Filosofia
Il pensiero greco si è occupato fin dalle sue origini del concetto di infinito. Delle soluzioni proposte dai pensatori della scuola ionica per il problema delle origini e del principio ultimo delle cose, due fanno riferimento alla nozione di i.: Anassimandro riconduce tutto all’ἄπειρον, ovvero a una realtà illimitata, e Anassimene individua l’ἀρχή nell’aria concepita come infinita. Ma già nei pensatori successivi va affermandosi una diversa concezione dell’i., visto non già come realtà illimitata, ma piuttosto come concetto che rinvia a qualcosa di non finito e quindi imperfetto. Sia Platone sia Aristotele fecero propria la tendenza, già emersa con Parmenide, a identificare la realtà finita con la perfezione, l’ordine e l’armonia, e l’i. con la mancanza di misura e di determinazione. Aristotele considera l’i. come una nozione di cui si fa solo un uso negativo per suggerire che una certa realtà non è compiuta e non può quindi essere abbracciata nella sua totalità.
Sembra che Clemente Alessandrino sia stato il primo a predicare l’i. di Dio, sia pure in forma negativa, a indicare che egli è «privo di forma» e «senza nome»; più nettamente Basilio pone l’i. tra gli attributi di Dio, e Nicola di Metone afferma che l’i. è proprio solo di Dio. La teologia medievale approfondì il concetto di i. in rapporto all’essere di Dio. Una particolare accentuazione tale concetto assunse nella teologia mistica come carattere peculiare di Dio che lo pone al di là di tutte le predicazioni categoriali e quindi non attingibile per via positiva.
La filosofia moderna assiste a una mondanizzazione del concetto di i. sia facendone, come nel caso del naturalismo rinascimentale, un attributo della realtà che circonda l’uomo, sia permettendo all’uomo di attingervi facendosi partecipe dell’i. stesso. Questa è la via aperta da G. Bruno e poi ripresa, attraverso la mediazione di B. Spinoza, dall’idealismo tedesco. J.G. Fichte, F. Schelling e G.W.F. Hegel non contrappongono più il finito, l’individuo empirico, all’i., ma li collegano in un rapporto di partecipazione. Accanto a questa discussione della nozione metafisico-ontologica di i., la filosofia moderna e contemporanea ha approfondito l’analisi dell’i. come nozione quantitativa. Ancora nel 17° sec. Cartesio riprendeva la concezione aristotelica dell’i. quantitativo come indeterminato e dunque come concetto negativo. Ma proprio la filosofia moderna, specialmente con I. Newton e G. Leibniz, ha saputo fare del concetto di i. l’oggetto di analisi e calcoli positivi, suggerendo quel ribaltamento, divenuto operante nella matematica del 19° sec. con G. Cantor e J.W.R. Dedekind, per cui il concetto di i., da nozione paradossale, diviene una nozione del tutto padroneggiabile, sulla quale si può costruire un nuovo ampio settore di analisi per la matematica.
L’infinito come principio primo.
Le
prime teorizzazioni sull’i. si incontrano nei presocratici, nel
quadro dei tentativi di individuare l’ἀρχή, ossia il principio
primo della realtà naturale. Caratteristica la posizione di
Anassimandro, secondo cui tutto origina dall’ἄπειρον, inteso come
un che di indeterminato e privo di qualsiasi limite (πέρας),
eterno, immutabile e indistruttibile. È proprio dal porre limiti
all’indistinto ἄπειρον che nasce la variegata molteplicità delle
cose osservabili, ed è in virtù del loro tornare a dissolversi
nell’indistinto (dunque del perdere i limiti che gli conferivano
una determinata forma) che le cose periscono. La concezione
anassimandrea dell’i. può essere vista alla base dell’idea
centrale di Anassimene, quella che identifica l’ἀρχή con l’aria: è
infatti abbastanza intuitivo considerare i. l’aria che ci circonda
e rende possibile l’esistenza dei vari esseri intorno a noi. Come
che sia, in Anassimandro si può scorgere il germe della generale
valenza negativa con cui la successiva cultura filosofica greca ha
connotato l’i., una valenza derivante dal considerare imperfetto
tutto quanto non sia limitato da una qualche forma. Per i
pitagorici, una forma del genere è data da rapporti numerici e
nasce grazie all’interazione tra ἄπειρον e πέρας, principio
cosmologico fondamentale: limitare l’illimitato una volta dà
infatti luogo al punto, limitarlo due volte dà luogo alla linea,
tre volte al piano, quattro volte al solido. L’aspetto positivo
viene dunque fatto risiedere nel limite che conferisce forma e
pienezza al mondo (la cui trama è tessuta di numeri interi
positivi e fissata da equazioni matematiche), mentre quello
negativo sta nell’i., illimitato e imperfetto. Nel Filebo
Platone echeggia tale impostazione pitagorica: l’ἄπειρον, in
qualche modo identificato con il non-essere e dunque con il male,
e consistente in una serie di opposti tra loro in conflitto
(caldo-freddo, secco-umido, ecc.), è limitato secondo proporzioni
intelligibili ponendo fine ai conflitti e dando luogo a ciò che
esiste nell’Universo. A ogni modo, con loro enorme disappunto i
pitagorici dovevano in seguito riconoscere la presenza dell’i.
