia. E proprio la distinzione smithiana tra salario, profitto
e rendita è il punto di partenza della teoria dell'alienazione esposta
negli Oekonomisch-philosophische Manuskripte del 1844, così come la
teoria del valore di Ricardo costituirà, nel Capitale, il termine di
riferimento per la definizione del valore in termini di lavoro
incorporato e per la formulazione della teoria del plusvalore.
L'economia politica si presenta - agli occhi di Marx e del marxismo
posteriore - come un corpo di dottrine che ha saputo cogliere i
meccanismi di funzionamento della società borghese-capitalistica,
enunciandoli in forma di leggi scientifiche, ma che ha anche preteso di
trasformare queste ultime in leggi 'eterne', valide per qualsiasi modo
di produzione. In quanto autointerpretazione della società
borghese-capitalistica, l'economia politica ne costituisce non soltanto
la scienza ma, al tempo stesso, l'ideologia.
Ciò spiega perché il marxismo si presenti non tanto come la
prosecuzione, quanto come la critica dell'economia politica (non a caso
questa espressione ricorre spesso, a partire dai Grundrisse, nel titolo
delle opere di Marx). L'errore dell'economia politica consiste
nell'aver assunto i rapporti di produzione che sono propri della
società borghese-capitalistica come "leggi di natura immutabili della
società in astratto", perdendo di vista il loro carattere storico. È
pur vero che la produzione presenta caratteristiche generali che
permangono nel tempo, e che sono quindi comuni a ogni società; ma essa
si configura diversamente da un modo di produzione all'altro, in
relazione alla forma della proprietà e ai rapporti sociali che ne
derivano. L'economia politica ha arbitrariamente trasformato le
categorie formulate per interpretare la società borghese-capitalistica,
le quali sono "il prodotto di condizioni storiche e hanno piena
validità soltanto per e all'interno di tali condizioni", in
determinazioni dei processi economici in generale. Essa ha perciò
assolutizzato sia il modo di produzione capitalistico sia le sue leggi
specifiche.In realtà, il rapporto di Marx con l'economia politica è più
complesso; e ciò per il fatto che il modo di produzione capitalistico
non soltanto si distingue strutturalmente da quelli che lo hanno
preceduto, ma costituisce anche il risultato ultimo (almeno fino a
oggi) del loro sviluppo e il loro "superamento".
Come Marx scrive nei Grundrisse, la società borghese-capitalistica è
"l'organizzazione storica più sviluppata e differenziata della
produzione", e in quanto tale contiene in sé, "spesso solo del tutto
atrofizzati, o addirittura travestiti", determinati rapporti che erano
costitutivi delle forme precedenti di società. Come per la filosofia
hegeliana della storia, così anche per il marxismo il passato si
conserva nel presente, anche se "risolto" (aufgehoben) in una forma
superiore. Stando così le cose, le categorie formulate dall'economia
politica, pur riflettendo la struttura della società
borghese-capitalistica, "permettono in pari tempo di comprendere
l'articolazione e i rapporti di produzione di tutte le forme di società
scomparse, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita".
La loro applicabilità agli altri modi di produzione, che sembrava
esclusa dal carattere storico che esse rivestono, viene così recuperata
in virtù della dialettica della storia. La società
borghese-capitalistica, in quanto risultato ultimo (fino a oggi) dello
sviluppo storico, è al tempo stesso il modello interpretativo delle
società che l'hanno preceduta, poiché consente di considerarle "come
gradini che portano ad essa". L'impianto categoriale dell'economia
politica, sebbene storicizzato, non perde la propria validità generale.
In questo quadro epistemologico si colloca la teoria marxiana del
valore, oggetto di tante controversie - come vedremo - nella storia
successiva del marxismo. Essa ha la propria origine nello sforzo
compiuto dall'economia politica classica per determinare un criterio di
misura dei prezzi. Più precisamente, essa si richiama alla distinzione
che Smith aveva tracciato tra il valore d'uso e il valore di scambio
delle merci e al collegamento da lui istituito tra quest'ultimo e il
lavoro. A differenza del valore d'uso, che dipende dai bisogni
individuali del singolo soggetto, il valore di scambio di una merce
trova una base oggettiva nel lavoro necessario a produrla; ed è questa
quantità che ne determina il prezzo. Ricardo aveva ripreso l'analisi di
Smith riconducendo il valore di scambio a due fonti principali, la
scarsità - che agisce però soltanto nel caso di merci particolarmente
rare come, per esempio, i metalli preziosi - e il lavoro; e da ciò
aveva concluso affermando che è la quantità di lavoro incorporata in
una data merce a regolarne il prezzo. Il valore di scambio non è quindi
altro, in sostanza, che lavoro incorporato. In realtà, l'analisi di
Ricardo risultava più complessa, in quanto egli prendeva in
considerazione anche altri elementi, come la qualità del lavoro, la
diversa misura del compenso, l'incidenza degli strumenti e delle
costruzioni nonché quella del capitale investito.
Marx si è richiamato alla teoria del valore di Ricardo lasciando cadere
questi elementi e facendo della quantità di lavoro socialmente
necessario il fondamento del valore di scambio. Una merce può essere
scambiata con altre merci, e quindi ha un prezzo, in quanto in essa si
cristallizza una determinata quantità di lavoro, misurata sulla base
del tempo impiegato a produrla. Se per quanto riguarda il valore d'uso
le merci sono qualitativamente diverse l'una dall'altra, dal punto di
vista del valore di scambio possono sussistere soltanto differenze
quantitative, vale a dire differenze nella durata temporale del
processo lavorativo. La grandezza del valore di una merce è quindi data
dalla quantità di lavoro socialmente necessario per produrla; cosicché
la possibilità di scambio di merci diverse viene a fondarsi sulla
quantità relativa di lavoro che esse hanno richiesto. Non già che il
lavoro costituisca l'unico fattore della produzione; ché, al contrario,
in essa intervengono anche altri fattori, e in primo luogo il capitale
investito, che esige di esser remunerato. E proprio dal rapporto tra
capitale e lavoro, tra remunerazione dell'uno e dell'altro sotto forma
rispettivamente di profitto e di salario, nasce il plusvalore. Con
questo termine Marx indica la quantità di lavoro che si traduce non già
in salario, bensì in profitto. Affinché il capitale possa venir
remunerato, infatti, il lavoratore riceve non già un salario
equivalente al valore delle merci che ha prodotto ma un salario
inferiore; più precisamente, dal momento che il capitale tende a
ottenere la massima remunerazione possibile, egli riceve un salario
commisurato al valore delle merci corrispondenti agli oggetti d'uso
necessari per il sostentamento proprio e della sua famiglia. La
differenza va all'imprenditore capitalistico, e costituisce il "lavoro
eccedente" o il "valore eccedente", il plusvalore.
Di questa teoria - che costituisce il nucleo del primo libro del
Capitale (di cui occupa le sezioni centrali) - Marx si è avvalso per
spiegare il processo dell'accumulazione capitalistica, ma anche per
illustrare la struttura dicotomica del processo produttivo proprio del
modo di produzione capitalistico. Intorno ad essa ruotano gli altri
aspetti della complessa costruzione dell'opera, dall'analisi del
rapporto tra merce e denaro da cui essa prende le mosse a quella del
processo di circolazione del capitale, e infine a quella del processo
complessivo della produzione capitalistica: tutti temi in parte
anticipati nei Grundrisse, e poi sviluppati in forma sistematica nel
secondo e nel terzo libro del Capitale, pubblicati postumi a cura di
Engels. Si può anzi asserire, con buon fondamento, che proprio
l'accettazione della teoria del valore-lavoro e del plusvalore
costituisca lo spartiacque tra l'economia marxistica e la scienza
economica post-classica nei suoi diversi indirizzi. Essa offriva
infatti una base teorica alla visione di una classe lavoratrice
sfruttata, e sembrava saldarsi con la tesi dell'alienazione come
elemento strutturale dell'esistenza dell'uomo nella società
borghese-capitalistica.
5. Il rapporto con l'antropologia evoluzionistica e
l'origine della società e dello Stato
Al rapporto con l'economia politica si aggiunge, più tardi, il rapporto
con la nascente antropologia evoluzionistica. L'interesse per l'origine
della società umana, e per il rapporto tra natura e società, era
certamente presente già nel giovane Marx, che aveva infatti definito
l'essenza dell'uomo mediante la sua capacità di trasformare la natura
con il lavoro, traendone i mezzi per il proprio sostentamento. E di
lunga data era anche l'interesse per la struttura della comunità
primitiva, concepita - in contrapposizione ai modi di produzione sorti
dalla sua dissoluzione - come una forma di organizzazione sociale in
cui era assente, insieme alla proprietà privata, anche qualsiasi
divisione in classi. Questo interesse aveva condotto alla 'scoperta'
del modo di produzione asiatico, considerato come l'esito se non
esclusivo, certo privilegiato del distacco da tale comunità: una
scoperta le cui premesse si trovano già negli articoli di Marx
sull'India degli anni cinquanta, e che confluisce nella trattazione
delle forme di produzione precapitalistiche. Ne risultava un quadro
dello sviluppo storico incentrato, come si è visto, sulla successione
di modi di produzione correlati al progresso della divisione del
lavoro, dove il 'fuoco' dell'analisi si portava sempre più sul modo più
progredito, quello capitalistico. Non a caso nel Capitale Marx
contrapponeva allo sviluppo della società borghese-capitalistica
l'immobilità delle società asiatiche, nelle quali la costante
dissoluzione e il riformarsi degli Stati è un fenomeno superficiale che
non incide né sulla comunità di villaggio e sulla sua autosufficienza,
né sulla struttura complessiva della società.
Ma il problema della struttura comunitaria della forma primitiva di
organizzazione era destinato a ritornare in primo piano nel corso degli
anni settanta, allorché Marx si trovò a dover affrontare il problema
della possibilità di un processo di trasformazione rivoluzionaria che
muovesse non da una situazione di capitalismo avanzato, come in Gran
Bretagna o nell'Europa centro-occidentale, ma dalla dissoluzione della
comunità agricola, come in Russia. Rispetto a questa possibilità egli
si mostrò per la verità sempre scettico, e riaffermò più volte che una
rivoluzione socialista presuppone un certo grado di sviluppo delle
forze produttive, e quindi l'esistenza sia del proletariato sia di una
borghesia capitalistica; anche se poi - soprattutto nella lettera a
Vera Zasulič del marzo 1881, il cui testo risulta singolarmente
attenuato rispetto agli abbozzi, che ne testimoniano la genesi
laboriosa - egli parve ridurre la rigidità della sua posizione negativa
ammettendo come condizione di una rivoluzione proletaria in Russia la
contemporaneità dello sviluppo capitalistico in Occidente. In linea di
principio, tuttavia, risultava chiara, ai suoi occhi, l'eterogeneità -
e anche la discontinuità - tra la comunità primitiva e la futura
società senza classi, e di conseguenza, nel caso specifico, tra la
comunità rurale russa e il comunismo, che poteva realizzarsi soltanto
in virtù del superamento del modo di produzione capitalistico. La
comunità di villaggio russa veniva ricondotta al tipo della comunità
rurale, cioè a quello che Marx riteneva essere il tipo più recente
della formazione arcaica della società, e accostata tanto alla comunità
indiana quanto alla comunità germanica studiata da Georg Ludwig Maurer.
Se la storia umana doveva condurre dalla proprietà comunitaria al
comunismo, attraverso il susseguirsi di molteplici forme di proprietà
privata e di organizzazione sociale, tuttavia il passaggio diretto
dall'una all'altra si rivelava impossibile: l'esito della comunità
rurale può essere soltanto la sua dissoluzione.I modi di produzione si
susseguono quindi in un ordine non modificabile, poiché la loro
sequenza è correlata allo sviluppo delle forze produttive, e quindi
anche della divisione del lavoro. In questa visione Marx poteva
trovarsi in sintonia con le prospettive dell'antropologia
evoluzionistica, che proprio nel corso degli anni sessanta e settanta
produceva le sue opere più significative: nel 1861 Ancient law e nel
1875 le Lectures on the early history of institutions di Henry Sumner
Maine, nel 1865 le Researches into the early history of mankind and the
development of civilisation e nel 1871 Primitive culture di Edward
Burnett Tylor, nel 1870 The origin of civilisation di John Lubbock,
sempre nel 1870 i Systems of consanguinity and affinity of the human
family e nel 1877 Ancient society di Lewis H. Morgan. Già la
pubblicazione dell'Origin of species di Darwin, intervenuta durante la
stesura del primo libro del Capitale, aveva offerto a Marx una
concezione della natura vivente compatibile con la sua visione della
storia, cioè una concezione che assumeva la lotta per la sopravvivenza
e la selezione da essa determinata come la chiave di spiegazione del
sorgere e della scomparsa delle specie, non diversamente da come la
marxiana scienza della società si avvaleva della lotta di classe come
principio per spiegare il passaggio da un modo all'altro di produzione
- tanto da fargli osservare, un po' ironicamente, che "in Darwin il
regno animale è raffigurato quale società borghese".
La storia umana poteva quindi essere interpretata come la
continuazione, in forma specifica, della storia naturale. Da ciò il
nuovo rilievo che assumeva la comunità primitiva, nella quale si compie
appunto il passaggio dalla natura all'organizzazione sociale propria
della specie umana.Negli ultimi anni di vita Marx studiò a lungo i
testi dell'antropologia evoluzionistica, in particolare la morganiana
Ancient society, e ne fece degli ampi "estratti" (pubblicati soltanto
nel 1972) in vista di uno studio che intendeva dedicare alla struttura
della comunità primitiva e all'origine dello Stato. La sua ricerca
veniva così a muoversi tra due poli, caratterizzati l'uno dalla nascita
della proprietà privata e della divisione in classi, l'altro
dall'eliminazione di quella proprietà e dalla fine della lotta di
classe. E, per quanto riguarda il primo polo, gli "estratti" di Marx
comprovano la sua sostanziale adesione al quadro dell'evoluzione
dell'umanità delineato da Morgan, in contrasto con la critica rivolta a
Maine su un punto essenziale, quello dell'origine dell'organizzazione
sociale primitiva dalla famiglia congiunta. Il sorgere delle classi
veniva fatto coincidere, di conseguenza, con il passaggio da una
società organizzata sulla base della consanguineità (qual era la gens)
a una società organizzata politicamente, o - nei termini, non del tutto
equivalenti, dell'analisi di Maine - da una società in cui la posizione
dell'individuo era determinata dal suo status a una società fondata su
rapporti contrattuali. Veniva perciò in primo piano il problema
dell'origine dello Stato, in certo senso parallelo, pur
nell'opposizione, al problema della sua estinzione: se l'organizzazione
politica è un fenomeno transitorio collegato all'esistenza delle
classi, allora occorre spiegare il meccanismo che l'ha prodotta, e
quindi anche individuare quale tipo di organizzazione sia preesistita
alla sua nascita.
