Leibniz, Gottfried Wilhelm von
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Dizionario di filosofia (2009)
Filosofo e scienziato (Lipsia 1646 - Hannover 1716).
La vita e l’opera: il sogno di una scienza e di una ‘Res publica’
universali.
Dopo aver studiato filosofia a Lipsia, matematica a Jena e diritto a
Altdorf, entrato in rapporto con i Rosacroce conobbe Johann
Christian barone di Boineburg: gli incarichi che ebbe da questo gli
permisero di entrare in contatto, a Parigi, con le più spiccate
personalità della scienza e della filosofia del tempo. Morto
Boineburg, passò (1673) a Londra, dove conobbe vari scienziati, tra
cui Newton. Dal 1676 fu consigliere e bibliotecario del duca di
Hannover. Il nuovo ufficio, che avrebbe ricoperto sino alla morte,
gli consentiva di attendere a studi storici (tra cui una storia
della casata di Brunswick) e a questioni giuridiche, politiche e
religiose (tra cui quella della progettata riconciliazione tra la
Chiesa cattolica e le Chiese riformate, che lo portò a entrare in
trattative con Bossuet).
Seguì il periodo della maggiore produzione scientifica e filosofica;
tra i suoi scritti vanno ricordati: Meditationes de cognitione,
veritate et ideis (1684); Discours de métaphysique
(1685; trad. it. Discorso di metafisica); Sur la question, si
l’essence du corps consiste dans l’étendu (1691); Système
nouveau de la nature et de la communication des substances
(1695; seguito da vari Éclaircissements tra il 1696 e il 1712); Considérations
sur la doctrine d’un esprit universel (1702); Nouveaux
essais sur l’entendement humain (1704; trad. it. Nuovi saggi
sull’intelletto umano); Essais de théodicée (1710; trad. it.
Saggi di teodicea); Monadologie (1714; trad. it. La
monadologia); Principes de la nature et de la grâce (1714;
trad. it. Principi della natura e della grazia fondati sulla
ragione); grandissima importanza scientifica ha inoltre
l’epistolario.
Nel tempo stesso in cui componeva queste opere e portava importanti
contributi alla soluzione di problemi scientifici e matematici, L.
attendeva a vasti lavori di erudizione storica (fra essi, Codex
iuris gentium diplomaticus, 1693; Scriptores rerum
Brunsvicensium illustrationi inservientes, 1707-11) e
partecipava alla vita politica, difendendo gli interessi della casa
di Brunswick, e, attraverso consigli dati anche a Pietro il Grande e
a Carlo VI, quelli più vasti della vita culturale e civile in
genere: fondò a Vienna un Collegium Historicum e a Berlino convinse
Federico I a fondare l’Accademia prussiana delle scienze (1700)
della quale fu presidente a vita; confidò nell’appoggio dello zar
Pietro il Grande sia per lo sviluppo delle scienze, progettando
un’accademia a Pietroburgo (1711), sia per la riunificazione della
Chiesa greca alla latina.
Negli ultimi anni della sua vita, morta Sofia Carlotta, sua
protettrice (1705), intiepiditi i rapporti con l’elettore Giorgio
Luigi di Hannover, passato sul trono d’Inghilterra (1714), L. vide
alquanto declinare la sua influenza.
Genesi e sviluppo del concetto di monade.
Dei molti temi che si intrecciano nell’opera di L., assume
particolare rilievo il concetto di sostanza individuale: lo
svolgimento di questo tema, già presente nello scritto per il
baccellierato De principio individui (1663; trad. it.
Disputazione metafisica sul principio di individuazione) secondo
suggestioni occamiste, si approfondisce sia attraverso la polemica
contro l’identificazione cartesiana della sostanza materiale con
l’estensione, sia contro l’atomismo (che era stato rimesso in voga
da Gassendi e in genere da tutta la corrente empiristica). La
posizione cartesiana è respinta perché incapace di spiegare
adeguatamente sia il movimento che la resistenza; quella atomistica
d’altra parte non esprime un reale principio individuale perché
l’atomo, in quanto punto fisico, è sempre ulteriormente divisibile.
