Io
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Enciclopedia online
Pronome di 1ª persona, usato cioè dalla persona (o cosa
personificata) che parla quando si riferisce a sé stessa. Sia nel
linguaggio della filosofia e psicologia sia nell’uso corrente,
designa la personalità umana, l’uomo in quanto ha coscienza di sé
stesso.
Filosofia
Nella filosofia moderna, il pronome io , sostantivato, diviene
oggetto di riflessione filosofica con Cartesio
che fa dell’Io che pensa (cogito) la conoscenza «prima e
certissima» che si presenta all’intelletto con evidenza tale da
porsi necessariamente come vera, il primo principio indubitabile
emerso dalla crisi del dubbio. Tale Io è per Cartesio innanzi
tutto coscienza, ma anche res cogitans, sostanza pensante. Dalla
critica alla concezione sostanzialistica cartesiana prende avvio
la riflessione di J. Locke
per cui l’Io è la semplice coscienza del molteplice sensibile, e
di D.Hume
che, più radicalmente, lo riduce a un fascio di percezioni in
perpetuo fluire. In I.
Kant l’Io, in quanto «io penso», diventa una funzione
trascendentale che unifica il molteplice dell’intuizione
spazio-temporale ed è distinto dall’Io come fenomeno empirico,
oggetto della psicologia. Muovendo dalla concezione kantiana, J.G.
Fichte, F. Schelling e G.W.F. Hegel procedono a una
assolutizzazione dell’Io trascendentale, il quale diventa così
attività pura e spontanea dello spirito umano che pone sé stessa
come principio della coscienza e dei suoi contenuti
rappresentativi, da lei stessa a sé opposti come Non-Io. L’Io,
così inteso, assume il valore di un principio primo incondizionato
dell’intera scienza filosofica. Come reazione a tali sviluppi
idealistici si delineano diverse posizioni: quella di E.
Husserl che, richiamandosi all’Io penso kantiano, tenta,
attraverso il metodo dell’epochè, di
conseguire «l’ego assoluto» o centro funzionale ultimo di
qualsiasi costituzione; quelle esistenzialistiche, che fanno
dell’Io una condizione esistenziale umana che non può superare
l’orizzonte della soggettività empirica, come accade in S.
Kierkegaard, o, come sostiene M.
Heidegger, «l’ente che io sono in quanto sono in un mondo»;
infine, la posizione radicale di F.
Nietzsche, per il quale l’Io è una finzione, il mero
risultato dell’azione di forze eterogenee (desideri e volizioni)
che non si lasciano ridurre a un unico, identico principio.
Psicologia
Il concetto di io, riferito al sentimento della connessione di
tutte le esperienze psichiche, è il più immediato contenuto di
coscienza. Eliminato dall’ambito della psicologia sperimentale
(indirizzo behavioristico), è diventato attuale in relazione ai
problemi della personalità e della motivazione, anche se spesso
come ‘immagine di sé’.
In S.
Freud il concetto di io è ancorato alla dinamica del fatto
psichico. L’Io è un’area o un’istanza della struttura psichica ed
è in opposizione all’Es. Mentre Freud aveva inteso l’Io
come originato dall’Es e come mediatore tra l’Es e la realtà, in
psicanalisi si parla anche di apparati congeniti dell’Io (P.
Federn, H.
Hartmann, E. Kris,
D.
Rapaport), cui viene così riconosciuta una più larga
autonomia. Si deve ad A. Freud
lo sviluppo della teoria dei meccanismi di difesa, in cui l’Io è
rappresentato come la parte decisiva della psiche.
Come dal lato esperienziale, così anche da quello funzionale,
l’Io si rivela come una realtà assai complessa e Freud fu indotto
a distinguere dall’Io il come un’istanza particolare che sovrasta
l’Io e rappresenta l’ideale, la morale, la ‘coscienza’.
Non si può stabilire il momento preciso in cui ha origine l’Io.
La percezione del proprio corpo, che si rivela verso la fine del
primo anno di vita, il riconoscimento della propria immagine allo
specchio, l’uso del pronome io, l’opposizione, sono le prime
manifestazioni che consentono una individuazione dello sviluppo
dell’Io. Il concetto di individuazione in C.G.
Jung può essere inteso come momento conclusivo della
formazione dell’Io, o, meglio, del sé.
Secondo A.
Adler l’identificazione dell’Io è il processo con cui si
acquisisce l’autoconsapevolezza, cioè l’interiorizzazione
dell’essere-Io soggetto.
Dizionario di Filosofia (2009)
È con il Discorso sul metodo di Descartes (1637) che
l’Io entra in filosofia, come fondamento del filosofare.
La posizione di Cartesio. Cogito
ergo sum è «il primo principio della filosofia che cercavo»
(Discorso, parte IV) perché rimane saldo anche
nell’ipotesi che io mi inganni su ogni cosa. Che tale verità non
possa che essere stabilita in prima persona è con ancora maggiore
evidenza affermato nelle Meditazioni metafisiche
(1641), che in luogo del cogito hanno la formula: ego
sum, ego existo. Invece di una pro- posizione che connette
logicamente esistenza e pensiero, le Meditazioni
contengono un enunciato performativo, che lega l’esistenza dell’ego
alle condizioni della sua esecuzione: «questo che pronunzio: Io
sono, Io esisto», scrive infatti Descartes, è vero «per tanto
tempo per quanto è da me proferito o concepito nella mente». La
distanza tra le due formulazioni è anche la distanza fra la
scoperta dell’ego cogito e la sua determinazione
metafisica come sostanza, che nel Discorso interviene
subito. Nella II Meditazione, invece, alla domanda «che
cosa, dunque, sono Io? Si risponde: una cosa che pensa. E che
cos’è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che concepisce,
che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina
anche, e che sente». È solo in seguito, nella III Meditazione,
che la res cogitans è interpretata come una sostanza, e
distinta realmente dalla res extensa, cioè dai corpi
materiali, compreso il corpo umano.
