1. Le origini
Le premesse del pensiero liberale si trovano nella storia europea a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, cioè nella lotta per la libertà religiosa; nella competizione fra la nobiltà inglese e l’assolutismo degli Stuart, che strappò al potere della Corona garanzie sul piano giudiziario e politico; nella dottrina della divisione e dell’equilibrio dei poteri ispirata al modello inglese e teorizzata da C.-L.-S. de Montesquieu; nella concezione di un diritto naturale, fondamento di ogni costruzione giuridica, che da H. van Groot approda al contrattualismo di J.-J. Rousseau.
Altrettanto essenziale è l’individualismo economico dei
fisiocratici e della scuola classica inglese, per cui la massima
utilità generale è garantita dalla libera competizione, intesa
all’utile particolare e svincolata da ogni disciplina
(individualismo comune a F. Quesnay, R.-J. Turgot, A. Smith).
Le dichiarazioni dei diritti americana (1776) e francese (1789) si pongono al vertice di un processo storico, riassumendone i tratti essenziali: libertà di coscienza e di pensiero, di espressione e di associazione; eguaglianza di fronte alla legge, diritto di concorrere alla formazione della legge stessa, diritto di proprietà.
2. Il l. tra 19° e 20° secolo
Il l. ottocentesco si individua nella doppia opposizione contro l’assolutismo dinastico e la democrazia giacobina, nel confronto con l’esperienza storica della Rivoluzione francese e con la realtà della trasformazione industriale. Nel corso del secolo il l. penetra all’interno dei sistemi differenti, dando origine a indirizzi di pensiero in cui la tradizione si incontra con la modernità.
2.1 Francia
Il l. francese nasce istituendo una netta opposizione fra la libertà com’era concepita dall’antichità classica fino a G. Mably e J.-J. Rousseau, e la libertà moderna: la prima rivolta alla divisione del potere sociale fra i cittadini, la seconda alla «sécurité dans les jouissances privées», fra cui essenziale è il diritto di disporre e perfino di abusare della proprietà (B.-H. Constant, De la liberté des anciens comparée à celle des modernes, 1819). C.-A.-H.-C. de Tocqueville accetta il dato ineluttabile della democrazia, intesa quale tendenza a lungo termine operante nella storia occidentale. Il suo pensiero oscilla fra l’accettazione della democrazia con riserve sugli effetti del livellamento e del centralismo e il ricorso a un sistema sociale di modello inglese.
2.2 Gran Bretagna
Altrettanto evidente risulta, nel l. inglese, la connessione del movimento delle idee con la realtà sociale da cui scaturisce; il l. della scuola di Manchester è espressione della nuova classe in ascesa per l’espansione commerciale e industriale del paese. I principi del l. classico sono ribaditi da J. Stuart Mill: intorno a ciascun individuo c’è una sfera di assoluta libertà, su cui né altri individui, né la collettività possono esercitare un controllo (Principles of political economy, 1848); contro l’arbitrio di una pretesa volontà popolare sono necessarie precauzioni e garanzie, che impediscano la tirannide della maggioranza. Tra le voci discordanti, T.B. Macaulay ammette alcune forme di intervento pubblico e respinge l’atomismo degli utilitaristi; più tardi, L.T. Hobhouse (Liberalism, 1911) ammette alcune forme di tutela delle classi povere.
2.3 Germania e Italia
Dopo il saggio di W. von Humboldt (Ideen zu einem Versuch, die Grenzen der Wirksamkeit eines Staates zu bestimmen, 1792, pubblicato postumo nel 1851), che lo pone come uno dei primi teorici del l., il l. ebbe in Prussia un’intensa stagione con i progetti di riforma di K.A. Hardenberg e H.F.K. von Stein (1807). Nella seconda metà del secolo il pensiero giuridico tedesco si accostò ai principi liberali attraverso la concezione dello Stato di diritto (R. Gneist, G. Jellineck).
In Italia negli ultimi anni dell’Ottocento il l. trovò una formulazione teorica nelle opere di G. Mosca, che volse gradualmente a un l. moderato, per difendere in seguito coerentemente la sua teoria delle classi medie contro i tentativi di ristrutturazione sindacalcorporativa (Il problema sindacale, 1925). B. Croce elaborò dopo la Prima guerra mondiale una versione filosofica del l., importante punto di riferimento per gli intellettuali che non si riconoscevano nel fascismo.
2.4 Stati Uniti
La democrazia di T. Jefferson sostenne che «il governo migliore è quello che governa di meno», ma con l’ascesa della società industriale la tradizione liberal-democratica americana auspicò l’intervento dei poteri pubblici nei contrasti sociali. Intorno al 1920, il nuovo liberalism si configurò nell’interventismo di T. Veblen e nel democratismo di J. Dewey, con la sua fiducia nella razionalità creativa dell’uomo e quindi nell’efficacia della programmazione sociale.
3. Crisi e rinascita del l. nel Novecento
Una sistemazione coerente dei problemi economici e politici fu riproposta negli anni della Seconda guerra mondiale da W. Röpke, la cui opera è un attacco radicale al collettivismo, inteso come filosofia sociale che amplia al massimo le competenze e il potere costrittivo dello Stato; ogni forma di economia controllata e di pianificazione, anche nei limiti e nelle forme prospettate da J. Keynes o da J.A. Schumpeter, equivale al collettivismo. L’affermazione dei movimenti di massa e l’accentuarsi delle pressioni sulla sfera del governo hanno evidenziato già dai primi del Novecento il forte ruolo che si attendeva dall’intervento statale nell’economia e in altri campi; l’edificazione degli Stati totalitari e la necessità della lotta all’inflazione e alla disoccupazione – che sancì, con Keynes, la fine del laissez faire – aumentarono l’operatività statale sul mercato.
Nel secondo dopoguerra ripresero forza le idee del l. sia per una diffusa avversione al totalitarismo sia per la riconosciuta responsabilità della rigidità degli scambi nel determinare la crisi. Negli ultimi decenni del 20° sec. la cultura liberale ha ricevuto nuovo impulso, anche in seguito alla crisi del ‘socialismo reale‘, delle ideologie di ispirazione marxista e dei modelli di welfare State, divenendo nel mondo occidentale cultura politica egemone.
4. F.A. von Hayek e il dibattito in epoca contemporanea
A rinnovare l’interesse per il l.
hanno contribuito sia i processi economici e sociali legati alla
globalizzazione dei mercati sia l’affermazione di teorie volte a
esaltare la razionalità di questi ultimi e la logica della
competizione. Un ruolo significativo ha assunto la diffusione
delle tesi più recenti di F.A. von Hayek (The fatal conceit. The errors of
socialism, 1988) e K.R. Popper (Alles Leben ist Problemlösen,
1994), che sostengono la superiorità del l. rispetto alle
ideologie collettivistiche, anche in relazione alla sua capacità
di evolversi nel tempo. Se le tesi politiche di Popper hanno
contribuito a svecchiare la dottrina liberale, connettendola
ancora più con la democrazia, Hayek ha teorizzato il l. come la
teoria e la pratica politica più adatta alle rinnovate società
di mercato. In una società moderna fondata sulla divisione del
lavoro e sul mercato, la maggior parte delle nuove forme
d’azione sorge nell’ambito economico. Di qui il nesso
inscindibile fra l. politico e l. economico.
I due l. sono assolutamente inseparabili, e qualunque distinzione fra essi deve, secondo Hayek, essere respinta. In tale prospettiva il l. deve preoccuparsi, per Hayek, della giustizia commutativa, ma non della giustizia distributiva, ovvero della giustizia sociale (che è invece la preoccupazione del socialismo). Il motivo per cui l’ideale della giustizia distributiva deve essere rifiutato dai liberali coerenti è, secondo Hayek, duplice: per un verso non esistono principi generali di giustizia distributiva universalmente riconosciuti e accettati, né è possibile dedurli razionalmente; per un altro verso, anche se fosse possibile raggiungere un accordo su principi del genere, essi non potrebbero trovare applicazione in una società in cui gli individui siano liberi di impiegare le loro cognizioni e le loro capacità per il conseguimento di fini privati. Per Hayek il l. esige dunque soltanto che lo Stato, nel determinare le condizioni entro le quali gli individui agiscono, fissi le medesime norme formali per tutti. Eventuali correttivi devono essere assai circoscritti, tali da non inceppare il meccanismo.
Sui problemi impostati da Hayek si è aperto, senza essere giunto a conclusione, un dibattito nel pensiero etico-politico di ispirazione liberale, con esiti radicalmente diversi tra loro. J. Rawls (Political liberalism, 1993) ha espresso preoccupazioni di giustizia sociale, ed è partito nella sua riflessione da due principi: il primo di ispirazione liberale («ciascun individuo possiede un eguale diritto a una libertà di base la più estesa possibile, compatibile con altrettanta libertà per gli altri»); il secondo ispirato a ideali di giustizia distributiva. R.E. Nozick, invece, ha teorizzato lo «Stato minimo» (Anarchy, State and utopia, 1974) e, interessato solo alla giustizia commutativa, fondata sui contratti fra privati (la cui tutela è l’unico compito dello Stato), ha criticato aspramente qualunque forma di giustizia distributiva. Le posizioni di Rawls e di Nozick attestano una profonda lacerazione nel pensiero liberale contemporaneo, che si differenzia in una pluralità di interpretazioni spesso contrastanti che ha reso difficile l’aggregazione di un’area politica omogenea intorno a comuni principi di riferimento culturale.
5. L. e cristianesimo
Nel 19° sec., in conseguenza del diffondersi delle idee liberali, si registrò in alcuni ambienti lo sforzo di adeguare il cattolicesimo alle esigenze di libertà individuale e nazionale (cattolicesimo liberale), mentre nei paesi di cultura tedesca nasceva una nuova teologia che riaffermava e accentuava il valore del libero esame (protestantesimo liberale).
Il c. fu caratterizzato, più che da una concezione teorica
unitaria, da un atteggiamento di accettazione più o meno ampia
delle dottrine politiche proprie del liberalismo. L’esigenza di un
incontro tra il l. e il cattolicesimo fu formulata prima in Belgio
(É.-C. de Gerlache nel 1825) e poi, con ben maggiore
consapevolezza teorica, in Francia (F.-R. de La Mennais, 1829).
Accolte con entusiasmo in circoli ristretti del clero francese e
da alcuni storici, economisti e politici, queste idee suscitarono
forte opposizione nella maggior parte dell’episcopato, del clero e
degli stessi fedeli, provocando infine nel 1832 l’enciclica di
condanna di Gregorio XVI, Mirari
vos.
Dopo il 1832 i più insigni rappresentanti del cattolicesimo
liberale in Francia furono, con C. de Montalembert e J.-B.-H.
Lacordaire, A. Cochin e A.-F. Ozanam. Questo gruppo, favorevole
anche alla rivoluzione parigina del 1848, ebbe notevole peso nelle
vicende interne del paese, finché la morte dei suoi più alti
esponenti e il Sillabo
(1864) posero fine al cattolicesimo liberale in Francia.
Il cattolicesimo liberale italiano, molto più di quello francese,
si risolse nell’azione e nel pensiero di alcune grandi
personalità, tra cui vanno ricordate A. Rosmini (sia per i
consigli dati alla curia, sia per alcuni suoi scritti e
specialmente Le cinque piaghe
della Chiesa del 1848), A. Manzoni (che vagheggiò
un cattolicesimo aperto alle esigenze del l. politico e del
movimento nazionale), R. Lambruschini (che più di tutti tentò di
conciliare in una nuova sintesi cattolicesimo e libertà, non senza
aspirazioni di profonda riforma della Chiesa), N. Tommaseo
(profondamente cattolico, eppure severo verso l’arretratezza della
curia), M. Minghetti (ministro di Pio IX ma anche, più tardi,
presidente del Consiglio del Regno d’Italia e sostenitore della
separazione fra Chiesa e Stato).
Più complesso, il cattolicesimo liberale inglese, che ebbe nel
campo del pensiero politico la sua figura più rappresentativa in
lord J. Acton e combatté, ai margini del concilio Vaticano I
(1869-70), il dogma della infallibilità pontificia. Il rifiuto di
questo dogma portò invece un rappresentante del cattolicesimo
liberale tedesco, I. von Döllinger, a promuovere lo scisma
cosiddetto dei vecchi cattolici (Altkatholiken).
In realtà anche in Italia, in Gran Bretagna e in Germania il Sillabo, il concilio Vaticano e la proclamazione della infallibilità pontificia, insieme ai mutati problemi della realtà politica e sociale, segnarono la fine del cattolicesimo liberale come movimento organizzato. Tuttavia i suoi motivi più vitali rimasero operanti negli ultimi decenni dell’Ottocento, permeando di sé le discussioni teologiche che dovevano condurre al modernismo, mentre sul piano politico, attraverso la maturazione nella dottrina cattolica dei problemi sociali, e l’interesse ufficialmente dichiarato a quei problemi dalla Curia romana con l’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), si andarono formando, ovunque in Europa, i movimenti di democrazia cristiana.
Il si sviluppò in particolar modo in ambito luterano, sostenendo
che il cristianesimo dovesse essere studiato e interpretato, in
piena indipendenza da fattori soprannaturali e prescindendo da
ogni dichiarazione di fede, solo come fatto storico e con metodo
esclusivamente storico, come ogni altro fatto umano.
Suoi primi grandi rappresentanti furono gli storici e teologi
tedeschi radicali della prima metà dell’Ottocento (D.F. Strauss,
F.C. Baur, B. Bauer), seguiti nella seconda metà dell’Ottocento e
nel primo Novecento, dalla scuola di A. Ritschl e dei suoi più
insigni continuatori (E. Troeltsch e A. Harnack).
Legate alle posizioni del protestantesimo liberale sono anche varie correnti più recenti, come l’escatologismo di A. Schweitzer, la Formgeschichtliche Schule di M. Dibelius nonché le posizioni di R. Bultmann e di H. Gunkel.
Le premesse del pensiero liberale. È nella storia europea a partire dal Rinascimento e dalla Riforma che si possono individuare le premesse del pensiero liberale ottocentesco: cioè nella lotta per la libertà religiosa (la tolleranza reclamata dalle sette dissidenti della Riforma, e poi quella fondata da Locke e da Bayle sul relativismo dogmatico); nella competizione fra la nobiltà inglese e l’assolutismo degli Stuart, che strappò al potere della corona, attraverso un singolare sviluppo costituzionale, garanzie sul piano giudiziario e più propriamente politico (Petition of right, 1628; Habeas corpus act, 1679; Bill of rights, 1689); nella dottrina della divisione e dell’equilibrio dei poteri, ispirata al modello inglese e teorizzata da Montesquieu; nella concezione di un diritto naturale ( giusnaturalismo) fondamento di ogni costruzione giuridica, che da Grozio approda al contrattualismo di Kant. Altrettanto essenziale è l’individualismo economico dei fisiocratici e della scuola classica inglese, per cui la massima utilità generale è garantita dalla libera competizione, intesa all’utile particolare e svincolata da ogni disciplina (individualismo comune, oltre ogni divergenza contingente, a Quesnay, A.R.J. Turgot, Adam Smith). Le dichiarazioni dei diritti americana (1776) e francese (1789) si pongono, dunque, al vertice di un vasto processo storico, riassumendone i tratti essenziali: libertà di coscienza e di pensiero, di espressione e di associazione; inoltre, eguaglianza di fronte alla legge, diritto di concorrere alla formazione della legge stessa, diritto di proprietà.
Il pensiero liberale nell’Ottocento. Il l. ottocentesco si individua nella doppia opposizione contro l’assolutismo dinastico e la democrazia giacobina, nel confronto con l’esperienza storica della Rivoluzione francese e con la realtà della trasformazione industriale. Nel corso del secolo il l. in pieno sviluppo penetra entro sistemi differenti, dando origine a indirizzi di pensiero in cui la tradizione s’incontra con la modernità: si produce, così, lo sforzo di adeguare il cattolicesimo alle esigenze di libertà individuale e nazionale, mentre nei paesi di cultura tedesca nasce una nuova teologia, che riafferma e accentua il valore del libero esame, e mette a fuoco la genesi storica del dogma.
Liberalismo francese. In Francia il l.
nasce con una precisa coscienza della propria originalità,
istituendo una netta opposizione fra la libertà com’era concepita
in passato, dall’antichità classica fino a Mably e Rousseau, e la
libertà moderna: la prima intesa alla divisione del potere sociale
fra i cittadini, la seconda alla «sécurité dans les jouissances
privées», fra cui essenziale è il diritto di disporre e perfino di
abusare della proprietà (Constant, La libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni, 1819).
