1. La l. nella filosofia antica e medievale
Dall’equazione di scienza e virtù, connessa all’eudemonismo che caratterizza tutta l’etica socratica, implicitamente deriva una concezione della l. come meta raggiungibile attraverso la scienza. Questa concezione ritorna anche in Platone: ciascuna anima è responsabile della propria scelta e ognuna avrà, per guidarla nella sua vita, il demone che si sarà scelto; ma solo chi ha ascoltato la filosofia sa riflettere con discernimento: se la scelta, dunque, è libera, di questa l. è possibile fruire nel migliore dei modi solo attraverso la filosofia. Anche in Aristotele troviamo il consueto rapporto greco tra l. e conoscenza: Aristotele congiunge strettamente la l. del volere alla scelta volontaria e volontario è ciò «il cui principio si trova nell’agente che conosce tutte le circostanze particolari dell’azione». Plotino riconduce la l. del volere non a un impulso sensibile, bensì «al retto ragionamento e alla giusta tendenza».
Sul concetto di l. influisce in modo profondo l’avvento del cristianesimo, destinato tuttavia a creare una sorta di tensione: da una parte, infatti, si sostiene che senza la l. dell’uomo non sarebbe concepibile il peccato, e dunque non avrebbe senso la redenzione, dall’altra si afferma che il concetto di l. deve congiungersi strettamente a quello di grazia divina, a un qualcosa cioè di esterno e indipendente. Agostino sente la necessità di affermare la responsabilità umana e insieme un prestabilito disegno divino: la predeterminazione divina non annulla ma include il libero arbitrio umano e le sue scelte, e se Dio concede il suo aiuto a chi vuole, ciò non toglie che con un volere libero, sebbene ridestato dall’aiuto divino, l’uomo riesca a volere il bene, sicché un reale merito, per quanto reso possibile solo dalla grazia, è premiato con la salvezza. Tommaso d’Aquino, a sua volta, sostiene che il poter fare il male proviene sì dalla l., ma da un suo difetto, non da una sua perfezione.
2. La l. nella filosofia moderna e contemporanea
Dopo il Medioevo, nel Cinquecento la questione è ridiscussa interamente. Da un’interpretazione di Agostino sorgono le dottrine di G. Calvino e di M. Lutero, entrambe negatrici di ogni libero arbitrio umano, entrambe affermatrici di una l. nel bene che coincide con la più rigorosa necessitazione del volere umano da parte della grazia. Nel Seicento, B. Spinoza ripristina il concetto stoico dell’universale necessità e il concetto parimenti stoico di una l. che non presuppone, anzi nega il libero arbitrio, ed è fatta consistere nel riconoscimento e accettazione della necessità stessa.
Nel secolo successivo I. Kant pone la distinzione tra leggi della necessità, che regolano i fenomeni dell’universo naturale, e le leggi morali o leggi della libertà. Per si deve intendere per Kant la facoltà di adeguarsi alle leggi che la ragione dà a noi stessi. La l. come autonomia morale dell’uomo e sua intima dignità è il concetto che J.G. Fichte svolge, riprendendolo da Kant. Al concetto di l. o arbitrio d’indifferenza (facoltà di volere immotivatamente l’una o l’altra di due cose contrarie o anche nessuna delle due) G.W.F. Hegel oppone un più concreto concetto della l. come autodeterminazione e intima necessità. A Kant ritornano le filosofie che reagiscono al determinismo positivistico, intese a salvare la l. della condotta morale. Nel quadro del ritorno all’idealismo classico, i movimenti neohegeliani insistono sulla hegeliana coincidenza di l. e necessità, rinnovando la polemica contro il mero arbitrio o l. d’indifferenza.
Nel marxismo manca una vera e propria teoria filosofica della l.: secondo K. Marx e F. Engels, infatti, la coscienza degli uomini è determinata dal loro essere sociale. La l. si identifica quindi interamente con quella società comunista che, attraverso l’abolizione del lavoro salariato, realizza «il salto dal regno della necessità a quello della libertà». Per tutt’altra via passa la difesa del concetto di l. intrapresa dal contingentismo ( contingente), per il quale nella l. è da vedere anzitutto indeterminazione; e spontaneità, piuttosto che autonomia, è la l. per la filosofia di H.L. Bergson. Nell’esistenzialismo la l. coincide con la stessa necessità della situazione, di fronte alla quale l’uomo non ha altra scelta che accettarla consapevolmente o piombare nell’‘esistenza inautentica’, come in M. Heidegger. In L’être et le néant J.P. Sartre sostiene che l’uomo è ‘essenzialmente’ libero di scegliere, in quanto sua caratteristica è la ‘mancanza’, il ‘nulla’ di essere, ed è perciò teso alla scelta di possibilità esistenziali.
Dizionario di Filosofia (2009)Il tema della libertà nella filosofia antica. Nel pensiero di Socrate hanno un grande rilievo i due motivi, strettamente connessi tra loro, della involontarietà del male e dell’attraenza del bene. Socrate è convinto che nessuno fa il male volontariamente, cioè per il gusto di fare il male, e che ognuno agisce sempre in vista di quello che egli crede sia il bene e il meglio per lui. Se per questo verso Socrate resta all’interno del cosiddetto soggettivismo dei sofisti, nel senso che anche per lui non è mai possibile uscire dall’ambito delle valutazioni, dei gusti e delle preferenze individuali, tuttavia questi vengono continuamente giudicati, criticati e discussi attraverso il διαλέγεσϑαι («il disputare») e ciò permette di ritrovare criteri comuni e validi universalmente. Fare il male, per Socrate, vuol dire seguire un bene apparente invece del bene reale; infatti, se uno conoscesse il bene, lo farebbe anche, perché il bene è tale che, una volta conosciuto, attrae irresistibilmente la volontà dell’uomo e si presenta senz’altro come ciò che è preferibile. Di qui l’equazione socratica di scienza e virtù, strettamente connessa all’eudemonismo che caratterizza tutta l’etica socratica. Di qui, implicitamente, una concezione della l. come meta raggiungibile attraverso la scienza. Questa concezione ritorna anche in Platone, sia pure all’interno di una prospettiva escatologica: si pensi al mito di Er (Repubblica, X), il guerriero che ha passato dodici giorni nell’Ade e che può ricordare ciò che ha visto. L’anima, che è immortale, deve reincarnarsi ciclicamente per espiare i peccati che ha commesso, e poiché essa ricorda le sue vite precedenti, può scegliere fra vari «modelli di vita». Ciascuna anima è responsabile della propria scelta, «la divinità non vi ha minimamente parte», e ognuna avrà, per guidarla nella sua vita, il demone che si sarà scelto. Una volta avvenuta la decisione, non ci sarà più possibilità di sottrarvisi. Ma solo chi ha ascoltato la filosofia sa riflettere con discernimento: se la scelta, dunque, è libera, di questa l. è possibile fruire nel migliore dei modi solo attraverso la filosofia. Anche in Aristotele troviamo il consueto rapporto greco tra l. e conoscenza. Secondo l’analisi svolta nell’Etica nicomachea (III, 1), involontarie sono quelle operazioni «che avvengono per costrizione» o «per ignoranza»; la costrizione ha luogo ogni volta che «il principio dell’azione sia esteriore, di modo che l’agente, o paziente, non vi contribuisca per nulla». Quanto alle azioni commesse per ignoranza, l’involontarietà deriva dal fatto che «ogni malvagio ignora ciò che si deve fare e ciò da cui ci si deve astenere». Pare dunque, conclude Aristotele, che «sia volontario ciò il cui principio si trova nell’agente che conosce tutte le circostanze particolari dell’azione». In questo modo Aristotele congiunge strettamente la l. del volere alla scelta volontaria. Un’ampia analisi dei problemi connessi con la libertà ci dà Plotino nelle Enneadi (VI, 8). Egli si chiede «se sia qualche cosa rimessa alla nostra libertà», e poiché moltissime sono le passioni che ci trascinano, «noi ci domandiamo perplessi», dice Plotino, «se non siamo, per avventura, altro che nulla, e nulla sia rimesso alla nostra libertà». Plotino riconduce la l. del volere non a un impulso sensibile, bensì «al retto ragionamento e alla giusta tendenza»; è necessario, insomma, che «la ragione e la conoscenza si rivolgano proprio contro l’impulso e lo vincano». Perciò esse devono rifarsi a un principio non-sensibile, a una non-sensibile tendenza al bene. Coloro che sono guidati da impulsi sensibili, non potremo considerarli, sostiene quindi Plotino, «compresi sotto un principio di l., perché anche agli incapaci, che agiscono per lo più in quel modo, non riconosceremo mai l. del volere: a chi, invece, per la virtù operosa del suo intelletto, è immune dalla passionalità del corpo, attribuiremo veramente la libera indipendenza».
Cristianesimo e Riforma. Sul concetto di l. influisce in modo profondo l’avvento del cristianesimo. Hegel osservava a questo proposito (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 482) che intere parti del mondo, l’Africa e l’Oriente, non avevano mai avuto questa nuova idea della l.; i Greci e i Romani, Platone e Aristotele, e anche gli stoici sapevano solo che l’uomo è realmente libero in virtù della nascita (come cittadino spartano, ateniese, ecc.) o in virtù della forza del carattere e della cultura, in virtù della filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Ma una nuova idea di l. si afferma per opera del cristianesimo; per il quale l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e a far sì che questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo in sé è destinato alla somma libertà. Se il concetto di l. del volere diventa centrale per il cristianesimo, perché senza la l. dell’uomo non sarebbe concepibile il peccato, e dunque non avrebbe senso alcuno la redenzione, tuttavia il concetto di l. deve congiungersi strettamente a quello di grazia divina, a un qualcosa cioè di esterno e indipendente. Agostino sente la necessità di affermare la responsabilità umana e insieme un prestabilito disegno divino. A Pelagio, che asseriva che il volere umano, dopo il peccato, può anche volgersi al bene, Agostino risponde che certamente «può»; ma la maniera in cui riesce concretamente a volere quel bene che «può» volere è che le reali forze di volerlo gli siano date da quello stesso vivente Bene a cui volse le spalle. E a Giuliano d’Eclano Agostino risponde che la predeterminazione divina non annulla ma include il libero arbitrio umano e le sue scelte, e che, se Dio concede il suo aiuto a chi vuole, ciò non toglie che con un volere libero, sebbene ridestato dall’aiuto divino, l’uomo riesca a volere il bene, sicché un reale merito, per quanto reso possibile solo dalla grazia, è premiato con la salvezza. Tommaso, a sua volta, sostiene che il poter fare il male proviene sì dalla l., ma da un suo difetto, non da una sua perfezione: «che il libero arbitrio possa scegliere oggetti diversi rispettando l’ordine delle finalità, appartiene alla perfezione della l.: ma che scelga alcunché travolgendo tale ordine – ciò che è peccare – questo appartiene a un difetto di libertà» (Summa theologiae). Dopo il Medioevo, nel quale la soluzione agostiniana è accolta da taluni con più intensa accentuazione dell’onnipotenza della grazia nel volere umano, da altri con maggiore preoccupazione di mostrare che il libero arbitrio non è tolto neppure dall’onnipotenza della grazia, il Cinquecento è il secolo nel quale la questione è ridiscussa interamente. Da un’interpretazione di Agostino sorgono le dottrine di Calvino e di Lutero, entrambe negatrici di ogni libero arbitrio umano, entrambe affermatrici di una l. nel bene che coincide con la più rigorosa necessitazione del volere umano da parte della grazia. Per i rifor- matori la l. cristiana è una realtà ‘spirituale’: essi avversano con decisione la sua interpretazione distorta in termini politici. Se Lutero, tornando a un’interpretazione di Paolo, si impegna a fondo nella critica della l. cristiana come libertas ecclesiae, che nient’altro diviene se non l’insieme dei privilegi, delle immunità e delle rivendicazioni dell’istituzione ecclesiastica, Calvino sottrae al regimen politicum o all’ordinamento civile il concetto della l. cristiana, che viene invece ascritto all’ambito autonomo della teologia. La tesi della l. della coscienza vincolata soltanto alla parola di Dio, in quanto tale non sottoposta ad alcuna autorità ecclesiastica o secolare, e l’aperta protesta contro una simile coartazione della coscienza, il rigetto delle pretese mondane di potere della Chiesa e della sua sovraordinazione all’ambito statuale-secolare prepareranno la strada alla concezione moderna della l. e al dibattito sul suo significato politico-giuridico.
