Individuo
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Ogni singolo ente in quanto distinto da altri della stessa specie;
in particolare, l’uomo considerato nella sua singolarità.
Filosofia
Il termine i. ha una corrispondenza etimologica nel termine gr. ἄτομος (comp. di ἀ- privativo e tema di τέμνω «tagliare», quindi
indivisibile) e con questo etimo è entrata nel linguaggio
filosofico dell’antichità con Leucippo
e, soprattutto, con il suo scolaro Democrito,
che la usarono per indicare ciascuno dei componenti ultimi,
indivisibili e inalterabili, del reale, dalla cui aggregazione e
separazione dipendono rispettivamente la generazione e la
distruzione. Aristotele
notò che l’atomo democriteo, per quanto piccolo, è pur sempre
ulteriormente divisibile in quanto realtà materiale, estesa, senza
un interiore principio di unità. Il vero i. doveva piuttosto
trarre il suo esser tale da un principio d’intelligibilità, la forma: già Platone
aveva parlato di εἶδος ἄτομον
in quanto l’idea, esprimendo la realtà vera oggetto di pensiero, è
un tutto non ulteriormente divisibile; approfondendo questo
concetto nella polemica contro gli atomisti, Aristotele affermò
che l’individualità concreta è il sinolo, veramente i. non perché
inesteso ma perché dotato di un principio intelligibile
d’interiore unità che è la forma. Per Aristotele tutte le sostanze
(sinoli) sono i.: di qui sorse la tradizionale concezione
dell’individualità come carattere essenziale della sostanza,
indipendente nella sua esistenza e non predicabile, bensì soggetto
di predicati.
Nel linguaggio della scolastica si disse principium individuationis
il principio determinante dell’individualità. Poiché nella
concezione aristotelica l’individualità risultava dal confluire
della materia e della forma, nella controversia circa il principio
d’ si discusse se tale fosse la materia, in quanto determinatrice
dell’universalità della forma, o la forma, in quanto
determinatrice dell’indefinitezza della materia. La seconda tesi
fu sostenuta da Giovanni
Duns Scoto, la prima da Tommaso
d’Aquino. Queste due tesi divennero le tipiche soluzioni
date al problema dagli ordini domenicano e francescano, e dettero
luogo a interminabili discussioni. Delle soluzioni moderne del
problema meritano un particolare rilievo quella cartesiana, che
pone l’individuazione nel pensiero (se
penso, sono), e quella rosminiana, che la pone nel
sentimento fondamentale.
Con significato più generale, individualismo è ogni dottrina che
accentui l’autonomia e la differenziazione delle realtà singole,
in contrasto con la loro inserzione in un quadro totalizzante. In
senso più specifico, si dice individualismo ogni dottrina che
rivendichi i diritti della singola persona contro la sua
subordinazione a un sistema che lo trascenda. Questa
rivendicazione ha informato soprattutto il pensiero politico e
quello economico. Dottrine politiche ispirate all’individualismo
sono quelle secondo le quali le leggi, lo Stato e la società
debbono in ultima analisi servire al benessere degli i., traendo
da ciò ogni giustificazione; l’individualismo così concepito è
alla base di varie forme di contrattualismo e di liberalismo.
Nelle teorie economiche l’individualismo ha avuto la sua
manifestazione più importante nella dottrina del liberismo, che
insiste sulla libertà del mercato, cioè sulla libera iniziativa
economica dei singoli non soggetta a interferenze da parte
dello Stato, come principale fattore di progresso. Oltre che in
questi significati, il termine è stato frequentemente utilizzato
anche per indicare l’affermazione dell’individualità egoistica o
anarchica.
pedagogia
Metodi d’individualizzazione sono quelli volti a promuovere lo
svolgimento dell’attività scolastica adattandola all’individualità
del singolo scolaro, cioè alla sua struttura psicologica, alle sue
attitudini, alle sue vocazioni.
psicologia
Nella psicologia di C.G. Jung, l’individuazione è il processo che
conduce il soggetto alla maturità psichica, creando un suo nuovo
rapporto con la psiche collettiva e conciliando in lui le
opposizioni primordiali (maschio-femmina, cosciente-incosciente
ecc.) prima solo antitetiche e non complementari. Il fallimento
lungo tale processo sarebbe espresso dalle nevrosi.