Se Constant conduce una polemica irriducibile contro l’uniformità
meccanica, contro qualsiasi potere socio-politico di stampo
collettivistico che coarti i cittadini, contro «l’esprit
systématique» proprio del dispotismo e della Rivoluzione,
Tocqueville, dal canto suo, accetta il dato ineluttabile della
democrazia, intesa quale tendenza a lungo termi- ne operante nella
storia occidentale. Esaminando l’estensione e i limiti della
democrazia in America, Tocqueville apprezza per un verso il
decentramento amministrativo, l’autonomia riconosciuta alla
società civile, gli enormi spazi di libertà garantiti
all’iniziativa individuale; ma per un altro verso teme che
l’eguaglianza delle condizioni socio-economiche (in America le
classi intermedie sono di gran lunga le più numerose) generi una
pericolosa uniformità sociale e culturale, un nuovo conformismo
così diffuso da dar vita a una vera e propria «tirannide della
maggioranza», con grave pregiudizio per chi non si riconosce in
essa, per i dissenzienti. Tale conformismo può favorire disegni
autoritari e dar vita a nuove forme di dispotismo. Gli antidoti
più efficaci contro queste tendenze sono, per Tocqueville, la
libertà di stampa e l’associazionismo, assai diffuso in America.
Le speranze e i timori di Tocqueville sono condivisi da J.S.
Mill, che del pensatore normanno fu grande ammiratore. Per Mill
intorno a ciascun individuo vi è una sfera che a nessun governo è
lecito oltrepassare, una sfera di assoluta libertà, su cui né
altri individui, né la collettività possono esercitare un
controllo (Principi di economia politica, 1848); contro
l’arbitrio di una pretesa volontà popolare sono necessarie
precauzioni e garanzie, che impediscano la tirannide della
maggioranza e che tutelino il dissenso (Saggio sulla libertà,
1859).
A partire dalla metà del secolo, tuttavia, non mancano fra i liberali inglesi voci discordanti, come quella dello storico Th.B. Macaulay, che ammette alcune forme di intervento pubblico e insieme respinge l’atomismo degli utilitaristi; successivamente, Hobhouse (Liberalismo, 1911) tenterà una conciliazione del l. con la democrazia e il socialismo democratico, ammettendo alcune forme di tutela delle classi povere.
Il liberalismo tedesco e italiano. Meno
cospicue le espressioni del l. tedesco e italiano, sebbene il
primo possa vantare il saggio di Humboldt (Saggio sui limiti
d’attività dello Stato, 1792, pubblicato post. nel 1851)
definito da De Ruggiero «il capolavoro dell’individualismo
politico dell’età romantica», che anticipa le tesi dei
costituzionalisti francesi della Restaurazione.
Il l. conosce in Prussia un’intensa stagione, quando K.A.
Hardenberg e H.F.K. von Stein elaborano i loro progetti di riforma
(entrambi del 1807) intesi all’emancipazione dei contadini,
all’abolizione dei privilegi nobiliari nel conferimento degli
uffici, nella creazione di istituti rappresentativi; dopo la legge
doganale del 1818, ispirata alla libertà del commercio, esso cede
il passo alla reazione di Federico Guglielmo, per riaffacciarsi
alla politica nazionale col parlamento di Francoforte, animato
dalla borghesia intellettuale. Nella seconda metà del secolo il
pensiero giuridico tedesco si accosta ai principi liberali
attraverso la concezione dello Stato di diritto (R. Gneist, G.
Jellineck).
Il l. italiano si mostra sensibile soprattutto ai problemi della
nazionalità e del rapporto della sfera politica con
l’universalismo ecclesiastico. P.S. Mancini fa rientrare
risolutamente il diritto di nazionalità nella categoria dei
diritti individuali (La nazionalità come fonte del diritto
delle genti, prolusione al corso di diritto internazionale,
1851). Contemporaneamente, Cavour attinge a A.-R. Vinet, F.
Guizot, Constant le fonti della sua formula ‘libera Chiesa in
libero Stato’.
Ma solo negli ultimi anni del secolo il l. trova una formulazione teorica nelle opere di G. Mosca, che, partito in gioventù da una contestazione radicale delle istituzioni parlamentari (Teorica dei governi e governo parlamentare, 1884), si volge gradualmente a un l. moderato (Il programma dei liberali in materia di politica ecclesiastica, 1897), per difendere in seguito coerentemente la sua teoria delle classi medie contro i tentativi di ristrutturazione sindacalcorporativa (Stato liberale e Stato sindacale e Il problema sindacale, entrambi del 1925).
Il liberalismo americano. Difficile il discorso sul l. americano, cui è mancata una coscienza fisiocratica, mentre l’ascesa industriale, più tarda rispetto a quella inglese, si è servita ai suoi inizi del protezionismo; per di più proprio il Sud schiavista aderiva alle prospettive manchesteriane. La democrazia di Th. Jefferson sostenne che «il governo migliore è quello che governa di meno»; tuttavia, nelle nuove condizioni della società industriale, la tradizione liberal-democratica americana auspicò l’intervento dei poteri pubblici nei contrasti sociali. Un nuovo liberalism si configura, intorno al 1920, nell’interventismo di Th. Veblen e nel democratismo di Dewey, con la sua fiducia nella razionalità creativa dell’uomo e quindi nell’efficacia della programmazione sociale.
La sintesi novecentesca. Una
sistemazione coerente dei problemi economici e politici fu
riproposta negli anni della Seconda guerra mondiale dai fortunati
lavori di W. Röpke, che esplicitamente si richiamava agli italiani
Croce, L. Einaudi, Mosca, C. Antoni; Röpke utilizzava inoltre gli
argomenti di Hayek, per il quale la programmazione economica
conduce necessariamente al socialismo e alla sua inefficienza, con
esiti inevitabilmente totalitari. Anche l’opera di Röpke è un
attacco radicale al collettivismo, inteso in senso molto lato,
come filosofia sociale che amplia al massimo le competenze e il
potere costrittivo dello Stato, e apre, con espressione ripresa da
Hayek, la «strada verso la servitù».
Ogni forma di economia controllata e di programmazione, anche nei
limiti e nelle forme prospettate da J.M. Keynes o da J.A.
Schumpeter, equivale al collettivismo; se pure la proprietà
privata dei mezzi di produzione continua a sussistere
nominalmente, essa è spogliata di ogni significato quando è
sottoposta a un ordinamento economico che toglie al proprietario
il diritto della libera disponibilità e della libera decisione;
inoltre, il controllo dell’economia e la sua pianificazione
distruggono il meccanismo creativo del mercato nel quale devono
confrontarsi liberamente le nuove iniziative economiche, le nuove
formule organizzative, i nuovi ritrovati tecnici, ecc.
In un’economia controllata il mercato, gravemente distorto, non dà più indicazioni valide per l’allocazione delle risorse e per la validità delle nuove intraprese industriali e commerciali: sicché il danno che ne viene alla società (anche sul piano della ricerca e della innovazione) è enorme. La «terza via» di Röpke si svolge fra gli scogli della degenerazione monopolistica e del collettivismo; essa concede allo Stato un «interventismo liberale», conforme al principio generale del sistema economico di mercato.
Crisi e rinascita del liberalismo.
Anche se l’area politica rappresentata dal l. è in genere più
ampia di quella coperta dai partiti liberali, si è parlato a
ragione, per il 20° sec., di crisi del liberalismo. L’affermazione
dei movimenti di massa e l’accentuarsi delle pressioni sulla sfera
del governo hanno evidenziato già dai primi anni del Novecento il
forte ruolo che si attendeva dall’intervento statale nell’economia
e in altri campi. Nel secondo dopoguerra, dopo il crollo dei
totalitarismi fascisti e nella lotta delle forze liberali contro
il totalitarismo comunista, hanno ripreso forza le idee del l., le
quali poi hanno trionfato dopo la dimostrata inferiorità delle
economie collettivistiche, che ha determinato il crollo dell’URSS
e del suo impero.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
di Giuseppe Bedeschi
Liberalismo
Sommario: 1. Problemi di definizione. 2.
Le origini del liberalismo: i suoi presupposti sociali e
spirituali. 3. Le garanzie contro gli abusi del potere politico.
4. Proprietà e libertà. 5. Fecondità dell'antagonismo, della
varietà, del dissenso. 6. Liberalismo e democrazia. 7. Liberalismo
ed eguaglianza. 8. Liberalismo e liberismo. 9. Le sfide del XX
secolo. □ Bibliografia.
1. Problemi di definizione
Del liberalismo sono state date definizioni sensibilmente
differenti, e, naturalmente, tali differenze corrispondono a modi
diversi di concepire il liberalismo stesso. La cosa non deve
stupire. Il liberalismo, infatti, è un concetto assai controverso,
non solo perché esso ha avuto molti e aspri critici, ma anche
perché i suoi seguaci (coloro, cioè, che si sono proclamati
'liberali') hanno mostrato di avere divergenze su aspetti
dottrinali fondamentali (la ben nota discussione sul rapporto fra
liberalismo e liberismo è solo un aspetto di queste divergenze).
Anche da un punto di vista storico, il concetto di liberalismo è
problematico e sfuggente.
Il termine, d'altro canto, nasce abbastanza tardi: infatti
l'aggettivo 'liberale' entra nel linguaggio politico solo con le
Cortes di Cadice del 1812, per connotare il partito, appunto,
liberal, che difendeva le libertà pubbliche contro il partito
servil; esso fu poi ripreso da Madame de Staël e da Sismondi per
indicare un nuovo orientamento etico-politico (v. Matteucci, Liberalismo,
1976, p. 530). Di qui il paradosso che alcuni di quelli che noi
consideriamo fra i maggiori pensatori liberali (Locke,
Montesquieu, Kant) non hanno mai usato né il sostantivo
('liberalismo') né l'aggettivo ('liberale') nell'accezione in cui
noi li usiamo oggi.
A ciò si deve aggiungere che nel pensiero liberale si ritrovano
ispirazioni e strumenti teorici non solo diversi, ma addirittura
opposti fra loro: i pensatori liberali del Seicento e del
Settecento hanno fondato le loro concezioni su presupposti
giusnaturalistici, mentre quelli di parte dell'Ottocento e del
Novecento si sono fondati su concezioni o utilitaristiche o
storicistiche, e comunque non giusnaturalistiche o addirittura
antigiusnaturalistiche.
D'altro canto sarebbe assurdo ritenere che il pensiero liberale
(ovvero quel pensiero che noi definiamo tale), che si è sviluppato
dal Seicento a oggi, cioè lungo quattro secoli di storia della
civiltà occidentale, sia rimasto sempre identico a se stesso, come
una specie di idea platonica, e non abbia conosciuto sviluppi e
trasformazioni profonde, ripensamenti e arricchimenti, a seconda
dei diversi contesti sociali, politici e culturali nei quali ha
operato, e quindi a seconda dei diversi problemi che ha affrontato
e che ha inteso avviare a soluzione.
Alla luce di tutto ciò, alcuni studiosi hanno negato la
legittimità stessa del concetto di liberalismo in quanto categoria
storico-politica, e hanno preferito parlare di molti e diversi
'liberalismi'. Questa ci sembra però una posizione estrema e
inaccettabile, per vari motivi. In primo luogo perché, anche
qualora si decidesse che è legittimo parlare solo di molti
'liberalismi', l'uso stesso del sostantivo, sia pure al plurale,
denoterebbe pur sempre qualcosa di comune che ne giustifica l'uso,
e che dovrebbe essere in ogni caso esplicitato. Del resto, se non
fosse così, tanto varrebbe rinunciare alla stessa parola
'liberalismo', espungerla dal lessico politico. Ma nessuno storico
o filosofo serio ha mai pensato di proporre questo. In secondo
luogo perché il concetto di liberalismo indica un complesso di
valori e di garanzie per noi irrinunciabili. Infatti, quando
diciamo che viviamo in una società liberal-democratica,
l'aggettivo 'liberale' specifica in modo sostanziale di quale
democrazia si tratti: di una democrazia liberale, appunto, ovvero
di una democrazia nella quale la maggioranza è tenuta a rispettare
rigorosamente i diritti delle minoranze (politiche, religiose,
culturali), e non può mai mettere a repentaglio tali diritti, come
avviene invece nelle democrazie plebiscitarie o populistiche.
Senonché, se è vero che l'uso del concetto di liberalismo è non
solo legittimo ma necessario, è parimenti vero che esso è il
risultato di una estrapolazione dai molti e diversi liberalismi
che si sono manifestati storicamente. In quanto il liberalismo non
è stato un unico soggetto storico (ideologico-politico-giuridico),
esso è in larga misura un'astrazione, ovvero una ricostruzione
formalizzata, un isolamento delle caratteristiche tipiche (o di
quelle che noi riteniamo che siano le caratteristiche tipiche) dei
vari pensatori, dei vari istituti e dei vari movimenti 'liberali'.
Non perdere mai di vista questo fatto è importante, perché esso ci
ricorda che, dopo aver individuato alcuni temi e alcune esigenze
fondamentali comuni ai vari pensatori e alle varie correnti
liberali, non dobbiamo mai trascurare la loro concretezza storica,
e quindi la specificità delle loro articolazioni e delle loro
sfumature, connesse ai loro diversi contesti sociali, ideali e
politici. Perciò, nel corso del presente articolo, cercheremo di
individuare, insieme ai grandi tratti comuni, le peculiarità, o
almeno alcune delle peculiarità, proprie di tali pensatori.
Per quanto riguarda i principali motivi ispiratori del
liberalismo, essi sono stati ben individuati nella definizione che
del liberalismo stesso ha dato un eminente studioso, Norberto
Bobbio. Tenendo presenti soprattutto le sue origini secentesche e
i suoi sviluppi settecenteschi, Bobbio ha sottolineato fortemente
(e giustamente) la dimensione politico-giuridica del liberalismo,
e quindi lo ha definito come una dottrina che afferma la
limitazione dei poteri dello Stato in nome dei diritti naturali
individuali, inerenti a ogni uomo in quanto tale (i cosiddetti
diritti innati). In questa definizione liberalismo e
giusnaturalismo sono strettamente connessi. "La dottrina liberale
- ha scritto infatti Bobbio - è l'espressione, in sede politica,
del più maturo giusnaturalismo: essa, infatti, si appoggia
sull'affermazione che esiste una legge naturale precedente e
superiore allo Stato e che questa legge attribuisce diritti
soggettivi, inalienabili e imprescrittibili, agli individui
singoli prima del sorgere di ogni società, e quindi anche dello
Stato. Di conseguenza lo Stato, che sorge per volontà degli stessi
individui, non può violare questi diritti fondamentali (e se li
viola diventa dispotico), e in ciò trova i suoi limiti; anzi, deve
garantirne la libera esplicazione, e in ciò trova la sua funzione,
che è stata detta 'negativa' o di semplice 'custode"'.
Bobbio ha opportunamente aggiunto che, per quanto riguarda i
principî filosofici, il liberalismo è espressione
dell'individualismo razionalistico, proprio della filosofia
illuministica, per il quale l'uomo in quanto essere razionale è
persona, e ha un valore assoluto, prima e indipendentemente dai
rapporti di interazione coi suoi simili. Come persona, il singolo
è superiore a qualsiasi società di cui entra a far parte, e lo
Stato, a sua volta, è soltanto un prodotto dell'uomo (in quanto
sorge da un accordo o da un contratto fra gli uomini stessi), e
non è mai una persona reale, bensì solo una somma di individui
aventi ciascuno la propria sfera di libertà. I diritti
fondamentali, che lo Stato deve garantire, pur variando da autore
ad autore, e da costituzione a costituzione, si possono
raggruppare in due grandi categorie: diritti che riguardano la
libertà dallo Stato nella sfera spirituale (libertà di pensiero,
di religione, ecc.); diritti relativi alla libertà dallo Stato
nella sfera economica (diritto di proprietà, libertà di intrapresa
economica, di commercio, ecc.; v. Bobbio, 1957, pp. 617-618).
Questa definizione di Bobbio riconduce giustamente il liberalismo
alle sue origini, che sono giusnaturalistiche e contrattualistiche
(e infatti la prima grande e organica concezione liberale è quella
di Locke), e ne sottolinea opportunamente sia gli aspetti
filosofici sia gli aspetti politici: la persona come valore,
antecedente al costituirsi della società; il sorgere della società
da un accordo fra gli individui (contrattualismo); la società come
somma delle sfere di autonomia e di libertà dei singoli (tanto nel
campo intellettuale e spirituale quanto in quello economico) che
non possono essere lese in alcun caso, bensì devono essere
garantite dallo Stato; una concezione negativa del ruolo dello
Stato (libertà dallo Stato), che deve limitarsi ad assicurare
l'applicazione delle regole della convivenza fra gli individui, ma
non può imporre loro alcunché né sul piano intellettuale e morale
né sul piano economico.
2. Le origini del liberalismo: i suoi
presupposti sociali e spirituali
Naturalmente, le idee e le dottrine liberali hanno avuto origine e
hanno preso corpo, sino a formare a poco a poco una concezione
articolata e organica, in un particolare contesto sociale e
spirituale. Ed è opportuno vedere, preliminarmente, quale sia
stato questo contesto. Per discutere questo delicato problema
possiamo prendere le mosse dal libro di H.J. Laski, The rise
of European liberalism (1936), che non solo costituisce il
lavoro più ampio e sistematico scritto a tutt'oggi sulle origini
del liberalismo europeo, ma esprime anche un punto di vista assai
diffuso tra gli studiosi: tanto diffuso da essere ormai diventato
un luogo comune. Nel corso della sua indagine l'autore
ricostruisce minutamente le origini del liberalismo in un ampio
arco di tempo, che va dalla Riforma alla Rivoluzione francese.