Il dibattito su libertà e necessità. Nel Seicento, Spinoza ripristina il concetto stoico dell’universale necessità e il concetto parimenti stoico di una l. che non presuppone, anzi nega il libero arbitrio, ed è fatta consistere nel riconoscimento e nell’accettazione della necessità universale stessa. Nel secolo seguente abbiamo la concezione di Kant, con la sua distinzione tra leggi della necessità, che regolano i fenomeni dell’Universo naturale, e le leggi morali o leggi della libertà. Per «l. morale» si deve intendere, secondo Kant, la facoltà di adeguarsi alle leggi che la nostra ragione dà a noi stessi. Noi possiamo dunque scegliere tra il seguire la causalità empirica, che rende il nostro volere eteronomo, e l’obbedire alla legge morale che, esprimendo l’essenza più profonda del nostro Io, rende il nostro volere autonomo e, così, libero. E come l’essenza profonda del nostro essere è la l., così all’origine dell’intero Universo che alla scienza si presenta determinato, è il libero volere di un Essere intelligente, che ordina teleologicamente ciò che alla conoscenza scientifica appare invece meccanicamente causato. La l. come autonomia morale dell’uomo e sua intima dignità è il grande concetto che Fichte svolge, riprendendolo da Kant. Al concetto, elaborato da alcuni scolastici, di «l. o arbitrio d’indifferenza» (facoltà di volere, immotivatamente o indifferentemente, l’una o l’altra di due cose contrarie o anche nessuna delle due), che, non sapendo o non potendo risolvere la propria indifferenza, resta in fondo un’inerte possibilità d’azione, Hegel oppone un concetto più concreto della l., quello della l. come autodeterminazione e intima spirituale necessità. Al determinismo positivistico reagiscono tutte le filosofie del «ritorno a Kant», intese a salvare la l. della condotta morale. E, nel quadro del ritorno all’idealismo classico dei primi decenni dell’Ottocento, i movimenti neohegeliani insistono sulla hegeliana coincidenza di l. e necessità, rinnovando la polemica contro il mero arbitrio o l. d’indifferenza. Il rifiuto della concezione hegeliana della l. come processo speculativo della ragione universale distingue invece il pensiero di Marx, che identifica la l. con un processo di liberazione economica, politica e sociale volto ad affrancare l’uomo dal bisogno e dalla lotta di classe e a creare le condizioni per una concreta autorealizzazione materiale e spirituale. Per tutt’altra via passa l’opposizione all’hegelismo intrapresa dal contingentismo, per il quale nella l. è da vedere anzitutto indeterminazione; e spontaneità, piuttosto che autodeterminazione, cioè autonomia, è la l. per la filosofia dello «slancio vitale» (Bergson). Nell’esistenzialismo la l. viene a coincidere con la stessa necessità della situazione, di fronte alla quale l’uomo non ha altra scelta che accettarla consapevolmente o piombare nella «esistenza inautentica», come in Heidegger. In L’essere e il nulla (1943) Sartre sostiene che l’uomo è «essenzialmente» libero di scegliere, in quanto sua caratteristica è la «mancanza», il «nulla» di essere, ed è perciò continuamente teso alla scelta di possibilità esistenziali. L’equivalenza, di qui derivante, di tutte le scelte viene tuttavia eliminata nelle opere successive.
Il dibattito contemporaneo. Il
significato politico-giuridico del concetto di l. è al centro del
dibattito contemporaneo. Particolarmente influente è stata a
questo riguardo la distinzione espressa da Berlin fra l. negativa
e l. positiva, fra l. da e l. di: la prima
concerne l’area entro la quale una persona è o dovrebbe essere
lasciata fare o essere ciò che è in grado di fare o essere senza
interferenze da parte di altre persone. La seconda riguarda l’area
in cui si situa la fonte del controllo e dell’interferenza che può
determinare che qualcuno faccia o sia una cosa piuttosto che
un’altra. La l. negativa corrisponde alla l. dei ‘moderni’ di
Constant, che ne definisce appunto il senso e il valore nella
celebre contrapposizione con la l. degli ‘antichi’; essa è
l’indipendenza individuale difesa da J.S. Mill: il soggetto della
l. negativa è l’individuo, e l’arena della l. negativa è
circoscritta da un confine che, per quanto mobile e variamente
tracciato, separa la sfera ‘privata’ dalla sfera ‘pubblica’, la
sfera individuale da quella collettiva. L’assenza di vincoli o
interferenze va quindi interpretata principalmente come assenza di
vincoli o interferenze da parte dei detentori di autorità
legittima, che è tale se e solo se non viola o viola il meno
possibile l’autonomia individuale. Contro la distinzione analitica
dei due concetti di l. si è espresso Rawls nella sua teoria della
giustizia come equità. La l. o, meglio, il sistema delle l. è
oggetto del primo principio di giustizia. Esso prescrive che il
sistema delle l. sia per ciascuno il più ampio possibile,
compatibilmente con il sistema delle l. di ciascun altro. Nella
prospettiva di Rawls, la massimizzazione del sistema delle l.
individuali è prioritaria rispetto a quanto prescritto dal secondo
principio di giustizia, il cosiddetto principio di differenza, che
deve modellare le istituzioni responsabili della distribuzione di
una classe particolare di risorse, considerate come beni sociali
primari spettanti a tutti i cittadini. Accettare la priorità
dell’eguale sistema delle l. implica accettare un principio di
equità nella distribuzione dei beni sociali primari, in quanto un
eguale sistema di l. non ha, di regola, eguale valore per
individui diversamente dotati. Proponendo un ordinamento fra l. ed
equità, espresso dalla priorità del principio di l. sul principio
di differenza, Rawls ha di mira la soluzione di un conflitto fra
la l. e un altro valore sociale quale l’uguaglianza . A questa
prospettiva, e ai suoi importanti sviluppi ad opera di Sen e di
Dworkin, si contrappone radicalmente la tesi sui diritti negativi
propria della teoria libertaria. In partic., Nozick ha confutato
la pretesa di teorie della giustizia distributiva di proporre
criteri o modelli di distribuzione giusta. Se ci si basa
sull’assegnazione di valore intrinseco alla l. individuale,
qualsiasi precetto distributivo è inaccettabile perché non può che
violare la l. individuale stessa. Nella più recente controversia
nell’ambito della teoria normativa, il conflitto distributivo ha
finito per lasciare spazio ad altro tipo di conflitto, il
conflitto di identità o conflitto per il riconoscimento. E
questioni relative all’assegnazione di valore alle l. si sono così
connesse a questioni di riconoscimento di nuove identità o di
identità prima escluse, a questioni di inclusione in o esclusione
da comunità di ‘pari’ dai differenti confini.
Enciclopedia del Novecento
(1978)
di Norberto Bobbio
Sommario: 1. Libertà negativa. 2. Libertà
positiva. 3. Libertà di agire e libertà di volere. 4. Determinismo
e indeterminismo. 5. Libertà dell'individuo e libertà della
collettività. 6. ‛Libertà da' e ‛libertà di'. 7. Libertà degli
antichi e libertà dei moderni. 8. Liberalismo e democrazia. 9.
Quale sia la ‛vera' libertà. 10. Due ideali di società libera. 11.
La storia come storia della libertà. 12. La storia della libertà.
13. Linee di tendenza di questa storia. 14. Dalla libertà dallo
Stato alla libertà nella società. 15. Totalitarismo e tecnocrazia.
16. Le forme attuali della non-libertà. 17. I problemi attuali
della libertà. 18. Considerazione conclusiva.
1. Libertà negativa
Nonostante quel che è stato detto infinite volte circa la varietà
e la molteplicità dei significati di ‛libertà', e quindi circa la
difficoltà o addirittura la vanità di una sua definizione, i
significati rilevanti nel linguaggio politico, che qui viene preso
in particolare considerazione (ma non soltanto nel linguaggio
politico, come vedremo tra poco), sono soprattutto due, e pertanto
la determinazione del concetto o dei concetti di libertà non è,
per quanto difficile, vana.
I due significati rilevanti si riferiscono a quelle due forme di
libertà che si sogliono chiamare, con sempre maggiore frequenza,
‛negativa' e ‛positiva'. Per ‛libertà negativa' s'intende, nel
linguaggio politico, la situazione in cui un soggetto ha la
possibilità di agire senza essere impedito, o di non agire senza
essere costretto, da altri soggetti. Con questa avvertenza: il
fatto che nel linguaggio politico la libertà sia una relazione tra
due soggetti umani non esclude che il concetto ampio di libertà
comprenda anche una relazione in cui uno dei due soggetti o tutti
e due non sono soggetti umani. È perfettamente lecito dire che
l'uomo ha conquistato la propria libertà emancipandosi non solo
dalle restrizioni derivanti dalla soggezione dell'uomo all'uomo,
ma anche dalla sottomissione alle forze naturali, così come si può
dire che un fiume (ente naturale) è libero di seguire il proprio
corso quando non ne è impedito da un argine o da una diga (che
sono opera dell'uomo).
La libertà negativa si suole chiamare anche ‛libertà come assenza
d'impedimento' o ‛libertà come assenza di costrizione': se per
‛impedire' s'intende il non permettere ad altri di fare alcunché,
e se per ‛costringere' s'intende l'obbligare altri a fare
alcunché, entrambe le dizioni sono parziali, dal momento che la
situazione di libertà denominata ‛libertà negativa' comprende
tanto l'assenza d'impedimento, cioè la possibilità di fare, quanto
l'assenza di costrizione, cioè la possibilità di non fare. Si
considera che goda di una situazione di libertà tanto colui che
può esprimere le proprie opinioni senza incorrere nei rigori della
censura, quanto colui che è esentato dal servizio militare (per
es., là dove l'obiezione di coscienza è legalmente riconosciuta):
il primo può agire perché non vi è nessuna norma che vieti
l'azione che egli ritiene desiderabile, il secondo può non agire
perché non vi è nessuna norma che imponga l'azione che egli
ritiene non desiderabile. Siccome i limiti alle nostre azioni in
società sono posti generalmente da norme (siano esse
consuetudinarie o legislative, siano sociali o giuridiche o
morali), si può anche dire, com'è stato detto per lunga e
autorevole tradizione, che la libertà in questo senso, cioè la
libertà che un uso sempre più diffuso e frequente chiama ‛libertà
negativa', consista nel fare (o non fare) tutto ciò che le leggi,
intese le leggi in senso lato, e non solo in senso
tecnico-giuridico, permettono, ovvero non proibiscono (e in quanto
tali permettono di non fare). Quando Hobbes accolse il principio libertas
silentium legis, mostrò di aver ben chiara in mente questa
idea di libertà, che illustrò in questi termini: ‟[...] poiché non
tutti i movimenti e le azioni dei cittadini sono regolati dalle
leggi, né, per la loro varietà, potrebbero esserlo, vi saranno
necessariamente infinite attività che non risulteranno né
comandate né proibite, e che ciascuno potrà svolgere o non
svolgere a suo arbitrio. Qui si può dire che ogni cittadino goda
di una certa libertà, intendendo per libertà quella parte del
diritto naturale che viene rilasciata ai cittadini in quanto non è
limitata dalle leggi civili" (De cive, XIII, 15).
Non diversamente Locke: ‟[...] la libertà degli uomini sotto un
governo consiste [...] nella libertà di seguire la mia propria
volontà in tutto ciò in cui la norma non dà precetti, senza esser
soggetto alla volontà incostante, incerta, sconosciuta e
arbitraria di un altro" (Secondo trattato sul governo,
IV, 22). La formulazione classica di questa accezione di libertà
fu data da Montesquieu: ‟La libertà è il diritto di fare tutto ciò
che le leggi permettono" (De l'esprit des lois, XII, 2).
Che nella maggior parte delle definizioni tradizionali della
libertà negativa la libertà venga definita più in relazione
all'assenza d'impedimento che non all'assenza di costrizione, si
spiega con la considerazione che le libertà storicamente più
rilevanti, nel periodo in cui il problema della libertà negativa
diventa politicamente cruciale, in genere tutte le libertà civili,
rappresentano il risultato di una lotta contro precedenti
impedimenti piuttosto che contro precedenti costrizioni. Di qua
anche l'uso invalso di chiamare questa forma di libertà ‛libertà
come non impedimento', anziché ‛libertà come non costrizione',
mentre la dizione più comprensiva sarebbe ‛libertà come non
impedimento e come non costrizione'.
2. Libertà positiva
Per ‛libertà positiva' s'intende nel linguaggio politico la
situazione in cui un soggetto ha la possibilità di orientare il
proprio volere verso uno scopo, di prendere delle decisioni, senza
essere determinato dal volere altrui. Questa forma di libertà si
chiama anche ‛autodeterminazione' o, ancor più appropriatamente,
‛autonomia'. ‛Negativa' la prima forma di libertà perché designa
soprattutto la mancanza di qualche cosa (è stato notato che nel
linguaggio comune ‛libero da' è spesso sinonimo di ‛senza di',
tanto che il modo più comune di spiegare che cosa significhi che
io ho agito liberamente consiste nel dire che ho agito senza...);
‛positiva' la seconda, perché indica, al contrario, la presenza di
qualche cosa, cioè di un attributo specifico del mio volere, che è
appunto la capacità di muoversi verso uno scopo senza essere
mosso. Beninteso, si suole chiamare ‛libertà' anche questa
situazione, che potrebbe essere chiamata più appropriatamente
‛autonomia', nella misura in cui nella definizione si fa
riferimento non tanto a ciò che c'è quanto a ciò che manca, come
quando si dice che autodeterminarsi significa non essere
determinati da altri, o non dipendere per le proprie decisioni da
altri, o determinarsi senza essere a nostra volta determinati.
Conducendo alle estreme conseguenze questa osservazione verrebbe
fatto di dire che, essendo ‛libertà' un termine indicante, nella
molteplicità delle proprie accezioni, mancanza di qualche cosa,
l'espressione ‛libertà positiva' è contraddittoria.