La morte (1883) impedì a Marx di elaborare sistematicamente questi
temi; ma il lavoro da lui intrapreso offrì a Engels il materiale per la
stesura di Der Ursprung der Familie, des Privateigentums und des
Staats, apparso l'anno seguente. In questo volume Engels innestava la
teoria dell'evoluzione sociale formulata da Morgan sul tronco del
marxismo, quasi a colmare una lacuna della concezione marxiana della
società. Egli accoglieva la distinzione di origine illuministica fra
tre epoche di sviluppo dell'umanità - stato selvaggio, barbarie,
civiltà - e le caratteristiche con cui Morgan le aveva definite. Al
tempo stesso, però, egli si rifaceva alla teoria del matriarcato
primitivo che Johann Jakob Bachofen aveva delineato nel 1861 in Das
Mutterrecht.
Da una originaria promiscuità sessuale l'umanità è pervenuta, nel corso
dello stato selvaggio, a darsi un'organizzazione fondata su una linea
di discendenza matrilineare, a cui corrisponde un diritto su base
matriarcale; soltanto in seguito, con l'affermarsi della monogamia, e
quindi con la certezza della paternità che questa implica, ad esso è
subentrato il diritto patriarcale. La famiglia monogamica si colloca
così al culmine di un processo evolutivo i cui gradini inferiori sono
rappresentati dai diversi tipi di famiglia posti in luce da Morgan - da
quella consanguinea a quella "panalua" e poi alla famiglia di coppia.
Lo sviluppo dell'organizzazione sociale primitiva era contrassegnato da
un duplice passaggio, rintracciabile sia nel mondo antico sia nelle
tribù indiane nordamericane a cui faceva riferimento Morgan, sia nelle
popolazioni germaniche studiate, sulla traccia di Maurer, dallo stesso
Engels: dalla gens alla famiglia e dal matriarcato al patriarcato.
La famiglia in generale, e quella monogamica in particolare, si
presenta non come una struttura originaria (quale la riteneva Maine),
ma come il prodotto di un'evoluzione coincidente, grosso modo, con
l'esistenza dell'umanità allo stato selvaggio.Il passaggio dalla gens
alla famiglia ha coinciso, per Engels, con il passaggio dalla proprietà
comunitaria alla proprietà privata. Ma questa non riguarda soltanto il
possesso del suolo e degli armenti; investe anche - e in ciò egli
innova rispetto ai testi di Marx- i rapporti tra i membri della
famiglia. La famiglia monogamica, organizzata su base patriarcale,
comporta il dominio del maschio sulla femmina, del padre sui figli. In
tal modo Engels sviluppava la teoria di Bachofen nel senso di
rintracciare all'interno della famiglia monogamica, in virtù della
divisione del lavoro che in essa s'instaura, il punto di partenza del
conflitto di classe. L'antagonismo tra uomo e donna nella famiglia
monogamica è alla radice dell'antagonismo tra classe dominante e classe
dominata; la forma più elementare di oppressione è quella che il sesso
maschile esercita su quello femminile, così come la prima forma di
schiavitù è quella domestica della donna.
Famiglia monogamica, proprietà privata, rapporti di dominio e di
subordinazione nascono a un tempo, al momento del passaggio dallo stato
selvaggio alla barbarie. Ma insieme ad essi - o, più precisamente, in
seguito ad essi - sorge un'altra istituzione, lo Stato: sorge dalla
dissoluzione dei rapporti parentali su cui poggiava la gens e
dall'affermarsi di un'organizzazione su base locale, insieme alla quale
s'introduce la duplice distinzione tra liberi e schiavi e tra ricchi e
poveri. Lo Stato diventa il garante dell'ordine, il che vuol dire il
garante degli interessi della classe dominante.L'interpretazione dello
sviluppo della società ai suoi primordi veniva a saldarsi, in Engels,
con la visione del suo futuro. Se la famiglia monogamica, la proprietà
privata, l'esistenza delle classi e la lotta tra classe dominante e
classe dominata sono un prodotto storico, ossia il risultato di un
processo evolutivo, allora acquista forza la prospettiva di una società
differente da quella borghese-capitalistica, contrassegnata dalla
"resurrezione, in una forma più elevata, della libertà,
dell'eguaglianza e della fraternità delle antiche gentes" (come suona
la citazione di Morgan che conclude il volume di Engels). E in questo
quadro trovava un posto non secondario anche l'emancipazione della
donna dalle catene della famiglia monogamica. Inglobando l'antropologia
evoluzionistica nel quadro della marxiana scienza della società Engels
non si limitava però a completare quest'ultima; la finalizzava, in
qualche maniera, alla teoria del comunismo. La storia dell'umanità, pur
mantenendo il carattere progressivo intrinseco alla dialettica,
acquista un andamento circolare: da una condizione originaria di
libertà a una condizione finale anch'essa di libertà, ma superiore,
dopo una serie intermedia di epoche culminanti nella civiltà.
6. La teoria del crollo del capitalismo
La previsione del crollo del modo di produzione capitalistico,
conseguente alla caduta tendenziale del saggio di profitto e al
progressivo intensificarsi delle crisi di sovrapproduzione, è un
elemento costitutivo dell'analisi marxiana. La fine del capitalismo è
il risultato inevitabile delle leggi che presiedono al suo sviluppo.
Sull'imminenza di questa fine la posizione di Marx e di Engels è
certamente mutata nel tempo con il venir meno delle aspettative
rivoluzionarie del 1848 riemerse, ma per breve tempo, all'epoca della
Comune parigina. In ogni caso, tuttavia, essa non si presentava come un
evento remoto; tanto è vero che ancora nel 1895 Engels si spingeva a
preconizzare il declino del capitalismo entro la fine del secolo. Ma
proprio l'allontanarsi della rivoluzione che doveva segnare il
passaggio al comunismo portava a sottolineare maggiormente il carattere
oggettivo del processo di sviluppo capitalistico e delle sue leggi. Ciò
non voleva certamente dire che la fine della società
borghese-capitalistica potesse essere il risultato di un'evoluzione non
traumatica; ma significava che il meccanismo che avrebbe dovuto
provocarla è intrinseco alla sua stessa struttura. La dialettica della
storia doveva produrre, prima o poi, una crisi generale di quella
società, e quindi il passaggio al comunismo.
Su questa teoria si appuntò, nell'ultimo decennio del secolo, la
critica di quel filone del marxismo a cui fu dato il nome di
'revisionismo', in particolare quella di Eduard Bernstein, che in una
serie di articoli pubblicati sulla "Neue Zeit" - e poi raccolti nel
1899 sotto il titolo Die Voraussetzungen des Sozialismus und die
Aufgaben der Sozialdemokratie - si propose di sottrarre l'analisi di
Marx alle implicazioni deterministiche della teoria del crollo. Egli
prendeva le mosse dalla constatazione che, nel corso dello sviluppo
capitalistico, non si era verificata quell'intensificazione delle crisi
di sovrapproduzione che Marx, sulla scia di Sismondi e di Rodbertus,
aveva previsto, e che il capitalismo non aveva prodotto quel duplice
processo di concentrazione del capitale in poche mani e di
pauperizzazione del proletario che, secondo Marx, avrebbe dovuto
segnare la fine del modo di produzione capitalistico. Lungi dall'essere
collegate a una fase di capitalismo maturo, le crisi sono per Bernstein
una caratteristica dei suoi albori, una specie di malattia infantile.
La sovrapproduzione in singoli rami produttivi può essere controllata
mediante la creazione di cartelli, e quindi sostituendo alla
concorrenza sfrenata tra i produttori accordi tali da permettere il
mantenimento di un adeguato tasso di profitto.
Anche l'espansione dell'economia capitalistica in altri paesi e in
altri continenti, e la conseguente creazione di quel mercato mondiale
di cui Marx aveva parlato fin dalla Deutsche Ideologie, non rappresenta
il venir meno della possibilità di collocamento delle merci eccedenti
il consumo interno; al contrario, essa favorisce il controllo del
mercato e quindi riduce la frequenza delle crisi. Il modo di produzione
capitalistico è quindi suscettibile di una trasformazione interna che,
consentendogli di correggere i suoi errori iniziali, lo avrebbe
consolidato. Il progresso tecnico, congiunto al perfezionamento
dell'organizzazione industriale, appare in grado di impedire quella
crisi generale del capitalismo che Marx ed Engels avevano data per
inevitabile. Veniva perciò a cadere, insieme alla teoria del crollo,
anche la profezia dell'avvento del comunismo in virtù della rivoluzione
del proletariato. Il socialismo si trasformava in un "ideale etico" da
perseguire attraverso strumenti democratici, cioè attraverso il sistema
parlamentare. E proprio la democrazia appariva a Bernstein la "forma
della realizzazione del socialismo", la via che il proletariato deve
imboccare per migliorare le proprie condizioni di vita.Sulla critica di
Bernstein alla teoria del crollo si accese, negli ultimi anni del
secolo scorso, un'aspra polemica. Ad essa fu obiettato, e giustamente,
che Marx non aveva mai parlato di "crollo", ma di una tendenza alla
caduta del saggio di profitto, accompagnata dal progressivo
intensificarsi delle crisi di settore, destinato a sfociare in una
crisi generale. Soltanto Heinrich Cunow, in fondo, rintracciava in Marx
una compiuta teoria del crollo, e nel difenderla cercava la spiegazione
del ritardo della crisi generale del capitalismo nell'ampliamento del
mercato capitalistico non soltanto nell'Europa continentale e negli
Stati Uniti, ma anche nelle colonie inglesi oltremare. Proprio questa
espansione del capitalismo aveva impedito che le crisi parziali
sfociassero in una crisi generale; ma quando il processo raggiungesse i
suoi limiti, quando cioè l'eccedenza produttiva dell'industria
capitalistica non trovasse più una possibilità di assorbimento, allora
quella crisi sarebbe stata inevitabile. Il rilievo terminologico era
però, tutto sommato, secondario.
La divergenza riguardava infatti non tanto la presenza o l'assenza, nei
testi di Marx, della nozione di "crollo" e di una compiuta teoria del
crollo, ma la visione dello sviluppo capitalistico e, insieme ad essa,
l'alternativa tra la via rivoluzionaria e la via riformistica al
socialismo. L'originaria impostazione di Marx e di Engels - ripresa dai
sostenitori della teoria del crollo come, in primo luogo, Karl Kautsky
e Rosa Luxemburg - presupponeva infatti che capitalismo e comunismo
fossero due modi di produzione, due forme di organizzazione sociale
successive nel tempo, e che l'avvento del comunismo fosse il prodotto
inevitabile dell'altrettanto inevitabile crisi generale del
capitalismo, di cui la rivoluzione doveva costituire il momento
conclusivo. Al contrario, Bernstein e gli altri esponenti del
revisionismo facevano valere la prospettiva di una trasformazione
interna del capitalismo in direzione del socialismo, da realizzarsi sì
mediante l'organizzazione della classe lavoratrice da parte dei
sindacati e quindi mediante il conflitto sindacale, ma senza il ricorso
alla rivoluzione.Il dibattito si sviluppò intorno alle tesi
dell'economista russo Michail J. Tugan-Baranovskij, che, muovendo da
un'analisi delle crisi commerciali in Inghilterra, aveva poi, nel 1905,
indagato i "fondamenti teorici del marxismo". Egli aveva sottoposto a
critica la visione di una crisi cronica di sovrapproduzione, correlata
al sottoconsumo della classe lavoratrice, che avrebbe reso impossibile
la remunerazione del capitale investito bloccando così il processo di
accumulazione capitalistica. A tale visione egli obiettava rilevando,
tra l'altro, lo sviluppo di nuovi settori industriali i cui prodotti
erano destinati non al consumo ma all'utilizzazione da parte di altri
settori - come nel caso dell'industria mineraria, chimica o
siderurgica. Ed egli concludeva affermando che l'economia
capitalistica, quale si era andata sviluppando nel corso del secolo,
non conteneva alcun fattore capace di determinarne inevitabilmente la
fine; al contrario, essa ha continuato e continuerà a espandersi,
aumentando di continuo la massa dei suoi prodotti e trovando, o
creandosi, i mercati per il loro smercio.
A questa radicale critica della teoria del "crollo" Kautsky replicò
sottolineando l'alternarsi di periodi di prosperità e di periodi di
depressione. Egli scorgeva nel sottoconsumo il risultato permanente
della condizione della classe lavoratrice e dell'aumento della
disoccupazione per effetto non soltanto del progresso tecnologico, ma
anche dell'aumento della popolazione industriale a scapito di quella
agricola. Kautsky riconosceva che nella seconda metà del secolo il
primato economico era passato dall'industria inglese a quella tedesca e
americana, e che nuovi rami produttivi si erano via via aggiunti a
quelli preesistenti; analogamente, egli riconosceva l'importanza dei
cartelli come strumento per frenare la concorrenza tra i produttori
capitalistici e mantenere alto il prezzo delle merci. Ma questi
fenomeni non sarebbero stati in grado, secondo Kautsky, di eliminare il
carattere periodico delle crisi a cui il capitalismo andava incontro e
il loro sfociare in una crisi generale. Perciò egli respingeva la via
democratica al socialismo, e indicava nella rivoluzione del
proletariato l'unica possibilità di uscita dalle contraddizioni del
capitalismo.Anche la Luxemburg prendeva posizione nei confronti del
revisionismo, rivendicando la scelta della rivoluzione nei confronti
della riforma sociale. Si trattava però di render conto del perché,
contrariamente alla previsione di Marx e di Engels, il crollo del
capitalismo non fosse ancora avvenuto, ed anzi sembrasse allontanarsi
nel tempo.
Per rispondere a questo interrogativo la Luxemburg riformulava la
teoria marxiana dell'accumulazione capitalistica, sostenendo che
l'ipotesi di una società polarizzata, costituita da una classe
capitalistica e da una classe lavoratrice, era un'astrazione teorica
che doveva essere messa a confronto con la realtà dello sviluppo
capitalistico.
Marx aveva correttamente visto nella sovrapproduzione, e
nell'impossibilità di assorbimento dei prodotti eccedenti da parte del
proletariato, la radice delle crisi ricorrenti del capitalismo; ma il
suo schema teorico non teneva conto del fatto che la produzione
capitalistica trova una possibilità di smercio non soltanto all'interno
della società capitalistica ma anche al di fuori di essa, in un
ambiente non capitalistico. Così è avvenuto fin dall'inizio, quando il
rapporto di scambio del capitalismo nascente con l'economia contadina
tradizionale gli offriva la possibilità di rifornirsi sia di merci sia
di forza-lavoro; e così è avvenuto nel corso dello sviluppo del modo di
produzione capitalistico, che è penetrato in altri paesi e in altri
continenti sconvolgendo gli equilibri preesistenti ed erodendo i
rapporti dell'economia naturale. Questo rapporto tra produzione
capitalistica e ambiente non capitalistico spiega come al capitalismo
sia stato finora possibile collocare i propri prodotti senza che
venisse interrotto il processo di accumulazione. Ma l'area dei paesi
non capitalistici è destinata a ridursi progressivamente; quando essa
verrà meno, il capitalismo non potrà espandersi ulteriormente, e la sua
crisi diventerà inevitabile. D'altra parte la pressione che ne deriverà
sulla classe lavoratrice renderà più aspra la lotta di classe, e il
proletariato internazionale - unificato dal dominio mondiale del
capitalismo - sarà indotto a ribellarsi.