Le critiche a Cartesio. Il primo a
criticare il passaggio dall’ego cogito alla res
cogitans sarà Hobbes, che nelle III Obiezioni
alle Meditazioni lo considererà tanto legittimo quanto
il passaggio da: ‘io sono passeggiante’ a ‘io sono una
passeggiata’. Lungo la strada aperta da Hobbes, la filosofia
empiristica si atterrà esclusivamente alla presenza dell’Io a sé
stesso come coscienza, senza compiere il passo ulteriore in
direzione dell’essere sostanziale. Così, per es., Locke scriverà:
«ciascuno è per sé stesso quel che chiama Io: infatti in
questo caso non si considera se il medesimo Io si perpetui nella
stessa sostanza o in sostanze diverse» (Saggio sull’intelletto
umano, II, 27). E Hume: «noi non siamo altro che fasci o
collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una
inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento. [...]
La mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno
la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano
con un’infinita varietà di atteggiamenti» (Trattato sulla
natura umana, I, IV, 6). In questa prospettiva, l’unità e
l’identità dell’Io sono semplicemente una nostra credenza, frutto
di una certa abitudine associativa.
Kant e l’idealismo postkantiano.
Semplicità, identità e unità come caratteri propri di una
sostanza, attestati dalla coscienza di sé, non saranno più
ristabiliti. In Kant, tuttavia, accanto alla dimensione empirica,
compare una dimensione trascendentale della coscienza, detta
appercezione pura, cui è demandato il compito di procurare
stabilità e permanenza all’Io, in virtù di una sintesi originaria
del molteplice dell’esperienza. La coscienza di sé
dell’appercezione trascendentale va però distinta dalla conoscenza
di sé: un conto è l’Io come dato del senso interno, oggetto
mutevole della psicologia empirica, un altro è l’Io come atto
della spontaneità che accompagna ogni altra rappresentazione nel
pensiero, veicolo di ogni conoscenza che non può essere a sua
volta conosciuto, ma di cui tuttavia si può essere sempre
coscienti, ogni volta che si produce la rappresentazione ‘Io
penso’. Nell’orizzonte dell’idealismo postkantiano, l’Io
trascendentale viene elevato a principio primo e incondizionato di
tutta la realtà, in virtù del fatto che solo esso può essere posto
in virtù di sé stesso, come un atto (Tathandlung) e non
semplicemente come un fatto (Tatsache): «Ciò, l’essere
(l’essenza) del quale consiste puramente in questo, che esso pone
sé stesso come essente, è l’Io come soggetto assoluto. Così come
esso si pone, è; e così come è, si pone»
(Fichte, Dottrina della scienza, 1794, I, § 1).
Analogamente, Schelling nel Sistema dell’idealismo
trascendentale (1800): «L’autocoscienza dalla quale noi
partiamo, è un unico atto assoluto, e con quest’unico
atto è posto non soltanto l’Io stesso con tutte le sue
determinazioni, ma anche [...] quant’altro in generale è posto per
l’Io» (cap. 3°, Avvertenza).
Il Novecento. Nella filosofia del 20°
sec., il profilo non empirico – e al limite della conoscibilità –
dell’Io è ravvisabile in esiti anche molto diversi della
riflessione filosofica: in partic. nelle proposizioni del Tractatus
logico-philosophicus (1921) di Wittgenstein (5.63: «Io
sono il mio mondo»; 5.632: «Il soggetto non appartiene al mondo,
ma è un limite del mondo») e nel neoidealismo gentiliano («Il noi
soggetto del nostro pensiero non è Io che ha di contro a sé il
non-Io (altro) o altri Io (altri); e però non è l’Io empirico,
quale apparisce alla osservazione psicologica: uno tra molti; ma
l’Io assoluto, l’Uno come Io»; (Gentile, L’atto del pensare
come atto puro, 1911). La dimensione trascendentale dell’Io
ha tuttavia subito un arricchimento rispetto all’originaria
impostazione kantiana, anzitutto in direzione
dell’intersoggettività, riconosciuta già da Hegel nella Fenomenologia
dello spirito (1807), per cui lo Spirito è «Io
che è Noi, Noi che è Io», e
tematizzata tra gli altri sia in Husserl («La questione della
possibilità che io, partendo dal mio Ego assoluto, pervenga agli
altri [...] non è un problema che possa ricevere un’impostazione
fenomenologica pura»; Meditazioni cartesiane, V) sia in
Gentile («L’alterità reale sussiste nello stesso atto
dell’Io come sintesi di Io e non-Io»; Genesi e struttura
della società). Ma tra Otto e Novecento sono state
esplorate anche la dimensione storico-esistenziale dell’Io (da
Hegel a Kierkegaard, da Heidegger a Sartre; si veda, per es.,
Heidegger: «Nell’‘Io’ si esprime il sé-Stesso che io, innanzitutto
e per lo più sono non autenticamente»; Essere e
tempo, § 64), la dimensione corporeo-incarnata (in specie
nelle ricerche di Husserl e di Merleau-Ponty), quella inconscia
(Nietzsche, per il quale l’Io è una semplice «abitudine
grammaticale», ma naturalmente anche Freud e la psicanalisi).