A.
Adler nel 1911 chiamò la sua dottrina, per distinguerla
dalla psicanalisi di S.
Freud. La parola intendeva sottolineare la considerazione
dell’i. come unità inscindibile sia in sé sia nei rapporti con la
società. Particolare rilievo assume in questa prospettiva il ruolo
dei meccanismi compensatori, attivati nel soggetto sia da fattori
ereditari (per es., inferiorità organiche) sia da pressioni
ambientali. L’insieme di tali meccanismi determina quello che
Adler chiama lo stile di vita
dell’i. (concetto che sottolinea il finalismo, cosciente o
incosciente, degli atti psichici, compresi i processi
psiconevrotici). Nel corso dello sviluppo psichico normale la loro
azione permette un processo di compensazione che porta al
superamento dei sentimenti d’inferiorità originatisi in età
infantile. Un esito negativo di questo processo ha invece come
risultato lo stabilirsi di quel complesso di inferiorità che,
soffocando le capacità di autorealizzazione dell’i. e inibendone
le possibilità creative, costituisce un fattore primario
nell’insorgere dei disturbi nevrotici. L’i. è così impossibilitato
ad abbandonare la posizione egocentrica per passare allo stadio
più maturo della cooperazione con gli altri (amore, lavoro,
società) e in questo consiste essenzialmente la nevrosi. Sul piano
terapeutico scopo precipuo è quindi quello di effettuare una
correzione delle erronee impostazioni derivanti nell’i. da uno
stile di vita inadeguato. L’indirizzo adleriano, che si configura,
contrariamente alla psicanalisi freudiana, come
direttivo-educativo, ha esercitato un certo influsso sulla
pedagogia.
Dizionario di Filosofia (2009)
Termine che significa «indiviso», o che non può essere diviso, e
viene riferito a ogni singolo ente in quanto distinto da altri della
stessa specie. Come termine filosofico esso compare per la prima
volta in Cicerone (individuum) per tradurre la parola greca
ἄτομον. Boezio usa il termine i. attribuendogli sia la
determinazione della indivisibilità, sia quella della
impredicabilità: «Si dice i. ciò che non si può dividere per nulla,
come l’unità o la mente o ciò che non si può dividere per la sua
solidità, come il diamante; o ciò che non si può predicare di altre
cose simili, come Socrate» (Ad Isagogen Porphyrii, II).
Nell’ambito della filosofia medievale questa determinazione della
impredicabilità con riferimento all’i. venne ripresa da Pietro
Ispano («I. è ciò che si predica di una sola cosa, come Socrate e
Platone», Summulae Logicales). Tommaso d’Aquino distingue
fra i. vago, corrispondente alla specie («l’i. vago, per
es. l’uomo, significa una natura comune con un determinato modo
d’essere, che compete alle cose singole, cioè che sia sussistente
per sé e distinto dagli altri»), e i. singolo («l’i.
singolo significa invece qualcosa di determinato e che distingue;
così il nome Socrate significa questa carne e questo volto», Summa
theologiae, I, q. 30, a. 4). Per Guglielmo di Occam, in
quanto egli nega l’esistenza di una realtà universale, realtà
significa essenzialmente individualità. Una vera e propria
rivoluzione nel modo di concepire l’i. avviene nella filosofia
moderna, a opera di Hegel. Egli introduce infatti la nozione di «i.
universale», il quale altro non è che «lo spirito autocosciente nel
suo processo di formazione», mentre «l’i. particolare è lo spirito
non compiuto: una figura concreta […] il cui essere determinato
domina una sola determinatezza e nella quale le altre sono presenti
solo di scorcio» (Fenomenologia dello Spirito, prefazione).