Nella riproposizione della teoria del "crollo" interveniva perciò, come
elemento costitutivo, il riferimento sia all'allargamento della
produzione capitalistica a nuovi settori sia al processo di espansione
del mercato, correlato a sua volta con la politica coloniale delle
potenze industriali. Il capitalismo non era più quello dei tempi di
Marx, ma era entrato in una nuova fase: in ciò concordavano, in fondo,
critici e difensori della teoria. E la vera risposta alle insufficienze
che l'analisi marxiana rivelava fu infatti la teoria dell'imperialismo
come "fase suprema del capitalismo" (come suona il titolo del saggio
scritto da Lenin nel 1916, pochi anni dopo Die Akkumulation des
Kapitals della Luxemburg).
La teoria dell'imperialismo era, in origine, estranea al marxismo:
l'aveva proposta per primo, nel 1902, uno studioso inglese di
orientamento radicale, John A. Hobson, analizzando il ricorso
all'espansione coloniale come strumento per trovare sbocchi ai prodotti
dell'industria capitalistica. Hobson riteneva il commercio estero un
fenomeno secondario, e destinato a diminuire, rispetto alla possibilità
di sviluppo indefinito che attribuiva al mercato interno; e il rimedio
da lui indicato si limitava a suggerire una più adeguata distribuzione
del reddito, capace di innalzare il livello dei consumi della classe
lavoratrice.
Ma il nesso tra ricerca di nuovi sbocchi per la produzione
capitalistica e politica coloniale fu ben presto accolto dal marxismo
come caratteristica fondamentale di una nuova fase di sviluppo del
capitalismo, che era iniziata dopo il periodo ventennale della "grande
depressione". L'analisi di Marx aveva assunto come modello lo sviluppo
del capitalismo in Gran Bretagna, lasciando sullo sfondo il processo di
diffusione dell'economia capitalistica che pure era implicito nella
nozione di mercato mondiale; all'inizio del Novecento il capitalismo
era diventato un fenomeno internazionale, che investiva non soltanto i
paesi europei ma anche le loro colonie oltremare. La teoria marxistica
doveva perciò fare i conti con questa nuova realtà.Per Lenin (come
anche per Bucharin) il capitalismo si era ormai trasformato in
capitalismo monopolistico, e proprio l'affermazione dei monopoli ne
caratterizza l'ultima fase, quella imperialistica. Sorti dalla
concentrazione della produzione e dall'associazione degli imprenditori
capitalistici allo scopo di mantenere elevato il livello dei prezzi, i
monopoli hanno condotto alla ricerca e al controllo delle fonti delle
materie prime. Al capitalismo concorrenziale studiato da Marx è così
subentrato un altro tipo di capitalismo, quello monopolistico.
A tale processo ha fatto riscontro lo sviluppo di una nuova specie di
capitale, il capitale finanziario - la cui importanza Rudolf Hilferding
aveva posto in luce fin dal 1910, in un libro fondamentale ad esso
dedicato -, che si era affiancato al capitale industriale realizzando
una fusione con esso. Anche il mercato internazionale aveva così
assunto una nuova configurazione, poiché l'esportazione di prodotti
aveva ceduto il posto, in misura crescente, all'esportazione di
capitali dai paesi produttori alle altre regioni del globo. Diventava
perciò essenziale, per gli Stati in cui il capitalismo si era
sviluppato, acquistare il controllo delle materie prime e assicurarsene
il regolare rifornimento: ciò spingeva alla conquista di colonie e alla
creazione di zone d'influenza nei continenti extraeuropei. Il
capitalismo aveva così trovato il proprio sostegno nell'imperialismo
politico-militare. Ma ciò, se può spiegare la sua permanenza, nulla
toglie all'inevitabilità della sua fine. Lo sviluppo capitalistico ha
creato all'interno dei paesi produttori una classe di redditieri che
vivono del profitto del capitale investito all'estero; anzi, gli Stati
alla testa di tale sviluppo si sono trasformati in Stati rentiers,
contrapposti a una massa di Stati economicamente dipendenti da essi. Lo
stesso proletariato non è rimasto immune dalle conseguenze di questo
processo, poiché la classe lavoratrice di quei paesi, trovandosi in una
situazione relativamente privilegiata rispetto al proletariato degli
altri continenti, ha subito un progressivo imborghesimento, e nei
partiti che ne hanno la rappresentanza politica è prevalsa la tendenza
all'opportunismo. Diffusione del capitale finanziario, espansione
coloniale degli Stati europei, imborghesimento del proletariato sono i
diversi aspetti del progressivo "imputridimento" del capitalismo, nei
cui confronti Lenin faceva valere la prospettiva di una rivoluzione
promossa e guidata da un'élite organizzata.
Proprio l'appello all'azione rivoluzionaria metteva in ombra, però, la
teoria del crollo, anche se non mancarono, per la verità, tentativi di
riproporla, nel periodo tra le due guerre, da parte di studiosi come
Henryk Grossmann e Otto Bauer. E proprio la Rivoluzione sovietica,
smentendo la tesi di Marx secondo cui il comunismo poteva sorgere
soltanto nei paesi all'avanguardia dello sviluppo capitalistico, finiva
per 'falsificare' tale teoria. Come ebbe a rilevare Antonio Gramsci,
quella del 1917 fu in sostanza "una rivoluzione contro Il capitale",
una rivoluzione, cioè, che non soltanto usciva fuori dallo schema
interpretativo marxiano, ma ne rappresentava pure la smentita. Nei
decenni successivi la rivoluzione comunista diventerà sempre più un
fenomeno esclusivo dei paesi economicamente arretrati dei continenti
extraeuropei. Dopo la Russia, paese a industrializzazione incipiente,
sarà un paese contadino come la Cina a imboccare, in forme originali,
la strada del comunismo; e dopo il successo della Rivoluzione cinese il
comunismo diventerà sempre più un modello di sviluppo destinato
all'esportazione nel Terzo Mondo.
Da parte sua il capitalismo, superando la crisi del 1929, mostrava una
capacità di adattamento che ne ha assicurato la sopravvivenza; e la
spinta rivoluzionaria che Marx aveva attribuito al proletariato, già
affievolitasi a partire dalla fine dell'Ottocento, veniva assorbita
dalla politica del Welfare State, quando non si trasferiva a gruppi
sociali marginali diversi dal proletariato. La prospettiva
rivoluzionaria si trasformava sempre più in un'utopia coltivata da
gruppi più o meno ampi di intellettuali. La lunga stagione che va dal
1917 al 1989 - complicata dall'affermarsi di regimi totalitari
all'interno del mondo capitalistico e dal contemporaneo sviluppo in
senso totalitario dello stesso "socialismo reale" - ha visto il mondo
diviso in due blocchi contrapposti, trasformando quello che doveva
essere un rapporto di successione, e di "superamento", tra capitalismo
e comunismo in un'alternativa tra sistemi economico-politici
coesistenti nel tempo. In questa situazione così distante dalle
previsioni di Marx e di Engels la teoria del "crollo" è stata
sostanzialmente messa in disparte, anche se non sempre in maniera
esplicita, prendendo atto dell'impossibilità, o almeno
dell'improbabilità, di una crisi generale del capitalismo, senza
tuttavia rinunciare alla prospettiva della futura società senza classi.
E al suo posto è stata formulata la teoria della transizione graduale
dal capitalismo al comunismo.
Alla base di questa agiva il riconoscimento che il comunismo quale si
era realizzato in Unione Sovietica, nei paesi dell'Europa orientale e
nei paesi extraeuropei, si era arrestato alla fase della dittatura del
proletariato, per di più sottoponendo il proletariato stesso al dominio
di una "nuova classe" (secondo l'espressione di Milovan Gilas). Il
socialismo reale, in altri termini, non era vero socialismo, né sarebbe
potuto diventarlo. Il socialismo poteva sorgere soltanto nei paesi
capitalistici così come si erano trasformati nel corso del secolo,
imboccando la strada della democrazia parlamentare e delle riforme
sociali. Si trattava quindi di compiere la transizione dalla democrazia
parlamentare alla democrazia diretta, dal capitalismo al socialismo.
Questa prospettiva, alimentata dalla "primavera di Praga" e dalla presa
di distanza nei confronti del paese-guida, fu alla base
dell'eurocomunismo che, richiamandosi alla tradizione
socialdemocratica, si propose di conciliare le regole alla democrazia
con il fine ultimo di un nuovo assetto economico-sociale, proclamando
l'esigenza di un'"avanzata democratica" verso il socialismo. Anch'essa,
però, conoscerà una brusca eclissi di fronte a una realtà imprevista
che ha posto in termini pressanti il problema di una transizione in
senso inverso, non già dal capitalismo al socialismo, bensì dal
socialismo, per quanto "reale", all'economia di mercato organizzata
capitalisticamente.
7. La teoria dell'estinzione dello Stato e il ruolo
del partito
In Sozialismus und Staat (1922) Hans Kelsen ha distinto, all'interno
del marxismo, una teoria economica incentrata sull'analisi dello
sviluppo capitalistico e una teoria politica che ha il suo nucleo nella
tesi dell'estinzione dello Stato nella futura società senza classi. Ciò
coglie indubbiamente un aspetto peculiare del marxismo nei confronti
della tradizione politica moderna che aveva invece attribuito un ruolo
centrale allo Stato, cercando di determinare il fondamento della
sovranità e di definire le relazioni tra sovrano e suddito in maniera
da far coesistere il dovere di obbedienza con la rivendicazione di una
sfera di diritti preesistenti all'appartenenza alla comunità politica.
Per Marx, infatti, lo Stato è un prodotto della lotta di classe, e in
quanto tale è destinato a scomparire con il venir meno di tale lotta.
Fin dal suo primo scritto, Zur Kritik der Hegel'schen
Rechts~philosophie, che risale al 1842, Marx aveva considerato la
distinzione tra società civile e Stato come una caratteristica
specifica del mondo borghese moderno, derivante dalla dissociazione che
in esso si è prodotta tra determinazioni socio-economiche e
determinazioni politico-giuridiche dell'individuo; cosicché
quest'ultimo risulta, a sua volta, internamente scisso in citoyen, in
quanto membro della comunità statale, e in bourgeois, in quanto
appartenente alla società civile.
Da ciò Marx prendeva le mosse per procedere a una critica radicale sia
della "libertà dei moderni", che gli appariva una libertà puramente
negativa fondata sull'isolamento "atomistico" dell'individuo, sia
dell'eguaglianza così come era stata rivendicata dalla Rivoluzione
francese, che riguarda soltanto i diritti del cittadino senza investire
la sfera dei rapporti economico-sociali. Egli rifiutava perciò
esplicitamente il principio di rappresentanza e lo Stato
rappresentativo. Richiamandosi da un lato all'ideale rousseauiano della
partecipazione di tutti i cittadini all'esercizio della sovranità,
dall'altro al modello della polis come comunità vivente nella quale
l'individuo si integra armonicamente con gli altri individui e quindi
con la totalità stessa - un modello presente non soltanto nel giovane
Hegel, ma in gran parte della letteratura politica romantica - Marx
scorgeva nella rappresentanza il risultato della separazione tra
società civile e Stato, di una separazione che finisce per sanzionare
giuridicamente le diseguaglianze inerenti ai rapporti economici.
Lo Stato borghese moderno si presentava così, agli occhi di Marx, come
una forma storica di organizzazione della vita sociale che, lungi
dall'esserle sovraordinato, deve garantire il funzionamento della
società civile. Il rapporto tra società civile e Stato si precisava
quindi, nella Deutsche Ideologie, come un rapporto non soltanto di
separazione ma anche di derivazione dello Stato dalla società civile.
La società civile è "il vero focolare, il teatro di ogni storia"; e le
diverse forme assunte dallo Stato riflettono la configurazione dei
rapporti economico-sociali. È vero che la società civile è il luogo
dell'antagonismo tra gli interessi particolari, ossia gli interessi dei
singoli e dei gruppi, mentre lo Stato si presenta come portatore di un
interesse collettivo estraneo; ma questo interesse - lungi dall'essere
generale, come pretendeva Hegel - s'identifica, in realtà, con
l'interesse della classe dominante. Una volta formulata la teoria del
materialismo storico, e quindi attribuito ai rapporti di produzione un
carattere strutturale, lo Stato veniva confinato nella sfera della
sovrastruttura: le lotte politiche si presentano perciò come
l'espressione, in forma illusoriamente indipendente, delle lotte reali,
ossia del conflitto di classe. Su questa base Marx ha concepito lo
Stato come lo strumento - o, più precisamente, come la "macchina" - del
dominio di classe, come l'apparato di cui la classe dominante si
avvale, rivestendo i propri interessi di una universalità soltanto
apparente, per garantire il proprio potere. Di conseguenza, la
rivoluzione del proletariato dovrà non già impadronirsi della macchina
statale creata dalla borghesia ma "spezzarla", secondo la via tentata
dalla Comune parigina; e il risultato dovrà essere non l'instaurazione
di una nuova forma di Stato ma la sua soppressione. La scomparsa della
proprietà privata e della lotta di classe comporta necessariamente,
nella futura società senza classi, anche la scomparsa dello Stato. Nel
regno della libertà non c'è bisogno di un apparato repressivo.
La teoria politica marxistica è dunque una teoria non della
trasformazione, bensì dell'estinzione dello Stato. A quali istituzioni
dovessero trasferirsi le funzioni esercitate dalla macchina statale, se
e in quale misura esse dovessero ancora sussistere, rimaneva però del
tutto indeterminato: Marx rifiutava infatti di offrire delle "ricette"
per il futuro. Ma la teoria politica veniva a interagire con la teoria
del "crollo" del capitalismo. Una volta che la crisi finale del
capitalismo si veniva allontanando nel tempo, diventava infatti
necessario indicare le modalità concrete con cui si sarebbe potuto
arrivare alla realizzazione del comunismo. Nell'Antidühring (1878)
Engels aveva prospettato il trapasso dalla proprietà privata alla
proprietà statale dei mezzi di produzione, e la conseguente
pianificazione dei processi produttivi da parte di un potere centrale.
Ma ciò comportava, almeno in una fase transitoria, il mantenimento di
un apparato in grado di dirigere la produzione. Veniva così in luce la
contraddizione latente tra il termine finale del processo, cioè
l'estinzione dello Stato, e la necessità di riprodurre un ordinamento
politico anche se su una base diversa da quella dello Stato borghese. E
qui le strade si divaricarono a partire dalla fine del secolo.
Bernstein riteneva indispensabile, per la realizzazione del socialismo,
non soltanto il raggiungimento di un determinato grado di sviluppo
capitalistico, ma anche la partecipazione del "partito di classe dei
lavoratori", cioè della socialdemocrazia, al potere politico.