La tesi di Laski è che in tale periodo una nuova classe sociale
si creò i titoli per una piena partecipazione al controllo dello
Stato, e nella sua ascesa al potere essa spezzò tutte le barriere
che in ogni sfera della vita (fuorché in quella ecclesiastica)
avevano fatto del privilegio una funzione della condizione
sociale, e avevano associato l'idea di diritto con il possesso di
terre (v. Laski, 1936; tr. it., p. 1). Questa nuova classe fu,
secondo Laski, la "borghesia". E fu grazie all'emergere, al
consolidarsi e all'imporsi di questa classe che all'inizio
dell'età moderna il quadro spirituale, ideologico, giuridico e
politico dell'Europa occidentale venne completamente sconvolto. La
condizione sociale fu sostituita dal contratto come fondamento
giuridico della società; l'uniformità di fede religiosa lasciò il
posto a una varietà di fedi religiose; la concezione medievale
dell'impero universale fu soppiantata dal potere irresistibile
della sovranità nazionale; lentamente, ma ineluttabilmente, la
scienza sostituì la religione in quanto fattore dominante per la
formazione del pensiero degli uomini; l'idea dell'uomo
caratterizzata essenzialmente dal peccato originale lasciò il
posto all'idea della perfettibilità dell'uomo per mezzo della
ragione, e quindi alla dottrina del progresso (ibid., pp. 1-2).
Come si vede, Laski non trascura né sottovaluta, e anzi sottolinea
fortemente nella propria ricostruzione, gli elementi spirituali,
religiosi e culturali che sono all'origine del liberalismo; e
tuttavia egli li considera un po' come elementi 'sovrastrutturali'
(conformemente alla sua ispirazione marxista), i quali 'sorgono',
o comunque acquistano importanza ed esercitano un influsso reale,
in virtù di un elemento 'strutturale': l'emergere, il consolidarsi
e poi l'imporsi di una nuova classe, la "borghesia". La quale,
secondo Laski, realizzò il proprio dominio in due fasi: in una
prima fase essa, che derivava la propria influenza esclusivamente
dal possesso di un capitale mobile, costrinse l'aristocrazia, la
cui autorità era fondata sulla proprietà terriera, a condividere
con lei il potere politico; in una seconda fase il banchiere, il
commerciante, l'industriale, cominciarono a sostituire del tutto
il proprietario terriero, l'ecclesiastico e l'uomo d'armi come
detentori di quel potere (ibid.).
Il limite principale di questa interpretazione, che vede nel
liberalismo l'espressione dell'emergere e dell'affermarsi della
borghesia, consiste nel fatto che il concetto di borghesia è un
concetto ambiguo, tanto più "vago ed equivoco" quanto più "è usato
per un arco storico tanto lungo da coincidere con la formazione
dell'Europa moderna" (v. Matteucci, Liberalismo, 1976, p.
540). Ed è proprio nella patria del liberalismo, l'Inghilterra,
che lo schema interpretativo proposto da Laski mostra la propria
debolezza e inadeguatezza. In Inghilterra, infatti, si può parlare
di egemonia della borghesia nel XVII secolo (cioè nel secolo che
vede il sorgere e il trionfare delle dottrine parlamentari e
liberali), solo a patto di chiamare 'borghesia' la gentry, cioè
quello strato sociale agrario che, già a partire dalla seconda
metà del XVI secolo, venne largamente a sostituirsi all'antica
nobiltà nel possesso della terra. Ma è giustificata questa
definizione?
Certo la gentry, i gentiluomini di campagna, insieme agli yeomen
e ai freeholders (che però, dal punto di vista del prestigio
sociale, si differenziavano dalla gentry, per la loro condizione
di proprietari coltivatori diretti), impressero alla società
inglese un profondo dinamismo, che doveva a poco a poco minare e
poi travolgere l'assetto signorile e feudale. L'organizzazione del
lavoro agricolo su basi razionali, la nuova mentalità che vedeva
nella terra un bene nel quale investire capitali per ricavarne
profitti: questi elementi fecero della gentry e degli yeomen uno
strato sociale medioalto assai vitale, che non aveva confronto in
alcun altro grande paese europeo (cfr. M.L. Salvadori, Storia
dell'età moderna. Dal Cinquecento all'età napoleonica,
Torino 1990, p. 151).
Ciò produsse risultati assai importanti. Infatti l'ingente
trasferimento di terre dalla Chiesa, dalla Corona e dalla più alta
nobiltà, insieme al diminuito potere e prestigio dei grandi
signori, determinarono un maggior controllo da parte della gentry
sugli affari locali: l'accrescimento del potere economico di
questo strato sociale si accompagnò insomma, nel corso del
Cinquecento e del primo Seicento, con la graduale presa del potere
politico.
Uno storico ha tracciato il seguente quadro: "Il controllo del
governo locale, a livello di parrocchia e di contea, rendeva la
gentry l'arbitro in una serie di importanti settori,
sostanzialmente riconducibili alle funzioni di giudici di pace che
non solo amministravano la giustizia criminale, ma regolavano
prezzi e salari, si occupavano di carceri, ospizi, dei poveri, del
mantenimento in genere dell'ordine pubblico. [...] Inoltre, con il
relativo declino dell'aristocrazia, la gentry cominciò ad assumere
notevole influenza anche nelle elezioni al Parlamento, riuscendo a
far eleggere i propri candidati contro quelli della Corona o dei
nobili; nel Seicento i Comuni erano composti in maggioranza di
gentiluomini di campagna. La maggior indipendenza della gentry, il
suo accresciuto potere economico e politico, il conseguente
controllo della Camera dei Comuni, ne fecero nel primo Seicento il
naturale oppositore di una Corona e di una Chiesa sempre più
impopolari per l'imposizione illegale di tasse, per gli abusi
nell'amministrazione della giustizia, per la corruzione e il
favoritismo della Corte e per i provvedimenti ecclesiastici
adottati dalla Chiesa anglicana" (cfr. G. Garavaglia, Società e
rivoluzione in Inghilterra, 1640-1689, Torino 1978, pp. 82-83).Le
idee parlamentari e liberali sorsero e trionfarono dunque,
nell'Inghilterra del Seicento, grazie agli strati nuovi e più
dinamici della società: gentry, yeomen, ceti mercantili (nel 1600
fu fondata la Compagnia delle Indie Orientali) e ceti medi
cittadini (uomini di legge, impiegati nelle amministrazioni
cittadine, negozianti e artigiani autonomi, ecc.).
Ora, definire tutto questo sviluppo come 'borghese' significa
usare un'etichetta che, come tale, non solo è assai generica, e
quindi scarsamente utile, ma che può essere persino
controproducente. Infatti - anche a prescindere dalla critica
severa che storici eminenti hanno rivolto all'equazione fra gentry
e borghesia, sia sul piano concettuale che su quello empirico
(cfr. L. Stone, The causes of the English revolution 1529-1642,
London 1972; tr. it., Torino 1982, pp. 49-51 e passim), poiché la
gentry era assai composita (c'era una gentry formata da grandi
proprietari terrieri, e c'era una gentry minore, di piccoli
proprietari), ma era tutta molto fiera e gelosa dei propri titoli
nobiliari acquistati via via con la ricchezza - l'uso
dell'aggettivo 'borghese' fatto da storici di ispirazione marxista
(Laski, R.H. Tawney, C. Hill), a proposito dello sviluppo
economico-sociale inglese del Seicento, può indurre in forzature,
fraintendimenti, errori.
Per esempio, può portare a sopravvalutare gli elementi
industriali certamente presenti in modo significativo in quella
società (industria estrattiva del carbone, industria tessile,
metallurgica, cantieristica), ma non in misura tale da mettere in
discussione il suo carattere complessivo di società agricola,
preindustriale (e questo errore è stato commesso da C. Hill,
quando nei suoi lavori ha parlato, a proposito di questo periodo,
di "sviluppo del modo di produzione capitalistico entro le
strutture feudali"); così come può portare a interpretare i
conflitti sociali di una società agricola nei termini dei
conflitti sociali propri di una società capitalistico-industriale.
Molto più opportuno appare invece un approccio in termini di
'modernizzazione' economico-sociale e politica, che studi
concretamente il passaggio da una società signorile e feudale,
relativamente statica, a una società agricolo-mercantile
notevolmente dinamica, e il ruolo svolto in essa da ceti e strati
sociali emergenti (gentry, yeomen, mercanti, ecc.), avendo cura di
evitare schematizzazioni eccessive, e dando il giusto peso anche
agli aspetti spirituali e religiosi (che non devono essere
considerati mere proiezioni di attori e interessi economici).
E soprattutto, in questo modo, si può evitare di perdere di vista
il fatto più importante (che l'idea di 'rivoluzione borghese'
tende a oscurare o ad attenuare): e cioè che le dottrine liberali
sorgono, si sviluppano e si affermano con i loro caratteri
inconfondibili non in società industriali, bensì in società
agricole.
È fuor di dubbio che, già nell'Inghilterra elisabettiana, si
sviluppò una 'classe media borghese' di artigiani, piccoli
negozianti e mercanti istruiti; ma è altrettanto fuor di dubbio
che il sistema di valori dominante restò quello dei gentiluomini
di campagna (cfr. L. Stone, The crisis of the aristocracy,
Oxford 1965; tr. it., Torino 1972, p. 41). In Inghilterra sono
appunto essenzialmente i ceti terrieri più dinamici a costituire
la spina dorsale del regime liberale fino a tutta la prima metà
dell'Ottocento: e ciò naturalmente non è senza conseguenze sul
piano della mentalità e dei valori di quel liberalismo (v. Cuomo,
1981, p. 107). Lawrence Stone ha osservato a questo proposito:
"L'idea che, a partire dal Seicento, l'Inghilterra sia stata una
nazione di bottegai ispirata all'etica del mercato e guidata da
una borghesia capitalistica è una di quelle idee dure a morire. In
realtà, fino al 1870, l'Inghilterra ebbe un tono essenzialmente
aristocratico e mutuò i suoi canoni morali, la gerarchia dei suoi
valori sociali e il suo sistema politico dalle classi dei
proprietari terrieri" (The crisis... cit., p. 23). (E del
resto, anche per quanto concerne la Rivoluzione francese - che con
la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789
produce il più grande 'manifesto' del liberalismo continentale -
storici come Alfred Cobban e François Furet hanno messo in guardia
verso gli errori che nascono dal fatto di interpretarla alla luce
del concetto di 'rivoluzione borghese').
Dicevamo che quando si studiano le origini del liberalismo inglese
bisogna evitare, per un verso, schematizzazioni sociopolitiche
troppo rigide, e per un altro verso bisogna considerare anche il
ruolo assolutamente fondamentale che ebbero i fattori spirituali e
religiosi. Per quanto riguarda il primo aspetto, basti pensare che
i 'partiti' tory e whig, formatisi in Inghilterra nel periodo che
intercorse fra le due rivoluzioni del Seicento (il primo
favorevole alla sovranità del re per diritto divino, il secondo
sostenitore della sovranità del Parlamento), non avevano basi
sociali nettamente distinte. Certo (ma ciò è fin troppo ovvio e
scontato) quei 'partiti' non avevano i propri seguaci nelle classi
e nei ceti più umili e subalterni della società. Ma, detto ciò, è
impossibile distinguere fra le classi sociali superiori che quei
'partiti' rappresentavano. Gli storici affermano, a questo
proposito, che "entrambi erano emanazione della grande
aristocrazia e della piccola nobiltà di campagna", e che "ciò che
distingueva whig e tory non era la loro origine sociale quanto il
modo di concepire il governo del paese e la vita politica" (cfr.
Garavaglia, op. cit., p. 202). Affermazione, questa, di grande
importanza, perché, mentre ci impedisce qualunque schematismo
sociologico-politico troppo rigido, ci induce a dare tutto il peso
che meritano a importanti fattori spirituali e culturali: primo
fra tutti quel vasto movimento religioso che va sotto il nome di
puritanesimo. E ciò ci sollecita a considerare il secondo aspetto
del problema.
Stone ha giustamente osservato che la rivoluzione inglese possiede
caratteristiche di unicità tra le ribellioni europee verificatesi
all'inizio dell'età moderna, unicità che le viene dal suo
radicalismo politico e religioso (The causes... cit., p.
59), sicché l'approccio a essa deve essere multicausale, nel senso
che si deve attribuire agli elementi religiosi e ideologici la
stessa importanza che si dà ai movimenti sociali e ai cambiamenti
economici (ibid., p. 69). E in effetti la componente religiosa è
indispensabile per intendere la tormentata e drammatica storia
inglese del Seicento, e il germinare in essa delle idee liberali,
destinate a trionfare con la 'gloriosa rivoluzione'.Naturalmente
non è possibile ricostruire qui nei dettagli la complessa vicenda
religiosa del Seicento inglese, con il suo mosaico di anglicani,
puritani (suddivisi in presbiteriani e in congregazionalisti),
quaccheri.
Qui basti ricordare che il dibattito sulla libertà di coscienza,
particolarmente acceso fra il 1644 e il 1648, rappresentò uno dei
momenti più significativi della prima rivoluzione inglese, e gettò
le basi per l'accettazione sempre più generalizzata dell'idea di
tolleranza (cfr. Garavaglia, op. cit., p. 230); e che, più in
generale, non si può intendere un secolo di lotte politiche ove si
prescinda dalla profonda resistenza che vasti strati di cittadini
opposero a una chiesa imposta dall'alto con il Supremacy act del
1534, che dichiarava il re d'Inghilterra capo supremo della Chiesa
inglese: una resistenza che fu sostenuta con profonda passione e
spirito di sacrificio dalle sette riformate ispirate alla dottrina
calvinista. Di qui lo stretto intreccio fra lotta politica e lotta
religiosa nella società inglese del Seicento. E infatti
l'opposizione parlamentare si saldò intimamente alla causa
puritana, portando avanti di pari passo richieste di riforme in
campo politico e amministrativo e in campo religioso: "nel primo
caso in nome della sovranità del Parlamento, quale rappresentante
del popolo, contro l'assolutismo monarchico di origine divina, nel
secondo a favore di un'attuazione più rigorosa dei principî della
Riforma protestante contro i tentativi di fare della Chiesa
anglicana uno strumento di repressione e di controllo anche della
vita civile" (ibid., p. 226).
È proprio questo stretto intreccio fra lotta sociopolitica (che ha
le proprie radici in un vasto processo di modernizzazione della
società inglese) e lotta religiosa a costituire la caratteristica
inconfondibile delle origini del liberalismo in Inghilterra. E non
è certo un caso che il primo grande teorico del liberalismo, John
Locke (1632-1704), elabori sia una concezione organica della
difesa del cittadino contro gli abusi del potere sovrano, sia una
delle prime grandi formulazioni dell'idea di tolleranza (Lettera
sulla tolleranza, 1689).Ma affrontiamo ora, senza ulteriori
indugi, il problema fondamentale del pensiero liberale, che è il
problema dei rapporti fra cittadino e potere politico, e delle
garanzie che il primo deve avere nei confronti del secondo.
3. Le garanzie contro gli abusi del potere
politico
I Due trattati sul governo civile di Locke furono pubblicati nel
1690 ma la loro redazione risale almeno a un decennio prima,
sicché si può dire che la teoria politica in essi svolta
costituisca tanto l'autocoscienza teorica quanto il coronamento
del processo di demolizione dell'assolutismo degli Stuart,
processo che con alterne e drammatiche vicende caratterizza la
storia inglese del XVII secolo e culmina nella 'gloriosa
rivoluzione' del 1688. Il secondo di questi Trattati ha infatti
come obiettivo essenziale quello di dare una piena e coerente
giustificazione del principio secondo cui i diritti dei cittadini
non possono essere mai violati dal potere politico, il quale deve
essere quindi un potere limitato, fondato sul consenso e sulla
fiducia dei cittadini medesimi.
Locke combatte perciò in primo luogo la concezione dispotica del
potere sovrano (concezione che aveva avuto il suo massimo campione
in Hobbes), e lo fa dando una particolare caratterizzazione dello
stato naturale e del passaggio da quest'ultimo alla società civile
o politica (political or civil society). Secondo Locke, infatti,
nello stato naturale gli individui vivono, almeno in un primo
tempo, in una condizione pacifica, godendo dei diritti inerenti a
ogni uomo sin dalla nascita (il diritto alla vita, il diritto alla
libertà e il diritto alla proprietà). Lo stato naturale, lungi
dall'essere asociale ovvero una condizione di guerra di ognuno
contro tutti, in cui l'individuo è continuamente minacciato
persino nella vita (secondo la raffigurazione che ne aveva dato
Hobbes), costituisce per Locke una società notevolmente
sviluppata, in cui sono presenti diversi istituti (la famiglia, il
rapporto padrone-servo) e rapporti economico-sociali molto
articolati, fondati sulla moneta e sull'accumulazione illimitata
di ricchezza (e quindi corrispondenti a un'economia mercantile
assai matura).