Enciclopedia del Novecento (1978)
di Wilhelm Wengler
Sommario: 1. Introduzione. 2. I vari modi di
considerare e valutare l'individuo: a) l'altro individuo come
cospecifico; b) l'individuo come elemento costitutivo di
masse o di gruppi umani; c) l'individuo in quanto
caratterizzato dall'appartenenza a una delle possibili
suddivisioni dell'umanità; d) valutazione dell'essere
umano in base alla sua utilità per la realizzazione degli
interessi del soggetto valutante; e) valutazione degli
individui in base al bene comune. 3. I diritti dell'uomo come
mezzo per garantire la coesistenza degli individui: a) individuo
e diritto; b) il diritto alla vita; c) il
diritto a un trattamento umano e a un'esistenza dignitosa; d)
il diritto alla sfera privata; e) i diritti dell'uomo
nei rapporti sociali esterni alla sfera privata; f) il
diritto all'uguaglianza di trattamento; g) esiste un
diritto dell'uomo all'equità? □ Bibliografia.
1. Introduzione
La coscienza del singolo di essere solo un esemplare concreto della
specie umana e la consapevolezza del fatto che ogni altro individuo
è anch'egli un essere umano dotato di una coscienza analoga sono
riscontrabili nel bambino solo a partire da una certa età; d'altra
parte, la mancanza di tale coscienza nell'adulto è considerata come
un sintomo di totale o parziale infermità di mente.
È comunemente riconosciuto che l'individuo umano, nella sua
singolarità corporea e nella costanza dei suoi caratteri ereditari,
rimane uguale a se stesso dalla nascita alla morte, e ciò anche se
le singole cellule che lo costituiscono si rinnovano tutte nel corso
di un certo numero di anni, anche se in lui si sviluppano nuove
facoltà e cambiano, in relazione alle disposizioni ereditarie o agli
influssi ambientali, i suoi interessi e le sue opinioni.
Qualora però nelle condizioni mentali di un individuo intervenga un
mutamento particolarmente profondo, sia pur riconducibile a
modificazioni fisiche, sorge, ad esempio nel diritto penale, il
problema se l'autore di un delitto, sano di mente all'epoca del
fatto, colpito in seguito da infermità mentale e infine guarito,
debba scontare, essendo ancora lo ‛stesso' individuo, la pena
inflittagli per il crimine a suo tempo commesso.
Ove sussista questa coscienza della propria e dell'altrui umanità,
gli altri individui, il loro comportamento e i loro interessi
diventano in vario modo oggetto di valutazioni, in base agli
interessi sia innati che acquisiti dell'individuo valutante,
intendendo qui il termine ‛interesse' nel suo si- gnificato più
ampio, comprendente non solo l'interesse ‛egoistico' per il proprio
benessere, ma anche gli interessi ‛morali' o ‛altruistici' per il
mutuo comportamento degli altri (v. il mio Völkerrecht,
1964, pp. 4 ss.). Alla coscienza della propria e dell'altrui umanità
è associata la coscienza che l'individuo è solo un uomo tra gli
uomini e che deve quindi vivere, anche come individuo, a contatto
con gli altri.
2. I vari modi di considerare e valutare l'indi-
viduo
Le principali forme in cui si articolano la considerazione e la
valutazione di un individuo umano da parte di un altro sono le
seguenti.
a) L'altro individuo come cospecifico
Analogamente alla maggior parte degli animali, che distinguono i
propri cospecifici dagli altri esseri viventi, anche l'uomo
distingue in primo luogo tutti gli altri uomini - ossia coloro che
secondo le scienze naturali rientrano nella specie Homo sapiens
- dai rimanenti esseri, e in particolare da quelli animati, e
associa a questa semplice distinzione tra ‛uomo', ‛animale' ecc.,
certe regole elementari di comportamento della morale individuale.
Tra queste vi sono anzitutto le inibizioni a sopprimere
arbitrariamente, ossia senza un motivo razionale, un altro
individuo, sia pur consenziente. È probabile anche che vi siano
inibizioni, prevalentemente istintive, a compiere, senza una
specifica giustificazione, atti le cui conseguenze verrebbero
presumibilmente risentite dall'altro individuo come dannose (e in
particolare gli atti che provocano un dolore fisico), per quanto di
norma tali inibizioni debbano ritenersi acquisite con l'educazione.