Detronizzato dalla posizione cartesiana del fondamento, con la
quale secondo Hegel la filosofia moderna aveva raggiunto la
terraferma, l’Io è stato nel corso del Novecento ricondotto per
sentieri diversi alla sempre più impervia ricerca di sé.
Esemplare, in questo senso, il percorso ermeneutico dall’idem
all’ipse, dall’Io al sé, proposto da Ricoeur (Sé come
un altro, 1990). Nel panorama contemporaneo, accanto alle
ricerche ermeneutico-fenomenologiche, hanno preso vigore le
scienze cognitive, i cui metodi e i cui risultati si definiscono
in stretto rapporto con la ricerca scientifica, e il cui problema,
in partic. in relazione all’Io come coscienza, può essere
formulato con le parole di Dennett: «A che cosa serve la
coscienza, se un’elaborazione dell’informazione perfettamente
inconsapevole è capace, in linea di principio, di conseguire tutti
i fini per i quali si supponeva che esistesse la mente
cosciente?». Su tale interrogativo la filosofia della mente sembra
dividersi tra quanti considerano il problema insolubile in linea
di principio, e quanti invece lo considerano tale soltanto in
linea di fatto.
Universo del Corpo (2000)
di Angela Ales Bello, Lucio Pinkus
L'Io è una delle espressioni emblematiche del pensiero occidentale
contemporaneo, divenuta oggetto esplicito di riflessione nella
filosofia e nella psicologia dal secolo scorso. Si affianca ai
termini autocoscienza e soggetto, dei quali può essere utilizzato
come sinonimo: la sua specificità consiste tuttavia nell'essere il
pronome personale con il quale l'essere umano designa sé stesso. Per
questo motivo l'oggettivazione, che pure è alla base della sua
formulazione mentale e linguistica, mantiene, a differenza dei
termini soggetto e autocoscienza, un legame più diretto con
l'interiorità.
Sommario: Tra filosofia e psicologia. 1.
Excursus storico. 2. La centralità dell'Io nella fenomenologia. 3.
L'Io corporeo. 4. L'Io e l'esistenza. 5. La dissoluzione dell'Io.
L'Io nella psicanalisi. □ Bibliografia.
Tra filosofia e psicologia di Angela
Ales Bello
l. Excursus storico
Non si trova nel pensiero antico un'analisi esplicita dell'Io;
tuttavia già nei primi filosofi è presente un'indagine su sé stessi.
Si veda Eraclito: "Ho indagato me stesso" (fr. 80). E, ancora,
Parmenide scrive in prima persona: "E la Dea di buon animo mi
accolse, e con la sua mano la mia destra prese, e incominciò a
parlare così e mi disse..." (Poema sulla natura, fr. 1). Questo
dimostra la consapevolezza di sé stessi, il distacco dal gruppo nel
quale normalmente ci si sente inseriti o addirittura ci si annulla,
come accade per chi continua a seguire passivamente la tradizione; e
tale atteggiamento è correlativo alla messa in questione della
tradizione stessa, alla scoperta della capacità della mente di avere
un punto di vista autonomo, se vuole essere desta, secondo il
pensiero di Eraclito. Quella di Parmenide, ancorché sia una
rivelazione della verità da parte della divinità, è anche la presa
di coscienza di chi si rende conto di avere ottenuto tale
rivelazione eccezionale, consistente in un criterio che deve
regolare la sua mente.
La nascita del pensiero filosofico è strettamente connessa alla
scoperta di sé stessi che culminerà nel socratico "conosci te
stesso". La portata di questo avvenimento straordinario sarà colta
in tutta la sua pienezza nel Novecento dall'antropologia culturale
attraverso il confronto con altre culture. Il "conosci te stesso",
indicato come il massimo comandamento da Socrate, si riempie di
contenuti con il discepolo Platone. All'idea dell'anima come
semplice soffio vitale si sostituisce la sostanzialità di un'entità
che ha origine divina e che, incarnandosi, si depotenzia; il grande
compito è, pertanto, quello di conoscere le proprie tendenze, quelle
irascibili e concupiscibili, e di saperle dominare con la ragione;
l'anima intellettuale-spirituale, infatti, consente all'essere umano
di essere consapevole di sé stesso e della realtà, anzi di
innalzarsi a una sfera divina e quindi di realizzare il suo destino
che è quello dell'indiarsi.
La visione che l'essere umano ha di sé stesso, elaborata dal
pensiero filosofico, fornisce le basi teoriche per la formulazione
della dottrina cristiana, che insiste sul tema della soggettività.
Si tratta del 'socratismo cristiano', per usare un'espressione
coniata da E. Gilson, che caratterizza in particolare pensatori come
Agostino, per il quale l'intenzionalità reclama l'interiorità e
quindi la conversione. Essa si basa su un movimento di ritorno su sé
stessi: "Noli foras te ire, in te ipsum redi, in interiore homine
habitat veritas", per procedere, poi, all'apertura radicale: "et, si
tuam naturam mutabile inveneris, trascende et te ipsum" (De vera
religione, 39, 72). La parola ego entra con prepotenza nelle
Confessioni: "Ego interior cognovi haec, ego, ego animus per sensum
corporis mei" (10, 6, 9). Nonostante il movimento di trascendenza,
l'Io si presenta come il luogo dell'incontro con Dio, che non lo
annulla, ma lo potenzia.