L'abbandono dello stato naturale e il passaggio alla società
civile o politica diventano necessari perché a un certo punto lo
stato naturale degenera in stato di guerra (in esso, infatti, in
mancanza di leggi positive e di giudici che le facciano
rispettare, ognuno deve farsi giustizia da solo). Senonché, a
differenza di quanto avveniva in Hobbes, il patto stipulato fra
gli individui per dar vita alla società civile o politica (la sola
che può tutelare adeguatamente gli istituti sociali ed economici
sviluppatisi già nello stato di natura) non implica per Locke una
completa alienazione di tutti i diritti individuali al sovrano; al
contrario, attraverso il patto gli individui entrano in società
conservando tutti i loro diritti naturali (che dunque devono
essere garantiti dalle leggi positive), tranne uno: il diritto di
farsi giustizia da soli.
Ne segue che il potere sovrano non può acquisire più di quanto
gli sia stato trasmesso, e quindi non è un potere illimitato, non
è legibus solutus, non può violare i diritti naturali individuali,
non può imporre alcunché ai cittadini, né sotto il profilo
economico e sociale, né sotto il profilo spirituale e
intellettuale. Il potere politico è, insomma, un potere
fiduciario. Ma proprio perché è tale, esso trova la sua
concretizzazione più importante nel potere legislativo
(espressione della volontà della maggioranza dei cittadini). Il
potere legislativo è quindi il potere supremo, rispetto al quale
il potere esecutivo (che compete al re) è senz'altro subordinato.
Legislativo ed esecutivo sono poteri nettamente separati, in
quanto esercitano funzioni nettamente distinte (il primo ha il
compito di fare le leggi, il secondo di farle eseguire). E come il
potere esecutivo non può limitare in alcun modo il potere
legislativo, così quest'ultimo non può venir meno alla fiducia che
il popolo ha riposto in esso (non può far leggi in contrasto con
le leggi naturali, non può trasferire in altre mani il potere di
far leggi, ecc.).
Il popolo ha il pieno diritto o di deporre l'esecutivo che
conculca il legislativo, o di rovesciare il legislativo venuto
meno alla sua fiducia, e di eleggere un nuovo legislativo: un
diritto che il popolo può esercitare anche con la forza, poiché,
dice Locke, alla forza si può reagire soltanto con la forza (il
pensatore inglese riconosce dunque al popolo il diritto di
resistenza).
Si è molto discusso su questa teoria antidispotica di Locke, e
diversi critici hanno cercato di attenuarne la portata, in
considerazione del fatto che nella costruzione lockiana i diritti
politici sono riservati soltanto ai proprietari, sicché la società
civile o politica delineata dal filosofo inglese mostra caratteri
nettamente oligarchici. Del resto, se, come si è detto, la teoria
politica lockiana è il riflesso e al tempo stesso il coronamento
teorico del processo che culmina nella 'gloriosa rivoluzione' del
1688, non c'è dubbio che la monarchia inglese uscita da quella
rivoluzione, "sotto la veste decorosa di un governo misto, dove
tutte le forze della nazione fossero proporzionalmente
rappresentate, dissimulava la sostanza di un potere oligarchico"
(v. De Ruggiero, 1962, p. 13). Infatti il potere politico era
monopolio della grande aristocrazia fondiaria, della piccola
nobiltà di campagna (gentry) e dei sempre più ricchi e potenti
ceti mercantili.
E tuttavia, riconosciuto ciò, non si può non riconoscere,
parimenti, che il sistema politico inglese (e l'immagine teorica
che ne dava Locke) mostrava una fisionomia spiccatamente liberale.
"La rivoluzione del 1688 - ha scritto significativamente Laski,
uno dei critici ai quali abbiamo fatto riferimento sopra - non
fece che completare gli obiettivi cui mirava la rivolta della
classe media che Cromwell capeggiò contro il dispotismo tentato
dagli Stuart. L'habeas corpus, i parlamenti triennali dominati da
partiti politici, uno dei quali sarà l'alleato costante degli
interessi commerciali, la libertà religiosa entro vasti limiti, la
soppressione del controllo governativo sulla stampa, un potere
giudiziario indipendente dal potere esecutivo nell'espletamento
della sua funzione giuridica, la finanza e l'esercito controllati
da un parlamento elettivo" (v. Laski, 1936; tr. it., p. 71): tutte
queste erano conquiste di enorme importanza, che non avevano alcun
corrispettivo nel resto d'Europa. La concezione politica di Locke
e la 'gloriosa rivoluzione' tracciavano quindi la strada
dell'avvenire.
La stessa preoccupazione che ha mosso Locke (porre dei limiti al
potere dello Stato) ha mosso anche Montesquieu (1689-1755), il
quale poté intravvedere gli ultimi splendori del regno di Luigi
XIV, assistere alla crisi della reggenza e alla progressiva
involuzione dello Stato assoluto. Nello Spirito delle leggi (1748)
Montesquieu ha presente tanto la monarchia francese quanto la
monarchia inglese, e naturalmente le considerazioni che egli
svolge in riferimento all'una e all'altra sono assai diverse,
essendo diversi i rispettivi contesti sociopolitici. E tuttavia si
tratta di considerazioni che muovono da un'unica preoccupazione: è
assolutamente necessario limitare il potere politico, è
assolutamente necessario dividerlo e frazionarlo il più possibile;
solo così si potrà porre un freno a quella che è la tendenza
insita nel potere medesimo (in ogni potere), di abusare delle
proprie prerogative, di prevaricare sulla società civile e di
limitare gravemente o addirittura distruggere le libertà dei
sudditi.
Quale sia l'ideale politico di Montesquieu - ideale che fa della
sua riflessione un momento essenziale nella storia del pensiero
liberale - emerge nettamente dalla bipartizione che egli traccia
tra governi moderati e governi immoderati: una bipartizione che
costituisce la chiave di volta dell'opera politica montesquiviana.
Governo moderato è quello fondato su un opportuno bilanciamento o
equilibrio dei vari poteri e dei vari corpi che lo compongono, nel
senso che l'uno limita l'altro senza prevaricare su di esso; il
che significa che ciascun potere e ciascun corpo non agisce
arbitrariamente, ma osserva regole ben precise e si muove
all'interno di confini ben delineati. Se questo delicato
meccanismo può essere osservato in un determinato stadio della
monarchia francese - basata appunto su un complesso bilanciamento
o equilibrio fra potere regio (limitato dalle leggi fondamentali),
corpi intermedi (nobiltà, città, clero, coi loro diritti e i loro
privilegi) e Parlamenti (costituiti da giudici indipendenti) -
esso può essere osservato anche e soprattutto nella monarchia
inglese, di tanto più evoluta e matura. Qui vige un sistema di
distinzione e al tempo stesso di bilanciamento dei poteri, che
sarebbe troppo schematico e riduttivo definire di pura e semplice
separazione dei poteri medesimi (una definizione, d'altro canto,
che non si ritrova in Montesquieu).
Distinzione perché, come dice il pensatore francese, "tutto
sarebbe perduto se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi,
o di nobili, o di popolo, esercitasse questi tre poteri: quello di
fare le leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni, e
quello di giudicare i delitti o le liti dei privati" (XI, 6).
Legislativo, esecutivo e giudiziario devono essere dunque poteri
distinti, cioè non possono essere uniti nella stessa persona o
nello stesso corpo politico, poiché, ove questo avvenisse,
verrebbe meno quel frazionamento del potere, e quel reciproco
controllo fra le singole parti che lo costituiscono, che è la
conditio sine qua non per evitare il dispotismo. Ma al tempo
stesso ci troviamo di fronte a un bilanciamento dei poteri (e non
a una loro meccanica separazione). Infatti, lo stesso corpo
legislativo è diviso in due parti (Camera alta e Camera bassa),
che si tengono a freno fra loro grazie alla reciproca facoltà di
impedirsi. Le leggi, d'altro canto, non entrano in vigore se non
vengono approvate dal re. Il che significa che l'intero sistema
politico non può funzionare senza l'assenso e il concorso dei vari
elementi che lo compongono (monarca, Camera alta, Camera bassa), e
che basta il dissenso di uno di questi per incepparlo. Ma proprio
qui è la miglior garanzia di un governo moderato, in cui nessun
interesse particolare e nessuna frazione della società è in grado
di imporre la propria volontà contro quella degli altri.
Governo moderato è dunque per Montesquieu quel governo che tiene
conto della molteplicità e della diversità degli interessi, che
riesce a trovare un punto di equilibrio o di compromesso fra loro.
Su questa base sorge un sistema di civile convivenza, in cui
vengono rispettati i diritti e gli interessi di tutti, ed è
bandito ogni atto di forza e ogni abuso politico.
Il governo fondato sulla distinzione e sul bilanciamento dei
poteri è dunque per Montesquieu il governo moderato per
eccellenza. L'alternativa a esso è il governo immoderato o
dispotico, in cui il principe riunisce nella propria persona tutte
le magistrature. Ma questo governo, che annulla tutti i diritti
dei sudditi, ha come proprio principio la paura. In esso i sudditi
devono al despota un'obbedienza incondizionata, quale che sia la
sua volontà o quali che siano i suoi capricci. Sono impossibili
accomodamenti, controproposte, discussioni, accordi. I sudditi
sono creature che obbediscono a una creatura che vuole, e a essi,
come gli animali, non restano che l'obbedienza o il castigo. E con
queste parole Montesquieu non poteva dare del dispotismo una
caratterizzazione più negativa, e pronunciarne una condanna più
aspra e più ferma.
L'influsso dell'opera di Montesquieu (soprattutto della sua
riflessione relativa all'Inghilterra) sul pensiero politico e
sulla storia politica è stato enorme. Egli è stato uno degli
scrittori più letti dalla classe dirigente americana del XVIII
secolo (nel Federalist le citazioni da Montesquieu sono numerose).
Le prime costituzioni scritte - la Costituzione americana del 1776
e quella francese del 1791 - si considerano applicazioni della sua
teoria della distinzione dei poteri.
Le istanze antipaternalistiche (così vive in Locke) e quelle
antidispotiche (così forti sia in Locke che in Montesquieu)
vengono a costituire anche il contrassegno essenziale della
concezione politica di Kant (1724-1804). Per il filosofo di
Königsberg (che vive nel regime dispotico-paternalistico
prussiano) uno dei principî a priori sui quali deve essere fondato
lo Stato civile in quanto Stato giuridico, è la libertà. Tale
principio significa, dice Kant, che "nessuno mi può costringere a
essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere
degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per
la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla
libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la
sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo
una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli
altri)" (Scritti politici e di filosofia della storia e del
diritto, Torino 1965, p. 255).
Si tratta, come si vede, di un principio schiettamente liberale,
che mira a salvaguardare una larga sfera d'azione dell'individuo
nella sua vita privata e sociale, al riparo dalle pretese e dalle
intrusioni del principe. Senza tale sfera d'azione, senza la
possibilità di seguire le proprie inclinazioni, di soddisfare i
propri gusti, di manifestare il proprio carattere e di adottare lo
stile di vita a esso conforme, l'individuo non solo non è libero,
ma è completamente asservito. E infatti Kant, per chiarire meglio
il proprio pensiero, aggiunge che un governo fondato sul principio
della benevolenza verso il popolo, al modo del governo di un padre
verso i figli, cioè un governo paternalistico, in cui i sudditi,
come figli minorenni che non possono distinguere ciò che è loro
utile o dannoso, sono costretti a comportarsi solo passivamente,
ad aspettare che il capo dello Stato giudichi in qual modo essi
devono essere felici, e ad attendere solo dalla sua bontà che egli
lo voglia, è il peggior dispotismo che si possa immaginare.
Per intendere appieno l'importanza di queste proposizioni
kantiane, è necessario tenere ben presente il quadro sociopolitico
della Germania del tempo in cui Kant scriveva, nella quale i
principi esercitavano una minuziosa e pedantesca regolamentazione
burocratica di tutti gli aspetti, anche minimi, della vita privata
dei sudditi. Così, per esempio, un'ordinanza camerale del
Principato del Baden del 1766 stabiliva come al Consiglio di Corte
competesse di trattenere i sudditi "dall'errore e di ricondurli
sulla retta via, nonché di insegnar loro, anche contro la loro
volontà, il modo in cui devono organizzare l'economia domestica,
coltivare i campi e alleviare a se stessi, mediante una conduzione
economicamente più produttiva dell'azienda, gli oneri dei tributi
da loro dovuti".
Il problema di una forma di governo che sia fondata sul consenso
dei cittadini, e che rispetti scrupolosamente i loro diritti,
costituisce quindi la preoccupazione fondamentale di Kant. Per lui
la costituzione dello Stato deve essere repubblicana; essa, in
quanto tale, si oppone radicalmente a quella dispotica. Il regime
repubblicano (che può essere anche una monarchia costituzionale)
si fonda essenzialmente sul principio politico della separazione
del potere legislativo dal potere esecutivo e dal potere
giudiziario: tali poteri sono coordinati, e al tempo stesso i loro
compiti e le loro sfere sono rigorosamente distinti. Il
dispotismo, invece, è caratterizzato dall'esecuzione arbitraria
delle leggi dello Stato, e in esso la volontà pubblica è
maneggiata dal sovrano come sua volontà privata. Nel regime
repubblicano, al contrario, il vero potere sovrano è il
legislativo (eletto dai cittadini che abbiano diritto di voto), al
quale l'esecutivo è sottomesso. Perciò il legislativo può anche
togliere all'esecutivo il suo potere, deporlo o riformare la sua
amministrazione. Infine, nel regime repubblicano né il sovrano o
legislativo, né il reggitore o esecutivo possono giudicare. Il
popolo si giudica da sé per mezzo di quei suoi concittadini che
esso nomina a questo effetto, con una libera scelta, come suoi
rappresentanti, per ogni atto particolare.
Con ciò il filosofo di Königsberg ha tracciato il disegno del suo
Stato ideale in quanto Stato di diritto e liberale a un tempo,
fondato sulla divisione e sul coordinamento dei poteri, a tutela
della libertà di ognuno, scrupolosamente garantita e delimitata
dai diritti e dai doveri di tutti. E per Kant ogni forma di
governo che non sia rappresentativa è propriamente informe, poiché
in essa il legislatore può essere in una sola e medesima persona
anche esecutore del proprio volere, con tutte le inevitabili
conseguenze di abuso e di arbitrio (ma nemmeno in questo caso il
filosofo tedesco riconosce al popolo il diritto di ribellione o di
resistenza, mostrando in ciò una posizione assai più arretrata di
quella di Locke).
Questa preoccupazione di tutelare i diritti e le libertà
dell'individuo contro gli abusi e le prevaricazioni del potere
politico trova probabilmente la sua espressione più sottile ed
efficace nella dottrina di Benjamin Constant (1767-1830), maturata
nel fuoco delle tremende esperienze della dittatura giacobina e
del dispotismo napoleonico. Constant è un convinto difensore della
sovranità popolare, la quale non può non significare supremazia
della volontà generale su ogni volontà particolare. Ma sarebbe un
errore imperdonabile, egli dice, scambiare tale supremazia per una
sovranità illimitata. Il potere sovrano deve sempre avere due
limiti invalicabili: il rigoroso rispetto dei diritti delle
minoranze e la non intromissione nella vita privata dei singoli,
qualora questi non violino le leggi. C'è sempre una parte
dell'esistenza umana che deve restare individuale e autonoma, e
che è di diritto fuori di ogni competenza sociale. Se la società
viola i diritti delle minoranze, o se si intromette nella sfera
della vita individuale che non le compete, essa si rende colpevole
non meno del despota che ha come titolo soltanto la spada
sterminatrice. Il che significa che la sovranità può esistere solo
in maniera limitata e relativa, che la società non può eccedere
dalla sua sfera di competenza senza essere usurpatrice, la
maggioranza senza essere faziosa.
In questo quadro di rigorosa ispirazione
giusnaturalistico-individualistica, Constant vibra un attacco
formidabile alla concezione politica di Rousseau, tanto spesso
invocata a favore della libertà ma divenuta il più terribile
sussidio di ogni specie di dispotismo. Rousseau, dice Constant,
definisce il contratto intervenuto tra la società e i suoi membri
come la completa alienazione di ogni individuo con tutti i suoi
diritti e senza riserve alla comunità. E per rassicurarci circa le
conseguenze di questa completa alienazione di tutti i nostri
diritti a favore di un ente astratto, Rousseau ci dice che il
sovrano, cioè il corpo sociale, non può nuocere né all'insieme dei
suoi membri né a ciascuno di essi in particolare; che ognuno, in
quanto si dà a tutti, non si dà a nessuno; e che ognuno, infine,
acquista su tutti gli associati gli stessi diritti che cede loro e
guadagna con maggior forza l'equivalente di tutto ciò che perde.