anche nella trama matematicamente ordinata che costituiva
l’ossatura della realtà osservabile.
Il noto teorema legato al
nome di Pitagora (secondo cui l’area del quadrato costruito
sull’ipotenusa di un triangolo rettangolo è equivalente alla somma
delle aree dei quadrati costruiti sui cateti) portava a porre la
questione del rapporto tra diagonale e lato del quadrato. Ci si
rese conto che tale rapporto non poteva essere espresso da
un’equazione coinvolgente interi positivi ed era dunque
«incommensurabile», svelando così i forti limiti che questi ultimi
avevano ai fini di un’esatta e rigorosa descrizione della realtà:
un nuovo tipo di numeri – gli irrazionali – si imponevano
all’attenzione del matematico, numeri che sembravano aprire
l’abisso dell’i. all’interno degli stessi calcoli aritmetici e
geometrici.
Del resto, un chiaro esempio dell’avversione nei confronti dell’i. si ha con Zenone di Elea, nella riflessione del quale l’i. si ammanta del carattere della paradossalità, dato che i vari paradossi legati al suo nome poggiano sull’apparentemente ineliminabile ruolo dell’i. stesso. Nell’intento di argomentare contro la possibilità del movimento, per es., Zenone afferma che per raggiungere la tartaruga a cui ha concesso una certa misura di vantaggio Achille deve in un primo momento percorrere la misura concessa, momento in cui la tartaruga avanza di un’altra misura, e successivamente percorrere la misura appena percorsa dalla tartaruga, proprio mentre la tartaruga avanza di un’ulteriore misura, che Achille coprirà contemporaneamente a un nuovo allontanamento della tartaruga, e così via all’i. senza che Achille possa mai raggiungere e tanto meno superare la tartaruga.
L’impostazione di Aristotele.
I
paradossi di Zenone e il concetto di i. furono sottoposti a un
attento scrutinio da Aristotele, il quale riuscì a risolvere una
forte tensione concettuale: quella derivante, da un lato, dal
considerare tali paradossi come una chiara dimostrazione
dell’inapplicabilità del concetto di i. alla realtà, e dall’altro
dal rendersi conto dell’inevitabilità del ricorso all’i. allo
scopo di spiegare, per es., la serie dei numeri, il corso del
tempo e l’assenza di un limite alla divisibilità del tempo stesso,
della materia e dello spazio. Lungi dall’essere un qualcosa di
estrinseco, tale tensione era profondamente radicata nel sistema
filosofico di Aristotele. Stando alla sua riflessione intorno al
mondo fisico, infatti, l’Universo è finito, essendo
costituito da una serie finita di sfere concentriche in cui il
movimento si propaga a partire da una causa prima posta
all’esterno della serie stessa: il primo motore immobile. Questo è
eterno, e parimenti eterno è l’Universo, privo di origine
e fuori del tempo. L’essere ‘fuori del tempo’, però, l’essere
‘sempre’, tende a caratterizzarsi come i.: di nuovo, il concetto
di i. appare nel sistema aristotelico tanto vuoto quanto
indispensabile. La magistrale risoluzione di tale tensione era
destinata a costituire una duratura eredità intellettuale, appena
offuscata nel sec. 19° dai risultati di Cantor.
Nella Fisica Aristotele chiarisce la sua avversione nei confronti dell’i. in atto considerando meramente ‘strumentale’ l’appello all’i. dei filosofi a partire da Anassimandro, ossia come una mossa fatta all’unico scopo di dare un senso alla genesi e all’esistenza delle cose senza che vi fosse una dimostrazione dell’esistenza dell’i. di per sé, come qualcosa di effettivamente dato. Ciò nonostante, egli riesce a individuare un senso per cui l’i. esiste: esso esiste in potenza, ossia come disposizione a un cambiamento continuo. L’i. potenziale non è dunque un singolo essere, per es. un oggetto, dotato di una sostanza particolare, ma è un processo che coinvolge qualcosa che è al contempo sem- pre finito e sempre diverso, esattamente come il giorno, che è finito, delimitato, «ma pur sempre diverso» (Fisica, 206 a, 33). L’i. potenziale è una caratteristica fondamentale della realtà, presente in tutti quei procedimenti in cui siamo condotti avanti senza fine, come in certi calcoli o divisioni, o nella considerazione del tempo. I noti argomenti zenoniani perdono così la loro paradossalità: in una serie infinita, spaziale o temporale, le sezioni esistono solo in potenza e non in atto. Come Aristotele dimostra in Sul cielo, in atto l’i. (di un corpo o di una sua proprietà, come il peso) non può esservi.