La tradizione socratico-platonica che confluisce nel platonismo
cristiano si prolungherà nel Rinascimento e sarà alla base della
teorizzazione dell'essere umano inteso come microcosmo e della
preminenza accordata alla ragione nell'età moderna. Corpo, anima,
spirito, autocoscienza dello spirito, sono i termini che
rappresentano il grande contributo dato dalla visione largamente
platonica alla cultura occidentale. Certamente ci sono voci di
dissenso: si mette in crisi la sostanzialità dell'anima individuale
(come già nel pensiero dello stesso Aristotele), oppure si cerca di
ricondurre tutto alla materia atomisticamente intesa (si veda la
corrente di pensiero che si ispira a Democrito), ma non viene mai
messa in discussione la capacità dell'essere umano di rendersi conto
di sé stesso, di sapersi esaminare e comprendere.
Se Cartesio fa dell'intuizione di sé come essere pensante (cogito)
il punto di forza della sua posizione giungendo alla sostanzialità
della propria anima (res cogitans), J. Locke e soprattutto D. Hume,
che pure sono ben lontani da simili argomentazioni, sottolineano che
c'è una capacità di autoriflessione tale da far cogliere il
significato delle proprie conoscenze sensibili e delle conoscenze
generali (idee semplici e idee complesse, impressioni e idee), anche
se il soggetto stesso, secondo Hume, deve riconoscere di non essere
altro che un fascio di sensazioni. Nell'età moderna il tema dell'Io
acquista la sua centralità nella riflessione filosofica. Dall''Io
penso' cartesiano all''Io penso' di I. Kant si svolge la storia del
passaggio dal soggetto come sostanza al soggetto trascendentale, con
le sue funzioni specifiche e permanenti, fino a culminare
nell'assolutizzazione più forte dell'Io operata da J.G. Fichte, che
lo identifica con tutta la realtà.
L'Io fichtiano, pronome personale della prima persona singolare,
dilatatosi fino ad assorbire in sé tutto e a giustificare tutto,
cederà il passo alla Ragione o allo Spirito teorizzato da G.W.F.
Hegel come momento reale ultimo, quindi al pronome personale della
terza persona singolare. Ciò non significa che l'Io non sopravviva
come momento centrale della ricerca, anzi nell'Ottocento continua il
contrasto fra chi esamina la realtà nella sua oggettività - la
natura o la storia - e chi invece si ripiega sulla soggettività. La
prima forte contrapposizione si presenta nell'Ottocento fra Hegel e
S.A. Kierkegaard, fra chi sostiene la ragione e chi rivendica i
diritti del singolo. Ma è nel Novecento che avviene l'apoteosi
dell'Io e successivamente la sua frantumazione per opera dello
strutturalismo e la sua dissoluzione portata a termine dal
nichilismo. E la riflessione filosofica sull'Io apre la strada a
quella psicologica; si delinea, pertanto, il grande dibattito fra
chi sostiene una psicologia senz'anima e chi invece sottolinea
l'esigenza di parlare ancora di un riferimento unitario: si pensi
soprattutto alle analisi della scuola fenomenologica.
2. La centralità dell'Io nella fenomenologia
Avendo come punto di riferimento la scuola fenomenologica, si può
sostenere la centralità dell'Io nel doppio movimento di indagante e
indagato. Si tratta del paradosso indicato da E. Husserl nella Crisi
delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1936), di
un Io che è insieme soggetto e oggetto di indagine. I risultati di
tale indagine conducono a individuare dimensioni, sfere o funzioni
quali corpo, psiche, anima, spirito, Io puro, Io personale, nucleo o
centro della persona, che vengono messe in evidenza dall'attività
analitico-riflessiva dell'Io e rivelano uno spessore reale
dell'essere umano attraverso il fluire della sua vita corporea,
psichica e spirituale. Muoviamo in primo luogo dall'analisi
husserliana, che agli inizi del 20° secolo evidenzia la varietà di
momenti sopra citati i quali, già spesso indagati separatamente
dalla ricerca filosofica e dalla nascente psicologia, confluiscono
in unità. Stiamo parlando della 'corrente di coscienza' con i suoi
'vissuti' (Erlebnisse).
Iniziare da questo terreno, che è il più vicino e il più proprio,
consente di individuare e descrivere una serie infinita, nel senso
di inesauribile, di atti che si presentano come non omogenei, non
riducibili a una sola qualità e, proprio per questo, rivelatori di
ambiti diversi nei quali si inscrivono e che vengono da essi
costituiti. Nell'opera Idee per una fenomenologia pura e una
filosofia fenomenologica (1913), Husserl inizia dall'analisi della
percezione, che si rivela come un atto di cui si può avere coscienza
più o meno esplicita e che è accompagnata da una serie di atti,
sempre più o meno espliciti, sempre più o meno attuali, con
caratteristiche diverse, come per es., la fantasia, il ricordo, ma
anche i sentimenti vitali, le prese di posizione spontanee, il
tendere verso qualche cosa. L'Io è desto quando ha coscienza di
qualcosa, ma ciò che fluisce nella sua coscienza non è sempre
oggetto di consapevolezza e inoltre si staglia, per così dire, in un
alone di inattualità.