Senonché, nonostante queste rassicurazioni, la soluzione
roussoiana è astratta e irrealistica. Rousseau dimentica infatti,
dice Constant, che non appena il sovrano deve fare uso della forza
che possiede, non appena deve procedere a una organizzazione
effettiva del proprio potere - in quanto non può esercitarlo in
prima persona - egli deve delegarlo; sicché non è affatto vero che
il cittadino, dandosi a tutti, non si dà a nessuno: egli si dà
invece a coloro che agiscono a nome di tutti. Accade così che
coloro ai quali è stato delegato l'esercizio della sovranità
traggano esclusivo profitto dal sacrificio degli altri. Non è
affatto vero, dunque, che nessuno abbia interesse a rendere
onerosa la condizione altrui, poiché in realtà vi sono dei
consociati che stanno fuori della condizione comune; non è affatto
vero che tutti i consociati acquistino gli stessi diritti che essi
cedono, perché non tutti guadagnano l'equivalente di ciò che
perdono.
In realtà, quando la sovranità non è limitata, non c'è alcun mezzo
per tenere gli individui al riparo dai governi; ed è vano
pretendere di sottomettere i governi alla volontà generale, perché
sono sempre i governi a dettare tale volontà. E neppure è
sufficiente stabilire che il potere esecutivo non ha il diritto di
agire senza il concorso di una legge, se a esso non si pongono dei
confini precisi, se non si dichiara che vi sono materie sulle
quali il legislatore non ha diritto di fare leggi, e che vi sono
delle volontà che né il popolo né i suoi delegati hanno il diritto
di violare. Ecco dunque quel che bisogna proclamare, il principio
eterno che bisogna stabilire: "I cittadini posseggono diritti
individuali indipendenti da ogni autorità sociale o politica, e
ogni autorità che viola questi diritti diviene illegittima. I
diritti dei cittadini sono la libertà individuale, la libertà di
religione, la libertà di opinione, che comprende la libertà di
manifestarla, il godimento della proprietà, la garanzia contro
ogni arbitrio. Nessuna autorità può attentare a questi diritti
senza lacerare il suo titolo" (Principî di politica, Roma 1965, p.
72).
4. Proprietà e libertà
Una critica mossa molte volte al pensiero liberale - formulata, in
varie fasi e in vari contesti, essenzialmente dalla cultura
socialista e marxista - è stata quella di aver dato una
giustificazione teorica degli interessi delle nuove classi e dei
nuovi ceti protagonisti della rivoluzione antiaristocratica e
antifeudale, e di aver concepito il diritto alla proprietà privata
come il diritto per eccellenza, al quale avrebbe subordinato tutti
gli altri diritti, e per la tutela del quale avrebbe congegnato
l'intero sistema politico. Il liberalismo sarebbe quindi rimasto
vittima di una illusione ideologica: esso ha creduto di creare le
condizioni per la libertà di tutti gli uomini, e invece ha creato
le condizioni per la libertà di una minoranza soltanto; ha creduto
di esprimere esigenze universali, e di creare regole e istituzioni
atte a soddisfarle, e invece ha espresso solo esigenze
particolari, e ha creato regole e istituzioni per soddisfare
quelle esigenze particolari, a spese della grande maggioranza (v.
Laski, 1936).
Si tratta di una critica che, proprio perché riduce il giudizio
sul liberalismo al problema della difesa della proprietà privata,
sottovaluta gravemente l'importanza delle tecniche
politico-giuridiche elaborate dai pensatori liberali a difesa
della libertà individuale contro le intromissioni e le
prevaricazioni del potere politico. Quando Marx afferma che "in un
periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e
borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare
come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri,
dottrina che allora viene enunciata come 'legge eterna"' (cfr. K.
Marx e F. Engels, L'ideologia tedesca, Roma 1958, p. 43) - quando
afferma ciò, Marx sottovaluta il fatto che la dottrina della
divisione dei poteri ha una validità e un'efficacia che
trascendono di gran lunga il contesto sociopolitico nel quale
quella dottrina è sorta, e che essa è uno strumento fondamentale
di difesa del cittadino contro gli abusi del potere anche in altri
tipi di società.Ma, per quanto riguarda il concetto di proprietà,
è opportuno chiarire che esso non ha nel pensiero liberale quel
significato e quella funzione univoci che gli sono stati spesso
attribuiti (sino a pretendere di unificare il liberalismo del XVII
e del XVIII secolo sotto la categoria di "individualismo
possessivo"; cfr. C.B. Macpherson, The political theory of
possessive individualism. Hobbes to Locke, Oxford 1962).
Assai significativo è il caso di Locke. Del filosofo inglese è
stata citata infinite volte l'affermazione, che ricorre spesso nel
Secondo trattato sul governo civile, secondo la quale per potere
politico si deve intendere "il diritto di far leggi con penalità
di morte, e per conseguenza con ogni penalità minore, per il
regolamento e la conservazione della proprietà" (II, 3). Si tratta
di un testo certo esemplare, per la sua fortissima sottolineatura
della proprietà privata, che viene posta all'origine della società
civile o politica (la quale ha un carattere fortemente
oligarchico, per l'estrema ristrettezza del corpo elettorale).
Senonché si è voluto ignorare troppo spesso che Locke ha una
concezione assai ampia della proprietà, nella quale rientrano non
solo i beni mobili e immobili, ma anche la vita, la sicurezza, la
libertà.
Del resto, nella Epistola sulla tolleranza egli afferma
significativamente: "Mi sembra che lo Stato sia una società di
uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni
civili. Chiamo beni civili la vita, la libertà, l'integrità del
corpo, la sua immunità dal dolore, i possessi delle cose esterne,
come la terra, il denaro, le suppellettili, ecc.". Qui viene
enunciata, come si vede, una definizione ampia e polisensa di
proprietà, che è ben lungi dal ridurre quest'ultima ai soli beni
materiali. Con ciò non si vuol sostenere, naturalmente, che la
proprietà privata in senso stretto non abbia un'importanza
fondamentale nella concezione politica di Locke (oltretutto, il
filosofo inglese ha elaborato, proprio nel Secondo trattato sul
governo civile, una teoria assai acuta e originale per spiegare il
sorgere della proprietà privata dei beni, la cui origine viene
individuata nel lavoro). Si vuole solo sottolineare il fatto, non
certo privo di significato, che la concezione lockiana della
proprietà non può essere appiattita sui suoi contenuti 'borghesi',
anche se essi sono certo importantissimi.
Tali contenuti 'borghesi' sono presenti anche nella concezione
politica di Kant. Anche per lui, infatti, la proprietà privata è
già presente nello stato di natura, e la costituzione civile ha
fra i suoi obiettivi fondamentali quello di rendere perentorio,
ovvero giuridicamente garantito, quel possesso (il mio e il tuo
esterni, secondo la terminologia kantiana) che nello stato
naturale era provvisorio, cioè non sufficientemente garantito.
Inoltre, nella sua teoria del potere legislativo, Kant considera
la posizione economica e il censo quali condizioni imprescindibili
per l'esercizio dell'elettorato attivo e passivo. Per avere il
diritto di voto, e dunque per essere cittadino in senso pieno,
occorre infatti, dice Kant, essere padrone di sé (sui juris), e
quindi avere una qualche proprietà che procuri i mezzi per vivere.
Con ciò si intende che il cittadino deve avere una qualunque
attività, manuale, professionale, artistica, scientifica, che gli
assicuri una vita economicamente autonoma. E Kant distingue
puntigliosamente fra il domestico, il garzone di bottega, chi
lavora a giornata, il precettore privato, ecc., i quali sono da
qualificarsi solo come operarii, e quindi non possono essere
cittadini, e coloro che sono invece artifices, e quindi possono
alienare un opus (come l'artigiano, il fittavolo, l'insegnante,
l'artista, ecc.): questi sono cittadini in senso pieno (e quindi
titolari dei diritti politici), mentre i primi sono soltanto
consociati sotto la protezione dello Stato. Nessun dubbio che qui
Kant esprima un punto di vista rigidamente classistico, che sarà
corretto in notevole misura dagli sviluppi successivi del pensiero
liberale.
E infatti la concezione della proprietà come qualcosa di naturale
e di presociale trova una significativa attenuazione nell'opera di
Benjamin Constant. Certo, anche Constant è assai fermo
nell'escludere gli indigenti dai diritti politici. Nessun popolo,
egli dice infatti, ha mai considerato come membri dello Stato
tutti gli individui che risiedano come che sia sul suo territorio:
né la nascita nel paese né la maturità dell'età sono elementi
sufficienti a conferire i diritti politici. Per esercitare tali
diritti occorre qualcos'altro: occorre il tempo indispensabile
all'acquisizione della cultura e di un retto giudizio. Ma soltanto
la proprietà garantisce questa disposizione.E tuttavia, detto ciò,
Constant introduce qualcosa di nuovo e di importante nella
concezione della proprietà privata. Egli polemizza infatti contro
"un errore grave": l'errore di coloro che hanno rappresentato la
proprietà come antecedente alla società o indipendente da questa.
"Nessuna di queste asserzioni - dice Constant - è vera. La
proprietà non è affatto anteriore alla società, perché senza
l'associazione che le dà una garanzia essa non sarebbe che il
diritto del primo occupante, in altri termini il diritto della
forza, cioè un diritto che non è tale. La proprietà non è
indipendente dalla società perché uno stato sociale, in verità
assai miserevole, può concepirsi senza proprietà, mentre non si
può immaginare la proprietà senza stato sociale". In realtà, la
proprietà esiste perché esiste la società, e quindi essa "non è
altro che una convenzione sociale", anche se dal considerarla tale
non discende che essa sia meno essenziale e meno necessaria di
quanto la considerino altri scrittori (op. cit., p. 182).
Questa concezione constantiana della proprietà come "convenzione
sociale" è assai importante, sia perché spezza lo schema
giusnaturalistico della proprietà come qualcosa di presociale, sia
perché, implicitamente, inaugura un modo di considerare la
proprietà in funzione della società, delle sue esigenze e dei suoi
bisogni (e ciò valse a Constant l'accusa, da parte di liberali
conservatori come il Laboulaye, di aver aperto la strada al
comunismo!).Un altro aspetto importante della concezione
constantiana della proprietà consiste nel fatto che egli ritiene
che la Rivoluzione francese abbia aperto un positivo processo di
frazionamento della proprietà fondiaria, un processo che si
concluderà con l'estinzione della grande proprietà e con
l'estendersi e il consolidarsi delle piccole proprietà. Questo
processo sarà accelerato dal rafforzarsi continuo dell'industria
(che è tutta nelle mani del Terzo stato), la quale contribuirà a
rendere la proprietà fondiaria sempre più divisa, mobile,
circolante all'infinito. Sorgerà così una classe media sempre più
numerosa, formata da tutti gli individui intraprendenti e dotati
di iniziativa e di talento, una classe che costituirà la spina
dorsale della nazione. Il pensiero di Constant su questo punto
costituisce un'importante testimonianza del passaggio
dall'ideologia liberale propria dei ceti terrieri a quella propria
dei ceti industriali.
Ma il pensatore liberale che rielabora più profondamente la
connessione fra liberalismo e proprietà privata è John Stuart Mill
(1806-1873). Egli assume un atteggiamento tutt'altro che ostile
verso le varie scuole di indirizzo socialista (owenismo,
sansimonismo, fourierismo, anche se è un deciso avversario di Marx
e dei suoi seguaci). E tuttavia Mill non ritiene che la strada
giusta sia quella della soppressione pura e semplice della
proprietà privata. Egli pensa che un regime comunistico non
lascerebbe sufficiente spazio all'individualità dei caratteri, che
l'assoluta dipendenza di ciascuno da tutti e la sorveglianza di
tutti su ciascuno ridurrebbero gli uomini a una tetra uniformità
di pensieri, di sentimenti e di azioni.
La strada da seguire è quindi, per lui, un'altra: incidere
profondamente sul meccanismo della distribuzione della ricchezza.
Mill, che vive in un paese che ha il più avanzato sviluppo
industriale, non ha dubbi sul fatto che in futuro le classi
lavoratrici - rese sempre più mature dall'istruzione, dalla
partecipazione all'attività sindacale e politica, dalla stampa -
accresceranno di gran lunga il loro peso nella società e non si
accontenteranno della condizione di lavoratore salariato come
condizione definitiva. Il rapporto fra padrone e operaio sarà
sostituito a poco a poco, secondo Mill, dall'associazione: in
alcuni casi dall'associazione dei lavoratori col capitalista, in
altri casi, e forse alla fine in tutti, dall'associazione dei
lavoratori fra loro. In tali cooperative i lavoratori si
troveranno su un piede di eguaglianza, possiederanno
collettivamente il capitale, e lavoreranno sotto direttori eletti
e destituibili da loro stessi.
Il sistema cooperativistico permetterà di conseguire i vantaggi
morali ed economici della produzione associata, e, senza violenza
o spoliazione, realizzerà, almeno nel campo industriale, le
migliori aspirazioni dello spirito democratico, cancellando tutte
le distinzioni sociali, salvo quelle giustamente meritate coi
servizi e le attività personali. Al tempo stesso tale sistema si
baserà sulla concorrenza, a proposito della quale i socialisti
hanno, secondo Mill, idee molto confuse, e anzi sbagliano quando
attribuiscono a essa tutti i mali economici. "Essi - egli dice -
dimenticano che dovunque non vi è concorrenza, vi è monopolio; e
che il monopolio, in tutte le sue forme, è una tassazione sugli
uomini attivi per il mantenimento dell'indolenza, se non della
ruberia". In realtà, se si eccettua la concorrenza fra i
lavoratori (donde, per Mill, l'importanza, per la classe operaia,
degli insegnamenti di Malthus), ogni altra concorrenza è a
vantaggio dei lavoratori, in quanto riduce il costo delle merci
che essi consumano (Principî di economia politica, Torino
1962, pp. 747-748).
Come si vede, la concezione liberalsocialista di Mill si ispira al
principio dell'adeguato compenso allo sforzo individuale. Di qui
l'esigenza, da lui sempre rivendicata, di incisivi interventi sul
diritto di successione (soltanto i discendenti diretti dovrebbero
poter ereditare, e solo quanto è necessario per una modesta
esistenza; il di più dovrebbe essere avocato dallo Stato), per
evitare quell'eccessiva concentrazione delle fortune che è
all'origine di tanti mali sociali. E di qui anche lo sfavore con
cui Mill guarda alla proprietà privata della terra, e la sua
critica alla rendita fondiaria. La proprietà deve essere frutto
del lavoro, e poiché "nessun uomo ha fatto la terra" ed essa è
"l'eredità originaria di tutta la specie umana", nessuno può
vantare dei diritti su di essa. La proprietà terriera si
giustifica solo e soltanto se la terra viene costantemente
coltivata e migliorata (di qui la simpatia di Mill per la piccola
proprietà contadina); in caso contrario i proprietari, dice Mill,
"diventano più ricchi quasi dormendo, senza lavorare, senza
rischiare e senza risparmiare. Che diritti possono avere, secondo
i principî generali della giustizia sociale, a questo incremento
di ricchezza?" (ibid., pp. 368, 372, 1077).
5. Fecondità dell'antagonismo, della varietà,
del dissenso
Un aspetto fondamentale del pensiero liberale è da cercare nella
sua convinzione che l'antagonismo fra gli individui, i gruppi, i
ceti e le classi sia estremamente fecondo, e che senza tale
antagonismo in campo economico, sociale, politico e culturale non
ci sia progresso nella società, bensì solo stagnazione e regresso.
Il confronto e il conflitto fra interessi e opinioni diversi non
sono dunque fatti negativi, ma altamente positivi, che lo Stato
liberale deve porre a proprio fondamento, limitandosi a tutelare
il loro corretto svolgimento. La società pluralistico-conflittuale
è enormemente superiore a qualsiasi società omogenea e
organicistica. Solo la prima è una società dinamica, e quindi in
grado di produrre e accumulare beni, conoscenze, sapere; la
seconda è invece una società statica, incapace di miglioramento e
di progresso. "Solo nella lotta, - ha affermato uno scrittore
liberale italiano - solo in un perenne tentare e sperimentare,
solo attraverso a vittorie e ad insuccessi, una società, una
nazione prospera. Quando la lotta ha fine si ha la morte sociale e
gli uomini hanno perduto la ragione medesima del vivere" (cfr. L.
Einaudi, Prediche inutili, Torino 1974, p. 243).
Chi ha espresso questo punto di vista con maggior forza è stato
forse, fra i 'classici', Kant. Egli ha affermato che il mezzo di
cui la natura si serve per attuare lo sviluppo di tutte le sue
disposizioni è l'antagonismo degli individui, in quanto esso è la
causa dell'ordinamento civile della società. Per antagonismo si
deve intendere - egli ha chiarito - la "insocievole socievolezza"
degli uomini, cioè la loro tendenza a unirsi in società, congiunta
con una generale avversione, che minaccia continuamente di
disunire la società medesima. Si tratta, dice Kant, di una
tendenza insita nella natura umana. L'uomo, infatti, ha per un
verso una forte inclinazione ad associarsi con gli altri uomini,
perché egli sente di poter sviluppare meglio, nella società, le
proprie disposizioni naturali; ma per un altro verso ha una forte
tendenza a dissociarsi, poiché ha in sé la qualità antisociale di
voler volgere tutto al proprio interesse, contro gli interessi
degli altri.