L. osserva che la res extensa di Cartesio non può costituire
sostanza, poiché ciò che è esteso è divisibile e perciò composto,
cioè composto di parti a loro volta estese e divisibili e composte,
per ognuna delle quali si potrà ripetere all’infinito il
ragionamento; e pertanto o non avrà mai un fondamento reale o deve
risolversi in elementi inestesi, semplici: questi elementi, appunto
perché inestesi, dovranno essere qualcosa di analogo alla res
cogitans. Inoltre, le vere leggi del movimento per le quali non si
conserva, come riteneva Cartesio, la quantità di movimento, ma la
quantità di azione motrice (energia) e la quantità di progresso
(proiezione della quantità di movimento), dimostrano che la nuda
estensione non basta a costituire il corpo, ma vi si deve aggiungere
la resistenza (vale a dire l’inerzia e l’impenetrabilità), e inoltre
qualcosa di attivo, una forza primitiva, che dia al principio
passivo il suo compimento e la perfezione (entelechia).
La materia perciò deve considerarsi non come vera sostanza, ma come
phaenomenon bene fundatum, il cui fondamento reale è la monade
(termine che compare nel 1696, ma che era già presente come concetto
nel Discours de métaphysique), atomo immateriale, punto metafisico,
centro di forza: questa poi, in una sostanza immateriale come la
monade, non potrà essere di natura meccanica, ma deve concepirsi
come un’attività di natura spirituale cioè come percezione e la sua
causa come appetito.
L’Universo leibniziano.
Risolta tutta la realtà in un organismo di monadi, la materia qual è
ordinariamente concepita dagli scienziati e dall’uomo comune, non è
per ciò annullata; essa ha, per così dire, due aspetti: uno
fenomenico e uno metafisico. Secondo il primo essa non è per L. né
qualcosa di assolutamente continuo (Cartesio) né un aggregato di
atomi (Galileo, Bacone, Gassendi), ma divisa in atto all’infinito e
perciò elastica, in modo che vi si possa ancora concepire il
movimento; secondo l’altro, invece, è un insieme di monadi. Che il
primo punto di vista non sia assoluto, si dimostra osservando che la
materia, in quanto estesa, non è vera sostanza (come sopra si è
visto), e che perciò in quanto si presenta tale è qualcosa di
fenomenico; che il movimento (a prescindere dalla forza) è solo un
cambiamento di posto e perciò sempre relativo a un termine
considerato in quiete; e che lo spazio e il tempo, che sono come la
trama nella quale si connettono i fatti naturali, si riducono a
ordine delle coesistenze o delle successioni e perciò sono
soggettivi (contro Newton, che ammetteva l’obbiettività ed esteriore
realtà dello spazio): la natura è dunque un fenomeno.
Rovesciata ogni ipotesi materialistica, l’Universo viene a
configurarsi come un insieme di monadi indipendenti (esse non hanno
«finestre» per comunicare tra loro ed esercitare influsso l’una
sull’altra), mondi in sé conchiusi ciascuno dei quali rispecchia a
suo modo Dio e l’Universo. La sostanza individuale, in quanto
incarnazione di una nozione perfetta di Dio, contiene in sé, e
sviluppandosi esplicita, la completa serie dei suoi accadimenti,
l’intera sua storia insomma, così come nella nozione del soggetto è
semplicemente contenuta tutta la serie dei suoi predicati. Ciascuna
diversa dall’altra in forza del principio degli indiscernibili, per
cui non possono darsi due monadi identiche (due monadi uguali
verrebbero di fatto a essere una identica monade e non sarebbero
perciò distinguibili), esse si dispongono nell’Universo secondo una
legge di continuità che non tollera la sussistenza di parti vuote e
dà luogo a una gerarchia cosmica che vede al livello più basso le
semplici monadi o entelechie, e via via si eleva alle anime e agli
esseri razionali o spiriti.