D'altra parte, anche se desto, l'Io non sempre esprime in modo
predicativo quello che vive. La percezione rimanda alla sensazione,
che indubbiamente è un vissuto ma non intenzionale, e la sensazione
rimanda alla corporeità come strumento e veicolo; tuttavia la
corporeità si rivela insufficiente a comprendere un'altra serie di
atti a essa connessi ma da essa non derivabili. Se il corpo è latore
di sensazioni localizzate, l'essere vivente animale non si riduce a
esse proprio perché, nella misura variabile sopra indicata, se ne
rende conto. "Sento la stanchezza, sento la freschezza, sento la
gioia", su queste esperienze, che non sono solo sensazioni corporee,
si costituisce la realtà del 'corpo vivente' (Leib): oltre alle
sensazioni, esso fornisce unità di manifestazione costituenti
propriamente ciò che è psichico. Se il corpo proprio è corpo
vivente, perché ciò che possiede in più è l'insieme delle proprietà
psichiche, è opportuno descrivere qualitativamente la psiche.
Husserl individua nelle qualità psichiche le qualità personali, cioè
il carattere intellettuale, quello affettivo e quello pratico,
inoltre le qualità spirituali, l'acume logico, la generosità e la
gentilezza, ma anche il comportamento sensibile e le disposizioni
fantastiche. Tutto ciò fa parte di quella che con un termine unico
si chiama 'anima' (Seele); ma sia Husserl sia soprattutto la sua
allieva E. Stein distinguono un aspetto più propriamente psichico
(Psyche) e uno spirituale (Geist). La psiche è caratterizzata da una
'forza vitale' (Lebenskraft) rintracciabile attraverso il sentimento
vitale che esprime lo stato attuale del mio Io reale; si manifesta,
quindi, una sorta di causalità che caratterizza il meccanismo
psichico (per es. ciò si esprime nella constatazione "sono tanto
stanco che non posso concentrarmi").
L'Io psichico reale non esaurisce la descrizione dell'Io; si
colgono, infatti, altri atti qualitativamente diversi che si
distinguono dagli impulsi o dalle prese di posizione spontanee
proprie della psiche, per es. gli atti volontari, quelli della
decisione che si fondano su una motivazione e sono la spia della
libertà dell'Io. L'Io nel senso più proprio è da intendersi, allora,
come un punto mobile dentro l'anima: dovunque esso si fermi e prenda
posizione, là si accende la luce della coscienza che illumina un
certo ambito e, nonostante la sua mobilità, esso resta legato a un
punto centrale, quello che Stein chiama 'nucleo della persona' e
Husserl 'Io personale'. Quest'ultimo è distinto dall''Io puro', il
quale ha una funzione esclusivamente metodologico-riflessiva come
possibilità dell'autoafferramento originario e si rivela quando si
individua nella sua purezza, vale a dire in sé stesso.
3. L'Io corporeo
L'analisi proposta da Husserl e dalla sua scuola muove da
un terreno già esplorato dalla psicologia, ma si distingue da
quest'ultima per la pluralità delle dimensioni scoperte e per il
metodo di indagine proposto. In particolare la pubblicazione dei
manoscritti di Husserl ha evidenziato le sue feconde analisi sul
tema della corporeità e ha permesso di comprendere come la
frequentazione da parte di M. Merleau-Ponty dell'Archivio Husserl di
Lovanio abbia reso possibile l'elaborazione della sua Fenomenologia
della percezione (1945). Questa è la più ampia e organica analisi
sulla corporeità condotta sul terreno della fenomenologia attraverso
la quale il corpo da oggetto di una fisiologia meccanicista passa a
essere considerato come corpo vivente nel suo intreccio con la
psichicità; in essa particolare attenzione è rivolta al rapporto con
la sessualità. Ritenendo che la fenomenologia husserliana abbia
un'intonazione troppo intellettualistica, Merleau-Ponty legge la
sessualità in modo intenzionale-esistenziale, parlando di individuo
'incarnato'.
In realtà il termine polemico del fenomenologo francese è Cartesio e
il suo dualismo irrisolto: il filo conduttore del soggetto incarnato
collocato nel mondo consente, secondo Merleau-Ponty, il superamento
del dualismo stesso. È indicativo che molte esemplificazioni che
servono a cogliere le strutture della corporeità siano tratte da
casi clinici. Ciò si era verificato anche in una certa misura in
Husserl, come dimostrano le sue analisi su normalità e anormalità;
lo studio della 'malattia' è, infatti, una spia straordinaria per la
comprensione delle esperienze vissute dall'Io e della sua
costituzione, e di qui lo sviluppo della psicopatologia
fenomenologica con B. Callieri, L. Calvi ed E. Borgna.
4. L'Io e l'esistenza
Le venature esistenzialistiche che sono presenti nella posizione di
Merleau-Ponty derivano anche dall'influenza dell'analitica
esistenziale di M. Heidegger. Se per il primo si può parlare di un
Io corporeo-esistenziale, il termine Io deve essere accuratamente
evitato nella descrizione di Heidegger, il quale propone
esclusivamente l'Esserci (Dasein). In questo caso quell'esistente
particolare che è l'Esserci, l'unico che possa interpretare sé
stesso, deve essere accuratamente descritto da un punto di vista
fenomenologico in senso ontico e ontologico; quindi è da evitare
qualsiasi connotazione antropologica, quale è adombrata nelle
espressioni soggetto, coscienza, persona e Io. La distinzione fra
Esserci e Io risulta evidente proprio quando Heidegger delinea il
rapporto Io-altri. Mentre Husserl e Stein muovono dall'analisi
dell'Io e della sua sfera di appartenenza per raggiungere l'altro
attraverso l'empatia, Heidegger ritiene erroneo tale tipo di
interpretazione. Gli altri, infatti, non si delineano muovendo
dall'esclusione dell'Io, ma piuttosto strutturano il mondo stesso
dell'Esserci; e allora è a partire dal mondo come 'essere-con' che
si deve chiarire la questione dell'essere con gli altri
nell'ambiente mondano.