Della libertà positiva la definizione classica fu data da
Rousseau, per il quale la libertà nello stato civile consiste nel
fatto che quivi l'uomo, in quanto parte del tutto sociale, come
membro dell'‛io comune', non ubbidisce ad altri che a se stesso,
cioè è autonomo nel senso preciso della parola, nel senso che dà
leggi a se stesso e non ubbidisce ad altre leggi che a quelle che
si è dato: ‟L'obbedienza alla legge che ci siamo prescritti è la
libertà" (Contrat social, I, 8). Tale concetto di libertà
fu ripreso, per influsso diretto di Rousseau, da Kant, dove
peraltro si trova anche il concetto di libertà negativa. Nel
saggio Per la pace perpetua, nel momento stesso in cui
Kant esclude che la libertà giuridica possa essere definita ‟come
la facoltà di fare tutto ciò che si vuole pur di non recare
ingiustizia ad alcuno" (si tratta della definizione di libertà
accolta nelle Dichiarazioni dei diritti: art. 4 della
Dichiarazione del 1789, art. 5 della Dichiarazione del 1793),
precisa che ‟meglio è definire la mia libertà esterna (cioè
giuridica) come la facoltà di non obbedire ad altre leggi esterne,
se non a quelle cui io ho potuto dare il mio assenso" (nella nota
al primo articolo definitivo). Non altrimenti nella Metafisica
dei costumi, ove la libertà giuridica viene definita come
‟la facoltà di non obbedire ad altra legge che non sia quella a
cui i cittadini hanno dato il loro consenso" (II, 46). Il filosofo
che ha celebrato la libertà come autonomia, disdegnando la libertà
negativa, è stato Hegel, secondo il quale la libertà politica si
realizza soltanto nello Stato, attraverso la manifestazione della
sua volontà razionale, che è la legge: ‟Giacché la legge è
l'oggettività dello spirito e la volontà nella sua verità; e solo
la volontà che ubbidisce alla legge è libera: ubbidisce infatti a
se stessa, è presso se stessa, e dunque è libera" (O. W. F. Hegel,
Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, Firenze
1972, p. 109).
3. Libertà di agire e libertà di volere
Meglio di ogni altra considerazione, ciò che permette di
distinguere nettamente le due forme di libertà è il riferimento ai
due diversi soggetti di cui esse sono, rispettivamente, il
predicato. La libertà negativa è una qualifica dell'azione, la
libertà positiva è una qualifica della volontà. Quando dico che
sono libero nel primo senso voglio dire che una certa mia azione
non è ostacolata, e quindi posso compierla; quando dico che sono
libero nel secondo senso voglio dire che il mio volere è libero,
cioè non è determinato dal volere altrui, o più in generale da
forze estranee al mio stesso volere. Più che di libertà negativa e
positiva sarebbe forse più appropriato parlare di libertà d'agire
e di libertà di volere, intendendosi per la prima ‛azione non
impedita o non costretta', per la seconda ‛volontà non
eterodeterminata o autodeterminata'. In un certo senso proprio il
riferimento alla ‛assenza di...' in entrambe le definizioni serve
a spiegare, meglio della qualificazione di ‛negativo' e di
‛positivo', come mai tanto il linguaggio comune quanto quello
tecnico usino per le due diverse accezioni lo stesso termine.
Nello stesso tempo la netta distinzione del campo di riferimento
delle due libertà serve anche a spiegare perché le due nozioni
debbano essere rigorosamente distinte, e perché la loro mancata
distinzione, o meglio la mancanza di un criterio netto di
distinzione (come quello che ha dato origine alle due dizioni
‛libertà negativa' e ‛libertà positiva'), provochi deplorevoli
confusioni, e quindi sterili controversie. Che un'azione sia
libera vuol dire, secondo la definizione di libertà negativa come
non impedimento, che questa azione può essere compiuta senza
trovare ostacoli, come il fiume di Hobbes che segue il suo corso
naturale. Ma tale azione può dirsi libera indipendentemente dal
fatto che sia stata voluta, e ancor più che sia stata voluta da
una volontà libera. Non è affatto contraddittorio il dire che io
godo della libertà religiosa anche se non ho scelto liberamente la
religione che liberamente professo. Così come non è affatto
ridondante il dire che io sono libero riguardo all'attività
religiosa, per il fatto che ho scelto liberamente la religione da
professare, e sono libero di professarla perché vivo in uno Stato
che riconosce e garantisce la libertà religiosa. Che la volontà
sia libera secondo la definizione di libertà positiva vuol dire
che questa volontà si determina da sé, è autonoma.
Ma che una
volontà sia autonoma non implica affatto che l'azione che
eventualmente ne derivi sia libera (cioè non impedita o non
costretta). Non è affatto contraddittorio dire che io ho scelto
liberamente la religione che professo ma non sono libero di
professarla perché vivo in uno Stato confessionale. Così come non
è ridondante il dire che io non sono religiosamente libero perché
la religione che professo è la religione dei padri accettata
passivamente, e perché nella situazione storica in cui mi trovo
non mi è riconosciuto il diritto di professarla. Che le due
libertà siano diverse tanto da poter essere indipendenti l'una
dall'altra non vuoi dire che siano incompatibili e che quindi non
si possano integrare vicendevolmente. Anzi, come vedremo, nella
sfera politica una società o uno Stato liberi sono una società o
uno Stato in cui alla libertà negativa degli individui o dei
gruppi si accompagna la libertà positiva della collettività nel
suo complesso, in cui un certo ampio margine di libertà negativa
degli individui o dei gruppi (le cosiddette libertà civili) è la
condizione per l'esercizio della libertà positiva dell'insieme (la
cosiddetta libertà politica).
4. Determinismo e indeterminismo
Senza voler entrare nella controversia tradizionale tra
deterministi e indeterministi, e continuando a restare nel campo
della libertà sociale, non sembra fuori luogo precisare che i due
significati di libertà sin qui illustrati corrispondono ai due
significati di libertà prevalenti nelle discussioni dei filosofi,
cioè alla libertà come l'intendono i deterministi e alla libertà
come l'intendono gl'indeterministi. I primi infatti negano
generalmente la libertà del volere ma non escludono la libertà di
agire, se ad essa si attribuisce il significato di libertà
negativa; i secondi affermano principalmente e con assoluta
priorità su ogni altra forma di libertà la libertà di volere, che
corrisponde alla cosiddetta libertà positiva e non comporta
necessariamente la libertà di agire. Quando un determinista parla
di libertà, ne parla per designare quella situazione in cui il
corso naturale degli eventi non è ostacolato nel suo svolgimento
necessario, come libertas a coactione, secondo la
definizione di Hobbes: ‟La libertà è l'assenza di tutti gli
impedimenti all'azione, che non siano contenuti nella natura e
nella qualità intrinseca dell'agente. Così, ad esempio, si dice
che l'acqua discende liberamente, o che ha libertà di scendere per
il letto del fiume, perché non c'è impedimento lungo quella
direzione, ma non di traverso, poiché gli argini sono impedimenti"
(Of liberty and necessity, in English works,
vol. IV, pp. 273-274). Per un indeterminista, invece, la libertà
consiste nella capacità che hanno alcuni soggetti, come il
soggetto umano nel pieno possesso delle sue facoltà, se pure entro
certi limiti e in date circostanze, e in sommo grado Dio, di
autodeterminarsi: come libertas a necessitatione. Non
diversamente dalla libertà politica di un Rousseau o di un Hegel,
la libertà come autodeterminazione nel linguaggio filosofico
qualifica non una volontà assolutamente indeterminata ma una
volontà che si determina non in base a impulsi o a moventi
sensibili, ma ai dettami della ragione, sia essa la ragione divina
o quella cosmica. Della quale quindi si può dire altrettanto bene
che non consiste nel non essere sottoposti a nessuna legge bensì
nell'essere sottoposti alla legge della ragione.
Allo stesso modo che libertà negativa e libertà positiva non si
implicano e non si escludono, come abbiamo visto, così non si
implicano né si escludono la libertà dei deterministi e la libertà
degli indeterministi. Per ammettere la libertà come non
impedimento del corso naturale delle cose non è affatto
indispensabile postulare che la volontà sia libera nel senso che
possa autodeterminarsi. Per altro verso, l'indeterminista
riconosce che la volontà può essere libera ma l'azione che ne
discende può essere ostacolata o addirittura impedita (si pensi
all'esempio ricorrente del paralitico che vuole e non può), tanto
è vero che anche il più intransigente sostenitore della libertà
del volere ammette in molti casi l'attenuazione o addirittura la
completa estinzione della responsabilità personale.
Anche se le dispute sulle libertà civili e politiche non si sono
presentate di solito come il riflesso della disputa teologica e
filosofica tra deterministi e indeterministi, e anzi si sono
svolte prescindendone, si può osservare che, da un lato, le
richieste di libertà negativa sono state sostenute in base
all'argomento secondo cui bisogna dar libero corso alla natura
(umana), non ostacolare con provvedimenti artificiosi e
costrittivi la libera esplicazione delle forze naturali (per es.
nei rapporti economici), e hanno fatto consistere il pregio della
libertà non nell'affermazione del libero arbitrio, ma nel
riconoscimento e nell'accettazione della necessità naturale contro
le deformazioni provocate dalle leggi civili; e che, d'altra
parte, la richiesta della libertà positiva corrisponde
all'esigenza, se non al postulato, degli indeterministi, che la
volontà sia posta in grado di autodeterminarsi, se pure con
particolare riguardo alla volontà collettiva, alla volontà del
tutto, più che alla volontà dei singoli individui.
5. Libertà dell'individuo e libertà della
collettività
Le due forme di libertà rilevanti nella teoria politica si possono
distinguere anche in base al diverso soggetto storico che dell'una
o dell'altra è portatore. Generalmente il soggetto storico della
libertà come assenza d'impedimento e di costrizione è l'individuo;
il soggetto storico della libertà come autodeterminazione è un
ente collettivo. Le libertà civili, prototipo delle libertà
negative, sono libertà individuali, cioè inerenti all'individuo
singolo: storicamente, infatti, sono il prodotto delle lotte per
la difesa dell'individuo considerato o come persona morale, e
quindi avente un valore di per se stesso, o come soggetto di
rapporti economici, contro l'invadenza di enti collettivi come la
Chiesa e lo Stato; filosoficamente sono una manifestazione di
concezioni individualistiche della società, cioè di teorie per cui
la società è una somma d'individui e non un tutto organico. La
libertà come autodeterminazione invece è generalmente riferita,
nella teoria politica, a una volontà collettiva, sia questa
volontà quella del popolo o della comunità o della nazione o del
gruppo etnico o della patria: ciò vuol dire che per la teoria
politica il problema storicamente rilevante non è tanto quello
dell'autodeterminazione dell'individuo singolo (che è problema
teologico o filosofico o morale) quanto quello
dell'autodeterminazione del corpo sociale di cui l'individuo è
parte. È significativo infatti che per la prima libertà si usi
spesso la formula ‛libertà dallo Stato', che richiama l'attenzione
sulla libertà dell'individuo nei riguardi dello Stato, per la
seconda si usi la formula ‛libertà dello Stato', ove il soggetto
della libertà è l'ente collettivo ‛Stato'. Le teorie che di questa
libertà si fanno banditrici, a cominciare da quella paradigmatica
di Rousseau, per finire con quella di Hegel, hanno una concezione
non atomistica ma organica della società, hanno di mira la libertà
non dei singoli individui ma del tutto. Altro modo di esprimere
questa differenza è il chiamare la libertà negativa libertà del
borghese, la libertà positiva libertà del cittadino: dove per
‛borghese' s'intende l'individuo singolo con la sfera privata di
aspirazioni e d'interessi, e per ‛cittadino' l'individuo in quanto
parte di una totalità ed esso stesso promotore delle deliberazioni
che da essa derivano.
Non bisogna peraltro confondere una distinzione storicamente
rilevante con una distinzione concettuale. Che storicamente la
libertà negativa sia prevalentemente un attributo dell'individuo,
e la libertà positiva un attributo di un ente collettivo, non vuoi
dire affatto che concettualmente le due libertà si distinguano in
base al diverso soggetto che ne sarebbe il beneficiano. Dal punto
di vista concettuale si può parlare, anche in contesti
politicamente rilevanti, di libertà negativa in favore di un
soggetto collettivo, come accade, per fare un esempio di grande
attualità, nel caso di una guerra di ‛liberazione' nazionale (ove
è chiaro che la libertà cui ci si riferisce è la libertà
negativa); così come è appropriato parlare di libertà positiva con
riferimento a un individuo singolo, anche se il problema
dell'autodeterminazione individuale sia un problema morale (e
giuridico) più che politico. Resta il fatto che non impedimento (e
non costrizione) e autodeterminazione sono, astrattamente
parlando, situazioni che possono essere entrambe riferite tanto
all'individuo singolo quanto a un ente collettivo.