Non il socialismo di Stato, cioè il trasferimento della produzione
dagli imprenditori capitalistici allo Stato, ma lo sviluppo del
movimento sindacale e l'aumento dei livelli salariali diventavano per
lui le direttrici del cammino verso il socialismo. E ad esse doveva
accompagnarsi la conquista del suffragio universale, che avrebbe
assicurato la rappresentanza politica degli interessi della classe
operaia. La democrazia diventava così non soltanto compatibile con il
socialismo, ma la forma stessa della sua realizzazione; e venivano al
tempo stesso recuperati i valori del liberalismo, non più considerati
esclusivi della borghesia capitalistica. Diversa era la posizione di
Kautsky, ai cui occhi la rivoluzione si presentava come l'esito di un
processo evolutivo retto da leggi necessarie. Per instaurare il
comunismo occorre che il proletariato conquisti il potere, e che lo
conquisti da solo, trasformando lo Stato anziché proponendosi di
sopprimerlo: l'esistenza di un ordinamento coercitivo è indispensabile
per realizzare il "comunismo nella produzione materiale", anche se
coniugato con l'"anarchismo in quella intellettuale".L'estinzione dello
Stato diventava così una prospettiva remota; contemporaneamente veniva
in primo piano, come soggetto del movimento politico, il partito in
quanto strumento di organizzazione del movimento operaio. Non il
proletariato in quanto tale, ma il proletariato organizzato in partito
diventa il soggetto dell'azione politica e, di conseguenza, l'oggetto
centrale della teoria politica marxistica. Allo Stato borghese,
"macchina" della borghesia, si contrappone il partito di classe dei
lavoratori. E se il revisionismo cerca di conciliare i due termini,
spogliando lo Stato del suo carattere borghese e il partito del suo
carattere rivoluzionario, nel marxismo della Terza Internazionale la
contrapposizione si traduce in un conflitto insanabile.
Sarà Lenin, e con lui il movimento bolscevico, a compiere questo passo.
Il partito è l'avanguardia della classe operaia, che immette in essa la
"coscienza" rivoluzionaria: la rivoluzione non può essere il prodotto
del movimento spontaneo delle masse, ma dev'essere diretta e realizzata
dal partito. Questa concezione del partito sarà largamente condivisa
anche da autori che non accoglievano invece il materialismo dialettico,
come György Lukács e Gramsci. Entrambi hanno sottolineato il ruolo
decisivo della coscienza di classe nel processo di costituzione del
proletariato, additando nel partito il soggetto in cui essa si
realizza. Se Lukács definiva la funzione storica del proletariato sulla
base della coincidenza tra teoria e prassi, Gramsci faceva valere
l'importanza decisiva del fattore soggettivo per la prassi
rivoluzionaria, e lo vedeva incarnato nel "moderno Principe", ossia nel
partito. Non una presunta necessità storica, ma la volontà dell'uomo
rende possibile la rivoluzione.Il successo della Rivoluzione sovietica
rendeva però necessaria un'integrazione della teoria politica
marxistica, riproponendo il problema dello Stato, anche se di uno Stato
differente da quello borghese: sorto in antitesi allo Stato, il partito
del proletariato doveva creare anch'esso una sua "macchina", e insieme
un diritto non finalizzato alla garanzia della proprietà borghese. Già
Marx ed Engels avevano parlato - dopo l'esperienza storica della Comune
- di una dittatura del proletariato come fase di transizione dal
capitalismo al comunismo, nel corso della quale il proletariato
organizzato avrebbe consolidato il suo potere prima che si
realizzassero le condizioni per la scomparsa delle classi. Lenin
trasformava questa fase in una struttura di lunga durata,
caratterizzante "un intero periodo storico": una volta pervenuta al
potere, la classe operaia avrebbe dovuto difendersi dalle spinte
controrivoluzionarie della borghesia, e a tale scopo diventava
necessario creare una nuova struttura statale, lo "Stato dei soviet".
La democrazia consiliare prendeva il posto della democrazia
rappresentativa propria dello Stato borghese. Ma da essa, e quindi
dalla partecipazione al potere, erano esclusi gli "oppressori del
popolo", vale a dire i rappresentanti della borghesia capitalistica
sconfitta ma pur sempre minacciosa. La dittatura del proletariato si
avviava a diventare - Kautsky lo denunciava già nel 1918 - una
dittatura tout court, una dittatura esercitata dal partito e
dall'apparato statale controllato dal partito. L'unificazione di potere
economico e potere politico, di direzione della produzione e controllo
della "macchina" statale nelle mani di un nuovo apparato burocratico
avrebbe reso possibile un regime tirannico che avrebbe fatto del
terrore e della repressione del dissenso il proprio strumento
quotidiano. L'esito della teoria politica marxistica sarebbe così stato
non l'estinzione dello Stato ma uno Stato dispotico, non la democrazia
socialista ma la soppressione della democrazia mascherata da democrazia
"popolare".
8. Marxismo e scienza economica: dalla critica della
teoria del valore-lavoro alle teorie dello sviluppo
In larga misura Il capitale è un'opera di economia politica, che
riprende e sviluppa il corpus teorico elaborato a partire da Smith e da
Ricardo. Anche la teoria del valore-lavoro affonda le sue radici, come
si è visto, in questa tradizione. Ma essa segna al tempo stesso la
differenza tra la posizione di Marx e la dottrina economica classica;
poiché è proprio quella teoria che gli consente di dare una
giustificazione scientifica alla tesi dello sfruttamento della classe
lavoratrice da parte della classe capitalistica. Mentre la distinzione
tra rendita, profitto e salario serviva a Smith e soprattutto a Ricardo
come strumento analitico per determinare le componenti del valore delle
merci, e quindi del loro prezzo, la teoria del plusvalore permetteva in
primo luogo di mostrare come parte - e una parte crescente, almeno nel
passaggio dalla manifattura all'industria - del prodotto del lavoro
venisse sottratta al lavoratore, trasformandosi in profitto. Veniva
così in luce la "connessione intima" tra salario e profitto
capitalistico, cioè il fatto che il salario può aumentare soltanto a
spese del profitto e viceversa, oscurata dalla "connessione apparente"
secondo cui il meccanismo dei prezzi sarebbe in grado di accrescere il
monte dei salari lasciando immutato il saggio di profitto.
La teoria del valore-lavoro costituiva infatti la base tanto
dell'analisi della produzione e dello scambio in condizioni di economia
capitalistica quanto del meccanismo di formazione dei prezzi. E proprio
sulla validità della teoria, sulla sua capacità di render conto sia del
rapporto tra valore e prezzo sia della tendenza a un saggio di profitto
uniforme nei diversi settori produttivi si accese, a fine secolo,
un'aspra polemica. Già da parte marxistica erano stati sollevati dubbi
su alcune argomentazioni contenute nel Capitale, e si era cercato di
riformularle in maniera da evitare le contraddizioni, vere o presunte,
che emergevano dal testo marxiano.
Lo stesso Engels aveva sostenuto che, mentre la tesi dell'eguaglianza
tra lavoro e valore di scambio vale per il periodo iniziale dello
sviluppo capitalistico, in seguito viene in primo piano il prezzo di
produzione delle merci, cioè un elemento che, per quanto riconducibile
al valore-lavoro, sembra discostarsene in misura rilevante. Ma una
critica frontale ai presupposti della teoria giungeva, all'indomani
della pubblicazione del terzo libro del Capitale, da un economista
austriaco, Eugen von Böhm-Bawerk, che già una decina di anni prima, in
un'opera dedicata alle teorie dell'interesse, ne aveva posto in luce le
aporie.Böhm-Bawerk partiva dall'osservazione che, mentre il plusvalore
è proporzionale al capitale variabile, cioè alla parte del capitale
investito in salario, Marx istituisce poi una relazione di
proporzionalità tra il profitto e l'intero capitale. Questa
contraddizione era stata rilevata dallo stesso Marx, che l'aveva
tuttavia ritenuta suscettibile di essere risolta. Per Böhm-Bawerk,
invece, quella contraddizione doveva condurre a mettere in discussione
i presupposti della teoria del valore-lavoro. Egli muoveva dall'analisi
del saggio di profitto condotta nel terzo libro del Capitale, in cui
Marx aveva asserito che, in virtù della diversa composizione organica
del capitale nei diversi settori produttivi, parte delle merci viene
venduta al di sopra e parte al di sotto del loro valore, e che questa
diversità del saggio di profitto nei vari settori si componeva, in
virtù della concorrenza, in un saggio generale del profitto che esprime
il profitto medio del capitale investito. In tal modo, però, il
rapporto di scambio tra le diverse merci risulta determinato non dal
loro valore, ossia dal lavoro in esse incorporato, ma dai prezzi di
produzione; tanto è vero che Marx affermava, un po' enigmaticamente,
che "i valori si trasformano in prezzi di produzione". Laddove Marx
vedeva un processo di trasformazione, Böhm-Bawerk coglieva invece una
contraddizione: lungi dall'essere l'espressione del valore inerente a
ogni merce, cioè della quantità di lavoro socialmente necessario per
produrla, i prezzi si formano indipendentemente da tale quantità, a
causa della tendenza dei capitali a spostarsi dai settori in cui il
saggio di profitto è minore ai settori più vantaggiosi.
La teoria del saggio generale del profitto, enunciata da Marx nel terzo
libro del Capitale, costituisce perciò non la conferma o lo sviluppo,
bensì la smentita della teoria del valore-lavoro esposta all'inizio del
primo. E, delle due teorie, quella corretta è indubbiamente l'ultima,
non la teoria del valore-lavoro. Böhm-Bawerk riconosceva sì che il
plusvalore complessivo "regola" il saggio medio del profitto, ma nel
senso che è una causa determinante di tale saggio accanto a un'altra,
indipendente da esso, che è la grandezza del capitale. Il prezzo di
produzione risulta perciò composto di due elementi, la spesa in salari
(determinata, come aveva affermato Marx, dalla quantità di lavoro) e la
somma del profitto medio.Attraverso questa serie di argomentazioni
Böhm-Bawerk perveniva a individuare quello che, a suo parere,
costituiva l'"errore" del sistema economico marxiano: il carattere
puramente logico-dialettico della dimostrazione che esso fornisce
dell'equivalenza tra valore di scambio e lavoro incorporato, a cui fa
riscontro l'indebita limitazione dell'ambito di tale valore alle merci,
ossia al prodotto del lavoro umano. Secondo Böhm-Bawerk, infatti, le
merci costituiscono una categoria specifica di beni, accanto a cui ne
sussiste un'altra, quella dei beni naturali, anch'essi componente della
ricchezza nazionale e oggetto di scambio. Una teoria del valore
dev'essere perciò formulata in termini più generali, validi sia per i
beni naturali che per le merci, facendo riferimento alla proprietà
comune che li rende, appunto, dei "beni": la scarsità rispetto al
fabbisogno. Ciò consente di prendere in considerazione, accanto al
valore di scambio, anche quel valore d'uso che Marx aveva spinto al
margine della propria costruzione teorica.In tale maniera Böhm-Bawerk
contrapponeva alla teoria del valore-lavoro una teoria del valore
alternativa, che era stata formulata dal suo maestro Carl Menger e che
costituiva il nucleo del nuovo paradigma marginalistico.
Pochi anni dopo la pubblicazione del primo libro del Capitale, infatti,
Menger aveva esposto nei Grundsätze der Volkswirtschaftslehre (1871)
una teoria generale dei beni in termini di bisogni e di capacità di
soddisfarli, e aveva proposto una "misura" di entrambi, determinando
l'economia reale sia da un punto di vista soggettivo, rappresentato
dall'attività che dispone dell'impiego dei beni, sia da un punto di
vista oggettivo, rappresentato invece dall'insieme dei beni e del
lavoro a disposizione in base alle condizioni naturali e sociali di
esistenza dell'individuo o del gruppo. L'impostazione di Menger trovava
riscontro - al di fuori dell'ambiente austro-tedesco - nelle
formulazioni di economisti inglesi come William Stanley Jevons, autore
nel 1871 della Theory of political economy, e francesi come Léon
Walras, autore nel 1874 degli Eléments d'économie politique pure, per
poi confluire, nei decenni successivi, nel tentativo di sintesi di
Alfred Marshall. La scienza economica si distaccava ormai dalla
tradizione classica, a cui Marx aveva fatto riferimento, per
costituirsi come una disciplina a sé stante, con un proprio apparato
concettuale distinto da quello delle altre scienze sociali.E proprio su
questa differenza d'impostazione faceva leva Hilferding nella sua
replica (1904) a Böhm-Bawerk.
Alla critica alla nozione marxiana di merce egli rispondeva affermando
che un bene diventa merce soltanto se viene posto in relazione con
altri beni, e quindi dotato di un valore di scambio, cioè se viene
considerato espressione di rapporti tra produttori indipendenti. Nella
merce egli distingueva due aspetti, un aspetto naturale e un aspetto
sociale, che sono oggetto rispettivamente della scienza naturale e
dell'economia politica: in questa seconda prospettiva la merce è un
prodotto della società, vale a dire un prodotto del lavoro che in essa
si incorpora. Hilferding faceva quindi valere, contro Böhm-Bawerk, il
principio che la teoria del valore deve partire non dal valore d'uso,
cioè dalle qualità naturali delle cose e dalla loro capacità di
soddisfare certi bisogni, ma dal valore di scambio, che riveste
carattere sociale e, in quanto tale, può fornire ad essa un fondamento
oggettivo. L'impostazione di Menger e di Böhm-Bawerk appariva quindi a
Hilferding basata su un metodo "astorico" e "asociale", cioè su
categorie "naturali" incapaci di cogliere le leggi di movimento della
società borghese-capitalistica e le tendenze dello sviluppo
capitalistico. Ma nella sua replica egli ricorreva anche a un altro
argomento, vale a dire alla connessione tra la teoria del valore-lavoro
e la concezione materialistica della storia.
Contro la concezione della scienza economica come scienza autonoma,
fondata su un proprio corpus teorico, egli faceva valere il principio
che "la vita economica non è che una parte della vita storica", e che
le leggi economiche devono essere conformi alle leggi generali dello
sviluppo storico. L'antitesi tra la teoria del valore-lavoro e la
teoria soggettivistica del valore, formulata da Menger e da
Böhm-Bawerk, era perciò ricondotta a una differenza di concezioni del
mondo.Hilferding coglieva così un punto di importanza decisiva. La
teoria del valore-lavoro s'inseriva, nel Capitale, in un'analisi
storico-sociologica della società borghese-capitalistica, senza che
fosse possibile isolare al suo interno un discorso specificamente
economico. Le leggi che Marx e il marxismo posteriore si proponevano di
scoprire erano leggi di sviluppo, tendenze evolutive che emergono dal
processo storico e che consentono di spiegarlo. In questo
l'impostazione marxiana era - al di là di differenze tutt'altro che
secondarie - affine a quella della scuola storica di economia, qual era
stata definita da Wilhelm Roscher nel 1843, nel Grundriss zu
Vorlesungen über die Staatswirtschaft nach geschichtlicher Methode, e
poi ripresa da Bruno Hildebrand e da Karl Knies: la distanza tra Marx e
Roscher non era, tutto sommato, diversa da quella che aveva
polemicamente contrapposto, su un altro terreno, Hegel a Savigny.
Perciò la critica rivolta da Menger alla scuola storica investiva pure,
sebbene implicitamente, l'approccio marxiano all'analisi dello sviluppo
capitalistico.