Questa caratteristica della natura umana costituisce per Kant
qualcosa di altamente positivo. Infatti la resistenza di ognuno
contro tutti, egli dice, eccita le energie dell'uomo, lo induce a
vincere la sua tendenza alla pigrizia; l'uomo, spinto dal
desiderio di onori, di potenza, di ricchezza, si conquista un
posto tra i suoi consoci. In tal modo si compiono i primi veri
passi dalla barbarie alla civiltà, si sviluppano a poco a poco
tutte le capacità umane, si educa il gusto, ecc. Senza la
insocievolezza, "tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei
loro germi in una vita pastorale arcadica di perfetta armonia,
frugalità, amore reciproco", e "gli uomini, buoni come le pecore
che essi menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un
valore maggiore di quello che ha questo loro animale domestico".
"Siano allora rese grazie alla natura - esclama Kant (op. cit., p.
128) - per l'intrattabilità che genera, per l'invidiosa emulazione
della vanità, per la cupidigia mai soddisfatta di averi o anche di
dominio! Senza di esse tutte le eccellenti disposizioni naturali
insite nell'umanità rimarrebbero eternamente assopite senza
svilupparsi".
Questa tematica trova importanti sviluppi in Wilhelm von Humboldt
(1767-1835), il quale ha espresso in modo estremamente efficace il
punto di vista secondo il quale il progresso della società ha la
propria molla nel libero dispiegarsi degli individui. Perché tale
libero dispiegamento abbia luogo occorre naturalmente piena
libertà nel campo sociale e politico, ma occorrono anche una ricca
varietà di situazioni e una vasta gamma di scelte. Infatti, anche
l'uomo più libero e più indipendente, se posto in un ambiente
uniforme, ha uno sviluppo meno completo. Questo è per Humboldt un
punto assai importante e delicato, anche in considerazione del
fatto che il progresso della civiltà comporta uniformità (Humboldt
è il primo ad avvertire questo problema, che, come vedremo, sarà
sempre più discusso successivamente): ogni epoca è sempre meno
varia di quella che l'ha preceduta, a causa dei processi di
unificazione e di omogeneizzazione (degli stili di vita, del
costume, della mentalità, ecc.) che la diffusione della civiltà
comporta. Inoltre, il continuo complicarsi della vita sociale
richiede un intervento ognora crescente dello Stato, e quindi un
continuo potenziamento della macchina burocratico-amministrativa.
"Di decennio in decennio - dice Humboldt - aumentano, nella
maggior parte degli Stati, il personale dei funzionari e gli
archivi, mentre diminuisce la libertà dei sudditi" (Antologia
degli scritti politici, Bologna 1961, p. 73).
Verso il crescente intervento dello Stato nella vita civile
Humboldt è estremamente diffidente e preoccupato, in quanto esso
comporta un aumento costante della regolamentazione della società
dall'alto, e un progressivo indebolimento dell'iniziativa
individuale dal basso. Ma l'intelletto umano si educa solo
attraverso la propria attività autonoma, la propria inventività o
la personale utilizzazione di invenzioni altrui. Le istituzioni
statali, e le iniziative da esse promosse, comportano invece
sempre costrizione, oppure abituano a contare su direttive,
controlli e aiuti esterni, invece che a pensare e ad agire
autonomamente. Di qui, anche, la diffidenza di Humboldt verso le
grandi associazioni e le grandi organizzazioni, le quali non
richiedono agli individui di essere sempre più autonomi, più
originali e più riccamente dotati, bensì, all'opposto, di essere
sempre più omogenei e uniformi, sempre più conformisti, di avere
sempre minore iniziativa personale, di diventare meri strumenti
dell'organizzazione. "L'individuo che sia spesso e in larga misura
eterodiretto - dice Humboldt - arriva facilmente a sacrificare
quasi volontariamente ogni residuo di indipendenza. Egli si crede
sollevato da ogni responsabilità, constatando come altri se
l'accolli, e pensa di fare abbastanza attendendo le altrui
direttive e seguendole" (ibid., p. 67).
Questi motivi ritorneranno, alcuni decenni dopo, in Alexis de
Tocqueville (1805-1859). Il pensatore francese apprezzerà
altamente, nella democrazia americana, l'autonomia della società
civile dal potere politico: un'autonomia che ha risvegliato tutte
le capacità e tutto lo spirito d'iniziativa della società civile
medesima, la quale ha individuato da sola le proprie necessità e
le ha soddisfatte con straordinaria efficacia. "Non c'è paese al
mondo - dice Tocqueville - ove gli uomini facciano, in definitiva,
tanti sforzi per creare il benessere sociale. Non conosco un
popolo che sia riuscito a creare scuole altrettanto numerose ed
efficienti; chiese più adatte ai bisogni religiosi degli abitanti;
strade comunali meglio tenute. Non bisogna dunque cercare negli
Stati Uniti l'uniformità e stabilità di vedute, la cura minuziosa
dei particolari, la perfezione dei procedimenti amministrativi;
ciò che vi si trova è l'immagine della forza, un po' selvaggia, è
vero, ma piena di potenza, l'immagine della vita, disseminata di
contrarietà, ma anche di movimento e di sforzi" (Scritti
politici, Torino 1968-1969, vol. II, pp. 115-116).
A questa libertà un po' selvaggia ma estremamente vitale, il
seguace dello Stato paternalistico è portato a contrapporre un
modello completamente diverso, caratterizzato da un'autorità
sempre all'erta, che veglia sulla tranquillità del suddito, che
vola davanti ai suoi passi per allontanarne tutti i pericoli, che
gli assicura l'esistenza materiale senza che egli abbia bisogno di
pensarvi. Ma, esclama Tocqueville, che cosa importa tutto ciò, "se
poi questa autorità, nello stesso tempo in cui allontana le più
piccole spine dal mio passaggio, è padrona assoluta della mia
libertà e della mia vita; se monopolizza il movimento e la vita al
punto che, quando essa langue, tutto langue, quando essa dorme,
tutto dorme, quando essa muore, tutto muore?" (ibid., p. 116).
Ma è soprattutto in John S. Mill che rivive nel modo più
suggestivo l'ispirazione individualistica humboldtiana, per il
fortissimo accento da lui posto sul singolo, sulla sua libertà,
sulla sua originalità, e quindi sulla varietà delle personalità
umane e delle loro libere aggregazioni. "La natura umana - dice
Mill - non è una macchina da costruire secondo un modello e da
regolare perché compia esattamente il lavoro assegnatole, ma un
albero, che ha bisogno di nascere e svilupparsi in ogni direzione,
secondo le tendenze delle forze interiori che lo rendono una
creatura vivente" (Saggio sulla libertà, Milano 1981, p.
92). Non è dunque stemperando nell'uniformità tutte le
caratteristiche individuali, ma coltivandole e facendo appello a
esse entro i limiti imposti dai diritti e dagli interessi altrui,
che gli individui diventano nobili esempi di vita. Solo così
l'esistenza umana si arricchisce, si diversifica e si anima,
fornendo maggiore stimolo ai pensieri e ai sentimenti più elevati.
Ma perché la natura di ciascuno abbia la possibilità di
esplicarsi, è essenziale che sia consentito a persone diverse di
condurre vite diverse, secondo la loro vocazione, i loro talenti,
le loro aspirazioni e il loro carattere. Per Mill l'unanimità non
è mai utile (dunque non è un valore), mentre la diversità di
opinioni è sempre altamente auspicabile (dunque è un valore). Gli
uomini infatti non sono infallibili, e quello che credono falso
oggi può dimostrarsi vero domani; inoltre, le loro verità sono per
la maggior parte delle mezze verità, e anche l'opinione erronea
può contenere, e spesso contiene, una parte di verità, che può
emergere solo e soltanto attraverso il confronto tra opinioni
opposte.
6. Liberalismo e democrazia
È appena il caso di avvertire che la ferma difesa
dell'antagonismo, della concorrenza, nonché della varietà e del
dissenso, e la correlativa esaltazione della personalità
individuale, della sua originalità, della sua intima energia
creatrice, che si rafforza solo attraverso il confronto e la
lotta, implicano, nei pensatori liberali, una forte diffidenza nei
confronti dello Stato e la tendenza a ridurne al minimo
indispensabile non solo i poteri ma anche le funzioni. E infatti,
sotto il profilo della riduzione e del controllo dei poteri, i
pensatori liberali teorizzano (come abbiamo visto) lo Stato
limitato; sotto il profilo della riduzione, quanto più ampia
possibile, delle funzioni, essi teorizzano lo Stato minimo (v.
Bobbio, 1986, p. 13).
Il primo e più deciso difensore dello Stato minimo è stato senza
dubbio Humboldt. È significativo che Humboldt abbia apposto come
motto alla propria opera principale (Idee per un saggio sui
limiti dell'attività dello Stato, 1792) un'affermazione di
Mirabeau padre che dice: "Il difficile è di promulgare soltanto
leggi necessarie, di restare sempre fedeli a questo principio
veramente costituzionale della società, di stare in guardia contro
il furore di governare, la più funesta malattia dei governi". Lo
Stato, dunque, deve intervenire il meno possibile nel libero
svolgimento e nella libera crescita della società civile, che ha
in se stessa tante energie, tanto rigoglio e tanta forza da
assicurare senz'altro, nel modo più ampio, quello svolgimento e
quella crescita, i quali possono essere invece solo inceppati e
compromessi dall'intervento della pubblica autorità. Ma
protagonista della società civile è l'individuo. Dunque, più la
sfera d'azione dell'individuo è ampia e libera, e,
correlativamente, più la sfera d'intervento dello Stato è
ristretta, e più il progresso della società è assicurato.
Naturalmente, in questa concezione humboldtiana il fine della
società non è lo Stato, il quale è invece solo lo strumento,
strettamente subordinato alla società, per garantirne lo sviluppo
infinitamente mutevole e vario. Lo Stato è coercizione, la società
è libertà degli individui che la compongono. Perciò l'optimum
sarebbe poter fare a meno dello Stato. Ciò però non è possibile,
perché senza lo Stato le sfere d'azione degli individui, le loro
libertà, entrerebbero in collisione e la convivenza diventerebbe
presto impossibile. Lo Stato è dunque un male necessario (ein
notwendiges Übel), ma occorre fare in modo che sia il male minore,
ovvero che la sua funzione sia mantenuta entro limiti assai
precisi e molto ristretti: garantire la sicurezza sia contro i
nemici esterni sia nel caso di contrasti interni tra i cittadini.
(Ed è appena il caso di ricordare la profonda consonanza fra
queste proposizioni di Humboldt e l'ispirazione di fondo della
Ricchezza delle nazioni di Smith).
Senonché, quelli che Humboldt considerava i possibili vantaggi
dello Stato minimo diventano sempre più problematici per i
pensatori liberali che vivono il passaggio dalla società liberale
alla società democratica.
È soprattutto Tocqueville ad avvertire i grandi pericoli
antiliberali che la società democratica sviluppa nel proprio seno:
da un lato la tirannia della maggioranza e il conformismo di massa
(un nuovo, potente Leviatano), dall'altro lato l'accentramento
politico-amministrativo. Per il primo aspetto, osservato negli
Stati Uniti, Tocqueville rileva che, a mano a mano che i cittadini
divengono più uguali e più simili, la disposizione di ciascuno a
identificarsi nella massa e a credere in essa aumenta, ed è sempre
più l'opinione comune a guidare la società. Il pubblico viene
quindi a godere, presso i popoli democratici, di un singolare
potere: "non fa valere le proprie opinioni attraverso la
persuasione, ma le impone e le fa penetrare negli animi attraverso
una specie di gigantesca pressione dello spirito di tutti
sull'intelligenza di ciascuno", sicché "si può prevedere che la
fede nell'opinione pubblica diverrà come una specie di religione,
di cui la maggioranza sarà il profeta" (op. cit., vol. II, p.
302). Si delinea così il pericolo di un nuovo dispotismo, tanto
più pernicioso in quanto non controlla solo i movimenti e le
azioni esteriori, bensì annichila l'autonomia dello spirito e
isterilisce la creatività dell'intelligenza.
Per il secondo aspetto Tocqueville rileva che su tutti gli Stati
della vecchia Europa (ma il suo sguardo è rivolto soprattutto alla
Francia), quanto più avanza il processo democratico, tanto più
scende la coltre di una legislazione uniforme. È uno sviluppo
indotto dal livellamento sociale egualitario e dagli effetti che
esso produce nella mentalità e nella psicologia degli uomini. Se a
ciò si aggiungono i formidabili problemi creati dalla rivoluzione
industriale, che richiedono un intervento sempre più esteso dei
pubblici poteri nell'economia, non può stupire che la democrazia
finisca col produrre un nuovo Stato paternalistico, in cui il
sovrano si ritiene responsabile delle azioni e del destino di
ciascuno dei suoi sudditi, e perciò opera al fine di guidarli e di
illuminarli nei diversi atti della loro vita e, se occorre, di
farli felici loro malgrado.
Da parte loro, i cittadini considerano sempre più il potere
sovrano da questo stesso punto di vista, lo chiamano continuamente
in aiuto per i loro bisogni, e vedono in esso un precettore o una
guida. "Sostengo - dice Tocqueville - che in tutti i paesi
d'Europa l'amministrazione pubblica non solo è diventata più
centralizzata, ma anche più inquisitiva e più minuziosa; ovunque
essa penetra più profondamente di un tempo negli affari privati;
ovunque regola a suo modo un numero sempre più grande di azioni
sempre più piccole e si insedia, ogni giorno di più, a fianco di
ogni cittadino, intorno a lui e sopra di lui, per assisterlo,
consigliarlo e costringerlo". "Vedo una folla innumerevole -
conclude Tocqueville - di uomini simili e uguali che non fanno che
ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con
cui saziano il loro animo. [...] Al di sopra di costoro si erge un
potere immenso e tutelare, che si incarica da solo di assicurare
loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro sorte. È
assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite" (ibid., pp.
801, 812, 818).
Contro il nuovo Stato paterno che asservisce interamente gli
individui e crea un mostruoso sistema di controllo capillare, di
uniformità intellettuale e morale, di infiacchimento delle
coscienze e di mortificazione della società civile (la quale viene
completamente 'inghiottita' dal potere sovrano), Tocqueville
invoca come rimedio in primo luogo un largo decentramento
amministrativo, sul tipo di quello realizzato in America, che
renda possibile un ampio autogoverno locale. Egli indica poi
nell'associazionismo e nella libertà di stampa due importanti
antidoti al potere onnipervasivo del nuovo Leviatano.
Un'associazione, egli dice, sia essa politica o economica o
letteraria o scientifica, "è come un cittadino illuminato e
potente, che non può essere assoggettato a piacere, né oppresso in
segreto" (ibid., p. 818). La libertà di stampa, a sua volta, è lo
strumento attraverso il quale il singolo può rivolgersi alla
nazione intera, esprimendole le proprie ansie, le proprie
esigenze, i propri ideali, i propri timori.
È l'autonomia della società civile dal potere politico e
burocratico che sta a cuore a Tocqueville; e al tempo stesso gli
stanno a cuore il pluralismo e la ricca articolazione della
società civile medesima, che permettono all'individuo di vivere in
un quadro di vera e piena libertà. In questo modo è possibile
neutralizzare i pericoli insiti nella democrazia, e quest'ultima
può coniugarsi col liberalismo.
Ma il pensatore liberale che ha espresso nel modo più suggestivo
l'incontro fra liberalismo e democrazia è stato probabilmente John
S. Mill. Anche Mill è ben consapevole dei pericoli, messi in
rilievo da Tocqueville (di cui fu ammiratore), che la società
democratica cova nel proprio seno contro lo spirito e la prassi
liberali; ma, a differenza di Tocqueville, Mill non provò una
sorta di "terrore religioso" verso quella società, e si mostrò
fiducioso che fosse possibile superare gli inconvenienti della
democrazia.Il fatto è che nella riflessione di Mill confluisce
tutta la ricca e complessa vicenda politica inglese
dell'Ottocento, a partire dalla grande battaglia per la riforma
elettorale. Già alla fine del Settecento la rivoluzione
industriale aveva creato in Inghilterra un vasto ceto
manifatturiero, che era del tutto escluso dall'assetto politico.
L'aristocrazia terriera monopolizzava non solo la Camera dei Lord,
ma anche quella dei Comuni, i cui rappresentanti erano nominati,
nella loro grande maggioranza, da collegi interamente soggetti ai
grandi proprietari. "Di fronte a contee e a borghi formati da
poche decine di elettori, dipendenti da un padrone e votanti
pubblicamente, sotto il controllo di questo, v'erano i nuovi ceti
industriali, o affatto privi di rappresentanze, o forniti di
rappresentanze privilegiate, a guida degli altri collegi: il che
rendeva anche più stridente il contrasto tra le forze effettive e
i pochi possessori dei diritti politici" (v. De Ruggiero, 1962,
pp. 92-93).