6. ‛Libertà da' e ‛libertà di'
È invalso l'uso di chiamare la libertà negativa ‛libertà da'
(dall'inglese freedom from), espressione che mette
immediatamente in rilievo l'elemento negativo della situazione cui
si riferisce: la libertà negativa è, come abbiamo visto, quella
situazione in cui non si è soggetti a limiti, come sono quelli che
provengono da norme restrittive di questa o quella autorità
sociale, cioè è ‛libertà da' questo o quel limite. Vi sono autori
che distinguono la ‛libertà da' dalla ‛libertà di' (dall'inglese freedom
to), comprendendovi tutte le situazioni designate con
espressioni quali ‛libertà d'opinione', ‛libertà d'iniziativa
economica', ‛libertà di riunirsi, di associarsi, di votare', ecc.,
e intendendo così mettere in rilievo, accanto al momento negativo
della situazione di mancanza di limitazioni, cui si riferisce il
termine ‛libertà', anche il momento positivo consistente
nell'indicazione delle concrete azioni che da questa mancanza di
limiti sono ‛liberate' e quindi rese possibili. Per quanto la
distinzione tra ‛libertà da' e ‛libertà di' esprima la distinzione
tra aspetto negativo e aspetto positivo di una situazione chiamata
‛libertà', non è da confondere, come spesso avviene, con la
distinzione tra libertà negativa e libertà positiva, quale sinora
è stata illustrata.
Abbiamo visto che la differenza tra la libertà come ‛assenza
d'impedimento o di costrizione' e la libertà come
‛autodeterminazione' o ‛autonomia' sta nel fatto che la prima
qualifica l'azione umana, la seconda la volontà. Orbene, tanto la
‛libertà da' quanto la ‛libertà di' qualificano l'azione. In
quanto tali non designano due situazioni diverse ma due aspetti
(che possiamo benissimo chiamare negativo e positivo purché da
questa denominazione non nasca un'ulteriore confusione) della
stessa situazione. Mentre le due libertà di cui abbiamo sinora
parlato sono storicamente connesse ma non si implicano, dal
momento che un soggetto può essere libero in uno dei due sensi di
libertà senza essere libero nell'altro senso, la ‛libertà da' e la
‛libertà di' si implicano nel senso che, essendo due aspetti della
stessa situazione, l'uno non può stare senza l'altro o, in altre
parole, in una situazione concreta nessuno può essere ‛libero
da'... senza essere ‛libero di'... e viceversa. Quando io dico,
per esempio, che sono ‛libero di' esprimere le mie opinioni, dico,
e non posso non dire, nello stesso tempo che sono ‛libero da' una
legge che istituisce la censura preventiva. Così come quando io
dico che sono ‛libero da' qualsiasi norma che limiti il mio
diritto di voto, dico e non posso non dire nello stesso tempo che
sono ‛libero di' votare. La stessa cosa si può enunciare anche in
quest'altro modo: non vi è ‛libertà da' che non liberi una o più
‛libertà di', così come non vi è una ‛libertà di' che non sia una
conseguenza di una o più ‛libertà da'. Questi due aspetti della
nostra libertà di agire (che continuiamo a tener ben distinta
dalla nostra libertà di volere) sono così connessi tra loro che le
due espressioni ‛libertà da' e ‛libertà di' possono essere in
qualche caso interscambiabili.
Se non sono sempre interscambiabili dipende unicamente dal fatto
che la libertà da una sola restrizione può liberare più libertà di
fare, e viceversa una sola libertà di fare può essere stata
liberata dalla eliminazione di più limitazioni. Esemplificando, da
un lato l'eliminazione delle norme sulla censura preventiva apre
la strada a varie libertà, come quella di parlare in pubblico, di
scrivere, di stampare, di rappresentare la realtà con le più
diverse forme espressive; d'altro lato, la libertà di stampa può
dipendere dalla mancanza o dall'abolizione di norme sulla censura
preventiva, di norme penali che prevedano reati di opinione, di
norme restrittive circa l'esercizio della professione del
giornalista, eccetera. In sostanza, se libertà di stampa non
equivale sempre a libertà dalla censura (e viceversa), ciò dipende
non già dal fatto che la libertà di stampa non implichi la libertà
da qualche restrizione (e viceversa), ma unicamente dal fatto che
la libertà di stampa puo derivare dall'abolizione non solo della
censura ma anche di altre limitazioni, e la libertà dalla censura
può aprire la strada non solo alla libertà di stampa ma anche ad
altre libertà. Ma ciò che meglio di ogni altra spiegazione serve a
non confondere la distinzione tra libertà come non impedimento e
non costrizione e libertà come autodeterminazione, da un lato, e
‛libertà da' e ‛libertà di', dall'altro, è che storicamente, di
fatto, non vi può essere richiesta di una ‛libertà di' che non
implichi anche una richiesta di almeno una ‛libertà da' e
viceversa, mentre analoga interdipendenza non esiste rispetto alle
richieste di libertà negativa e di libertà positiva. Abbiamo
ammesso, sì, che queste due libertà procedono storicamente di pari
passo, ma le richieste dell'una e dell'altra sono ben distinte e
ne sono quasi sempre portatori gruppi politici diversi. Se si
vuole ancora una riprova dell'interscambiabilità delle due
espressioni ‛libertà da' e ‛libertà di', si pensi alle quattro
libertà proclamate da Roosevelt nel messaggio al Congresso degli
Stati Uniti il 5 gennaio 1941. Esse sono: la libertà di culto, la
libertà di parola, la libertà dal terrore e la libertà dal
bisogno. Le prime due sono formulate come ‛libertà di', le ultime
due come ‛libertà da'. Eppure appartengono tutte quante alla
classe delle libertà di agire, e non hanno niente a che vedere con
la libertà come autodeterminazione. L'accento messo nei primi due
casi sull'azione da liberare, negli altri due sull'impedimento da
eliminare, dipende da ragioni di opportunità politica che è dal
punto di vista concettuale irrilevante.
7. Libertà degli antichi e libertà dei moderni
In seguito al celebre saggio di Benjamin Constant sulla libertà
degli antichi comparata a quella dei moderni, alla differenza tra
le due libertà è stata fatta corrispondere una distinzione
storica, secondo cui la libertà negativa sarebbe la libertà dei
moderni e la libertà positiva quella degli antichi. Com'è noto,
Constant distingue due forme di libertà, la libertà del godimento
privato di alcuni beni fondamentali per la sicurezza della vita e
per lo sviluppo della personalità umana, come sono le libertà
personali, la libertà d'opinione, d'iniziativa economica, di
movimento, di riunione e simili, e la libertà di partecipare al
potere politico. Di queste due libertà, la prima corrisponde alla
definizione corrente di libertà negativa, la seconda corrisponde
alla definizione altrettanto corrente di libertà positiva; ed è
chiaro altresì che mentre la prima è un bene per l'individuo e
affonda le radici in una concezione individualistica della
società, la seconda è un bene per il membro di una collettività,
nel momento in cui questa collettività, il tutto di cui il singolo
individuo fa parte, deve prendere decisioni che riguardano la
società nel suo complesso e nelle sue parti.
Ciò che Constant aggiunge a queste due determinazioni della
libertà è l'assegnazione della prima agli Stati moderni e della
seconda agli Stati, o meglio alle città antiche: ‟Lo scopo degli
antichi - egli scrive - era la distribuzione del potere sociale
fra tutti i cittadini di una medesima patria: questo essi
chiamavano libertà. Lo scopo dei moderni è la sicurezza nei
godimenti privati: ed essi chiamano libertà le garanzie concesse
dalle istituzioni a questi godimenti" (De la liberté des
anciens comparée à celle des modernes, in Oeuvres,
vol. VII, p. 253). Constant aveva le sue buone ragioni, che qui
non è il caso di discutere, per sovrapporre alla distinzione
concettuale, nettamente delineata, una distinzione storica:
l'assegnazione della libertà negativa ai moderni e di quella
positiva agli antichi gli serviva, oltreché per chiarire un
concetto difficile e confuso come quello di libertà, anche per
esprimere un giudizio di valore, che era positivo per la libertà
negativa e negativo per la libertà positiva, e per mostrare tutta
la propria avversione per Rousseau e in specie per Mably, che
avevano esaltato la seconda e trascurato la prima. Si capisce che
in una concezione progressiva della storia, come quella cui
s'ispirava Constant, l'epiteto di ‛moderno' esprimesse un giudizio
di approvazione, quello di ‛antico' un giudizio di condanna.
Pur rendendo omaggio alla lucidità con cui Constant fissò la
distinzione tra le due libertà, non siamo tenuti ad accettarne il
giudizio di valore, nè il giudizio storico che questo presuppone.
Se è vero che le libertà civili intese come libertà dell'individuo
contro il potere dispotico, garantite legalmente attraverso quei
meccanismi giuridici che sono alla base dello Stato costituzionale
moderno, erano sconosciute agli antichi, anche se non era affatto
sconosciuta la definizione di libertà negativa (libertas est
naturalis facultas eius quod cuique facere libet, nisi
si quid vi aut iure prohibetur, così un passo del Digesto,
Fr. 4, pr., D, I, 5), non è altrettanto vero che la libertà
positiva fosse una caratteristica delle società antiche. Nella
storia della formazione dello Stato costituzionale moderno la
richiesta della libertà politica procede di pari passo con la
richiesta delle libertà civili, anche se, bisogna riconoscerlo, il
conseguimento delle seconde, o almeno di alcune di esse, prima fra
tutte la libertà religiosa, la libertà di opinione e la libertà di
stampa, precedette il pieno conseguimento della prima. Nell'idea
lockiana del governo civile non si può staccare il principio della
protezione di alcuni beni fondamentali, come la libertà, la vita e
la proprietà, dalla partecipazione del popolo alla formazione
delle leggi, sebbene il popolo sia costituito da una
ristrettissima classe di proprietari. Nello stato di diritto di
Kant, che ha per fine la garanzia della massima libertà di
ciascuno compatibile con la eguale libertà di tutti gli altri, la
libertà politica è riconosciuta soltanto a coloro che godono
dell'indipendenza economica e preclusa oltre che alle donne ai
lavoratori dipendenti. La Costituzione francese del 1791, che
garantisce i principali diritti di libertà, limita il diritto di
voto a coloro che pagano un certo tributo e ne esclude coloro che
si trovano ‟in uno stato di domesticità, cioè di lavoro
salariato". Da questi esempi appare, contrariamente alla tesi del
liberale non democratico autore del Cours de politique
constitutionnelle, che, se la libertà negativa è moderna,
la libertà positiva, invece di essere antica, è ancora più
moderna.
8. Liberalismo e democrazia
Nella storia dello Stato moderno le due libertà sono strettamente
collegate e interconnesse, sì che dove cade l'una cade l'altra.
Più precisamente, senza libertà civili, come la libertà di stampa
e di opinione, come la libertà di associazione e di riunione, la
partecipazione popolare al potere politico è un inganno; ma senza
partecipazione popolare al potere, le libertà civili hanno ben
poche probabilità di durare. Mentre le libertà civili sono una
condizione necessaria per l'esercizio della libertà politica, la
libertà politica, cioè il controllo popolare del potere politico,
è una condizione necessaria per il conseguimento prima e per la
conservazione poi delle libertà civili. Si tratta, come ognun
vede, del vecchio problema del rapporto tra liberalismo e
democrazia. Se vi sono stati scrittori liberali, come appunto il
Constant, che hanno ritenuto di poter separare le libertà liberali
da quelle democratiche, e credere che le prime potessero stare
senza un pieno riconoscimento delle seconde, e come Tocqueville
che, nel momento stesso in cui attribuiva un valore altamente
positivo alla libertà negativa, che definiva come ‟la gioia di
poter parlare, agire, respirare senza coartazioni, sotto il solo
freno di Dio e della legge", paventava l'avvento della democrazia
in cui vedeva il pericolo del livellamento, vi sono stati d'altra
parte scrittori democratici, come Rousseau, che, nell'esaltazione
della volontà generale come espressione della partecipazione
collettiva al corpo politico, hanno trascurato le libertà negative
sino ad affermare che la volontà generale non ha limiti, non è in
particolare limitata dall'esistenza di diritti precostituiti; o
come Mazzini, tanto fiduciosamente democratico quanto sospettoso
liberale, che rimetteva la soluzione del problema politico
nazionale assai più all'instaurazione della sovranità popolare che
alla difesa dei diritti civili (che considerava come il prodotto
delle teorie politiche individualistiche e utilitaristiche, da cui
egli aborriva) e diceva, infatti, della libertà (intendi della
libertà negativa) che ‟è una negazione, non costruisce nulla;
distrugge, non fonda". Lungo tutta la storia politica
dell'Ottocento le due correnti si svolgono spesso l'una
indipendentemente dall'altra, talora scontrandosi e avversandosi:
il liberale accusa il democratico di preparare la strada a un
nuovo dispotismo, il democratico accusa il liberale di difendere
sotto specie di libertà l'interesse dei beati possidentes e
di minare l'unità sociale.
Ma oggi nessuno più dubita che il puro liberalismo e il puro
democratismo siano posizioni unilaterali. Almeno sino alla svolta
provocata dalla Rivoluzione sovietica, l'evoluzione dello Stato
rappresentativo moderno è stata caratterizzata da una lotta
ininterrotta, pur con ascese e ricadute, per l'allargamento delle
libertà civili e della libertà politica. Dalla libertà di
opinione, limitata in un primo tempo alla libertà religiosa, alla
libertà di stampa; dalla libertà di riunione alla libertà di
associazione sino al riconoscimento di associazioni specificamente
indirizzate alla formazione della volontà politica, come sono i
partiti. Dal suffragio ristretto al suffragio universale ed
eguale, dal rafforzamento del sistema rappresentativo attraverso
l'eliminazione, per esempio, della seconda camera ereditaria o di
nomina regia alla creazione di istituti di democrazia diretta come
la petizione popolare e il referendum. La verità è che le due
libertà non sono affatto incompatibili, checché ne dicessero i
rigidi fautori dell'una o dell'altra. Non solo non sono
incompatibili ma si rafforzano l'una con l'altra. Le dittature
moderne si sono del resto incaricate egregiamente di
dimostrarcelo, senza troppe disquisizioni sulla libertà degli
antichi o dei moderni, abolendo tanto l'una che l'altra. Una
dittatura non è una buona dittatura, ma soltanto un regime più o
meno autoritario, se lascia sopravvivere alcune libertà civili e
non distrugge totalmente ma si limita a indebolire il sistema
rappresentativo. Al contrario, la lotta contro un regime dispotico
si muove ai tempi nostri sempre su due binari, quello della
riconquista delle libertà civili e quello di una nuova e più ampia
partecipazione popolare al potere.