Si delinea così un mondo di essenze semplici e spirituali nel quale
la materia e i corpi trovano difficile spiegazione. L. offre in
proposito varie soluzioni: ora facendo ricorso alla dottrina del
vinculum substantiale (che è al centro del carteggio con B. Des
Bosses), legame che dovrebbe assicurare all’aggregato corporeo un
certo grado di unità, permettendo il passaggio al composto organico;
ora introducendo il concetto di monade dominante, principio di
organizzazione nel composto delle molteplici monadi che lo
costituiscono; ora considerando la materia e il corpo come la zona
oscura della monade, che non attinge la chiarezza della percezione.
Poste le monadi come mondi a sé stanti, microcosmi indipendenti, il
problema dei loro rapporti e della corrispondenza fra le percezioni
e le espressioni di ciascuna rispetto alle altre è risolto da L. con
la teoria dell’armonia prestabilita, artificio divino preventivo con
il quale Dio forma le sostanze in modo così perfetto che esse si
accordano necessariamente, seguendo unicamente le proprie leggi
interne. Da questi principi segue che le sostanze immateriali
«vedono tutte le cose in Dio» o, più precisamente, che «la nostra
anima esprime Dio e l’Universo, tutte le essenze come tutte le
esistenze» e quindi porta con sé tutte le forme o idee in virtù
dell’azione di Dio su ogni monade.
La teoria della conoscenza e la «giustificazione di Dio».
Il concetto di sostanza individuale è anche alla base della dottrina
della conoscenza, che si fonda, come L. spiega nei Nuovi saggi
sull’intelletto umano commentando e criticando le teorie di
Locke, su un retaggio innato di potenzialità, di disposizioni e
attitudini al conoscere da cui, stimolate dalla conoscenza sensibile
e occasionate da essa, si sviluppano le idee. Di qui la nota formula
«nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu nisi
intellectus ipse». L’attività della monade si caratterizza così come
attività rappresentativa eccitata dall’appetizione che promuove
l’esplicarsi e il susseguirsi delle percezioni (la percezione è
definita da L. «stato passeggero che comprende e rappresenta una
molteplicità nell’unità»), dapprima inconsce, fino all’appercezione,
o percezione accompagnata da coscienza.
Ogni monade, sia pure appartenente agli infimi gradi della realtà, è
dotata di siffatta attività rappresentativa che si distribuisce
nella forma di una sempre maggiore chiarezza e distinzione, dalle
pure o semplici monadi o entelechie, alle anime, in cui alla
percezione si accompagna già la memoria e di cui sono dotate anche
le bestie, agli spiriti, o esseri forniti non solo di percezione e
appercezione, ma anche di ragione. Ai soli spiriti è dunque aperta
la possibilità di conoscere le verità necessarie ed eterne, e ciò
segna propriamente il confine tra le altre monadi e la monade uomo.
La ragione è l’organo che consente l’accesso alle verità di ragione,
che sono distinte dalle verità di fatto, rette da diversi principi
logici. Tale distinzione ha valore però solo in relazione all’uomo,
essere imperfetto, e non vale per Dio, per cui anche le verità di
fatto sono verità di ragione, e quindi universali e necessarie. Le
verità eterne, che L. chiama anche essenze o possibili,
costituiscono la struttura stessa della mente divina e tra esse Dio
sceglie, ispirandosi al principio della maggior perfezione (o di
convenienza), quelle a cui dare esistenza. Dio si configura così
come causa intelligente e libera che crea l’Universo secondo il
principio dell’ottimo (donde la denominazione di ottimismo con cui
il sistema filosofico leibniziano è anche conosciuto), per cui
quello attuale è sempre il migliore dei mondi possibili e in esso
trova la sua giustificazione anche il male, sia metafisico che
morale, che diventa funzionale all’armonia del tutto.
La logica.