Nelle Untersuchungen über die Methode der Sozialwissenschaften und der
politischen Oekonomie insbesondere (1883) Menger respingeva infatti la
riduzione dell'economia politica a scienza storica, cioè a "parte
organica di una scienza universale della società", rivendicando la
legittimità di un procedimento diretto a "isolare" i fattori che stanno
a base del comportamento economico. Egli distingueva così tre approcci
allo studio dei fenomeni economici: un approccio teorico, inteso a
determinare leggi generali e a spiegare ogni fenomeno come caso
specifico di una certa regolarità; un approccio storico, inteso a
descriverlo nella sua individualità e nella sua posizione nello spazio
e nel tempo; infine un approccio "pratico", che doveva offrire regole
per il governo dell'economia. Economia politica, storia economica e
politica economica si presentavano quindi - in netto contrasto con
l'impostazione della scuola storica, ma anche di Marx - come discipline
distinte anche se interdipendenti. E le leggi economiche non erano
concepite come leggi di sviluppo, bensì come l'enunciazione di una
regolarità nella successione o nella coesistenza dei fenomeni che
prescinde dal riferimento a un contesto storico specifico. Quando
Hilferding, al termine della replica a Böhm-Bawerk, rimproverava alla
scuola storica di aver ignorato la teoria, sostituendola con la storia
economica, dimostrava di non saperne cogliere la parentela metodologica
con la teoria marxistica; e quando accusava il marginalismo di condurre
all'autodistruzione dell'economia politica non si avvedeva che esso
proponeva un paradigma teorico alternativo, destinato a diventare
dominante nella scienza economica tra Otto e Novecento.
Dopo la polemica tra Böhm-Bawerk e Hilferding la teoria del
valore-lavoro conobbe infatti un duraturo declino, tanto che nel 1942
Schumpeter poté tranquillamente dichiararla "morta e sepolta".
L'economia marxistica - che proprio negli anni novanta aveva ottenuto,
soprattutto ad opera di Werner Sombart, una legittimazione accademica -
si contrappose a quella "borghese", senza produrre contributi
innovativi. Anche quando si metterà in questione la validità del
paradigma marginalistico, come nel complesso tentativo di
riformulazione della teoria del valore compiuto da Piero Sraffa nel
1960 sulla base di un richiamo diretto a Ricardo, il risultato non sarà
la conferma della teoria del valore-lavoro, ma la proposta di una
teoria ad essa alternativa. E, infatti, per Sraffa l'equivalenza tra
valore e prezzo si ha soltanto nel caso di un profitto pari a zero,
cioè in un'ipotesi irreale dal punto di vista marxiano.Tuttavia non per
questo il riferimento al marxismo verrà meno nelle complicate vicende
della scienza economica di questo secolo. La scuola neoclassica aveva
privilegiato l'approccio microeconomico rispetto a quello
macroeconomico; le leggi che essa ha enunciato concernevano infatti il
comportamento degli individui o di aggregati da essi derivati. E
formulando una teoria dell'equilibrio economico - sia questa una teoria
dell'equilibrio generale, come nel caso di Walras e poi di Pareto,
oppure una teoria degli equilibri parziali, come nel caso di Marshall -
essa adottava un modello statico, che doveva servire per spiegare il
funzionamento di un sistema economico nel quale la domanda e l'offerta
tendono a eguagliarsi. Ma questa duplice scelta si traduceva anche in
un limite, cioè nell'incapacità di spiegare le trasformazioni in atto
nell'economia capitalistica o - dopo la Rivoluzione sovietica - il
funzionamento di un sistema economico non capitalistico. Del resto,
anche al di fuori del marxismo il problema del capitalismo, della sua
origine, delle sue caratteristiche differenzianti si era
prepotentemente imposto all'attenzione degli studiosi nei primi anni
del secolo: lo comprovano i tentativi di interpretazione compiuti, in
quel periodo, da Sombart e da Max Weber. La risposta della scienza
economica all'esigenza di costruire un modello di sviluppo compatibile
con il paradigma marginalistico arrivò nel 1912, con la Theorie der
wirtschaftlichen Entwicklung di Joseph Schumpeter.
S
chumpeter prendeva le mosse dalla teoria dell'equilibrio generale di
Walras, che egli riteneva in grado di offrire un modello interpretativo
valido per un sistema considerato allo stato stazionario,
contrassegnato cioè da una crescita puramente quantitativa. Ma tale
teoria gli pareva del tutto inadeguata a render conto della dinamica
del sistema, cioè della trasformazione provocata dall'introduzione di
un nuovo bene o di un nuovo metodo di produzione, o ancora
dall'apertura di un nuovo mercato o dalla conquista di una nuova fonte
di risorse. Ed egli s'impegnava appunto a elaborare un modello capace
di spiegare l'insorgere di innovazioni, e ne indicava la base nel
comportamento dell'imprenditore capitalistico. In questa prospettiva lo
sviluppo economico diventava il risultato di "grappoli" di innovazioni
concentrati in un certo periodo di tempo, che traggono origine dalla
rottura dell'equilibrio preesistente operata dall'agire
imprenditoriale. Esso assumeva così anche un carattere ciclico, in
quanto la diffusione delle innovazioni è destinata a sfociare in uno
nuovo stato di equilibrio, che dovrà a sua volta lasciare il posto a
una nuova fase innovativa. La teoria dello sviluppo si saldava con il
riconoscimento dell'esistenza di cicli economici, offrendo il quadro
teorico indispensabile per l'analisi delle crisi ricorrenti
nell'economia capitalistica.
Schumpeter elaborava in tal modo una visione che faceva leva non sulle
condizioni di realizzazione (e di mantenimento) dell'equilibrio, ma sul
venir meno di queste condizioni per effetto del comportamento
innovativo dell'imprenditore. Anche per lui, come per Marx, il
capitalismo si configurava come un sistema dinamico, il cui sviluppo si
fonda sulla ricerca del profitto e comporta strutturalmente il
ripetersi di crisi di diversa portata, prodotte da elementi interni
alla produzione capitalistica. Tra tale visione e la concezione
marxistica dello sviluppo capitalistico vi erano però anche delle
differenze sostanziali. Fedele all'"individualismo" metodologico della
scuola neoclassica Schumpeter riconduceva il processo di innovazione al
comportamento degli imprenditori capitalistici, e non scorgeva in esso
il prodotto dell'azione determinante di leggi di mutamento. Perciò
l'andamento ciclico dell'economica capitalistica non implicava affatto,
per lui, la necessità di un esito fatale: anche quando più tardi, in
Capitalism, socialism and democracy (1942), Schumpeter sosterrà che la
progressiva meccanizzazione della funzione imprenditoriale avrebbe
condotto al declino del capitalismo, la sua prospettiva non sarà quella
del "crollo" ma piuttosto quella di una trasformazione in un'economia
pianificata, conseguente all'aumento degli investimenti pubblici e alle
politiche redistributive dello Stato.
Pure nelle teorie formulate, a partire da Oskar Lange e da Maurice
Dobb, per analizzare il funzionamento dell'economia pianificata nei
paesi socialisti, come del resto nelle teorie del sottosviluppo
economico, largamente diffuse soprattutto nel secondo dopoguerra, il
riferimento al marxismo e alle teorie economiche del Capitale è stato
per lo più indiretto, spesso puramente programmatico. Né è difficile
comprenderne i motivi. Il marxismo aveva offerto un modello esplicativo
globale del capitalismo e del suo sviluppo, ma non si era mai
preoccupato di delineare la struttura economica (o anche politica)
della futura società socialista. In quanto alle teorie del
sottosviluppo, e all'indicazione delle modalità di passaggio da
un'economia sottosviluppata a un sistema industriale, Marx aveva
escluso la possibilità di pervenire al comunismo "saltando" il modo di
produzione capitalistico. Anche su questo terreno, se il marxismo fu
prodigo di parole d'ordine di vasta risonanza, non offrì alla scienza
economica strumenti adatti per interpretare una realtà profondamente
mutata.
9. Marxismo e sociologia: la critica del materialismo
storico e l'eredità della teoria delle classi
Pur nascendo da una matrice differente dalla neonata sociologia
positivistica, il marxismo conteneva senza dubbio una sociologia
implicita. E rispetto all'edificio comtiamo esso aveva un triplice
vantaggio. Il primo era quello di dare una spiegazione di più lungo
periodo del sistema sociale che era emerso dal processo di
industrializzazione e dalla Rivoluzione francese, una spiegazione,
cioè, in termini di società borghese-capitalistica anziché di società
industriale, la quale riconduceva l'avvento dell'industria al processo
di sviluppo capitalistico. Il secondo era quello di assumere la società
moderna non come il sistema sociale definitivo, ma come una formazione
storica al pari di quelle che l'avevano preceduta (anche se poi quel
carattere di definitività, che Comte attribuiva al sistema industriale,
veniva escatologicamente trasposto al comunismo). Il terzo era quello
di dare un'interpretazione conflittuale, e non 'armonicistica', sia
della società borghese-capitalistica sia delle società del passato. Il
nucleo teorico di questa interpretazione fu la teoria delle classi,
anzi - come si è visto - della lotta di classe.In verità Marx non ha
mai dato una teoria compiuta delle classi sociali: com'è noto, il terzo
libro del Capitale s'interrompe proprio a questo punto. Non c'è dubbio,
però, che il concetto marxiano di classe sociale si salda strettamente
con la concezione materialistica della storia. La nozione di classe
viene infatti sempre definita su base economica, sulla base cioè della
posizione che un gruppo sociale occupa all'interno della struttura
economica, e dalla quale dipendono anche la sua politica e la sua
cultura. Più precisamente, essa è definita con riferimento al tipo di
proprietà che caratterizza una determinata formazione della società.
La funzione determinante delle classi e della lotta di classe nel corso
della storia risulta quindi strettamente legata con il primato
assegnato all'economia, in quanto struttura della società, rispetto
alle manifestazioni della sovrastruttura. Ma proprio questo primato
veniva messo in questione negli ultimi anni dell'Ottocento, e
all'interno stesso del marxismo. Bernstein aveva denunciato le
implicazioni deterministiche del materialismo storico, e soprattutto la
sua tendenza a ricondurre la molteplicità dei "fattori" operanti nella
vita sociale a un unico fattore, concepito come "fondamento" rispetto
agli altri. E aveva lucidamente osservato che proprio lo sviluppo
capitalistico tende ad accrescere l'autonomia della sfera politica e di
quella culturale, in ciò incontrandosi con l'esigenza di determinare i
"limiti" della concezione materialistica della storia, avanzata da
Kautsky. Negli stessi anni Benedetto Croce, negando che il materialismo
storico potesse esser considerato una filosofia della storia alla
stessa stregua, per esempio, di quella di Hegel, lo riduceva a un
"canone di interpretazione storica" che ha avuto il merito di porre in
luce "una somma di nuovi dati, di nuove esperienze, che entrano nella
coscienza dello storico". Ma una critica radicale della distinzione tra
struttura e sovrastruttura verrà, pochi anni dopo, da Max Weber, che in
un celebre saggio sull'"oggettività" delle scienze sociali pubblicato
nel 1904 riprendeva la revisione di Bernstein all'interno di un quadro
epistemologico formulato in riferimento da un lato al neocriticismo
della scuola del Baden, dall'altro alla critica formulata da Menger nei
confronti degli "errori dello storicismo".
Qualsiasi tentativo di far valere, nella spiegazione storica, il
condizionamento univoco di un certo "fattore", come per esempio il modo
di produzione o la struttura di classe, o anche gli interessi
"materiali" in antitesi a quelli "ideali", urta contro le
caratteristiche metodologiche del procedimento esplicativo delle
scienze storico-sociali. La riduzione esclusiva a cause economiche
appare quindi a Weber del tutto insufficiente a spiegare non soltanto i
processi politici o culturali, ma gli stessi processi economici. E
contro di essa fa valere l'esigenza di tener conto del condizionamento
reciproco che si ha, per esempio, nel rapporto tra struttura di classe,
organizzazione politico-sociale, forme di produzione e vita religiosa:
un rapporto di cui egli mostrava il punto d'incontro nell'etica
economica delle religioni "universali", sia essa quella orientata verso
la fuga dal mondo che è prevalsa nelle religioni della redenzione
asiatiche, sia invece quella dell'ascesi intramondana delle sette
puritane.
La critica "positiva" del materialismo storico sviluppata da Weber
(com'egli stesso la definì) colpiva però altri due aspetti decisivi
della nozione marxiana di classe. Il primo era l'immagine di una
struttura dicotomica comune a qualsiasi società, in quanto risultato
dalla forma specifica di proprietà in essa vigente. Nei saggi dedicati
alla Wirtschaftsethik der Weltreligionen Weber poneva in luce come alla
base delle religioni della redenzione vi siano, al momento della loro
nascita, strati insoddisfatti del loro destino terreno, strati
artigianali o guerrieri o d'altra specie; ma mostrava pure che la
prospettiva di salvezza di cui esse sono portatrici si diffonde ben
presto al di là di questi strati, indipendentemente dai loro interessi
"materiali". E l'esito di questo processo può essere storicamente
quanto mai diverso, andando dal sanzionamento religioso
dell'ordinamento mondano alla sua contestazione, cioè al tentativo di
subordinare il "mondo" a imperativi etico-religiosi. Il secondo aspetto
era l'identità postulata tra struttura sociale e struttura di classe.
Anche prescindendo dall'esistenza delle caste (di fronte a cui la
dottrina marxistica si era sempre trovata in imbarazzo), non tutti i
gruppi sociali sono definiti da una situazione di classe, ossia dal
possesso di determinati beni o dalla possibilità di acquisire guadagno
sul mercato dei beni; accanto ad essi vi sono gruppi caratterizzati
dalla considerazione sociale derivante dalla condotta di vita,
dall'educazione, dal prestigio dei loro membri. Classi e ceti sono
quindi modi di organizzazione sociale non certo alternativi, ma che
devono esser tenuti analiticamente distinti.
La critica di Weber, proprio perché formulata in termini di
condizionamento reciproco e non sulla base della tradizionale
alternativa tra "materialismo" e "spiritualismo" (come aveva fatto nel
1896 Rudolf Stammler in Wirtschaft und Recht nach der materialistichen
Geschichtsauffassung), rendeva insostenibile una concezione della
storia fondata sul primato del "fattore" economico. Essa portava la
discussione su un nuovo terreno. Del resto, l'importanza del ruolo
degli intellettuali come guida nell'organizzazione del partito e
nell'azione rivoluzionaria veniva sottolineata dallo stesso Lenin,
soprattutto in Che fare? (1902). Ma rivendicare il ruolo
dell'intelligencija voleva dire, implicitamente, ammettere l'esistenza,
almeno in una particolare situazione della lotta di classe, di un
gruppo sociale non condizionato dall'appartenenza dei suoi membri a una
classe in senso propriamente economico. Ciò portava in primo piano un
elemento della definizione di classe che in Marx (ma soprattutto nel
Capitale) era rimasto piuttosto in ombra: quello della "coscienza di
classe". Marx aveva distinto tra proletariato in sé e proletariato per
sé, riservando a quest'ultimo, cioè alla classe lavoratrice ormai unita
dalla consapevolezza dei propri interessi, la capacità di esprimere il
proprio potenziale rivoluzionario. Egli si era servito della
terminologia hegeliana; e a Hegel, non soltanto al suo linguaggio, si
rifaceva all'indomani della Rivoluzione sovietica Lukács, in una
raccolta di saggi dal titolo Geschichte und Klassenbewußtsein (1923).