9. Quale sia la ‛vera' libertà
Il non considerare che la libertà come autodeterminazione è un
attributo della volontà e non dell'azione, e in quanto tale si
distingue dalla libertà come non impedimento e non costrizione,
conduce spesso alla vana discussione su quale delle due sia la
vera libertà, ovvero la libertà buona, degna di essere perseguita
quando non c'è e difesa quando c'è. La lezione di Constant,
secondo cui vera o buona libertà è soltanto la seconda, mentre la
prima è per l'individuo proprio l'opposto, è stata spesso seguita
e ripetuta anche da scrittori recenti col solito argomento che, se
la vera libertà è assenza di costrizione, non si vede come si
possa chiamare libertà una situazione in cui vi è costrizione se
pure di sé a se stesso, onde la cosiddetta libertà positiva
sarebbe il contrario della libertà, e quindi, se la libertà è un
bene, la libertà positiva non essendo un bene non sarebbe da
promuovere. Un'obiezione di questo genere deriva proprio dal non
tener conto che la libertà positiva qualifica non l'agire umano ma
la volontà, e che ciò che può valere per l'agire non è detto che
valga anche per la volontà; infatti ciò che rende non libera
un'azione è un impedimento (o una costrizione), mentre ciò che fa
di una volontà una volontà non libera è l'essere guidata o diretta
da un soggetto diverso dal soggetto del volere, cioè l'essere
eteroguidata o eterodiretta. Nei riguardi dell'azione la non
libertà si presenta sotto forma di una qualunque ‛nomia', il cui
contrario è una situazione di non-nomia (in cui consiste appunto
la libertà negativa); nei riguardi della volontà la non libertà si
presenta sotto forma di eteronomia, il cui contrario è l'autonomia
(in cui consiste appunto la libertà positiva). Mentre in una
situazione di libertà negativa è corretto dire che io posso (nel
senso che mi è lecito) compiere una determinata azione, in una
situazione di libertà positiva non solo non è corretto ma non
avrebbe alcun senso dire che io posso (nel senso che mi è lecito)
volere. Il che serve a riaffermare che affinché si possa dire che
un' azione è libera basta il fatto negativo di non essere impedita
o costretta, affinché si possa dire che è libera la volontà
occorre non già il fatto negativo di non essere determinata (una
volontà non determinata sarebbe una volontà inesistente), ma il
fatto positivo di essere autodeterminata.
Se una difficoltà esiste rispetto alla libertà positiva non sta
tanto nell'intendere correttamente il significato dell'espressione
e nel trovare l'esatto criterio di distinzione dalla libertà
negativa, quanto nell'individuare il momento in cui si possa dire
che una volontà si è determinata da se stessa. In filosofia si
ricorre generalmente alla distinzione tra due diversi ‛Io', uno
più profondo, il vero io, e uno più superficiale, o io apparente e
fittizio, tra l'io razionale e l'io istintivo, e si considera
libera la volontà che ubbidisce al primo anziché al secondo. Nella
teoria politica si ricorre alla distinzione tra la volontà
collettiva, o ‛generale' (per usare l'espressione rousseauiana),
che sarebbe la vera volontà del corpo sociale, e la volontà
individuale, cioè dei singoli cittadini individualmente presi; e
si considera libera la volontà che anche in questo caso ubbidisce
alla prima e non alla seconda. Ciò spiega la lunga serie di
definizioni della libertà (positiva) come obbedienza alle leggi,
in quanto le leggi sono, o si presume che siano, la più alta e
chiara espressione della volontà collettiva, o addirittura come
obbedienza alla volontà dello Stato, dove lo Stato sia innalzato,
come accade in tutto il filone dell'hegelismo politico, a moniento
supremo della vita organizzata di un popolo. L'obiezione dei
fautori della libertà negativa secondo cui la libertà positiva
viene definita in termini di obbedienza, e cioè, per chi consideri
esclusivamente la libertà negativa, in termini di non libertà, non
ritiene di dover tener conto della differenza tra obbedienza ad
altri e obbedienza a se stessi. Si potrà discutere l'opportunità
di chiamare con lo stesso termine ‛libertà' due situazioni
diverse, l'una definita in termini di non impedimento (o non
costrizione) e l'altra in termini di obbedienza, che appaiono
situazioni contraddittorie, ma non si può disconoscere la validità
della distinzione tra l'obbedienza ad altri e l'obbedienza a se
stessi. Dal momento che nessuno pensa di poter eliminare le
situazioni di obbedienza, il problema della libertà positiva è di
caratterizzare (e prescrittivamente di proporre) quella situazione
di obbedienza in cui colui che obbedisce obbedisca a una norma
quanto più possibile conforme alla sua stessa volontà, in modo che
obbedendo a quella norma sia come se obbedisse a se stesso. La
vera difficoltà sta se mai nell'individuare storicamente e nel
progettare praticamente una volontà collettiva tale che le
decisioni da essa prese siano da accogliersi come la massima e la
migliore espressione della volontà di ogni singolo in modo che
ciascuno ‟obbedendo a tutti", per dirla con Rousseau, ‟non
ubbidisca a nessuno e sia libero come prima". Si tratta peraltro
di una difficoltà politica, non di una difficoltà concettuale. Che
politicamente la libertà positiva come autodeterminazione
collettiva sia un ideale-limite non toglie che sia un ideale
continuamente riproposto, e che sia lecito considerare un regime
tanto più desiderabile quanto più vi si avvicina.
10. Due ideali di società libera
A ulteriore conferma della distinzione ricorrente in tutta la
storia del pensiero politico tra le due forme di libertà sin qui
illustrate, si considerino alcune delle principali teorie che
pongono come fine ultimo della convivenza sociale il fine della
libertà, e disegnano le linee generali di una ideale ‛società
libera'. Per quanto il problema non abbia richiamato l'attenzione
che merita, un esame di queste teorie rivela che le società
ipotizzate corrispondono a due diversi tipi di società libere e
che la loro diversità consiste nel fatto che ciascuna di esse
persegue e conduce alle estreme conseguenze una delle due forme di
libertà, e una sola; ed è in sostanza l'idealizzazione di una
società in cui una delle due forme di libertà sia stata pienamente
e universalmente raggiunta. In altre parole, una società libera
può essere concepita, ed è stata di fatto concepita anche se gli
autori non ne sono stati consapevoli, in due modi: o come regno
della libertà negativa o come regno della libertà positiva,
finalmente, o l'una o l'altra, realizzate.
Un esempio classico della prima forma ideale di società libera è
la comunità giuridica universale di Kant: ciò che Kant intende per
società libera è una società in cui sia garantita a ciascuno
(individuo o Stato) la libertà esterna, cioè la libertà di fare
tutto ciò che è compatibile con l'eguale libertà di tutti gli
altri, una società insomma in cui vi sia il massimo possibile di
libertà negativa, cioè di ‛libertà da' (s'intende, precipuamente,
degli individui dallo Stato, e nell'ambito internazionale di
ciascuno Stato da tutti gli altri). Nell'ideale kantiano una
società è tanto più perfetta quanto più estesa è quella libertà
che consiste nell'assenza d'impedimento e di costrizione. Non
diversamente accade in altri scrittori della tradizione liberale,
come Stuart Mill, secondo cui lo Stato deve intervenire con le sue
leggi punitive il meno possibile e soltanto per impedire le azioni
dell'individuo che rechino danno ad altri individui, o come
Spencer, che considera come una caratteristica delle società
industriali rispetto alle società militari l'accrescersi della
libertà dell'individuo nei confronti dello Stato sino al quasi
deperimento di questo.
Tutt'altra è la società libera ideale presente nella tradizione di
pensiero politico che, per distinguerla da quella liberale,
possiamo chiamare libertaria, e comprende Rousseau, gran parte del
pensiero anarchico (come quello di Proudhon), il marxismo nel suo
volto utopistico mirante all'estinzione finale dello Stato,
attraverso il salto qualitativo dal regno della necessità al regno
della libertà. Uno dei tratti comuni a tutti questi scrittori è
certamente il maggior apprezzamento della libertà positiva
rispetto alla libertà negativa, se non addirittura l'esclusiva
considerazione della prima a scapito della seconda. La società
ideale di Rousseau è quella del contratto sociale ove ciascuno è
libero non già per l'estensione della sfera di libertà negativa di
cui gode, ma nella misura in cui obbedisce alla legge che egli
stesso attraverso la formazione di una volontà generale si è data.
Nella tradizione del pensiero anarchico società ideale è quella in
cui si attua nella forma più ampia l'autogoverno, che è appunto la
libertà come autodeterminazione a tutti i livelli e in tutte le
dimensioni. Si pensi a Proudhon e al suo principio della realtà e
della vita autonoma dell'essere collettivo, eretta contro la
costrizione esterna e disumanizzante del potere statale, che è per
sua natura sempre eteronomo. Né si dimentichi che interpretando la
Comune di Parigi come la prima manifestazione di una nuova forma
di Stato che contiene già il germe della dissoluzione dello Stato,
Marx parla di autogoverno dei produttori, ed Engels, prevedendo la
fine dello Stato quando sarà cessato per opera della rivoluzione
proletaria l'antagonismo di classe, invoca l'avvento di una
‟libera ed eguale associazione di produttori".
La libertà della tradizione liberale è individualistica e trova la
sua piena attuazione nella riduzione ai minimi termini del potere
collettivo, impersonato storicamente dallo Stato; la libertà della
tradizione libertaria è comunitaria e si attua totalmente soltanto
nella massima distribuzione del potere sociale in modo che tutti
vi partecipino in egual misura. La società ideale dei primi è una
comunità di individui liberi, quella dei secondi una comunità
libera di individui associati.
11. La storia come storia della libertà
Quando all'inizio del Contrat social Rousseau scrisse
le fatidiche parole: ‟L'uomo è nato libero ma dovunque è in
catene", indicò nella liberazione dalle catene, nell'ideale della
libertà, il τέλος, e quindi il senso della storia. Di questo
ideale la Rivoluzione francese sarebbe apparsa ai grandi
contemporanei la prima entusiasmante, se pur non sempre piena e
giusta (con tutti i suoi esecrandi orrori), attuazione. Da allora,
la filosofia della storia, che aveva tratto il proprio alimento
nonché il proprio oggetto dalle teorie del progresso, che, nate
con l'illuminismo, si protrassero per tutto il sec. XIX, scoprì e
propagò il tema fondamentale, cui Hegel avrebbe impresso il suo
suggello, della storia come storia della libertà. Nelle concezioni
teologiche della storia la vera storia era soltanto la storia
della salvezza (individuale) da cui la storia reale degli uomini
con le sue lotte, le sue sconfitte e i suoi trionfi (effimeri)
riceveva il proprio senso: non già che la salvezza non fosse essa
stessa una forma di libertà o meglio di liberazione; ma era
libertà o liberazione dal peccato, un ritorno alla purezza
originaria, e riguardava pur sempre l'individuo singolo, non
l'umanità nel suo complesso. Il definire invece la storia come
storia della libertà voleva dire assegnare un τέλος alla storia
umana in quanto tale prescindendo da qualsiasi duplicazione di
essa in una storia divina, ovvero considerare la stessa storia
umana come storia divina; voleva dire che la storia non era più un
coacervo di accadimenti senz'ordine e senza scopo ma era una serie
ordinata di eventi orientati a un fine. La storia insomma aveva un
senso e questo senso era la libertà. Identificato in ciò che si
cominciò a chiamare progresso lo sviluppo della storia verso un
fine desiderato, la teoria del progresso e la filosofia della
storia come libertà venivano a essere strettamente connesse. Il
progresso consisteva in un graduale continuo processo di
liberazione, in un avvicinamento ora più rapido ora più lento ma
inesorabile verso il fine più altamente desiderato dall'uomo su
questa terra, fine che era appunto la libertà.