Notevole rilievo nell’opera di L. hanno gli studi di logica:
sviluppando motivi della tradizione lulliana, egli persegue
costantemente il progetto di una logica capace di essere
universalmente valida in forza della semplicità e universalità dei
concetti e della loro riduzione a caratteri i quali, combinati fra
loro secondo leggi date, sarebbero fondamento di dimostrazioni
incontrovertibili: l’operazione logica (basata su una caratteristica
universale, presupposto di un linguaggio universale) si
presenterebbe così come calcolo e diventerebbe capace di sanare ogni
tipo di controversia, anche di ordine politico e religioso; sicché
la logica costituisce per L. uno strumento essenziale per perseguire
piani di pacificazione e unificazione politica e religiosa.
Principi logici cardinali, per L., sono: il principio di identità,
fondamento della verità di ragione, indipendente dall’esperienza
(come i teoremi matematici), il cui opposto è falso; il principio di
ragion sufficiente, per cui «di ogni verità si può rendere ragione»
e che ci introduce nell’ambito delle verità di fatto delle quali da
un punto di vista umano non si può dichiarare falso l’apporto,
rientrando nell’ambito del contingente (ma contingenti non sono per
Dio, che dalla nozione individuale di ogni sostanza deduce tutti i
suoi attributi).
L’opera matematica.
Già negli anni giovanili la cultura matematica di L. era vasta, come
dimostra, per es., la Dissertatio de arte combinatoria; ma
solo da Ch. Huygens (da lui incontrato in Francia nel 1672 e che
resterà suo amico per tutta la vita) L. apprese la grande importanza
della nuova scienza (l’analisi dell’infinito) che andava
sviluppandosi, e alla quale L. si appassionò. Entrato in rapporti
con i più illustri matematici dell’epoca (tra i quali Newton), si
cimentò dapprima con successo in alcuni problemi particolari (per
es., il calcolo della serie di L.: π/4 = 1 − 1/3 + 1/5 − 1/7 + ...).
In seguito riuscì a elaborare alcuni metodi semplici e generali per
la trattazione dei problemi infinitesimali che fanno di lui, insieme
con Newton, uno dei fondatori del moderno calcolo infinitesimale.
La critica storica, al di là delle polemiche dell’epoca, ha
dimostrato la sostanziale indipendenza delle ricerche di L. e di
Newton. Nella memoria Nova methodus pro maximis et minimis
itemque tangentibus del 1684, L. ha la geniale idea di
considerare l’operazione di derivazione come un’operazione da
eseguirsi sopra una funzione; egli denota tale operazione con il
simbolo d, e ancora oggi si chiama notazione leibniziana il simbolo
df/dx per la derivata di f; e la introduce in modo chiaro,
stabilendo una serie di regole che permettono di calcolare le
derivate di somme, prodotti, quozienti, radici, ecc., di funzioni a
partire dalle derivate delle funzioni stesse, e crea perciò un nuovo
algoritmo, un nuovo tipo di calcolo (singulare calculi genus). Anche
il simbolo di integrale, ʃ, è dovuto a L. (1686).
Assai meno felice il suo tentativo di cimentarsi con Newton
nell’applicazione del nuovo calcolo ai moti dei corpi celesti (Tentamen
de motuum coelestium causis, 1689); qui L. non solo resta di
gran lunga al disotto del suo grande rivale, ma rivela quella «envie
immodérée de paroître» (come scrisse Huygens, pur suo amico) che è
il lato negativo della sua personalità, e che lo indusse, in questo
caso, a fingere di non conoscere il lavoro di Newton.
Il fatto è che L. aveva soprattutto interesse alle idee e ai metodi
generali della matematica; non altrettanto interesse per le
deduzioni, le applicazioni, la «tecnica» matematica.
A L. si devono perciò poche formule, pochi risultati tecnici, e
invece molte geniali anticipazioni dei concetti e dei metodi della
matematica moderna: dalla matematizzazione della logica (lettera a
Huygens del 1679) al calcolo delle variazioni (nel 1700 si accorge
che nel problema della brachistocrona o in quello del solido di
minima resistenza l’incognita non è più un solo numero o un solo
punto, ma un’intera curva): anticipazioni che fanno di L. uno dei
fondatori di vari, elevati indirizzi delle moderne matematiche.