L''essere-con' e l''essere-al-mondo' sono alcune delle connotazioni
che, seppure di evidente derivazione fenomenologica, emergono come
modalità in cui si presenta l'Esserci e proprio per questo sono
indicate come 'esistenziali'. L'esistenzialismo francese,
rappresentato da Merleau-Ponty e soprattutto da J.-P. Sartre, segue
solo in parte l'indicazione heideggeriana. Anche se, riguardo alla
centralità dell'esistenza, sembra più vicino a Heidegger che alla
fenomenologia husserliana, esso mantiene in fondo un legame forte
con quest'ultima. Con Sartre l'Io torna a essere oggetto di
indagine: caratterizzato dall'angoscia, tenta di sfuggire a essa,
tentando di fuggire contemporaneamente alla condanna di essere
libero.
Allo stesso modo per altri esponenti di questa corrente, sia in
Germania sia in Francia, il tema dell'esistenza personale e quindi
dell'Io è ritenuto centrale. Secondo K. Jaspers l'esistenza è la mia
esistenza, per cui il mio Io è identico al luogo della realtà in cui
mi trovo, e per G. Marcel 'io' mi trovo impegnato e immerso nel
mistero. La connotazione esistenziale porta con sé la difficoltà e
la precarietà del vivere, che sfugge a ogni tentativo di
razionalizzazione e si abbandona alla disperazione oppure alla fede.
5. La dissoluzione dell'Io
È in particolare con lo strutturalismo che giunge alle estreme
conseguenze la critica del cogito cartesiano iniziata dalla
fenomenologia e dall'esistenzialismo. Ma mentre queste posizioni di
pensiero avevano in ogni caso mantenuto la centralità dell'Io, anche
se inteso in modi diversi, lo strutturalismo estende una
constatazione valida sotto il profilo storico-culturale a chiave
interpretativa di tipo teoretico. Il confronto con altre culture,
condotto fin dalle origini dell'età moderna, quando il contatto con
le civiltà extraeuropee cominciò a farsi sistematico, aveva avviato
la riflessione su modi di comportamento e di orientamento diversi da
quelli della cultura occidentale. Una disciplina in particolare,
l'antropologia culturale, si è distinta nell'ambito delle scienze
sociali procedendo a una indagine specifica delle culture 'altre'.
Uno dei punti di contrasto con tali culture, soprattutto quelle che
conservano caratteri di arcaicità, è rappresentato proprio dalla
visione che l'essere umano ha di sé stesso. La cultura occidentale
ha elaborato in modo particolare la nozione di Io facendone il perno
intorno al quale ruota tutta la realtà, per cui la stessa dimensione
intersoggettiva si costituisce muovendo dall'Io; tuttavia, anche un
pensatore come Husserl, che ha sottolineato tale centralità, ha
sempre sostenuto la correlazione Io-altri fino a teorizzare una
'riduzione' non solo all'Io, ma all'intersoggettività, consapevole
che ogni produzione culturale ha come sfondo la pluralità dei
soggetti umani.
Certamente in molte culture dell'Asia, dell'Africa, dell'America,
dell'Australia non toccate dalla mentalità occidentale, il tema
dell'Io non ha la prevalenza che abbiamo constatato; pertanto è
comprensibile che gli elementi di impersonalità presenti in quelle
culture abbiano affascinato pensatori come C. Lévi-Strauss e M.
Foucault, inducendoli a non considerare artefice della storia il
soggetto umano, ma a rintracciare un'entità impersonale qual è
appunto la struttura. D'altra parte, la teorizzazione operata dalla
psicoanalisi, sia freudiana sia junghiana, di una sfera inconscia
più ampia e indeterminata di quella consapevole dell'Io, aveva
preparato il terreno per una crisi della soggettività e del suo
ruolo attivo.
L'Io nella psicoanalisi di Lucio Pinkus
L'abitudine a parlare dell'Io - alludendo con ciò a una sorta di
nucleo privato, intimo e inviolabile a cui riferire ogni nostra
esperienza e da cui parte ogni nostra azione - ci dà l'impressione
di esprimere una realtà immediata, persino intuitiva. Già
rapportando questo stesso termine a un neonato anziché a un adulto,
appare tuttavia evidente come il problema sia, di fatto, ben più
complesso. Partendo dalla considerazione che ogni sistema vivente è
una realtà articolata, un organismo che si struttura a partire dal
proprio programma genetico e che nel suo stesso evolversi costruisce
conoscenza (Guerra 1997), è possibile constatare come nella specie
umana emerga quale caratteristica peculiare l'introspezione.
Poiché quest'ultima si esprime prevalentemente mediante atti
linguistici, la persona umana 'coglie' sé stessa come soggettività
attiva esprimendola con il termine 'io' (per es., "Io faccio", "Io
penso", "Io desidero" ecc.). Nell'usare il pronome 'io', non sempre,
tuttavia, intendiamo riferirci al nostro organismo nel suo insieme,
ma scomponiamo l''Io', inteso come soggetto globale, considerandone
solo alcune parti (per es. dicendo "i miei occhi"); così indichiamo
un 'oggetto' che, in quanto tale, è in qualche misura esterno a noi,
pur essendo, al tempo stesso, parte integrante del nostro Io.
Analogamente, quando diciamo "il mio pensiero", designiamo ancora un
'oggetto' che solo in certo grado appartiene al nostro Io, benché,
in questo caso, esso sia più interiore rispetto alla globalità
dell'Io.