Questo capovolgimento radicale del senso della storia era nato
dalla crisi della coscienza religiosa approdata attraverso la
Riforma all'Illuminismo, quindi protrattasi e aggravatasi
nell'Ottocento con le varie filosofie positivistiche e
scientistiche; dallo straordinario sviluppo della scienza e delle
applicazioni tecniche che erano seguite e rendevano possibile al
di là di ogni previsione il dominio sulla natura preconizzato da
Bacone; dalla formazione di una classe avventurosa e
intraprendente che la crisi dei tradizionali valori religiosi
aveva reso più spregiudicatamente volta al proprio utile e cui il
progresso scientifico e tecnico aveva fornito mezzi via via sempre
più potenti di espansione delle proprie ambizioni e delle proprie
capacità. In questo rovesciamento di valori, la libertà, nelle sue
molteplici forme, come libertà di professare una religione secondo
i dettami della propria coscienza, di esprimere liberamente le
proprie opinioni e di propagarle attraverso la stampa, di
dissentire dal governo senza correre il rischio di essere messi
fuori legge e condannati come ribelli, e soprattutto di rompere i
vincoli morali e giuridici che ostacolavano l'iniziativa
economica, era apparsa il maggior bene cui gli uomini potessero
aspirare in questo mondo, perché la libertà, anzi le varie
libertà, erano la condizione stessa dello sviluppo di tutti gli
altri valori. In questa prospettiva la storia apparirà come storia
della libertà non solo in quanto ha la libertà come τέλος, ma
anche in quanto la libertà, intesa come la precondizione del
massimo sviluppo delle facoltà superiori dell'individuo e della
specie, è il principio motore del progresso (è in questo secondo
senso che Croce parlerà della storia come storia della libertà
senza peraltro distinguerlo dal primo).
La storia ha la libertà
come τέλος perché ha la libertà come principio motore; la libertà
insomma è fine e principio, causa finale e causa efficiente.
Ancora una volta questa duplicità di sensi della storia come
libertà è possibile perché il concetto di libertà usato nella
prima e nella seconda interpretazione è diverso. A guardar bene ci
si imbatte anche qui nei due concetti di libertà illustrati nella
prima parte: la libertà come τέλος è la libertà negativa, è la
libertà quanto più ampia possibile, al limite la libertà assoluta
delle nostre azioni, mentre la libertà come principio motore è la
libertà positiva, cioè la possibilità di autodeterminazione, che
rende possibile al soggetto umano ogni forma di innovazione, sino
al limite dell'autodeterminazione assoluta che appartiene soltanto
a Dio e che, una volta ammessa, farebbe della storia l'opera della
creazione divina. La storia insomma è il prodotto della libertà
umana, come autodeterminazione, e ha per scopo la libertà umana
come il massimo di non impedimento e di non costrizione.
12. La storia della libertà
Il concetto di libertà come τέλος della storia esige una risposta
alla domanda: libertà da che cosa? Ma una risposta una volta per
sempre non si può dare. La libertà in quanto liberazione da un
ostacolo presuppone l'ostacolo. Tante libertà nella storia quanti
gli ostacoli di volta in volta rimossi. La storia della libertà
procede di pari passo con la storia delle privazioni della
libertà: se non ci fosse la seconda non ci sarebbe neppure la
prima. Non vi è stato un regno della libertà totale al principio,
come avevano ipotizzato i teorici dello stato di natura (l'uomo
nato libero di Rousseau), né vi sarà un regno della libertà totale
alla fine, come preconizzeranno e predicheranno gli utopisti
sociali. Non c'è né una libertà perduta per sempre né una libertà
conquistata per sempre: la storia è un intreccio drammatico di
libertà e oppressione, di nuove libertà cui fanno riscontro nuove
oppressioni, di vecchie oppressioni abbattute, di nuove libertà
ritrovate, di nuove oppressioni imposte e di vecchie libertà
perdute. Ogni epoca è contraddistinta dalle sue forme di
oppressione e dalle sue lotte per la libertà. Così accanto alle
due interpretazioni della formula ‛la storia come storia della
libertà', di cui abbiamo discorso, dove la libertà appare una
volta come il soggetto stesso della storia, un'altra volta come il
fine, ve n'è una terza, che è anche la meno compromessa con
postulati metafisici, residui in fin dei conti equivalenti di
concezioni teologiche della storia dure a morire: la storia come
un continuo e rinnovato tentativo degli individui e dei gruppi
(popoli, classi, nazioni) di allargare la propria libertà d'azione
(libertà negativa) e di affermare il principio
dell'autodeterminazione contro il ripetersi, il riprodursi,
l'atteggiarsi nelle più diverse guise delle forze oppressive, o,
com'è stato ancor recentemente chiarito, come una serie di
risposte alla sfida sempre ritornante della illibertà (v.
Matteucci, 1972).
Questa interpretazione ha il vantaggio di considerare libertà e
illibertà unite in un rapporto d'integrazione reciproca. Senza
l'una non c'è l'altra, e dove c'è l'una c'è l'altra. Storicamente
la illibertà nasce continuamente dal seno stesso della libertà
almeno per due ragioni: 1) tranne in quel regno ideale dove la mia
libertà è perfettamente compatibile con l'eguale libertà di tutti
gli altri, nel regno della storia la conquista di una libertà
concreta da parte di un individuo o di un gruppo si risolve sempre
in una illibertà di altri: la libertà dalla tortura implica la
non-libertà dei torturatori, così come la libertà dallo
sfruttamento implica la non-libertà degli sfruttatori; 2) la
conquista della libertà è sempre una condizione necessaria (se non
sufficiente) per la conquista della potenza e la potenza degli uni
si afferma e non può non affermarsi a scapito della libertà degli
altri. Non già che basti essere liberi per essere potenti. Ma
tutti i potenti prima di essere potenti sono stati liberi. La
libertà di oggi è la potenza di domani. E la potenza di domani
sarà una nuova fonte di illibertà per coloro che a questa potenza
sono soggetti. Attraverso la considerazione dialettica di libertà
e illibertà, questa terza interpretazione della storia come storia
della libertà evita i due scogli della libertà come principio e
della libertà come fine: il principio, ovvero la molla della
storia, può essere tanto la libertà quanto la illibertà, così come
il fine. Chi ci assicura che la storia abbia un τέλος e questo
τέλος sia una libertà finale e universale? E se la storia umana
finisse, come nella fantasia di tanti scrittori cosiddetti
apocalittici, in un sistema di servitù generalizzata? Che cosa ne
sappiamo? Accanto all'esigenza della libertà gli uomini hanno
mostrato in tutti i tempi anche l'indifferenza di fronte alla
libertà e, perché no, la paura della libertà. Che cosa è destinato
a prevalere? Il bisogno, l'indifferenza o la paura?
Beninteso, anche questa interpretazione, pur essendo meno rigida e
più utile come schema di comprensione storica, è idealizzante:
attribuisce alla libertà un valore positivo e al suo contrario, la
potenza, un valore negativo. Si può benissimo concepire la storia
e quindi il destino dell'uomo dal punto di vista, anziché della
libertà, della potenza, che è il suo rovescio. Alla fine del
secolo che era cominciato con la ‛religione della libertà',
qualcuno scriverà: ‟Si vuole la libertà finché non si ha ancora la
potenza. Quando si ha la potenza, si vuole il predominio; se non
lo si consegue (se si è ancora troppo deboli per esso), si vuole
la giustizia, ossia una potenza pari" (Fr. Nietzsche, Frammenti
postumi 1887-1888, Milano 1971, p. 150).
13. Linee di tendenza di questa storia
Se è vero che non si può dire una volta per sempre da che cosa
l'uomo voglia (abbia bisogno, esiga di) essere libero, si possono
indicare schematicamente alcune linee di tendenza, considerando la
potenza come l'opposto della libertà, nel senso che la potenza
dell'uno implica sempre la non-libertà di un altro e la libertà
dell'uno implica sempre la non-potenza dell'altro. Ogni forma di
potenza si può configurare come l'instaurazione di una situazione
di non-libertà, così come ogni instaurazione di libertà si può
configurare come la soppressione di una forma di potenza.
Si possono distinguere tante forme di liberazione, e quindi
d'instaurazione di libertà, quante sono le forme tipiche che
assume di volta in volta nella storia la potenza. Intendendo per
rapporto di potenza quel rapporto in cui un soggetto condiziona e
in questo senso rende non-libero il comportamento dell'altro, il
miglior modo per distinguere le varie forme di potenza è quello di
prendere in considerazione i mezzi principali con cui viene
operato tale condizionamento. Questi mezzi sono: a) le idee, gli
ideali, le concezioni del mondo (condizionamento psicologico); b)
il possesso della ricchezza (condizionamento attraverso
l'assicurazione di una ricompensa per il lavoro prestato); c) il
possesso della forza (condizionamento attraverso la coazione). Di
qua la distinzione fra tre forme tipiche di potenza, che
generalmente si corroborano l'una con l'altra: la potenza
ideologica, la potenza economica e la potenza politica, che
corrispondono alle tre strutture di potere che si ritrovano in
tutte le società, ovvero il sistema culturale, il sistema di
produzione, il sistema politico.
Quando con le teorie del progresso apparve per la prima volta con
particolare risalto l'interpretazione della storia come storia
della libertà, la lotta per la libertà fu concepita in questa
triplice direzione: a) come liberazione dalla superstizione
religiosa, in genere da ogni forma di dogmatismo delle idee che
ostacola l'avanzamento della filosofia rischiaratrice e della
scienza liberatrice, e impedisce il libero sviluppo delle
opinioni, l'accrescimento del sapere, la reale conoscenza della
posizione che l'uomo ha nel mondo; b) come liberazione dai vincoli
di una struttura economica che difende privilegi storici ormai
anacronistici, raffrena l'iniziativa del capitalismo nascente, la
libera espansione di nuovi ceti volti alla produzione di nuovi
beni, alla conquista di nuovi mercati, lo sviluppo delle nuove
forze produttive; c) come liberazione da un sistema politico e
legislativo concentrato in una ristretta cerchia di dominanti che
si trasmettono il potere ereditariamente, incontrollato,
arbitrario, dispotico, accentrato, di fronte al quale il singolo
individuo non gode di alcuna garanzia contro l'abuso di potere.
Libertà di pensiero contro la Chiesa e le Chiese; libertà di
disposizione dei beni e libertà di commercio contro il sistema
feudale; libertà civili e libertà politica contro lo Stato
assoluto; o, se si vuole, lotta contro il dispotismo sotto la
triplice forma di dispotismo sacerdotale, feudale e principesco.
L'Encyclopédie fu l'impresa intellettuale in cui queste
libertà furono rivendicate e trovarono il terreno propizio alla
loro fecondazione; la Rivoluzione francese fu l'impresa politica
attraverso cui i frutti della filosofia rischiaratrice furono
raccolti e diffusi nel mondo. Il secolo che seguì fu chiamato il
secolo della libertà. Croce descrivendone l'inizio quando ormai la
libertà, quella libertà, era perduta, ed esaltandosi nella
rievocazione di essa scrisse che ‟la storia non appariva più
deserta di spiritualità e abbandonata a forze cieche o sorretta e
via via raddrizzata da forze estranee, ma si dimostrava opera e
attualità dello spirito, e, poiché spirito è libertà, opera della
libertà" (Storia d'Europa nel secolo decimonono, Bari
1932, p. 14). Il più grande filosofo dell'età della Restaurazione,
che aveva sentito potentemente l'influsso della Rivoluzione
francese, concepi la storia come l'incedere o il procedere della
libertà nel mondo: ‟Lo spirito è libero; e il fine dello spirito
del mondo nella storia è di appropriarsi effettivamente questa sua
essenza, di raggiungere questa sua prerogativa [...]. Ogni singolo
nuovo spirito di popolo è un grado nella conquista dello spirito
del mondo, nell'acquisto della sua coscienza e libertà" (Filosofia
della storia, cit., vol. I, p. 59). E del resto lo stesso
Marx salutò l'avvento della borghesia come uno dei grandi momenti
liberatori della storia: ‟Solo la borghesia ha dimostrato che cosa
possa compiere l'attività dell'uomo" (Manifesto del partito
comunista, cap. I).
Due dei maggiori scrittori politici del
tempo, A. de Tocqueville e J. Stuart Mill, furono scrittori
liberali nel più alto senso della parola: difesero la libertà
individuale contro le varie forme di tirannia, a cominciare dalla
tirannia della pubblica opinione (nuova forma di potenza
ideologica dopo il declino del potere sacerdotale), e indicarono
l'unico possibile rimedio nell'estensione dell'autogoverno. C.
Cattaneo, il maggiore scrittore politico italiano, contrapponendo
i sistemi aperti ai sistemi chiusi, contraddistinse i primi in
base alla libera circolazione delle idee, alla libera iniziativa
economica, al governo diffuso e proveniente dal basso. Circola in
tutti gli scrittori politici, liberali e non liberali, la
contrapposizione tra l'Europa libera e il resto del mondo assopito
in un sonno che dura da secoli, tra la civiltà europea in continuo
movimento grazie all'azione benefica della libertà e le civiltà
stazionarie, retrograde, immobili, dei continenti extraeuropei. Da
Montesquieu sino a Mill, sino a Cattaneo, sino a Marx, la
categoria storica con cui si contraddistingue tutto ciò che non è
europeo è il dispotismo.
L'Europa è libera perché è riuscita a
trionfare dell'oppressione religiosa, dell'oppressione economica e
dell'oppressione politica: è una civiltà secolarizzata contro i
regni sacerdotali, di libera iniziativa contro gli imperi
burocratici dove l'economia è regolata dall'alto, democratica
contro il dominio dell'uno o dei pochi. Sulla sponda opposta degli
ideologi del liberalismo, Proudhon denuncia le nefandezze del
potere politico e riscopre il contratto sociale attraverso il
quale gli uomini non danno più vita al governo ma fondano
l'associazione dei liberi produttori. Socialisti della prima
maniera e della seconda guardano all'assenza dello Stato, per la
prima volta nella storia, all'anarchia, al regno della massima
libertà, come alla meta ultima dell'evoluzione sociale.