Contro Engels e il marxismo "volgare", rivestito di formule
positivistiche, Lukács faceva valere quello che riteneva essere il
marxismo "ortodosso", hegelianamente connotato dal metodo della
dialettica. E metodo dialettico voleva dire, per lui, l'assunzione a
categoria interpretativa fondamentale della categoria di totalità, la
quale sola consente di ricondurre tutti gli avvenimenti a un processo
unitario e di determinare in tal modo il "senso immanente" della
storia. Richiamandosi alla teoria marxiana dell'alienazione Lukács
respingeva come estraneo al marxismo ortodosso il presupposto della
specificità dell'economia come struttura del processo storico e come
elemento caratterizzante delle diverse forme di oggettività. In tal
modo Lukács non soltanto lasciava cadere la distinzione tra struttura e
sovrastruttura, ma poteva riprendere da Weber l'interpretazione del
capitalismo come razionalismo economico e ritradurla in termini
hegeliani. Mentre nei modi di produzione precedenti la struttura
sociale è una struttura politico-giuridica, il capitalismo segna
l'affermazione, e al tempo stesso la presa di coscienza, del ruolo
centrale che ha assunto l'economia. Nel capitalismo, in altri termini,
l'economia perviene all'esistenza per sé, consentendo il sorgere di una
coscienza di classe. Ma questa possibilità non è esclusiva della
borghesia; è comune ad essa e al proletariato. Anzi, tra la coscienza
di classe della borghesia e quella del proletariato c'è una differenza
essenziale: che la prima non è in grado di rendersi conto dei limiti
del sistema economico capitalistico, cosicché si ha un'antitesi
ineliminabile tra l'ideologia e il fondamento economico, cioè una
"falsa coscienza", mentre la seconda è in grado di cogliere la
direzione del processo storico e il compito che la storia assegna al
proletariato. Con ciò il proletariato diventa il "soggetto" della
storia, liberandosi (e liberando l'umanità) dal processo di
reificazione che ha contrassegnato le epoche precedenti.
Lukács esprimeva in linguaggio hegeliano una prospettiva rivoluzionaria
svincolata dal materialismo storico. Anche da altre parti, però, questo
entrava in crisi. Non soltanto Karl Korsch, ma anche Gramsci -
largamente influenzato dalla critica di Croce, come Lukács lo era da
quella weberiana - sottolineava il ruolo degli intellettuali nella
direzione della vita sociale, e soprattutto nel processo di conquista
dell'"egemonia" da parte della classe lavoratrice. Sia per costituirsi
come classe, sia per affrontare la lotta per l'egemonia e quindi per
assumere la guida della società, il proletariato ha bisogno
dell'apporto degli intellettuali in quanto categoria specializzata; più
precisamente, esso ha bisogno del lavoro di un intellettuale che sia
"organico" ad esso, e che rechi le proprie competenze di specialista al
servizio della causa rivoluzionaria. Da ciò un'interpretazione del
marxismo come filosofia della prassi, che coniugava il richiamo alla
concezione leniniana del partito con la ripresa della visione
immanentistica della storia formulata dall'idealismo.Così, già nel
periodo tra le due guerre la concezione materialistica della storia
risultava sostanzialmente abbandonata all'interno stesso del marxismo,
mentre la teoria delle classi sociali andava in cerca di formulazioni
più flessibili. La nozione di classe si avviava infatti a far parte del
patrimonio concettuale della sociologia, così come aveva ispirato, in
sede storiografica, un nuovo approccio alla ricostruzione delle società
del passato. In base ad essa Theodor Geiger intraprendeva, nel periodo
tra le due guerre, l'analisi della divisione di classe nella società
industriale avanzata, mostrando quanto l'impostazione dicotomica del
marxismo fosse inadeguata a renderne conto.
E a partire dagli anni cinquanta il suo impiego diventerà corrente in
sociologia, soprattutto nella sociologia europea. Mentre il legame
della teoria delle classi con il marxismo si affievoliva fin quasi a
scomparire, un altro filone di ricerca si affermava nella cultura
americana: quello che si richiamava alla teoria della stratificazione.
Questa strada era stata imboccata già nel 1927 da un sociologo russo
emigrato dopo la Rivoluzione, Pitirim Sorokin, che in Social mobility
formula un insieme di categorie analitiche per determinare la
collocazione dell'individuo all'interno della società organizzata
gerarchicamente per strati sovrapposti e le modalità di passaggio da
uno strato all'altro. In questa impostazione la stratificazione
economica, che Marx aveva collegato alla nozione di classe, appariva
una delle tre forme fondamentali di stratificazione accanto a quella
politica e a quella professionale; e la rigidità attribuita alla
società borghese-capitalistica cedeva il posto all'immagine di una
società dotata, più delle altre, di prospettive di ascesa per
l'individuo. Con Sorokin e con le successive ricerche condotte da W.L.
Warner nel secondo dopoguerra l'analisi della struttura sociale poteva
ormai prescindere dalla teoria delle classi, o considerare la divisione
in classi come uno schema classificatorio al quale contribuiscono,
combinandosi tra loro, differenti criteri di determinazione del posto e
del ruolo dell'individuo.
La distinzione tra classe, status e potere esprimeva proprio questa
esigenza di definire la collocazione sociale dell'individuo in
riferimento a una pluralità di gruppi di appartenenza.La teoria della
stratificazione era stata elaborata con riferimento a una società come
quella nordamericana, dove le distinzioni di classe si intrecciavano
con distinzione di altra specie, soprattutto di carattere etnico, e
dove il tasso di mobilità era molto più elevato che nella società
europea. Qui, invece, il conflitto di classe era più marcato, e anche
più visibile; e la nozione di classe si prestava meglio di altre a
definire il posto della classe operaia, del proletariato industriale.
Ma lo sviluppo di quest'ultimo era anch'esso avvenuto in una direzione
assai diversa, addirittura opposta a quella che Marx aveva previsto. Le
riforme di fine Ottocento ne avevano migliorato i livelli retributivi e
le condizioni di vita, la concessione del suffragio universale e
l'organizzazione dei partiti di massa ne avevano aumentato il peso
politico, mentre il Welfare State stava garantendo la sicurezza dal
bisogno. Soprattutto, però, i gruppi intermedi tra classe capitalistica
e classe lavoratrice, lungi dal venir meno, si erano accresciuti e
moltiplicati; la borghesia non si era proletarizzata e, caso mai, era
la classe lavoratrice a far propri i modelli e le abitudini di consumo
della borghesia. Anche concesso che la società industriale mantenesse
una struttura di classe, e che le divisioni in classi fossero pur
sempre quelle fondamentali, l'impostazione dicotomica di Marx non
reggeva più.
Da tale constatazione presero le mosse i tentativi di riformulare la
teoria delle classi sociali, che fiorirono numerosi nel corso degli
anni sessanta e settanta. Già nel 1957 Ralph Dahrendorf, in Soziale
Klassen und Klassenkonflikt in der industriellen Gesellschaft, metteva
in questione i criteri con cui il marxismo aveva definito l'esistenza
delle classi, e soprattutto il ruolo determinante assegnato ai rapporti
di proprietà, che egli tendeva piuttosto a ricondurre a rapporti più
generali di dominio e di subordinazione. Alla base della divisione in
classi vi è per Dahrendorf una struttura di potere, non la struttura
economica; mentre la divisione in ceti poggia sul prestigio attribuito
ai diversi gruppi che costituiscono una società. Dahrendorf si
collocava nel solco della distinzione weberiana tra classi e ceti,
collegandola con un'altra nozione chiave della sociologia weberiana,
quella di Herrschaft; e di essa si serviva per analizzare la nuova
configurazione che il conflitto sociale aveva assunto nelle società
industriali avanzate. Ma il processo di revisione investiva anche i
teorici del marxismo. Nel 1963 un sociologo marxista polacco, Stanislaw
Ossowski, fornì un'analisi critica di quella che chiamava la "sintesi
marxiana", mostrando come in Marx confluissero schemi interpretativi
diversi e come a base della stessa impostazione dicotomica vi fosse, in
realtà, l'incrocio di criteri di divisione eterogenei. Egli manteneva
sì la tesi del ruolo fondamentale della nozione di classe nel definire
la struttura sociale, ma mostrava al tempo stesso come l'interferenza
di questi criteri mettesse capo a un'immagine della società molto più
articolata, e "gradualistica", di quella che ne aveva offerto Marx.
Pochi anni dopo Nicolas Poulantzas tentava di innestare sulla teoria
delle classi due distinzioni estranee alla tradizione del marxismo,
quella tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo e quella tra lavoro
manuale e lavoro intellettuale. Anch'egli attribuiva alla posizione
economica un ruolo centrale nel determinare l'esistenza delle classi e
l'appartenenza ad esse; ma rivendicava l'autonomia di quella che Marx
aveva considerato la sovrastruttura, e quindi il ruolo dei fattori
politici e culturali nel configurare la struttura di classe di una
società.
A differenza di quanto è avvenuto per la teoria del valore-lavoro, la
teoria delle classi è divenuta parte integrante della sociologia
contemporanea. Ma, più che la teoria, lo è diventata il riconoscimento
del ruolo che le classi - accanto a gruppi sociali di altro tipo -
rivestono nel determinare la struttura di una società. In tale processo
la nozione di classe è profondamente mutata; essa si è per così dire
'pluralizzata' sia per quanto riguarda i criteri che possono definirla,
sia per quanto riguarda i soggetti a cui può essere essere applicata. E
proprio in questo netto distacco dalla tradizione marxistica sta,
forse, la ragione della sua permanente fecondità.
10. Marxismo e antropologia: le 'rivoluzioni'
produttive e la natura dell'economia primitiva
Si è visto come l'interesse per la società primitiva sia, in Marx, un
interesse tardivo suscitato dalla lettura dei testi dell'antropologia
evoluzionistica, e in particolare di Morgan. Né, d'altra parte, il
volume di Engels contiene aggiunte sostanziali all'impianto di Ancient
society, e la sua maggiore originalità consiste nel mostrare l'origine
storica di istituzioni che, proprio per il fatto di esser nate in un
certo periodo dello sviluppo dell'umanità, sono destinate a scomparire
nella futura società senza classi. Engels integrava nel marxismo la
visione morganiana di un'evoluzione socioculturale scandita secondo
fasi predeterminate, rintracciabili presso ogni popolo; ma si trattava
di un rapporto a senso unico, senza che i presupposti del marxismo
incidessero sulla nascente teoria antropologica. Anche il metodo
comparativo, che sembrava comune all'antropologia evoluzionistica e al
marxismo, celava un equivoco: poiché l'antropologia evoluzionistica
andava in cerca di regolarità di sviluppo, postulando una specie di
scala evolutiva indipendente dal tempo cronologico, sulla quale si
disponevano gruppi sociali lontani e privi di relazioni tra loro,
mentre al marxismo interessava cogliere all'opera leggi di mutamento in
grado di spiegare il processo plurisecolare che ha condotto alla
società borghese-capitalistica.
Non deve quindi sorprendere che la grande stagione dell'antropologia
novecentesca, inaugurata dall'opera di Franz Boas e della scuola
boasiana negli Stati Uniti, e parallelamente da quella di Bronislaw
Malinowski e di A.R. Radcliffe-Brown nel mondo inglese, non rechi
traccia rilevante di rapporti con il marxismo. I presupposti a cui essa
si è richiamata sono stati piuttosto quelli dell'idiografismo della
ricerca sul campo, che Boas trasferiva dallo studio delle società
storiche allo studio delle culture preletterate, oppure quelli del
funzionalismo antropologico, inteso a concepire la cultura come un
complesso di relazioni funzionali in vista del soddisfacimento di certi
bisogni. Dovrà trascorrere quasi mezzo secolo perché il metodo
comparativo impiegato dall'antropologia evoluzionistica ritorni a
essere praticato come strumento di analisi, e si cerchi di delineare le
fasi dello sviluppo umano nel corso della preistoria. Questa svolta ha
inizio con l'opera di V. Gordon Childe e dà luogo, nel secondo
dopoguerra, a quella composita corrente antropologica che va sotto il
nome di neoevoluzionismo.
Utilizzando schemi divenuti correnti nella ricerca archeologica, ma con
una documentazione molto più ricca di quella disponibile ai tempi di
Morgan, Childe si è proposto, intorno alla metà del secolo, di
delineare le modalità del passaggio dal Paleolitico al Neolitico, e
quindi all'età del bronzo e a quella del ferro. Il termine di
riferimento della sua analisi è, ancora una volta, Morgan,
reinterpretato in chiave marxistica - ma sulla base non tanto del
volume di Engels, quanto delle prospettive d'indagine elaborate
dall'archeologia sovietica degli anni trenta. Childe riconduce infatti
le periodizzazioni usate in sede archeologica alla tripartizione
morganiana, facendo coincidere il Paleolitico con lo stato selvaggio,
il Neolitico con la barbarie e il passaggio all'età del bronzo con la
nascita della civiltà. L'impostazione evoluzionistica subisce però una
correzione importante. Il passaggio dal Paleolitico al Neolitico, e da
questo all'età dal bronzo e poi all'età del ferro, non costituisce per
Childe il risultato di un processo evolutivo continuo, ma comporta una
rivoluzione nel modo di produrre che investe anche l'organizzazione
della società. Il passaggio dal Paleolitico al Neolitico è reso
possibile dalla rivoluzione agricola, cioè dal passaggio da un'economia
di raccolta a un'economia fondata sulla produzione del cibo.
Analogamente, il passaggio dal Neolitico all'età del bronzo coincide
con la nascita delle città, e rappresenta quella che egli chiama la
rivoluzione urbana: l'eccedenza produttiva, resa possibile dal
controllo delle acque a scopi agricoli, rende possibile la formazione
di gruppi sociali che non si dedicano direttamente alla produzione del
cibo o alla fabbricazione degli strumenti per la coltivazione dei
campi, ma si impegnano in attività intellettuali.
Con la rivoluzione urbana nascono la divisione del lavoro, la
distinzione tra lavoro manuale e intellettuale, l'amministrazione
statale, ma anche un ceto sacerdotale e un ceto di scribi spesso
coincidente o subordinato a quello. Questo processo ha il suo centro di
irradiazione in Mesopotamia e nelle regioni circostanti, anch'esse
caratterizzate dalla presenza di grandi fiumi, cioè nelle valli del
Nilo e dell'Indo; e di qui va gradualmente irradiandosi in regioni
sempre più lontane. Viene così in luce un altro elemento distintivo
della posizione di Childe rispetto a Morgan e a Engels: il rilievo che
egli attribuisce ai processi di diffusione. La rivoluzione urbana è un
fenomeno in qualche senso unico, geograficamente localizzato, che a
partire dal 3000 a.C. si estende progressivamente verso oriente fino
alla Cina e verso occidente nel bacino del Mediterraneo. Questo
processo di diffusione comporta anche un adattamento ad ambienti nuovi,
e quindi una progressiva differenziazione tra gruppi pervenuti a uno
stesso livello di civiltà. Se la società del Paleolitico è ancora
largamente uniforme, e si differenzia soltanto per il tipo di cibo che
l'ambiente offre alla raccolta o alle attività di caccia e di pesca,
già nel Neolitico non esiste una sola cultura, ma una varietà di
culture con caratteri ben distinti. La tendenza alla differenziazione
crescente è il correttivo metodologico che Childe introduce nella
visione morganiana di un processo evolutivo uniforme.