Queste considerazioni mettono in luce come il problema si collochi
su due livelli: da un lato, è chiaro che esiste l'organismo
individuale, come soggetto globale di qualsiasi azione; dall'altro,
dobbiamo anche constatare che manca al suo interno un soggetto
psichico unitario - cioè appunto un Io - nel senso più stretto.
Questo tema, che riguarda il nucleo della coscienza, è stato fino a
oggi sviluppato secondo due articolazioni principali. La prima di
queste fa riferimento alla filosofia della mente, collegandosi con
le neuroscienze e concentrandosi sia sul tema della coscienza sia,
nella sua declinazione psicologica, su quello di cognizione.
Il secondo orientamento, invece, colloca il problema dell'Io
nell'ambito della psicologia dinamica e, più in particolare, della
vasta tematica di matrice freudiana. Nel corso della ricerca
psicoanalitica e delle sue teorizzazioni, già a partire da S. Freud,
il significato del termine Io oscilla tra un riferimento più ampio
alla totalità della persona (ciò che oggi viene preferibilmente
chiamato Sé) e quello rivolto a un gruppo organizzato di idee
(contenuti mentali), di cui soltanto alcune riescono ad avere
accesso alla coscienza: queste ultime costituiscono l'Io, mentre le
altre vengono relegate nell'inconscio.
Tuttavia l'originaria pulsione dell'Io, legata al modello
topografico e all'enfasi sulla rimozione, convinse ben presto Freud
che l'Io includeva elementi sia coscienti sia inconsci. In
quest'ottica, Freud propose il modello strutturale della psiche di
cui l'Io rappresenta una delle tre principali divisioni funzionali.
Pertanto, già con Freud viene introdotto il concetto di Io come
gruppo di funzioni che maturano, possono essere soggette a disturbi
e anche curate, in una prospettiva nella quale da un lato l'Io viene
considerato distinto dalle pulsioni istintuali e dall'altro diviene
- nel suo aspetto cosciente - l'organo esecutore della psiche
(quello cioè a cui compete prendere decisioni e integrare i dati
percettivi) e, nel suo aspetto inconscio, contiene i meccanismi di
difesa, necessari a contrastare le forti pulsioni istintive dell'Es
(sessualità e aggressività).
Si viene così formando il primo abbozzo di psicologia dell'Io che
concettualizza il mondo intrapsichico come campo conflittuale fra
tre istanze: Io, Super-Io ed Es. Un ulteriore contributo alla
costruzione di una psicologia dell'Io si deve ad A. Freud (1936), la
quale, approfondendo la dinamica dei rapporti tra le diverse istanze
della psiche, colse l'importanza dei meccanismi di difesa
individuali sia per la teoria psicoanalitica - soprattutto per
l'aspetto che riguarda lo sviluppo della personalità - sia rispetto
alla terapia psicoanalitica, in quanto fattori di resistenze
inconsce al trattamento.
Nel suo lavoro A. Freud non solo approfondì e ampliò lo studio del
ruolo svolto dalla rimozione, ma lo estese ad altri meccanismi di
difesa, riuscendo a individuarne e descriverne ben nove. Con il suo
contributo, l'interesse della psicoanalisi si spostò dalla
originaria concentrazione sulle pulsioni all'attenzione per il ruolo
e la dinamica delle difese (Cremerius 1989). In tal modo, A. Freud
preparò il passaggio della psicopatologia psicoanalitica
dall'osservazione e valorizzazione della formazione nevrotica dei
sintomi alla comprensione orientata, piuttosto, sulla patologia del
carattere. Questa estensione dell'ambito concettuale e clinico dei
meccanismi di difesa e la loro focalizzazione sulle dinamiche
dell'Io, permise infatti di comprendere che determinati sintomi, pur
essendo formazioni di compromesso, possono esprimere un processo
mentale da considerarsi normale in una data fase dello sviluppo (per
es. nell'adolescenza) o in determinate situazioni (Brenner 1982).
La valenza nevrotica delle difese rappresenta quindi la variabile
patologica di un processo orientato di per sé a offrire soluzioni
adattive e creative nei confronti del conflitto intrapsichico. Va
sottolineato che l'odierna psichiatria dinamica individua molte
forme di disturbi della personalità proprio sulla base delle
specifiche modalità difensive che vi si accompagnano, giungendo
anche a produrre una sorta di classificazione gerarchica basata sul
ricorso ai meccanismi di difesa, da quelli più immaturi o patologici
fino a quelli più maturi o sani (Vaillant-Bond-Vaillant 1986).
Contemporaneamente alle ricerche di A. Freud, il ruolo dell'Io nei
processi psichici suscitò un interesse così rilevante da originare
un orientamento specifico - appunto la psicoanalisi dell'Io -
rivelatosi assai fecondo. Si deve a H. Hartmann (1939; 1964)
l'osservazione che l'importanza dell'Io per la psiche non può essere
limitata alle sue funzioni difensive: esiste una sfera dell'Io
libera dai conflitti e quindi capace di svilupparsi
indipendentemente dalle forze dell'Es. In altri termini, Hartmann
ritiene che vi siano funzioni autonome dell'Io, presenti già alla
nascita, quali i processi di pensiero, apprendimento, percezione,
controllo motorio e linguaggio, che possono crescere senza essere
ostacolate da alcun conflitto.
Partendo da questo concetto, Hartmann sviluppò il punto di vista
adattivo, cioè la teoria per la quale una pulsione fondamentale
dell'Io è legata alla sua capacità di adattamento alla realtà.