14. Dalla libertà dallo Stato alla libertà nella
società
Ma siccome ogni libertà è sempre una libertà concreta, una libertà
rispetto a una precedente servitù, non è mai la libertà
definitiva, il secolo della libertà fu in realtà il secolo della
libertà o delle libertà che si era conquistata la borghesia contro
le classi feudali, o, più precisamente, fu il secolo non della
libertà ma del liberalismo, cioè di un certo modo d'intendere e di
attuare la libertà che, nello stesso tempo in cui rompeva catene
antiche, altre, e ancor più dure e forti, ne forgiava e ne
ribadiva. Il secolo della libertà era destinato a finire, lo si
chiuda con la prima guerra mondiale o con la Rivoluzione
sovietica, in quella che fu chiamata l'ére des tyrannies.
Si suole ripetere il detto di Madame de Staël, secondo cui ‟la
libertà è antica e il dispotismo è moderno". In realtà si dovrebbe
dire che il dispotismo è antico come la libertà, e la libertà è
moderna come il dispotismo. In altre parole, la libertà è antica
ma i suoi problemi sono sempre nuovi e si rinnovano continuamente
in risposta alle sempre nuove forme di oppressione che appaiono
all'orizzonte della storia.
L'idea che la libertà, o meglio la liberazione dell'umanità,
fosse, ancorché graduale, inesorabile, fu l'effetto, oltre che
dell'‛entusiasmo morale' suscitato dalla Rivoluzione francese, del
rovesciamento del rapporto tradizionale tra società civile e Stato
e della scoperta della preminenza della società civile sullo
Stato, che seguirono alle prime riflessioni sulla incipiente
società industriale. Tanto nella corrente apologetica del
capitalismo moderno, che va da Smith a Spencer, quanto nella
corrente critica, che va da Proudhon a Marx, è costante e ferma la
convinzione che lo Stato, sino allora esaltato come il ‛razionale
in sé e per sé', come il dio terreno (da Hobbes a Hegel), è
soltanto un riflesso della società civile, e pertanto una volta
liberata la società - liberazione che avviene a un livello
precedente a quello dello Stato, al livello appunto delle
strutture della società civile - la potenza dello Stato sia
destinata ad affievolirsi se non addirittura a estinguersi, anche
se poi tra l'una e l'altra corrente ci sia una profonda differenza
rispetto alla valutazione delle cause e dei tempi di questo
affievolimento o di questa estinzione. Oggi appare sempre più
profetica l'idea di Saint-Simon che la vera rivoluzione del tempo
non era stata la Rivoluzione francese, rivoluzione soltanto
politica, ma la rivoluzione industriale, onde soltanto nel pieno
sviluppo della società industriale (e non nella sostituzione di un
regime politico a un altro) si può realizzare ‛la vera libertà',
cioè quella cui si perviene col massimo sviluppo delle possibilità
materiali e intellettuali dell'uomo, e che consiste nello
sviluppare ‛senza catene e con tutta l'estensione possibile' una
capacità materiale e teorica utile alla vita collettiva. Su una
sponda i liberisti e liberali, da Cobden a Spencer, ritennero che
fosse già venuto il momento in cui l'esplosione delle forze
produttive avrebbe reso sempre meno indispensabile il potere
coattivo dello Stato. Sulla sponda opposta Proudhon contrapponeva
allo Stato come potenza alienante la società economica, al
principio dell'autorità impersonato dallo Stato il principio della
libertà realizzabile soltanto nella società dei produttori. E già
in uno dei suoi primi scritti (La questione ebraica) Marx
aveva affermato che l'emancipazione soltanto politica non era
ancora l'emancipazione umana, e che l'emancipazione umana doveva
cominciare dalla società civile. Nonostante il contrasto
sull'immagine della società futura, apologeti e critici ebbero in
comune l'idea che, nel passaggio inevitabile dalle società
arcaiche alle società industriali, il potere politico avrebbe
perduto prima o poi gran parte della sua funzione sino alla totale
scomparsa.
15. Totalitarismo e tecnocrazia
Oggi sappiamo che mai errore di previsione è stato più grande. Con
la crescita della società capitalistica e dell'ambito mondiale
della sua espansione il potere politico - lo Stato-potenza - non
solo non è diminuito ma si è enormemente accresciuto, e dove lo
sviluppo è stato minacciato o ostacolato non ha esitato ad
assumere la forma della più spietata dittatura. Nei paesi poi dove
sono avvenute le prime rivoluzioni comuniste il cosiddetto Stato
di transizione, che avrebbe dovuto preparare la strada alla
società senza Stato, al rovesciamento dello Stato nella società
civile, si è trasformato in un nuovo Leviatano. Rispetto al
problema dello Stato, considerato sia dalle correnti liberali sia
dalle correnti socialistiche (e anarchiche) l'ultima fortezza che
si sarebbe dovuta espugnare per liberare gli uomini dalla
schiavitù, tanto gli apologeti che i critici della società civile
(borghese) si erano fatte delle illusioni. Quest'ultima fortezza
non solo non è stata espugnata ma ha esteso in situazioni
catastrofiche il proprio dominio. È nato nel ventennio tra le due
guerre coi regimi fascisti e nel periodo staliniano dello Stato
sovietico il nuovo tipo di Stato cui è stato dato il nome non
usurpato di Stato totalitario. Il totalitarismo è la versione
aggiornata, riveduta, corretta e aggravata del dispotismo: ciò che
lo caratterizza rispetto a tutte le forme tradizionali di
assolutismo politico è il massimo di concentrazione e di
unificazione delle tre potenze attraverso cui si esercita il
potere dell'uomo sull'uomo: il totalitarismo è un dispotismo non
soltanto politico ma anche economico e ideologico. Nella
formazione dello Stato moderno il potere ideologico, che
appartenne tradizionalmente alla Chiesa, costituì per secoli un
potere separato dal potere politico, e spesso in lotta con esso:
uno degli strumenti di dominio dell'odierno Stato totalitario è il
monopolio dell'ideologia, l'ideologia di Stato (espressione
riproducente la formula ‛religione di Stato', propria degli Stati
confessionali, che reintroduce la distinzione tra ortodossi ed
eretici e permette di considerare come deviazione o addirittura
come tradimento ogni divergenza dalla dottrina ufficiale). Per
quanto le classi economicamente in ascesa abbiano sempre cercato
di dare la scalata al potere politico, detenuto dalle classi
tradizionali, com'è avvenuto nella lotta della borghesia
mercantile contro l'aristocrazia feudale, o della moderna classe
imprenditoriale contro la vecchia classe dei proprietari della
terra, l'identificazione tra classe economicamente dominante e
classe politica non è mai stata, nè nello Stato di ceti, né nella
monarchia assoluta, nè nello Stato parlamentare, completa: la
versione moderna del dispotismo tende invece attraverso il
processo di statalizzazione dell'economia alla congiunzione di
potere politico e di potere economico. Quali che siano i caratteri
del totalitarismo messi in rilievo da vari punti di vista, su cui
non è il caso di soffermarsi, è importante sottolineare il fatto
che il totalitarismo non è soltanto un tipo di sistema politico
(onde non è del tutto corretto parlare di ‛Stato totalitario'), ma
è un tipo di sistema sociale, nella sua globalità, o, se si vuole,
è un tipo di Stato solo nel senso in cui, essendo cancellata la
distinzione tra società civile e Stato da cui è stata
contraddistinta la storia dello Stato moderno, la società intera
si risolve nello Stato, è una società integralmente statalizzata.
Anche là dove non è avvenuta la trasformazione della società in un
universo totalitario, e le libertà tradizionali, le libertà della
tradizione liberale e democratica, sono formalmente garantite,
nuovi problemi di libertà, sia di libertà negativa sia di libertà
positiva, sono sorti e vengono continuamente riproposti alla
riflessione e alla conseguente azione politica riformatrice. Via
via che nuove richieste di libertà vengono soddisfatte, nuove ne
sorgono perché l'uomo pone il problema della propria liberazione
su livelli sempre più profondi. Dopo l'emancipazione ideologica
seguita all'Illuminismo e all'emancipazione economica di cui fu
protagonista la borghesia nella lotta contro la struttura feudale
della società, il livello su cui la dottrina della libertà del
secolo scorso, il liberalismo, ripropose il problema della libertà
(della libertà dei moderni, appunto, come la invocava Constant) fu
principalmente il livello del potere politico.
L'antitesi classica
del pensiero liberale si raffigura nelle due forme contrapposte di
Stato: lo Stato assoluto e lo Stato di diritto; per il liberale il
problema della libertà si risolve soprattutto nella formazione di
un nuovo tipo di Stato, che è lo Stato garantista e
rappresentativo; i rimedi che egli propone sono essenzialmente di
carattere costituzionale, e infatti il maggior prodotto del suo
pensiero e delle sue lotte sono le costituzioni. Non a caso uno
dei testi classici del pensiero liberale è il Cours de
politique constitutionnelle di Constant. Insomma, una
volta raggiunta l'emancipazione umana nella sfera della creazione
intellettuale e della produzione della ricchezza, sembrava che le
minacce alla libertà potessero provenire soltanto dall'unico
monopolio di cui la società non era riuscita ancora a fare a meno,
che era il monopolio della forza. Al contrario, il problema della
libertà si pone oggi a un livello più profondo, che è il livello
dei poteri della società civile. Non importa che l'individuo sia
libero ‛dallo Stato' se poi non è libero ‛nella società'. Non
importa che lo Stato sia liberale se poi la società sottostante è
dispotica. Non importa che l'individuo sia libero politicamente se
non è libero socialmente. Al di sotto della illibertà come
soggezione al potere del principe, c'è una illibertà più
fondamentale, più radicale e più oggettiva, la illibertà come
sottomissione all'apparato produttivo. E allora per giungere al
cuore del problema della libertà bisogna fare un passo indietro:
dallo Stato alla società civile. Il problema della libertà
riguarda non più soltanto l'organizzazione dello Stato ma
soprattutto l'organizzazione della produzione e dell'intera
società; investe non il cittadino, cioè l'uomo pubblico, ma l'uomo
in quanto essere sociale, in quanto uomo. In questo senso sembra
che la direzione dello sviluppo storico non sia più ‛dallo Stato
dispotico allo Stato liberale', ma ‛dallo Stato liberale alla
società liberata'.
Come ognuno può facilmente capire, alludo in questo contesto ai
problemi di libertà che nascono nella società tecnocratica, in
quella ‟ormai inevitabile amministrazione economica generale della
terra" (di cui già parlava Nietzsche). Brevemente, il problema
della libertà nelle società industrialmente avanzate, il vero
problema della libertà dei moderni, non è più quello della libertà
dallo Stato o nella società politica, bensì quello della libertà
nella società globale. Le discussioni più interessanti e anche più
drammatiche che si svolgono intorno alla libertà dei moderni sono
certamente quelle che vertono intorno alla risposta ‛liberale' o
‛libertaria' alla ‛sfida tecnologica'. Un punto è chiaro: se in
una società tecnocratica nasce un problema di libertà, questo non
nasce all'interno del sistema politico strettamente inteso ma dal
sistema sociale nel suo complesso. Il livello più profondo su cui
si pone il problema si rivela nel fatto che le libertà di cui
l'uomo è privato nella società tecnocratica non sono le libertà
civili o politiche, ma è la libertà umana nel senso più ampio
della parola, la libertà di sviluppare tutte le risorse della
propria natura. Ciò che caratterizza la società tecnocratica non è
l'uomo schiavo, l'uomo servo della gleba, l'uomo suddito, ma il
non-uomo, l'uomo ridotto ad automa, a ingranaggio di una grande
macchina di cui non conosce né il funzionamento né il fine. Per la
prima volta si guarda con angoscia allo svilupparsi di un processo
non di asservimento o di proletarizzazione, ma più in generale di
disumanizzazione. Anche la potenza da cui la società tecnocratica
è contrassegnata è diversa da tutte le potenze precedenti: non è
la potenza che si serve delle idee, né quella che si serve del
dominio economico, né quella che si serve della forza coattiva. E
la potenza scientifica, la potenza della conoscenza che assicura
il dominio più incontrastato sulla natura e sugli altri uomini, ed
è nello stesso tempo la potenza più impersonale e perciò più
spersonalizzante, più universale e perciò più livellatrice, più
razionale e quindi più razionalizzatrice. Nell'universo
tecnocratico, considerato come lo stadio limite di una tendenza,
cosi come è uno stadio limite della tendenza opposta la società
senza Stato o la società anarchica, la mancanza di libertà a
livello ideologico si presenta come conformismo di massa, a
livello economico come mercificazione o reificazione di ogni forma
di lavoro, anche del lavoro intellettuale, a livello politico come
esclusione da ogni forma di partecipazione attiva alla direzione
sociale. Ma a differenza delle società sinora esistite questa
mancanza sarebbe sentita non più come una privazione ma come
l'appagamento di un bisogno, il bisogno appunto di non essere
liberi: quel che in altri tempi era la fuga dalla schiavitù si
convertirebbe nel suo contrario, nella ‛fuga dalla libertà'.