L'evoluzione socioculturale è dunque un processo che si compie per
"salti", per grandi trasformazioni che hanno la loro base nel modo di
produzione. Anche per Childe, dunque, l'economia è il "motore" della
storia, o più precisamente della preistoria; e dal mutamento produttivo
deriva quello dell'organizzazione sociale. Ma il mutamento produttivo è
in primo luogo progresso tecnologico. E infatti, dopo Childe, il
neoevoluzionismo verrà sempre più sottolineando - soprattutto ad opera
di Leslie H. White, e poi anche di Marvis Harris - il ruolo decisivo
della tecnologia come fattore di trasformazione. Accanto a questo,
però, ne emergeva un altro non meno importante, di cui la scuola
boasiana (e non soltanto essa) aveva mostrato la portata: l'adattamento
o, meglio, la risposta all'ambiente. Se il progresso tecnologico è un
elemento di uniformità, il rapporto con l'ambiente è invece un elemento
di differenziazione culturale. Privilegiando l'uno oppure l'altro ne
derivano due diverse immagini dell'evoluzione, quella di un'evoluzione
unilineare per stadi universali comuni a tutti i popoli - che Engels
condivideva con Morgan, e che White riprendeva da quest'ultimo - e
quella di un'evoluzione multilineare, diversa da ambiente ad ambiente.
Lo sforzo di Julius H. Stewart è stato appunto quello di riformulare la
teoria evoluzionistica in questo secondo senso, correlando le variabili
tecnologiche con le differenze ecologiche; e sulla sua scia si sono
mossi molti altri antropologi di orientamento neo-evoluzionistico, da
Marshall Sahlins a Elman R. Service e a Robert Mc. C. Adams. La teoria
dell'evoluzione multilineare veniva così staccandosi nettamente dalla
matrice morganiana, e lasciava cadere quel primato della struttura
economica che Engels vi aveva innestato.Anche per un'altra via, però,
il marxismo ha agito nel dibattito antropologico contemporaneo:
attraverso lo studio dei sistemi economici non capitalistici
sviluppatisi al di fuori dell'ambito europeo.
Nel 1944 Karl Polanyi pubblicava The great transformation, un'opera a
cavallo tra antropologia ed economia, nella quale il sorgere
dell'economia di mercato connessa al capitalismo ottocentesco era visto
come una svolta epocale che ha prodotto un sistema sociale eterogeneo
rispetto a tutti i precedenti. Nel passato l'economia è sempre stata
inserita in istituzioni economiche, ma soprattutto non economiche, che
l'hanno regolata facendo valere i principî della reciprocità nello
scambio e della ridistribuzione delle ricchezze; il comportamento
economico e lo stesso mercato erano condizionati da imperativi di
carattere religioso o politico. Anche il capitalismo, nella sua fase
mercantilistica, si è sviluppato sotto la spinta e il controllo dello
Stato moderno. Nel secolo XIX si è invece affermato il mercato
autoregolato, sottratto a ogni controllo esterno, e con esso un sistema
che tendeva ad "annullare la sostanza umana e naturale della società".
Come già per Max Weber, anche per Polanyi il capitalismo moderno è un
sistema economico-sociale unico nella storia, che però, diversamente da
Weber, Polanyi considera profondamente innaturale. Di questo sistema
l'economia politica ha formulato le leggi, proiettandole poi
sull'intera storia dell'umanità e pretendendo che valessero per
qualsiasi sistema società.
Riprendendo in forma originale la "critica" dell'economia politica di
Marx, Polanyi ha sottolineato la necessità di studiare le economie del
passato - e, in particolare, quelle primitive - prescindendo dalle
categorie dell'economia di mercato. L'antropologia economica diventava
perciò l'alternativa metodologica all'economia politica. Come questa ha
posto in luce il funzionamento dell'economia poggiante sul mercato
autoregolato, così l'antropologia economica permette la comprensione
degli altri sistemi economico-sociali.L'interesse di Karl A. Wittfogel
va invece a un capitolo poco sviluppato del marxismo: il modo di
produzione asiatico e il suo rapporto con quello che Marx aveva
chiamato il "dispotismo orientale" (da cui prende il titolo la sua
opera maggiore, apparsa nel 1957). Per Wittfogel il modo di produzione
asiatico non rappresenta però uno stadio universale nello sviluppo che
dalla comunità tribale conduce al capitalismo; al contrario, esso
designa una formazione complessa, un'organizzazione dell'economia e
della società che si è venuta stabilizzando nel corso dei millenni.
Mentre Marx aveva caratterizzato il modo di produzione asiatico con la
coesistenza della comunità di villaggio e di un potere dispotico ad
essa esterno, detentore della proprietà del terreno, Wittfogel ne
indica il fondamento nella società idraulica, ossia in una società che
realizza uno sfruttamento intensivo del suolo attraverso la regolazione
delle acque. Ma perché una società del genere possa funzionare non
basta l'esistenza di un potere centrale al quale affluisca, sotto forma
di tributi, l'eccedenza produttiva dei villaggi sottoposti al suo
controllo; occorre un'organizzazione del lavoro che può essere
garantita soltanto da un'efficiente burocrazia centralizzata. Lungi
dall'avere il suo centro nella comunità di villaggio, la società
idraulica richiede un'economia manageriale e una direzione burocratica;
richiede l'esistenza di uno Stato controllore più che proprietario. Già
in essa, quindi, compare una divisione in classi contrapposte: da una
parte la burocrazia detentrice del potere, e di un potere totale,
dall'altra il resto della popolazione, costretto a prestare la propria
forza-lavoro per la costruzione delle opere di regolazione.
La società di classe, con la sua struttura tipicamente dicotomica,
viene così rintracciata anche in seno alla società idraulica. Nello
stesso tempo Wittfogel - studioso del mondo cinese e, più in generale,
orientale - identifica in maniera esplicita l'ambito geografico di
questa formazione con il continente asiatico. Ma il continente asiatico
comprende per lui anche la Russia, sia quella tradizionale sia quella
sovietica. Il regime instaurato dalla Rivoluzione non ha nulla a che
fare con il comunismo preconizzato da Marx; è invece una riedizione
ammodernata del dispotismo orientale.Se Polanyi ha contribuito in
maniera decisiva al sorgere dell'antropologia economica, l'analisi di
Wittfogel ha un più spiccato intento ideologico. Né l'uno né l'altro si
sono proposti di sviluppare un'antropologia marxistica; e, del resto,
per entrambi il marxismo è uno solo dei termini di riferimento del loro
discorso. Questo proposito è invece centrale nel lavoro di Maurice
Godelier, sviluppatosi negli anni sessanta e settanta in un ambiente
dominato dalla presenza dello strutturalismo lévi-straussiano e
dall'importanza da esso attribuita alle strutture della parentela.
Godelier intende mostrare la fecondità della nozione di modo di
produzione asiatico, ma svincolata - contrariamente a quanto aveva
fatto Wittfogel - dal concetto di dispotismo orientale: essa non
designa un'economia di tipo schiavistico, bensì il passaggio da
un'organizzazione comunitaria a una società di classe, in cui si
afferma la diseguaglianza tra gruppi sociali differenti. Questo
passaggio è caratterizzato per un verso dal sorgere di rapporti sociali
indipendenti dai rapporti di parentela fin allora dominanti, per
l'altro verso da quel progresso delle tecniche produttive già posto in
rilievo da Childe.
Lungi dall'essere condannate alla stagnazione, come voleva Wittfogel,
le società in cui domina il modo di produzione asiatico segnano il
superamento della forma comunitaria di organizzazione: mentre i
rapporti di parentela erano insieme struttura e sovrastruttura, ora i
due termini vengono a separarsi e nascono istituzioni specifiche di
carattere politico o religioso. Ma Godelier si differenzia da Wittfogel
(e dallo stesso Marx) su un altro punto decisivo: nel rifiuto della
delimitazione geografica del modo di produzione asiatico. Questo è
rintracciabile non soltanto nel continente asiatico, ma anche in Africa
e nell'America precolombiana. Una rilettura corretta del testo di Marx,
svincolata dalla commistione con l'evoluzionismo di Morgan, offre la
chiave interpretativa per l'analisi delle società extraeuropee, in cui
lo sviluppo delle forze produttive ha preso una direzione diversa da
quella che ha condotto al capitalismo. Anzi, proprio il riferimento a
Marx permette di correggere lo schema di un'evoluzione unilineare, e di
considerare la successione dei modi di produzione indicati nei
Grundrisse come riferita in modo specifico al processo storico
dell'Occidente.
11. Il marxismo tra concezione del mondo, critica
delle ideologie e ideologia
Negli ultimi anni di vita Engels aveva cercato di completare il
marxismo con una filosofia della natura entro cui sistemare le più
importanti acquisizioni della scienza ottocentesca, dalla teoria
dell'elettricità alla teoria dell'evoluzione. Anche se il testo della
Dialektik der Natur verrà pubblicato soltanto nel 1925, le linee del
suo progetto erano note, soprattutto dall'esposizione divulgativa che
Engels ne aveva dato nell'Antidühring, e diventarono uno degli elementi
della koiné dottrinale marxistica. Il marxismo cessava di essere in
primo luogo scienza della società per assumere la veste di una
concezione generale del mondo, in grado di determinare i principî della
conoscenza scientifica della realtà intera. Il "movimento operaio
tedesco" diventava - secondo la formulazione di Engels - "l'erede della
filosofia classica tedesca".
Si compiva in tal modo il primo passo verso una sistematizzazione del
pensiero di Marx e di Engels, in virtù della quale il materialismo
dialettico si affiancava al materialismo storico e veniva a
costituirne, in qualche maniera, la base filosofica. Questo processo fu
proseguito soprattutto in ambiente russo, da Plechanov e dal Lenin dei
Quaderni filosofici - apparsi nel 1929-1930 ma scritti, per la maggior
parte, nel periodo iniziale della guerra - e mise capo alla filosofia
ufficiale della Russia staliniana, il Diamat. In virtù di esso il
marxismo veniva interpretato come una filosofia materialistica, che
aveva le sue premesse nel materialismo settecentesco ma che se ne
differenziava per la sua interpretazione dialettica della natura e
della storia. La dialettica hegeliana, riletta con lo sguardo rivolto
più alla scienza della logica che alla filosofia dello spirito
oggettivo, si presentava come la struttura del movimento e, nello
stesso tempo, come il fondamento della sua intelligibilità. In
conformità a una chiave interpretativa largamente diffusa nella
letteratura hegeliana, si conservava il metodo dialettico lasciando
cadere il "sistema" di Hegel, e sostituendolo con una metafisica
materialistica in cui l'economia diventava la "materia" del processo
storico.Questa concezione del mondo ha trovato nel 1909 il suo
corollario gnoseologico, nel corso della polemica di Lenin contro
l'empiriocriticismo, nella teoria della conoscenza come
"rispecchiamento". Essa serviva a Lenin, e servirà a Stalin, per
difendere il carattere oggettivo delle leggi storiche come di quelle
naturali, evitando il pericolo soggettivistico che essi vedevano nella
teoria "economica" della conoscenza così come in quella neokantiana,
spesso accolta dai teorici dell'austro-marxismo.
La vecchia formula dell'adaequatio rei et intellectus veniva combinata,
senza troppe preoccupazioni di coerenza, con una metafisica
materialistica riformulata in linguaggio hegeliano. Il risultato fu una
scolastica filosofica fortemente ripetitiva, che non si stancava di
proclamare la superiore verità della concezione marxistica del mondo
nei confronti non soltanto delle filosofie "borghesi" ma anche di molti
orientamenti della scienza novecentesca - a partire, ovviamente, dalla
teoria della relatività e dal principio di indeterminazione, che
sembravano mettere in questione l'oggettività delle leggi
naturali.Accanto a questo filone venne tuttavia affermandosi, già nel
corso degli anni venti, una diversa interpretazione del marxismo che ne
rivendicava anch'essa il significato filosofico, ma andando a cercarlo
altrove, fuori della proclamata discendenza del materialismo dialettico
da quello settecentesco. Piuttosto paradossalmente, però, anche il
marxismo "occidentale" - come lo denominerà ne Les aventures de la
dialectique (1955), con un'espressione fortunata, Maurice Merleau-Ponty
- rivendicava il ruolo centrale del rapporto di Marx con Hegel,
offrendo una lettura hegeliana di Marx prima ancora che vedesse la luce
il testo dei manoscritti parigini del 1844.
Si trattava però non di materialismo dialettico, bensì di dialettica
senza materialismo, di una dialettica il cui campo di azione veniva
limitato al mondo storico, con il conseguente rifiuto della dialettica
della natura enunciata da Engels. Anche Lukács separava il metodo dalla
costruzione sistematica di Hegel, assumendo la dialettica come il
metodo del marxismo "ortodosso"; ma lo Hegel a cui faceva riferimento
era il teorico dell'alienazione (e della reificazione), non quello
della logica e della filosofia della natura. Da ciò è derivata una
concezione della conoscenza che respingeva la teoria del
rispecchiamento, per richiamarsi piuttosto alla polemica hegeliana
contro l'intelletto astratto. Alla razionalità del sapere scientifico,
anch'esso visto come un prodotto della reificazione propria della
coscienza borghese, Lukács contrapponeva la razionalità dialettica del
materialismo storico, l'unica capace di cogliere la totalità del
processo. Tra le scienze e la concezione marxistica s'instaura così un
rapporto analogo a quello che per Hegel sussisteva tra l'intelletto
astratto e la ragione concreta; solo che la distinzione veniva ora
fatta corrispondere a quella tra la coscienza reificata della borghesia
e la coscienza "vera" del proletariato. Analoga è la posizione di Karl
Korsch allorché, in Marxismus und Philosophie (1923), interpreta il
marxismo come una "critica" non soltanto dell'economia politica, ma
della filosofia e delle scienze borghesi, capace di superare il punto
di vista particolare di queste ultime.
Anche se su una piattaforma differente da quella dell'ultimo Engels e
di Lenin, il marxismo si presentava come una concezione generale del
mondo, che doveva determinare il quadro di riferimento delle singole
discipline scientifiche.Questo orientamento apparenta, pur nella
diversità tutt'altro che secondaria della tradizione filosofica a cui
si richiamano e delle formulazioni a cui pervengono, la maggior parte
degli indirizzi del marxismo del Novecento. Man mano che veniva in luce
la problematicità dell'analisi dello sviluppo capitalistico compiuta
dalla marxiana scienza della società, il marxismo approdava ai lidi più
rassicuranti della filosofia. Se nei Quaderni del carcere di Gramsci la
presenza dell'idealismo di Croce (e di Gentile) è corretta dallo sforzo
di utilizzare gli strumenti del marxismo per comprendere la società
italiana e le sue condizioni di arretratezza, a partire dalla metà del
secolo il marxismo diventa, specialmente nei paesi latini, una corrente
filosofica variamente intrecciantesi con dottrine di diversa origine.