Questo processo consente che persino certe difese, attraverso la
neutralizzazione delle energie sessuali e aggressive, possano
perdere il loro legame con le forze istintuali dell'Es e, divenendo
poi autonome o adattive, possano essere canalizzate verso scopi
produttivi. Le ricerche di Hartmann sono state seguite da numerosi
autori. D. Rapaport (1966) può essere considerato l'esponente più
significativo di un gruppo di psicoanalisti che hanno approfondito
il rapporto tra la teoria della personalità e i processi sia
cognitivi sia affettivi, orientandoli allo studio dell'Io e delle
sue funzioni, al punto che concetti come forza/debolezza dell'Io
sono entrati nella valutazione psicodinamica comune.
Spingendosi ancora oltre, L. Bellak e i suoi collaboratori
(Bellak-Hurvich-Gedinam 1973) hanno ordinato le funzioni dell'Io -
le più importanti delle quali includono l'esame di realtà, il
controllo degli impulsi, i processi di pensiero, la padronanza delle
competenze - in scale di valutazione che hanno trovato largo impiego
sia nella ricerca sia nella clinica. Un contributo del tutto
particolare alla psicologia dell'Io è venuto da E.H. Erikson (1959),
il quale, valorizzando l'attenzione posta da Hartmann al rapporto
Io/mondo esterno, ha inserito il concetto di conflitto nel più ampio
contesto dell'ambiente sociale e culturale in cui l'individuo nasce
e si sviluppa.
A questa premessa è seguita l'elaborazione di una teoria evolutiva
epigenetica, nella quale ogni stadio è caratterizzato da una
specifica crisi di natura psicosociale, il cui superamento
costituisce il compito evolutivo proprio della fase stessa: per es.,
durante la fase fallico-edipica il conflitto psicosociale si colloca
fra iniziativa e senso di colpa e il suo superamento costituisce
appunto il compito evolutivo della fase stessa. Proprio questo
approccio ha consentito a Erikson (1968; 1982) di tracciare, grazie
all'accentuazione del concetto di identità, un'originale teoria
dello sviluppo dell'Io che copre l'intero arco del ciclo della vita,
dall'infanzia al processo stesso del morire.
Dalla matrice psicoanalitica sono derivate inoltre le sollecitazioni
più significative alla comprensione del corpo in quanto identità
vissuta, cioè dell'Io corporeo. Già Freud aveva sottolineato come
"l'Io è anzitutto un'entità corporea, [...] cioè l'Io è in
definitiva un derivato da sensazioni corporee, soprattutto dalle
sensazioni provenienti dalla superficie del corpo" (Freud 1923,
trad. it., p. 488). La sua qualità di fonte primaria delle
gratificazioni e delle frustrazioni, e quindi del piacere e del
dolore, rende il corpo sia registro immediato di decodificazione
della realtà esterna e interna, sia organizzatore di una
rappresentazione mentale, soprattutto inconscia, dove avviene
l'integrazione fra gli aspetti emotivi, affettivi e simbolici che
confluiscono nel processo di costruzione di una identità
'psicosomatica' unitaria.
Questa visione del corpo ha consentito di distinguere il concetto di
'schema corporeo' - di competenza prevalentemente neurologica - da
quello di 'immagine del corpo', che è invece di grande interesse
psicodinamico ed è ampiamente utilizzato nella psicosomatica. Il
modello suddetto ha consentito infatti di recuperare la nozione di
'sentimento dell'Io' quale modulo descrittivo che, pur distinguendo
ed evidenziando l'azione delle differenti eccitazioni sensoriali e
motorie, ne rinforza il riferimento all'identità unitaria
sostanziale del soggetto, legandolo principalmente all'azione degli
investimenti affettivi sul corpo.
Non va dimenticato infatti che l'affettività è un fattore
fondamentale del processo di fissazione delle tracce mnestiche,
rispetto sia alla qualità sia alla 'profondità'. In questo senso,
l'affettività costituisce il fattore psicodinamico che unifica le
diverse esperienze psicofisiche e, al tempo stesso, fonda, proprio
mediante l'immagine del corpo, il sentimento di unitarietà
psicofisica, base necessaria di un'identità personale autonoma.
L'espressione 'Io-corporeo' sta a indicare che la capacità di
rappresentarsi il proprio corpo è parte delle funzioni e dello
sviluppo dell'Io. In senso figurato (ma non per questo meno
concreto), sappiamo che questo Io-corporeo, nel processo di
autocoscienza della propria identità, e dunque di differenziazione
dall'esterno, costruisce come dei 'confini dell'Io', rappresentati
da sensazioni che in qualche modo 'delimitano' lo spazio corporeo
(percepito come uno spazio coordinato e, a diversi livelli, interno)
rispetto allo spazio esterno.
Il processo di elaborazione delle esperienze quotidiane determina il
formarsi di confini in vario grado flessibili o rigidi, più o meno
capaci cioè di adattarsi alle diverse situazioni, per far fronte al
complesso processo di differenziazione e di nuove integrazioni
imposte dalle vicende del vivere, in particolare dalle esperienze
del dolore e della malattia. Questa dinamica (Pinkus 1989) si
collega alla teoria psicoanalitica dello sviluppo, a partire dal
rapporto madre/bambino, in cui all'interno di un'unità
originariamente simbiotica la figura materna svolge il ruolo di
'organizzatore' delle esigenze e delle funzioni corporee del figlio,
proprio partendo dai suoi confini e attraverso la differenziazione
progressiva di tali funzioni, nella prospettiva di successive
graduali separazioni orientate alla costruzione del sentimento e
della coscienza del proprio corpo, fino allo strutturarsi di un
Io-autonomo del figlio.