16. Le forme attuali della non-libertà
Non è possibile indicare neppure per sommi capi temi e problemi
della non-libertà nella società contemporanea, tanto ampia, varia,
complessa e a volte contraddittoria è la discussione intorno ad
essa. Ma servendoci ancora una volta della tripartizione delle
forme di potere, e cercando d'isolare le dottrine che appaiono al
centro della discussione in questi anni, mi pare di poter
individuare tre temi fondamentali (che enumero nell'ordine della
loro emergenza storica): a livello economico il tema
dell'alienazione di derivazione marxiana, a livello politico il
tema della burocratizzazione (o razionalizzazione del potere
legittimo nella forma del potere legale), di derivazione
weberiana, a livello ideologico il tema della manipolazione
dell'opinione attraverso le comunicazioni di massa, in cui
acquista particolare rilievo la teoria critica della Scuola di
Francoforte. Tutti e tre i temi sono nati in forma di critica
all'interno della società capitalistica, come riflessioni sullo
sviluppo o sulla natura del capitalismo moderno; ma la loro
importanza risiede nel fatto che valgono e sono continuamente
applicati alla critica delle società socialistiche. Ciò che hanno
in comune rispetto alla critica liberale delle società dispotiche
è una tendenza a considerare le situazioni di non-libertà come un
prodotto di strutture oggettive più che di forze storiche.
Per quanto la categoria dell'alienazione venga usata spesso nel
dibattito attuale in un senso generico, nel senso di perdita della
propria personalità, di diventar altro da sé, o nel senso
filosofico hegeliano di non-essere-presso-di-sé (in quanto opposto
del concetto hegeliano di libertà come essere-presso-di-sé), essa
ha nel linguaggio marxiano, non solo nelle opere giovanili, come
pur è stato sostenuto, ma anche negli scritti della maturità, un
significato tecnico preciso con un riferimento specifico alla
natura del lavoro salariato, cioè del lavoro che caratterizza la
società capitalistica. Anche se Marx non la collega direttamente
col tema della libertà, la proprietà che ha il lavoro salariato di
essere ‛alienato' è la proprietà per cui ‟l'attività dell'operaio
non è la sua propria attività perché essa appartiene ad altro: è
la perdita di se", o, più precisamente, ‟l'alienazione
dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro
diventa un oggetto, qualcosa che esiste all'esterno, ma che esso
esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e
diventa di fronte a lui una potenza per sé stante" (Manoscritti
economico-filosofici del 1844, Torino 1968, p. 72), una
potenza cui è soggiogato, che lo sottomette, di cui diventa
schiavo. Ancor più precisamente in un'opera della maturità: ‟La
ricchezza da esso [dal lavoratore salariato] creata si contrappone
come ricchezza altrui, la propria forza produttiva come forza
produttiva del suo prodotto, il suo arricchimento come
impoverimento di se stesso, la sua forza sociale come forza della
società su di esso" (Storia delle teorie economiche, vol.
III, Torino 1954, p. 280). Ciò che l'alienazione così intesa ha di
singolare e di pregnante come forma di non-libertà è anzitutto che
l'operaio si rende per così dire schiavo con le proprie mani;
poiché l'operaio moderno, a differenza dello schiavo delle civiltà
antiche, è formalmente libero, è la sua stessa libertà che si
converte in schiavitù o è il presupposto stesso dell'essere
sostanzialmente non-libero; in secondo luogo, essendo la
forza-lavoro per l'operaio tutto quello che possiede,
l'alienazione che egli fa ‛liberamente' del prodotto del proprio
lavoro, finisce per essere un'alienazione totale (cioè proprio
quell'alienazione totale che per Rousseau stava a fondamento della
schiavitù e che perciò egli riteneva illecita, salvo che fosse
fatta a se stessi), una privazione totale della propria essenza di
uomo. La differenza tra il suddito di uno Stato dispotico e
l'operaio della forma di produzione capitalistica sta, secondo
Marx, nel fatto che il primo è non-libero politicamente di fronte
a un soggetto storico ben definito (ma è magari libero
economicamente e ideologicamente), il secondo è magari libero
politicamente e ideologicamente ma è non-libero nel sistema
globale della società, è non-libero di una non-libertà che può
essere riscattata solo con un rovesciamento del sistema.
Delle tre forme di potere legittimo descritte da M. Weber quella
che corrisponde alla società capitalistica è la forma del potere
legale o razionale, cioè è quella forma di potere la cui
legittimità deriva dal fatto che gli atti di potere vengono
compiuti in base a norme generali prestabilite, a differenza di
quel che accade nella forma di potere tradizionale (propria delle
società precapitalistiche), ove il potere è esercitato in base a
tradizioni cui il principe non è strettamente vincolato e i
rapporti di potere sono rapporti personali, non fissati
preventivamente in modo vincolante. L'impresa capitalistica non
può svilupparsi se non sulla base del calcolo razionale delle
utilità, e quindi ha bisogno di una struttura di potere che
consenta il massimo di prevedibilità delle azioni e ammetta il
minimo spazio all'arbitrio individuale. Il sistema statale cui dà
vita la forma di potere legale è il sistema caratterizzato da un
grande apparato burocratico, il quale, come una grande rete,
racchiude l'attività dei funzionari e ne impedisce il movimento
delimitandone rigorosamente i ruoli, fissandone la gerarchia, e si
estende a poco a poco su tutta la società rendendosi
indispensabile o provvedendo direttamente all'organizzazione di
tutte le attività che vi si svolgono, da quella economica a quella
scolastica: in quanto ‛spirito rappreso' questa grande macchina
(di nuovo la machina machinarum di Hobbes) ha la
potenza di costringere gli uomini al suo servizio. Il destino
delle società moderne caratterizzate dalle grandi imprese, non
solo delle società capitalistiche ma anche, come Weber prevede, e
anzi con maggior celerità, di quelle che si avviano al socialismo,
è la corsa verso la burocratizzazione, e quindi la trasformazione
in ‛gusci d'acciaio', in cui saranno sepolte le illusioni dei
liberali del sec. XIX e dei socialisti del sec. XX.
Nelle pagine ormai classiche di Th. W. Adorno sull'industria
culturale sono contenuti i temi principali, sublimati nell'opera
marcusiana, e quindi ripetuti, amplificati, dogmatizzati nella
letteratura sulle contraddizioni delle società più avanzate,
relativi all'universo repressivo originato dalle comunicazioni di
massa. Attraverso le comunicazioni di massa anche l'arte, ciò che
dovrebbe essere più irripetibile e più creativo, diventa un
prodotto come tutti gli altri, riproducibile all'infinito,
consumabile, una merce che il pubblico compra o è indotto a
comprare con la stessa mancanza di gusto personale con cui compra
una saponetta o un paio di scarpe. Di fronte al prodotto
dell'industria culturale l'individuo non deve lavorare di propria
testa: il prodotto è smerciato già tutto finito e pronto per
l'uso. Non deve pensare ma divertirsi, non deve essere turbato,
scosso, tormentato, ma deve essere distratto, ammansito,
pacificato con se stesso e con la società. L'effetto è un generale
ottundimento, un livellamento dei gusti e delle aspirazioni, una
compiuta e incruenta spersonalizzazione, l'eliminazione della
silenziosa privatezza in cambio di una spudorata e chiassosa
pubblicizzazione: ‟L'industria culturale ha perfidamente
realizzato l'uomo come essere generico. Ognuno è più solo ciò per
cui può sostituire ogni altro: fungibile, un esemplare" (M.
Horkheimer e Th. Adorno, Dialettica dell'illuminismo,
Torino 1966, p. 157). In questa situazione parlare ancora di
libertà può apparire una bestemmia, un modo di nominare il nome di
Dio invano; una parola troppo solenne per un mondo così dimesso e
accontentabile, dove al posto dell'intelligenza personale c'è la
ripetizione, l'imitazione, l'adattamento, l'accettazione
incondizionata della logica del dominio. Il protagonista, se si
può ancora adoperare questa parola d'altri tempi, della società
dominata dall'industria culturale è il servo sublimato e
soddisfatto, proprio il contrario del cittadino di Rousseau, che
era ‟costretto ad essere libero".
17. I problemi attuali della libertà
Come la illibertà nasce continuamente nel seno stesso della
libertà, a egual titolo si può dire che la libertà rinasce
continuamente nel seno stesso della non-libertà. Sembra quasi che
a un intensificarsi delle nuove forme di dominio corrisponda un
acuirsi del bisogno di libertà. Nello stesso tempo quanto più si
moltiplicano le insidie del potere tanto più si fortificano le
difese della libertà. In una rapida visione d'insieme dei problemi
della libertà nella società contemporanea, mi pare si possano
individuare due temi principali: da un lato l'emergere di
richieste di libertà completamente nuove, dall'altro nuove forme
di difesa delle vecchie.
In tema di libertà negativa il problema nuovo è il problema della
libertà dal lavoro. Va da sé che un problema di questo genere non
poteva essere posto se non in un'epoca come la nostra di
vertiginosi progressi tecnici. Tradizionalmente la maggior parte
delle richieste di libertà negativa, rivolte com'erano contro
l'oppressione politica e sacerdotale, contro le due grandi
istituzioni che inglobavano tutta la vita dell'uomo, restarono
circoscritte nell'ambito sovrastrutturale. Sul piano strutturale
la libertà economica significò libertà di possedere,
d'intraprendere operazioni economicamente redditizie, di
accumulare beni senza limiti, non mai libertà dal lavoro: il non
lavorare poteva se mai essere una conseguenza del diritto
all'accumulazione indefinita, non un presupposto; fu sempre
considerato un privilegio e non un diritto. Il lavoro fu sempre
giustificato come una ineluttabile necessità o addirittura
esaltato come un dovere. Solo oggi comincia ad affacciarsi il
problema del diritto non più soltanto al lavoro ridotto al minimo
indispensabile ma al limite all'eliminazione del lavoro faticoso,
ingrato, alienante, attraverso il progresso dell'automazione. La
nuova immagine della società libera che oggi si affaccia alle
menti degli utopisti sociali non è più quella della società senza
schiavitù politica, ma quella della società senza la schiavitù del
lavoro. Anche la libertà positiva fu concepita sino a oggi quasi
esclusivamente come allargamento della sfera di autodeterminazione
nella sfera politica. Una delle novità di questi ultimi anni è che
le richieste di autodeterminazione vengono fatte valere, con
un'audacia che sarebbe stata sino a qualche anno fa impensabile,
in quelle istituzioni che sembravano incrollabilmente,
necessariamente, fondate sul principio dell'autorità e
dell'obbedienza assoluta: la chiesa, la scuola, la fabbrica,
persino l'esercito. Vengono discusse, criticate, contestate le
cosiddette istituzioni totali, come i manicomi e le carceri, la
cui funzione eccezionale, come eccezionale è sempre stato
giudicato il comportamento anormale o deviante, le aveva sempre
tenute al riparo da ogni rivendicazione di libertà. Per un'età che
per la prima volta nella storia è stata testimone dei campi di
sterminio, la contestazione delle istituzioni totali è una sfida
che può sembrare persino troppo spavalda o troppo ingenua, ma è
uno di quegli episodi che mostrano più di ogni altra
considerazione la realtà profonda del nesso dialettico tra libertà
e non-libertà.
In tema delle nuove forme di difesa delle vecchie libertà, occorre
segnalare la tendenza manifestatasi subito dopo la seconda guerra
mondiale a una protezione internazionale dei diritti dell'uomo,
cui si richiama, sin dal Preambolo, lo Statuto delle Nazioni
Unite. Con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo,
approvata dall'Assemblea delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948,
è stato fatto il primo tentativo di universalizzare, cioè di
estendere a tutti i popoli della terra quei principi di libertà
che erano stati affermati dalle prime costituzioni liberali nei
limiti di ogni singolo Stato nazionale. Questa soltanto enunciata
e solennemente proclamata universalizzazione avrebbe dovuto essere
il naturale presupposto della garanzia internazionale. Per quanto
il problema non sia stato praticamente risolto, salvo l'ancor
timida e gracile istituzione della Commissione europea dei diritti
dell'uomo, la linea di tendenza che esso esprime non può essere
sottovalutata. La garanzia dei diritti dell'uomo contro la
violazione perpetrata dallo stesso Stato che dovrebbe esserne il
protettore è una risposta a un livello più alto all'eterna
domanda: Quis custodiet custodes? Ogni nuovo tentativo
di risposta a questa domanda, ancorché imperfetto e incompleto, è,
nella misura in cui propone nuove forme di controllo del potere,
una risposta a una domanda di libertà.
18. Considerazione conclusiva
Nessuno può pretendere di conoscere il destino della libertà nel
mondo. Chi si limita a fare l'osservatore di ciò che accade è
tentato di fare ancora una riflessione. Nel secolo scorso, come ho
detto alla fine della prima parte, fiorirono le più diverse
escogitazioni utopistiche di una società finalmente liberata; ed
era ben radicata la convinzione che il destino dell'umanità fosse
la libertà. Poi è accaduto quel che è accaduto: è accaduto che in
fronte ai campi di schiavitù e di sterminio fosse stato scritto,
con una diabolica contraffazione ‟Il lavoro rende liberi". In
questo secolo non conosco utopie, ideazioni fantastiche della
società futura, che non descrivano al contrario universi di cupo
dominio e di desolato conformismo. L'unica speranza è che anche
questa volta gl'incauti profeti abbiano torto.
Enciclopedia delle Scienze
Sociali (1996)
di Salvatore Veca