I secoli successivi.
È nella filosofia
cristiana che l’i. perde la connotazione di non finito e quindi
imperfetto per assumere un carattere di positività. Clemente
Alessandrino è il primo a considerare Dio come ἄπειρον, e così più
tardi Nicola di Metone nella sua accesa polemica contro Proclo.
Nel Medioevo la distinzione aristotelica tra due tipi di i. è
riproposta come distinzione tra i. sincategorematico e
i. categorematico, dove questo (l’i. in atto) viene
attribuito a Dio. Cartesio stesso doveva poi echeggiare la
distinzione aristotelica nella sua decisione di riservare il
termine di i. a Dio e di applicare quello di indefinito
alle grandezze illimitate. Una dura critica ad Aristotele si ha
agli albori dell’età moderna con Bruno che, nel suo deciso
sostegno dell’opera di Copernico, considera i. il mondo confutando
le tesi esposte nello scritto Sul cielo e nella Fisica.
In generale, la filosofia moderna assiste a una mondanizzazione del concetto di i. attuale sia nel senso che ne fa un attributo della realtà che circonda l’uomo, sia nel senso che permette all’uomo di attingervi facendosi partecipe dell’i. stesso. La via aperta da Bruno è poi ripresa, attraverso la mediazione di Spinoza, dall’idealismo tedesco: Fichte, Schelling e Hegel non contrappongono più il finito, l’individuo empirico, all’i., ma li collegano in un rapporto di partecipazione. Larga parte della filosofia moderna è impegnata con i paradossi collegati alla nozione di i., e pensatori come Hume e Kant preferiscono, rispettivamente, o rifiutare completamente la validità di questa nozione, o confinarla nel campo delle antinomie irrisolvibili. Ma proprio la filosofia moderna, specialmente con Newton e Leibniz, ha saputo fare del concetto di i. l’oggetto di analisi e calcoli del tutto positivi, suggerendo quel ribaltamento che diviene operante nella matematica del sec. 19° con Cantor e R. Dedekind per cui il concetto di i., da nozione paradossale, diviene una nozione padroneggiabile.
Cantor e il transfinito.
Cantor
dichiara improprio l’i. potenziale (l’ἄπειρον) in quanto si
riferisce a una grandezza finita anche se variabile, e ne
sottolinea la dipendenza dall’i. attuale. Questo tuttavia, inteso
come i. eterno e increato, risulta del tutto inconoscibile dalla
mente umana. L’i. che può essere oggetto di conoscenza è secondo
Cantor il transfinito, in quanto ‘creato’ e suscettibile
di essere accresciuto. A persuadere dell’esistenza del transfinito
sono i numeri transfiniti di cui Cantor, in sintonia con la
definizione di numero come insieme fornita da Frege e Dedekind,
illustra i criteri di costruzione. Sulla scia di Galileo e
Leibniz, Dedekind aveva sottolineato un aspetto paradossale di
alcuni insiemi i.: il fatto che i loro elementi possono essere
messi in corrispondenza biunivoca con gli elementi di un loro
sottoinsieme, contraddicendo l’idea tradizionale che il tutto è
più grande di una sua parte. Dedekind e Cantor fanno di questo
aspetto un punto di forza prendendolo come base per definire un
insieme i., e riservando agli insiemi finiti la caratteristica che
se B è un sottoinsieme proprio di A, allora il
numero di elementi in A è più grande del numero di
elementi in B.
Così Cantor, muovendo dai concetti di cardinalità e ordinalità, presenta un metodo per misurare la grandezza degli insiemi i. e un metodo per ordinarne gli elementi in successione, passa poi a definire il concetto di numero cardinale e di numero ordinale, costruisce una successione per grandezza di insiemi i., associa a ciascun insieme un numero transfinito (cardinale o ordinale), e dimostra che non c’è alcun numero cardinale maggiore e alcun numero ordinale maggiore: nella costruzione di numeri transfiniti si va avanti senza fine.