Nell'aspra battaglia che fu ingaggiata per la riforma elettorale
ebbero un ruolo fondamentale i seguaci di Bentham: nel 1823 James
Mill (padre di John Stuart) e i suoi amici fondarono la
"Westminster review", per esporre e diffondere le loro vedute. Il
loro obiettivo essenziale era la riforma del sistema politico
inglese, sulla base di una più autentica rappresentanza popolare.
Essi promossero una forte agitazione politica, che si diffuse in
tutto il paese e portò presto i suoi frutti: nel 1824 e nel 1825
furono tolti i divieti delle coalizioni operaie; nel 1829 fu
votata dal Parlamento l'emancipazione dei cattolici, nel 1832 fu
realizzata la grande riforma elettorale, che era, certo, frutto di
un compromesso, e come tale lasciava insoddisfatti i radicali (i
quali continueranno a battersi per una riforma più incisiva,
basata sul suffragio universale), ma che poneva le premesse
indispensabili per svolgimenti ulteriori (ibid., pp. 101-102).
Tutti gli umori di questa grande vicenda (che è la vicenda del
passaggio della società inglese da un assetto liberale ad assetti
sempre più vicini alla liberaldemocrazia) si ritrovano, come
abbiamo detto, nell'opera di John S. Mill. Il quale è fermamente
convinto che la miglior forma di governo sia quella che investe
della sovranità l'intera comunità, e in cui ciascun cittadino è
chiamato, di quando in quando, a prendere parte effettiva al
governo con l'esercizio di qualche funzione pubblica locale o
generale. In particolare, la superiorità dello Stato
democratico-rappresentativo riposa, secondo Mill, su due principî
fondamentali. Il primo principio è che i diritti o gli interessi
di chicchessia hanno la sicurezza di non essere mai trascurati
solo là dove gli interessati posseggano essi stessi la forza di
difenderli; il secondo principio è che la prosperità della cosa
pubblica tanto più aumenta, quanto più le capacità politiche
individuali (di tutti gli individui, o della maggior parte di
essi) abbiano modo di svilupparsi. Ne consegue che lo Stato
democratico-rappresentativo deve sollecitare il maggior numero di
persone a partecipare al governo.
Sulla base di questi principî Mill è non solo un difensore del
suffragio più esteso possibile (ne esclude gli analfabeti e coloro
che vivono dell'elemosina delle parrocchie), ma anche un convinto
proporzionalista. Una maggioranza di elettori, egli afferma,
dovrebbe sempre avere una maggioranza di rappresentanti, e una
minoranza di elettori dovrebbe sempre avere una minoranza di
rappresentanti. Là dove le minoranze non sono rappresentate, i
loro diritti sono inevitabilmente disconosciuti e i loro interessi
conculcati.Il pensiero liberale del Novecento considera ormai come
un dato acquisito che la democrazia debba essere considerata come
il naturale sviluppo dello Stato liberale (se la si prende,
beninteso, non dal lato del suo ideale sociale egualitario, bensì
dal lato della sua formula politica, che è la sovranità popolare;
v. Bobbio, 1986, p. 30).
Come ebbe a osservare acutamente De Ruggiero, "non appena il
liberalismo sorpassa lo stadio feudale e ripudia il concetto della
libertà come privilegio o monopolio tradizionale di pochi, per
assumere quello di una libertà come diritto comune, almeno
potenzialmente, a tutti, esso è già sulla stessa strada della
democrazia". Certo, storicamente questo passaggio è stato
tutt'altro che facile e tutt'altro che indolore, per le resistenze
opposte dai ceti e dagli ambienti più conservatori (basti pensare
agli sforzi che sono stati necessari, in alcuni paesi d'Europa,
per l'allargamento del suffragio). E tuttavia, una volta aboliti
privilegi e monopoli, una rigida divisione di ambiti tra
liberalismo e democrazia non è più possibile, e anzi il loro
territorio è comune. E infatti essi hanno finito col coincidere
nella concezione formale dello Stato, fondata sul riconoscimento
dei diritti individuali e della capacità del popolo a governarsi
da sé. "L'estensione democratica dei principî liberali - ha
affermato ancora De Ruggiero - ha avuto il suo pratico complemento
con la concessione dei diritti politici a tutti i cittadini e con
la immissione degli strati più bassi della società nello Stato; e
l'assimilazione ha potuto effettuarsi senza modificare
essenzialmente la struttura politica e giuridica delle istituzioni
liberali, confermando così l'unità dei principî" (v. De Ruggiero,
1962, pp. 357-359).
E tuttavia - come ha rilevato lo stesso Autore - fra i concetti di
liberalismo e di democrazia (e fra le due realtà e le due culture
che essi sottendono) c'è una differenza profonda di mentalità
politica, che dà luogo a seri e durevoli conflitti sul terreno
della pratica. "Innanzi tutto, vi è nella democrazia una forte
accentuazione dell'elemento collettivo, sociale, della vita
politica, a spese di quello individuale" (ibid., p. 359). Tale
elemento collettivo si rafforza nella società industriale, che
vede un doppio accentramento, capitalistico e operaio, il quale
annega nell'organizzazione di categoria - sia essa il trust o il
sindacato - le iniziative spontanee e autonome. "Questi
convergenti impulsi - aggiungeva De Ruggiero - hanno servito a
capovolgere gradualmente l'originario rapporto che la mentalità
liberale aveva istituito fra l'individuo e la società: non è la
cooperazione spontanea delle energie individuali che crea il
carattere e il valore dell'insieme, ma è questo che determina e
foggia i suoi elementi. [...] Il logico sviluppo di siffatta
tendenza porta non soltanto a disconoscere l'efficacia formatrice
della libertà, ma anche a comprimerla e a deprimerla" (ibid.).
Inoltre, c'è una sostanziale differenza di atteggiamento, fra
liberalismo e democrazia, verso le decisioni della maggioranza.
Come ha osservato Friedrich von Hayek, dal punto di vista del
liberale è necessario che solo quanto è accettato dalla
maggioranza diventi legge, ma non è da credere che ciò basti a
renderla una buona legge; dal punto di vista del democratico,
invece, il solo fatto che la maggioranza voglia qualcosa è
sufficiente per considerare buono ciò che essa vuole.Ancora: per
il liberale è indispensabile, in primo luogo, che la maggioranza
osservi determinati principî e determinate regole; e, in secondo
luogo, che il processo di formazione della maggioranza sia
indipendente e spontaneo. Ciò però presuppone l'esistenza di vaste
sfere libere dal controllo della maggioranza medesima, entro le
quali si formano le opinioni individuali. Il democratico, invece,
è portato, per mentalità e per cultura, a sottovalutare queste
esigenze, fondamentali per il liberale (cfr. F. von Hayek, The
constitution of liberty, Chicago 1960; tr. it., La società libera,
Firenze 1969, pp. 127-133). E, insomma, "ci sono delle libertà che
esorbitano dalla sensibilità della democrazia, così come ci sono
delle eguaglianze che non sono apprezzate dal liberalismo" (v.
Sartori, 1958², p. 238).
7. Liberalismo ed eguaglianza
La discussione del rapporto che intercorre fra liberalismo e
democrazia ci porta dunque a discutere il rapporto fra liberalismo
ed eguaglianza. Si tratta di un problema assai delicato, perché
nelle moderne società democratiche è sempre viva l'aspirazione
all'eguaglianza sociale, variamente recepita da partiti politici e
da organizzazioni sindacali (sempre più potenti in una società
democratico-industriale). Senonché, come ha osservato Bobbio in
modo perentorio (ma qui la perentorietà va a tutto vantaggio della
chiarezza), "libertà ed eguaglianza sono valori antitetici, nel
senso che non si può attuare pienamente l'uno senza limitare
fortemente l'altro: una società liberal-liberista è
inevitabilmente inegualitaria così come una società egualitaria è
inevitabilmente illiberale". E mentre per il liberale il fine
principale della società è l'espansione della personalità
individuale - anche se lo sviluppo della personalità più ricca e
dotata può andare a detrimento dello sviluppo della personalità
più povera e meno dotata - per l'egualitario il fine principale è
lo sviluppo della comunità nel suo insieme, anche a costo di
diminuire la sfera di libertà dei singoli (v. Bobbio, 1986, p.
27).
Sul rapporto libertà-eguaglianza c'è una vastissima letteratura,
corrispondente all'intenso dibattito svoltosi su questo tema nel
nostro secolo, e in questa sede non è certo possibile riassumerlo.
Qui basti dire che il pensiero liberale più coerente e più maturo
ha sempre respinto la svalutazione della libertà civile e politica
a favore dell'eguaglianza sociale. La libertà civile e politica è
stata considerata sempre fondamentale dai liberali, perché senza
di essa c'è solo il regime del privilegio insieme a quello
dell'arbitrio (come i regimi totalitari hanno mostrato nel modo
più convincente e più terribile), e quindi senza libertà civile e
politica non possono essere raggiunte nemmeno quelle libertà
sociali che stanno giustamente a cuore anche al liberalismo più
avanzato. Senza libertà civile e politica, insomma, non ci può
essere nemmeno giustizia sociale (la quale è sempre il risultato
di una dialettica politica in cui devono avere libero gioco i
partiti, i sindacati, i movimenti d'opinione, ecc.).
A ciò si può aggiungere che lo stesso ideale fatto proprio da
diversi filoni del pensiero liberale contemporaneo, che siano
assicurate a tutti le stesse opportunità, è un'esigenza che ha un
senso solo in una società integralmente libera: ovvero in una
società in cui gli individui possano affermare le proprie
potenzialità in tutti i campi (economico, professionale,
culturale, politico) senza incontrare vincoli e condizionamenti,
senza trovare limitazioni e ostacoli.Problemi assai delicati
nascono, per il pensiero liberale, dall'esigenza di assicurare
alla collettività determinati servizi e determinate provvidenze
(quali sono assicurate oggi dal cosiddetto 'Stato del benessere'),
poiché ciò implica una forte ridistribuzione della ricchezza e un
ampio intervento dello Stato in molti settori della vita sociale,
cioè implica l'esercizio di una serie di poteri e l'adozione di
una serie di misure da parte del governo, che vengono sentiti da
molti liberali come una seria minaccia (si pensi, a questo
proposito, alle analisi di von Hayek). A dire il vero, ben pochi
liberali hanno contestato, in passato, le esigenze e le finalità
del cosiddetto Stato del benessere (Welfare State). Su questo
punto si è registrata una sostanziale convergenza fra liberali e
democratici, o addirittura fra liberali e socialisti.
Come ebbe a rilevare Luigi Einaudi (op. cit., pp. 211-212), "su
taluna maniera di porre rimedio alla disuguaglianza nei punti di
partenza vi ha sostanziale concordia fra liberali e socialisti ed
è per quel che riguarda l'apprestamento - a spese di tutti, e cioè
dei contribuenti, ossia, formalmente, dello Stato, degli enti
pubblici e delle varie specie di opere di bene, coattive o
volontarie - di mezzi di studio, di tirocinio e di educazione
aperti a tutti. [...] Ad uguale sentenza si giunge rispetto a quei
provvedimenti intesi ad instaurare parità di punti di partenza tra
uomo e uomo con le varie specie di assicurazioni sociali: contro
la vecchiaia e la invalidità, contro le malattie, a favore della
maternità, contro la disoccupazione e simiglianti".
E anche uno scrittore liberale come von Hayek, noto per le sue
posizioni contrarie allo Stato-Provvidenza, dopo aver rilevato che
"tutti gli Stati moderni hanno adottato provvedimenti per gli
indigenti, gli sfortunati, gli invalidi, e si sono preoccupati dei
problemi sanitari e della diffusione della scienza", ha affermato
che "non c'è ragione che, con il generale aumento della ricchezza,
non aumenti anche il volume di queste attività di puri e semplici
servizi", e che è impossibile negare che, quanto più ci
arricchiamo, tanto più dovrà aumentare il ruolo dello Stato nel
settore delle assicurazioni sociali e dell'educazione (op. cit.,
pp. 291-292).
La differenza, semmai, fra liberali e democratici, e fra liberali
e socialisti, sorge sui modi e sui criteri di applicazione di tali
provvedimenti. Poiché mentre i primi (come dice Einaudi) sono più
attenti ai meriti e agli sforzi della persona, e quindi sono
propensi a mantenersi stretti nell'ammontare dei sussidi, i
secondi, invece, sono pronti a maggiori larghezze. E, più in
generale, mentre il liberale "vuole porre le norme, osservando le
quali risparmiatori, imprenditori, lavoratori possono liberamente
operare", il socialista, invece, "vuole soprattutto dare un
indirizzo, una direttiva all'opera dei risparmiatori, proprietari,
imprenditori e lavoratori anzidetti. Il liberale pone la cornice,
traccia i limiti dell'operare economico; il socialista indica od
ordina le maniere dell'operare" (cfr. Einaudi, op. cit., pp.
213-218).
E von Hayek, a sua volta, traccia quella che egli ritiene
un'importante distinzione tra due diversi modi di concepire la
sicurezza: "C'è una limitata sicurezza che può essere realizzata
per tutti e che pertanto non è un privilegio, e una sicurezza
assoluta, che, in una società libera, non può essere garantita a
tutti. La prima è la sicurezza contro le privazioni fisiche gravi,
la certezza di un minimo di mezzi di sussistenza per tutti; la
seconda è la certezza di un dato livello di vita, che si determina
mettendo a confronto il livello di vita di cui godono gli uni con
quello di cui godono gli altri. La distinzione da fare, quindi, è
tra la sicurezza di un reddito minimo uguale per tutti e la
sicurezza di un particolare reddito che si ritiene una persona
dovrebbe avere" (op. cit., pp. 293-294).
Da questa impostazione risulta escluso, naturalmente, qualunque
modello di giustizia distributiva. Per il liberale, infatti, da un
lato non esistono principî generali di giustizia distributiva
universalmente riconosciuti, e, dall'altro lato, anche se fosse
possibile raggiungere un accordo su di essi, non li si potrebbe
imporre a una società in cui gli individui debbono essere liberi
di impiegare le loro capacità e le loro cognizioni per il
conseguimento di fini privati. Imporre alla società una gerarchia
di fini - ha affermato von Hayek - equivarrebbe a chiedere agli
individui di fare ciò che è necessario nella prospettiva di un
programma autoritario: cioè significherebbe realizzare un modello
che è esattamente l'opposto della società liberale.
Inoltre il liberale auspica (per usare di nuovo le parole di von
Hayek) che nell'attuazione dei servizi e delle assicurazioni
sociali venga lasciata aperta la possibilità di un intervento per
l'iniziativa privata ogni qualvolta ciò appaia concretamente
fattibile; che tali servizi siano gestiti, finché è possibile,
dalle autorità locali, anziché da quelle centrali; e che infine la
maggior parte dei servizi di previdenza sociale siano forniti
mediante la creazione di istituti assicurativi concorrenziali, al
fine di evitare il monopolio di un'unica macchina burocratica
sempre più vasta e potente, il cui controllo da parte della
collettività è assai problematico, mentre i danni che essa arreca
agli interessi e alla libertà dei cittadini sono sicuri. "Invece -
ha aggiunto von Hayek - la decisione di fare dell'intero campo
delle assicurazioni sociali un monopolio statale, nonché quella di
trasformare l'apparato costruito a tale scopo in un grande
meccanismo di ridistribuzione del reddito, hanno condotto a una
crescita progressiva del settore pubblico dell'economia (ossia del
settore controllato dallo Stato) e a un costante restringimento di
quell'area dell'economia in cui ancora prevalgono i principî
liberali" (v. Hayek, 1978, pp. 990-991).
8. Liberalismo e liberismo
Nel Novecento i pensatori liberali sono diventati sempre più
sensibili alla connessione fra istituzioni e mentalità liberali da
un lato e contesti socioeconomici dall'altro lato. Se nel corso
dell'Ottocento le preoccupazioni espresse in questa direzione dal
pensiero liberale si erano concentrate sui pericoli di
massificazione, di conformismo generale, di tirannide della
maggioranza, insiti nel passaggio dalla società liberale alla
società liberaldemocratica, nel nostro secolo, invece, esse si
sono concentrate soprattutto sulle trasformazioni che l'economia e
la società civile subiscono o potranno subire a opera dei
cartelli, dei trusts e dei monopoli da un lato, e dei movimenti
socialisti e comunisti dall'altro lato. Le istituzioni liberali
potranno o no sopravvivere a limitazioni sempre più consistenti
della libertà di intrapresa, di commercio, di iniziativa
individuale? E inoltre, la società socialista (che nella prima
metà del nostro secolo costituiva l'ideale sociale e politico di
grandi partiti politici e di grandi movimenti d'opinione in
numerosi paesi) è compatibile o no col liberalismo? Questi
interrogativi si sono imposti con forza ai pensatori liberali, e
nel nostro paese essi hanno suscitato una vivace e vigorosa
discussione fra Luigi Einaudi e Benedetto Croce.