Alla lettura hegeliana di Marx fa spesso riscontro, soprattutto nella
cultura francese, una lettura in chiave marxistica degli scritti
giovanili di Hegel e della Fenomenologia dello spirito, propiziata dai
corsi di Alexandre Kojève. Così, per esempio, nella Critique de la
raison dialectique (1960) Jean-Paul Sartre combinava il marxismo con
l'eredità della fenomenologia husserliana e dell'esistenzialismo,
mentre negli anni immediatamente successivi Louis Althusser ne forniva
un'interpretazione strutturalistica, andando in cerca di una "frattura"
gnoseologica all'interno dello sviluppo del pensiero marxiano,
coincidente con il passaggio dall'umanesimo del giovane Marx
all'analisi del Capitale.
Nacque in tal modo, attraverso un'accumulazione dottrinale che
espungeva sia le prospettive riformistiche sia il massimalismo
rivoluzionario, il marxismo-leninismo e poi - come variante
dogmatizzata di esso - il marxismo dell'età staliniana; e ad esso si
contrapposero, spesso combinando la presa di posizione teorica con
l'adesione al partito comunista, le non poche varianti del marxismo
"occidentale".
Ma la tendenza a tradurre il marxismo in una concezione generale del
mondo si accompagnava anche a un diverso rapporto con l'ideologia.
Marxismo e ideologia erano, agli occhi di Marx, termini antitetici:
l'"ideologia tedesca" era per lui non soltanto una teorizzazione
estranea alla realtà, ma anche una mistificazione della realtà, una
forma di "falsa coscienza". Anche se nei testi marxiani si trova non
tanto una teoria quanto l'impiego del concetto di ideologia, non c'è
dubbio che questo rivesta costantemente, fin dalla polemica contro
Feuerbach, una valenza negativa: in quanto pretende di "innalzarsi al
di sopra del mondo", e quindi di essere svincolata dalle condizioni
reali di esistenza degli uomini, che sono appunto condizioni materiali,
l'ideologia comporta un rovesciamento del rapporto tra coscienza e
realtà. Le dottrine che la cultura borghese ha formulato sono perciò
inevitabilmente "ideologiche", mentre non lo è, né può esserlo, il
materialismo storico. Anzi, il compito della critica marxistica
consiste precisamente nello svelare il carattere fittizio della pretesa
di autonomia di quelle dottrine, cioè nel mostrare il loro rapporto con
il fondamento economico dell'esistenza.
E infatti il marxismo promosse - con il contributo decisivo offerto da
Marx negli scritti storici successivi al 1848 - la critica delle
ideologie, ponendo in luce il legame di dottrine politiche, di credenze
religiose, di posizioni filosofiche con gli interessi di determinati
gruppi sociali. Anche se nella forma schematica - e spesso anche
schematicamente applicata, perfino da parte di autori come il Kautsky
di Der Ursprung des Christentums (1920) o il Lukács della Zerstörung
der Vernunft (1953) - rappresentata dall'affermazione del carattere
sovrastrutturale delle manifestazioni intellettuali, esso aprì nuove
prospettive alla comprensione storica. Certamente il marxismo non fu
solo ad agire in questa direzione; anzi, il suo apporto si coniugò
variamente con la teoria paretiana dei "residui" e delle "derivazioni",
e anche con la ricerca delle radici "profonde" del pensiero intrapresa
da Freud. Ma il riconoscimento del condizionamento sociale delle idee è
all'origine di un filone di analisi che, attraverso Weber, conduce fino
alla sociologia del sapere di Mannheim.In Ideologie und Utopie (1929)
Mannheim allargava e al tempo stesso correggeva la nozione marxiana di
ideologia, attribuendo ad essa un significato non più negativo ma
neutrale. Egli muoveva dalla distinzione di due concetti di ideologia:
un concetto "particolare" di ideologia, in virtù del quale vengono
qualificate come ideologiche determinate posizioni dottrinali che si
ritengono false e che si vogliono perciò confutare, e un concetto
"totale", che si riferisce all'intera intuizione del mondo
dell'avversario, con l'intento di renderne possibile un'analisi
storico-sociologica. Ed egli attribuiva appunto al marxismo il merito
di aver formulato per la prima volta, attraverso l'affermazione di una
coscienza di classe condizionata dal grado di sviluppo delle forze
produttive, questo secondo concetto. Il marxismo lo aveva però
impiegato in maniera "speciale", sottraendosi al tipo di analisi che
applicava alle altre dottrine.
Occorreva quindi compiere il passaggio a una concezione "generale"
dell'ideologia, il che vuol dire applicare al marxismo stesso la
critica da esso rivolta alle altre posizioni. Si compiva così, nella
critica delle ideologie, una svolta rappresentata dal riconoscimento
del condizionamento sociale di qualsiasi forma di pensiero, o per lo
meno di quello che Mannheim - escludendo la conoscenza scientifica
della natura - chiamava il "pensiero storico-politico". Entro questo
quadro egli distingueva tra ideologia e utopia, considerate come
orientamenti di pensiero alternativi tra loro, l'una intesa a
giustificare l'assetto sociale esistente e l'altra rivolta al futuro,
in uno sforzo di trasformazione della realtà; e le riconduceva al
conflitto tra gruppi sociali dominanti e gruppi oppressi. Anche il
materialismo storico, nonostante le sue pretese di scientificità,
veniva fatto rientrare in questo schema interpretativo.Sulla necessità
di riconoscere il condizionamento sociale anche della teoria marxistica
la sociologia del sapere s'incontrava, in realtà, con le posizioni del
marxismo "occidentale".
Anche Lukács, in Geschichte und Klassenbewußtsein, l'aveva proclamata
esplicitamente. Il materialismo storico, in quanto "autoconoscenza
della società capitalistica", dev'essere interpretato in base ai propri
principî; ma ciò non conduce alla sua relativizzazione, poiché esso
rimane pur sempre, secondo Lukács, "il vero metodo storico", in quanto
la comprensione della totalità del processo storico e della sua
direzione di sviluppo è riservata alla coscienza di classe del
proletariato. Più complessa è la teoria delle ideologie elaborata,
nella prima metà degli anni trenta, da Gramsci. Egli riprendeva il tema
del ruolo degli intellettuali affrontato da Mannheim, ma pervenendo a
una conclusione opposta. Mannheim aveva attribuito all'intelligencija
una funzione mediatrice, anzi di "sintesi", nei confronti delle
ideologie (e delle utopie) in conflitto, resa possibile dal carattere
freischwebend proprio degli intellettuali. Gramsci, invece, vedeva gli
intellettuali coinvolti anch'essi nella lotta di classe, e quindi
"organici" al partito e alla classe da esso rappresentata. Il loro
compito risultava perciò duplice: da un lato un compito positivo,
quello di contribuire all'elaborazione di una concezione del mondo
rispondente agli interessi e alle aspirazioni della propria classe,
dall'altro un compito negativo, quello di criticare le concezioni del
mondo che esprimono gli interessi delle classi avversarie.
All'intellettuale spettava così non soltanto l'organizzazione del
consenso, ma anche la critica delle ideologie concorrenti. Anche il
marxismo è infatti, per Gramsci, un'ideologia; ma, a differenza delle
ideologie borghesi, è un'ideologia scientifica, intrinsecamente dotata
di una capacità demistificante nei loro confronti.
Mentre il marxismo "occidentale" cercava variamente di far coesistere
la "verità" del marxismo con il riconoscimento del suo carattere
ideologico, il marxismo sovietico tendeva a presentarsi come una
costruzione compatta e non suscettibile di essere scalfita; lo
scostamento dai suoi principî era bollato come deviazionismo. Esso
diventava perciò sempre più un'ideologia in senso negativo. Il
potenziale critico del marxismo fu lasciato cadere; e alla ricerca
economica o sociologica fu assegnato, quasi sempre, il compito di dare
una conferma a posteriori della validità di una concezione del mondo
che, in quanto tale, pretendeva di collocarsi su un piano gnoseologico
superiore al sapere scientifico.
Da critica delle ideologie il marxismo venne così degradandosi in
un'ideologia al servizio del paese-guida del comunismo mondiale. E se
la capacità di attrazione dell'Unione Sovietica - ancora assai forte
negli anni cinquanta e sessanta, come mostra emblematicamente il caso
di Sartre - venne gradualmente scemando, per cedere il posto alla
rivendicazione di una pluralità di "vie nazionali" al socialismo, il
richiamo della rivoluzione trovò alimento nel '68. Solo che questa
rivoluzione era assai lontana dal modello teorico che ne aveva dato
Marx.
Il Welfare State aveva privato la classe lavoratrice della sua carica
rivoluzionaria: il soggetto della lotta contro il capitalismo doveva
quindi esser cercato non più nel proletariato imborghesito, ma in ceti
sociali emarginati o devianti, non assimilabili a una classe in senso
marxistico. Ma, soprattutto, il successo della Rivoluzione cinese e il
diffondersi di regimi socialisti da Cuba al continente africano
mostravano che la rivoluzione era diventata - in netto contrasto con
quanto aveva presagito Marx - merce di esportazione per paesi
economicamente arretrati. Così alla visione dello sfruttamento di
classe subentrò quella dello sfruttamento del Terzo Mondo da parte dei
paesi capitalistici, reso possibile dalla divisione internazionale del
lavoro. A questa prospettiva fornì una base teorica la ripresa della
teoria dell'imperialismo, sovente combinata con la contrapposizione tra
la politica colonialistica del capitalismo e l'appoggio prestato dal
mondo comunista alle lotte di liberazione dei popoli oppressi.
L'ideologia marxistica diventava così, il più delle volte, un'ideologia
terzo-mondistica che trasferiva le prospettive di emancipazione al di
fuori del mondo capitalistico.
12. Conclusione
Sorto in un'epoca nella quale soltanto l'economia politica aveva
conseguito un grado soddisfacente di autonomia disciplinare,
costituendo un proprio corpus teorico, il marxismo si era proposto di
offrirne una "critica" capace di liberare le sue categorie
dall'assolutezza che presentavano in Smith e in Ricardo. Il risultato
era stato, come si è visto, la storicizzazione sia dell'economia
politica sia del suo oggetto. A questa operazione si era accompagnato
il tentativo di costruire, coniugando le categorie economiche con una
concezione della storia come progresso, una scienza della società che
ne determinasse le leggi oggettive di sviluppo e permettesse quindi,
oltre che di spiegarne i processi, anche di predire la direzione del
suo sviluppo futuro. Questo programma era analogo a quello della
sociologia positivistica, anche se presupposti e risultati erano
divergenti: anch'essa proponeva infatti una critica delle dottrine
dell'economia politica, anch'essa assorbiva in sé la scienza politica,
anch'essa non ammetteva la legittimità di discipline rivolte a studiare
singoli aspetti o settori della vita sociale.
Marx si richiamava alla dialettica hegeliana, mentre Comte innestava il
modello di una società organica ereditato dall'ideologia della
Restaurazione sui tentativi tardosettecenteschi di una scienza
dell'uomo ispirata alla fisiologia; ma il modello epistemologico di una
scienza unitaria della società, coincidente con la filosofia della
storia, era comune. Il parallelo tra Hegel e Comte, proposto da Oskar
Negt, è probabilmente più appropriato nel caso di Marx.Questo modello
ha dominato la sociologia come, in qualche misura, anche l'antropologia
evoluzionistica ottocentesca, mentre è stato sostanzialmente estraneo
(già in Smith e in Ricardo) allo sviluppo della scienza economica. Ma
anche in sociologia e in antropologia esso è ben presto entrato in
crisi. Già all'indomani del compimento del grandioso edificio del
Capitale esso appariva difficilmente sostenibile. Con Tönnies e
Durkheim aveva inizio, nella sociologia europea, il processo di
distacco dal positivismo; e se la prima generazione dei sociologi
d'oltreoceano - quella di Lester F. Ward, di William Graham Sumner
(l'autore di Folkways), di Albion A. Small - si muove ancora in un
orizzonte che ha come termini di riferimento principali Darwin e
soprattutto Spencer, già nei primi decenni del Novecento anche la
sociologia americana imbocca strade nuove.
E in antropologia le prospettive evoluzionistiche vengono sottoposte a
una critica radicale fin dai primi anni del nuovo secolo. Al modello di
una scienza onnicomprensiva della società o dell'evoluzione umana si
sostituisce - e, sul terreno epistemologico, si contrappone - la realtà
di molteplici discipline indipendenti, che rinunciano all'ambizione di
un'interpretazione "globale" della società. Le scienze sociali si
separano dalla filosofia della storia; anzi, ne respingono la stessa
possibilità, o per lo meno negano ad essa qualsiasi rilevanza
scientifica.Lo sviluppo delle scienze sociali ha così percorso vie
divergenti da quella indicata da Marx. Ciò che è venuto meno, nel corso
del secolo e mezzo che ci separa ormai dagli anni in cui Marx elaborò
il suo progetto di analisi della società borghese-capitalistica, è
proprio il nesso tra scienza della società e concezione generale della
storia, da cui discendeva la pretesa di determinare la direzione dello
sviluppo storico nel futuro prossimo o remoto.
Le scienze sociali sono oggi diventate un universo disciplinare
composito, caratterizzato dalla compresenza di teorie e di metodi
differenti, non riconducibili a una matrice unitaria. Ciò non vuol dire
che tra queste discipline e i loro apparati teorico-concettuali non
siano frequenti gli scambi, che i concetti da esse formulati non
possano essere trasferiti in contesti disciplinari diversi da quello
originario. Ma l'interdisciplinarità della ricerca non significa
affatto - com'è stata talvolta intesa - riducibilità a una base teorica
comune; meno che mai può significare, oggi, la subordinazione a una
teoria generale della società che stabilisca le direttrici d'indagine
delle singole scienze o ne irrigidisca i rapporti in un quadro
sistematico.Questo processo ha finito per "spiazzare" il progetto
marxiano (e marxistico) di una scienza della società; anzi, ha finito
per renderlo improponibile. Esso è soggiaciuto alla critica
metodologica dapprima di Max Weber, poi dell'epistemologia di
derivazione neopositivistica. Anche Karl Popper, in The open society
and its enemies, ne ha denunciato il peccato originale, la pretesa
"olistica", e il conseguente trapasso dalla predizione scientifica alla
profezia. Ma questo peccato rappresenta anche, paradossalmente, il
motivo di forza del marxismo, la sua capacità di attrazione. Come ogni
costruzione scientifica di ampia portata, esso è in grado di offrire
suggestioni e ipotesi interpretative; lo è stato ieri, e può esserlo
anche oggi. Non deve quindi sorprendere che, in determinate congiunture
storiche, non soltanto intellettuali impegnati ma anche scienziati
sociali possano richiamarsi a Marx e al marxismo, traendone spunti per
il loro lavoro. Purché sia chiaro che le suggestioni non possono esser
assunte come direttrici vincolanti della ricerca, e che le ipotesi
interpretative non possono esser scambiate per verità acquisite.