Croce aveva affermato che se il comunismo avesse avuto ragione nel
ritenere che l'ordinamento capitalistico ha come effetto di
danneggiare e scemare la produzione della ricchezza, il
liberalismo non avrebbe potuto se non approvare e invocare per suo
conto l'abolizione della proprietà privata, poiché "l'idea
liberale può avere un legame contingente e transitorio, ma non ha
nessun legame necessario e perpetuo con la proprietà privata della
terra e delle industrie". Il promovimento della libertà, aveva
detto ancora Croce, è l'unico criterio con cui l'idea liberale
misura istituti politici e ordinamenti economici, in rapporto alle
varie situazioni storiche, a volta a volta accettandoli o
respingendoli secondo che quegli istituti serbino o perdano
efficacia per il suo fine. Del resto, precisava il filosofo
napoletano, "l'ideale liberale ha natura religiosa", e solo
muovendo dalla libertà come esigenza morale è dato interpretare la
storia nella quale questa esigenza si è affermata e ha creato di
volta in volta le proprie istituzioni secondo che di volta in
volta è stato possibile nelle varie epoche: "come monarchie
feudali e come repubbliche comunali, come monarchie assolute e
come monarchie costituzionali, e via dicendo, e anche come vario
ordinamento della proprietà nell'economia a schiavi, a servi e a
salariati, nella massima del lasciar fare e lasciar passare, e
nell'altra, diversa, dell'intervento statale, e via" (cfr. B.
Croce e L. Einaudi, Liberismo e liberalismo, a cura di P.
Solari, Napoli 1957, pp. 134-135).
A queste posizioni di Croce (che coincidevano largamente, su
questo punto, con quelle di Kelsen), Einaudi obiettò, in primo
luogo, che un liberalismo il quale accettasse l'abolizione della
proprietà privata e l'instaurazione del comunismo, in ragione di
una sua ipotetica maggiore produttività di beni materiali, non
sarebbe più liberalismo, e che l'essenza di quest'ultimo, che è la
libertà, non può sopravvivere là dove la società civile è
interamente dominata e plasmata dallo Stato (ibid., p. 128).
Inoltre, a Einaudi non sembrava accettabile "la tesi che la
libertà possa affermarsi qualunque sia l'ordinamento economico e
anche nell'economia a schiavi o a servi". In realtà, egli
ribatteva, "l'idea liberale trionfa e si perfeziona non con l'uso
dello strumento della schiavitù, bensì col negarlo e collo
sforzarsi di spezzarlo e di sostituirlo con altro più congruo" (p.
136).
In particolare, a Einaudi sembrava che nel mondo contemporaneo
due sistemi economici, diversissimi fra loro nei presupposti ma
assai simili nei risultati, negassero in eguale misura la libertà
umana: il comunismo e il capitalismo monopolistico. Tali sistemi,
diceva Einaudi, "tendono, per l'indole loro propria, a ridurre gli
uomini a meri strumenti, anelli minimi di una ferrea catena che
lavora e produce", "a imprimere uno stampo uniforme su tutti gli
uomini, a farli svegliare, muovere, entrare in certi luoghi di
lavoro, che si direbbe di pena, alla stessa ora, a compiere i
medesimi atti". Ma se questo era vero, perché affermare che la
libertà morale può prosperare in qualunque ordinamento economico?
"Se la filosofia indaga la realtà, perché chiudere gli occhi al
fatto che in certi ordinamenti economici la libertà è
l'appannaggio di pochissimi eroi o ribelli?" (p.144).
Per questo, secondo Einaudi, gli economisti neoliberali non
potevano accettare l'atteggiamento di quasi indifferenza con cui
Croce guardava ai mezzi economici (liberismo, protezionismo,
monopolismo, economia regolata e razionalizzata, autarchia
economica, ecc.), ciascuno dei quali poteva, a giudizio del
filosofo napoletano, essere adottato o rigettato a seconda delle
varie situazioni storiche. Era vero, invece, che il liberalismo ha
come base il liberismo, inteso come iniziativa individuale,
operosità, libera concorrenza come selezione di capacità e via
dicendo. "Cadendo nel protezionismo, nel parassitismo di industrie
e di lavoratori verso lo Stato, ecc. - concludeva Einaudi - ci si
avvia a negare anche il liberalismo nel suo valore più
schiettamente politico e morale" (p. 158).
Oggi lo stretto rapporto che intercorre fra liberalismo e contesti
socioeconomici è un dato fermamente acquisito dal più maturo
pensiero liberale, e posizioni come quelle sostenute da John Dewey
negli anni trenta (gli anni della grande depressione) - che il
liberalismo dovesse abbandonare ogni mentalità liberistica e
costruirsi strumenti ideali e politici di tutt'altro tipo, fino a
far propria l'idea della socializzazione delle forze produttive e
correlativa pianificazione dell'economia (Liberalism and social
action, New York 1935) - sarebbero del tutto improponibili.
Chi si è impegnato di più a lumeggiare e a discutere il rapporto
fra liberalismo e contesti socioeconomici è stato, dopo L. von
Mises, Friedrich von Hayek. In pagine assai importanti egli ha
messo in rilievo la profonda connessione esistente fra la sfera
intellettuale e scientifica - in cui il progresso delle conoscenze
ha luogo in modi e secondo itinerari assolutamente imprevedibili,
essendo il risultato di una combinazione di concetti, di scoperte
e di circostanze estremamente vari, a volte addirittura fortuiti,
e appartenenti sempre ai più vari campi del sapere -e la sfera
socioeconomica. "La libertà d'azione, anche nelle cose umili, -
dice Hayek - è tanto importante quanto la libertà di pensiero. È
diventato d'uso comune svilire la libertà d'azione chiamandola
'libertà economica'. Ma il concetto di libertà d'azione è molto
più ampio di quello di libertà economica, che vi è ricompreso, e -
cosa ancor più importante - è discutibile che esistano mere azioni
'economiche' e che possano applicarsi restrizioni alla libertà
limitatamente ai cosiddetti aspetti puramente 'economici"'.
In realtà, secondo Hayek, esaltare il valore della libertà
intellettuale a detrimento della libertà sociale equivale a
considerare il cornicione da solo come se fosse tutto l'edificio.
Tale punto di vista non comprende che abbiamo idee nuove da
discutere e visuali diverse da confrontare, ed eventualmente da
adattare e da combinare fra loro, solo perché quelle idee e quelle
visuali sono nate dagli sforzi fatti in tutte le nuove circostanze
dagli individui che nei loro compiti concreti hanno sperimentato
nuovi metodi e nuovi strumenti (The constitution of liberty, cit.;
tr. it., pp. 54-55). Proprio per questo la società deve essere
integralmente libera (e quindi estremamente varia) a tutti i
livelli, socioeconomici e intellettuali. (Sul pensiero di Hayek ha
esercitato un influsso profondo la Inquiry di Smith, da lui
ritenuta "in misura forse maggiore di qualsiasi altra opera,
l'inizio del pensiero liberale moderno").
9. Le sfide del XX secolo
Nel nostro secolo il liberalismo ha dovuto misurarsi con profondi
mutamenti economici, sociali e politici, e ha dovuto sostenere
grandi sfide. L'ulteriore balzo in avanti dell'industrializzazione
(fondata sul motore a scoppio e sulle macchine elettriche), la
vastissima urbanizzazione e l'avvento della società di massa (nel
1910 Londra e New York avevano ormai più di cinque milioni di
abitanti, Parigi circa tre, Vienna due, Berlino quasi quattro
milioni) hanno prodotto forti inquietudini sociali e politiche e
creato un clima non favorevole al liberalismo. "Queste masse di
salariati e di stipendiati - ha scritto G. Lichtheim - non
potevano accontentarsi delle vedute individualistiche tipiche
della borghesia europea nella sua fase creativa; erano attratte
dai nuovi slogan: da una parte il nazionalismo, dall'altra il
socialismo" (Europe in the twentieth century, London 1972; tr.
it., Roma-Bari 1973, p. 38). Il processo di 'massificazione' (che
è stato analizzato da un'ampia letteratura), con i suoi
stereotipi, il suo conformismo, la sua burocratizzazione, ecc.,
non poteva non mettere in discussione i fondamenti della mentalità
e della cultura liberali (come Tocqueville aveva previsto).
A ciò bisogna aggiungere che dopo il decennio 18701880, in cui il liberalismo europeo aveva raggiunto il proprio apice, incominciò a imporsi sempre più una politica di protezionismo e di interventi statali. Tali interventi venivano chiesti dai socialisti in nome del movimento operaio, dai nazionalisti a sostegno delle loro rivendicazioni, e dalle associazioni industriali e finanziarie. "Tutti quanti contribuivano a spingere l'intervento dello Stato oltre il punto considerato accettabile dalla dottrina liberale classica, che assegnava alle autorità pubbliche una funzione regolatrice soltanto nei confronti di quelle attività che esorbitavano chiaramente dalle capacità dei privati" (ibid., p. 39).Ma gli avvenimenti più sconvolgenti del nostro secolo sono stati il sorgere e il consolidarsi dei grandi regimi totalitari: del comunismo bolscevico in Russia, del fascismo in Italia, del nazionalsocialismo in Germania. I liberali hanno dovuto confrontarsi in primo luogo con queste realtà epocali e drammatiche, e nella battaglia contro la 'società chiusa' dei totalitarismi hanno difeso i principî e le ragioni della 'società aperta', ovvero della società liberaldemocratica, ritrovando in tale battaglia una più profonda fiducia in se stessi e nella superiorità dei propri ideali.
La società aperta e i suoi nemici è appunto il titolo
di una celebre opera di K. Popper pubblicata nel 1945 (scritta
quindi negli anni bui della seconda guerra mondiale). Per Popper
la 'società aperta' è una società fondata sul razionalismo critico
o scientifico; e come in campo scientifico non esiste una teoria
assolutamente vera (poiché ogni teoria sarà sostituita prima o poi
da un'altra teoria, più soddisfacente e adeguata), così in campo
sociale e politico non esiste un assetto perfetto e definitivo.
Ogni assetto istituzionale è sempre rivedibile e migliorabile. Ma
se una società perfetta non può esistere, non può esserci nemmeno
un intervento politico risolutivo di tutti i problemi sociali. Gli
interventi per modificare la società devono essere quindi sempre
parziali, graduali, per migliorare questa o quella situazione: non
possono essere utopistici e olistici. In questo quadro di
ingegneria sociale (l'unico possibile) la discussione e il
confronto fra posizioni e soluzioni diverse (a tutti i livelli:
dai partiti ai sindacati, ai giornali, al parlamento) sono
essenziali e fondamentali. Il pluralismo culturale e politico deve
dunque essere garantito e istituzionalizzato, e il momento del
dissenso è, in fondo, ancora più prezioso di quello del consenso.
La 'società aperta' (contrapposta a qualunque tipo di società
teocratica, o comunque fondata su valori indiscutibili) è l'unico
tipo di società in grado di dare adeguata soluzione ai conflitti
sociali e di assicurare un reale, anche se graduale, progresso
della società civile.
L'enorme superiorità dei regimi costituzional-pluralistici sui
regimi autoritari o totalitari, non solo 'di destra' ma anche 'di
sinistra', è stata sostenuta con vigore anche da quei pensatori
liberali che, come Raymond Aron, si sono ispirati, nelle loro
analisi, alle teorie elitistiche. Ogni regime politico, ha
affermato Aron, è oligarchico, poiché tutte le società - per lo
meno tutte le società complesse - sono governate da un piccolo
numero di uomini. A questa sorte non sfuggono nemmeno le società
liberaldemocratiche. "La sovranità popolare - ha detto Aron - non
significa che la massa dei cittadini prenda essa stessa,
direttamente, le decisioni relative alle finanze pubbliche o alla
politica estera. È assurdo paragonare i regimi democratici moderni
all'idea irrealizzabile di un regime in cui il popolo si governi
da sé" (Démocratie et totalitarisme, Paris 1965; tr. it.,
Milano 1973, p. 111).
Detto questo, però, Aron ha messo in rilievo la profonda
trasformazione che i regimi costituzional-pluralistici hanno
subito nel passaggio dalla fase liberale alla fase
liberaldemocratica. Nel XIX secolo, in Gran Bretagna e in Francia,
era difficile penetrare nella minoranza governativa quando non si
era dalla parte buona della barricata, a meno che non ci fosse una
rivoluzione. Il quadro è poi profondamente mutato: oggi le
minoranze dirigenti sono molto più aperte di quanto fossero nel
secolo scorso, per ragioni che dipendono anche dalla struttura
delle società industriali. Infatti, quanto più il sistema di
istruzione si allarga, quanto più aumentano le possibilità di
selezione e di ascesa sociale, tanto più il regime politico
diventa democratico. E non solo i regimi
costituzional-pluralistici sono meno oligarchici di tutti i regimi
conosciuti finora, ma in essi, anche se le minoranze
economicamente dominanti sono sempre legate in certa misura agli
ambienti politici dirigenti, il potere politico è separato dal
potere economico. Coloro che esercitano le funzioni politiche più
importanti non sono gli stessi che detengono le posizioni
economiche più importanti.
Questo dualismo di élite economica e di personale politico ha,
per Aron, una grande rilevanza, perché comporta una divisione del
potere, e quindi lascia al cittadino margini di libertà più ampi
rispetto ai regimi nei quali potere socioeconomico e potere
politico sono concentrati nelle stesse mani (come è avvenuto negli
Stati totalitari comunisti).
Inoltre, la difesa che Aron ha fatto dei regimi
costituzional-pluralistici non si fonda soltanto sulla
constatazione del maggior benessere e delle maggiori chances
sociali che essi assicurano, ma anche su alcuni valori o principî
che essi realizzano: la libertà e la legalità. "I regimi
pluripartitici - ha detto infatti Aron - derivano dai regimi
costituzionali o liberali, e vogliono mantenere i valori del
liberalismo nell'ambito di una politica divenuta democratica. Il
potere dev'essere esercitato in conformità di precise norme, i
diritti degli individui devono essere rispettati, e i governanti
devono avere abbastanza autorità per poter agire in maniera
efficace" (ibid., p. 89).
Nella riflessione di Aron, dunque, fra liberalismo e democrazia
scompare ogni tensione, ed essi sono concepiti come assolutamente
complementari, perché solo la democrazia può assicurare benessere
e un'ampia selezione sociale delle élites dirigenti, e solo il
liberalismo può garantire che tutto ciò avvenga in un quadro di
rigoroso rispetto delle norme e dei diritti individuali.Le società
liberaldemocratiche hanno ampiamente vinto il confronto con il
mondo comunista, assai prima che questo crollasse come di
schianto. A partire dal 1956 (l'anno della denuncia, fatta da
Chruščëv, dello stalinismo, e della rivoluzione ungherese) è
apparso sempre più chiaro a tutti che la società sovietica e le
società dei paesi satelliti erano caratterizzate da un lato dal
dominio di apparati burocratici fondato sul terrore poliziesco e
sulla negazione di tutti i diritti civili e politici dei
cittadini, e dall'altro lato da un'estrema penuria di beni
materiali. Le società liberaldemocratiche, al contrario, non solo
si sono mostrate capaci di garantire i diritti civili e politici
dei cittadini, ma sono diventate società sempre più ricche. Questo
però non ha eliminato in tali società gravi questioni sociali,
dovute all'esistenza di larghe fasce di povertà e di
disoccupazione; di qui molti e seri problemi relativi
all'esercizio della cittadinanza nel senso pieno della parola.
Su questi problemi si è svolto negli ultimi decenni, e continua a
svolgersi, un intenso dibattito nel pensiero etico-politico di
ispirazione liberale, con esiti e soluzioni, però, radicalmente
diversi tra loro. Così, John Rawls (A theory of justice,
Cambridge, Mass., 1971) ha espresso preoccupazioni di giustizia
sociale, ed è partito nella sua riflessione da due principî: il
primo di ispirazione liberale ("ciascun individuo possiede un
eguale diritto a una libertà di base la più estesa possibile,
compatibile con altrettanta libertà per gli altri"), il secondo
ispirato da ideali di giustizia distributiva ("le disuguaglianze
sociali ed economiche debbono essere strutturate in modo tale da
essere: a) volte al vantaggio dei meno favoriti e b) connesse a
posizioni e cariche accessibili a tutti in condizioni di equa
eguaglianza di opportunità"); R. Nozick, invece, ha teorizzato lo
'Stato minimo', e, interessato soltanto alla giustizia
commutativa, fondata sui contratti fra privati (la cui tutela è
l'unico compito dello Stato), ha criticato aspramente qualunque
forma di giustizia distributiva, fino ad affermare che "la
tassazione dei guadagni di lavoro è sullo stesso piano del lavoro
forzato" (Anarchy, State and utopia, New York 1974).
Le posizioni di Rawls e di Nozick incarnano due ispirazioni
radicalmente differenti (Nozick è convinto che una società è tanto
più ricca e più libera quanto più è ridotto il ruolo dello Stato),
e attestano una profonda lacerazione nel pensiero liberale degli
ultimi decenni del nostro secolo.
Una lacerazione destinata probabilmente ad aggravarsi con la crisi dello 'Stato del benessere' manifestatasi in diversi paesi e con la necessità sempre più evidente di ridimensionare, a causa dei loro costi eccessivi, le garanzie e le protezioni che quello Stato assicura.