A questo riconoscimento di ogni altro individuo come proprio
cospecifico, dotato dei medesimi interessi per l'esistenza e per
l'indisturbato perseguimento dei propri fini, vengono tuttavia a
sostituirsi e a sovrapporsi, come vedremo in seguito, prospettive
diverse. Forse solo l'uomo ha la capacità di modificare il rispetto
istintivo per i suoi simili in quanto cospecifici: il desiderio di
uccidere un individuo odiato, o addirittura un qualsiasi altro
essere umano, può essere un sintomo d'infermità mentale, ma può
essere suscitato anche in un individuo mentalmente sano
dall'influsso di altre persone, dall'uso di droghe, ecc. La mancata
considerazione degli altri individui umani come cospecifici può
spingersi fino a negare l'umanità del ‛selvaggio' che appartiene a
un'altra razza o del malato di mente che si comporta in modo
animalesco, e quindi a sopprimere l'istintivo rispetto verso di essi
in quanto nostri ‛simili'.
Un caso limite di una siffatta alterazione della coscienza di una
comune umanità è dato dall'idea che un uomo possa essere equiparato
a una cosa (ad esempio ridotto in schiavitù) per semplice decisione
di altri uomini. Rimane aperta la questione se le inibizioni
psicologiche innate nei riguardi di un attentato arbitrario
all'esistenza di un altro uomo possano effettivamente venir meno nei
confronti dell'‛emarginato' o dello schiavo nella stessa misura che
nei confronti di un animale.
b) L'individuo come elemento costitutivo di masse o di gruppi
umani
La mente umana è anche capace di considerare gli individui come meri
‛elementi' di una pluralità di uomini concepita come un'unità. Come
il tecnico forestale non bada ai singoli alberi del bosco e non
pensa a essi come a esemplari concreti della loro specie, ma vede in
un tratto di bosco solo un certo numero di metri cubi di legname,
così l'ingegnere concepisce il carico gravante su un ascensore o su
un ponte come una massa umana dotata di un certo peso, senza
interessarsi affatto dei singoli individui che la compongono. Anche
riguardo ai provvedimenti di politica demografica o annonaria il
numero degli individui compresi in una popolazione è solo un
elemento per il calcolo, per esempio del fabbisogno alimentare.
Le ideologie ‛nazionali' (völkisch), del tipo di quelle
coltivate dai regimi fascisti, tendono per loro natura a concepire
l'uomo, almeno sotto certi aspetti, come semplice ‛elemento' di un
‛popolo' (Volk); di conseguenza il comportamento degli
individui, considerati come appartenenti al ‛proprio' popolo, viene
valutato di preferenza in relazione al mantenimento o al
miglioramento dello status che il popolo (o lo Stato in
cui esso è organizzato) ha nei confronti degli altri popoli (o
Stati). Ma non di rado nelle ideologie collettivistiche la
collettività - specialmente in quanto ha la proprietà dei mezzi di
produzione e dà lavoro ai singoli - viene presentata come preminente
rispetto all'individuo al solo scopo di mascherare l'interesse
individuale dei pubblici funzionari per le loro cariche.
Anche le azioni umane attribuite ai popoli, agli Stati, ecc., in
tanto hanno luogo in quanto l'individuo intende sempre e soltanto
soddisfare col suo agire un ‛proprio' interesse, e cioè un interesse
da lui sentito come tale; e ciò anche quando chi agisce voglia di
proposito operare ciò che egli ritiene utile all'interesse della
collettività, anteponendolo magari alla realizzazione di altri
interessi con esso incompatibili. Motivo dell'agire umano può essere
dunque solo un interesse sentito dall'individuo stesso, ovvero un
compromesso tra interessi propri che non sia possibile realizzare
contemporaneamente.
La concezione in cui l'individuo è considerato e valutato non come
un singolo, ma solo come elemento di un gruppo umano inteso come
unità primaria, non va confusa con quella in cui, nel valutare gli
uomini come individui, viene prestata maggior attenzione a coloro
che, per affinità di caratteristiche e di interessi, formano una
‛massa' particolarmente numerosa, anziché agli isolati che da tale
massa si differenziano (spesso intenzionalmente). La valutazione
degli individui a seconda che corrispondano o no all'immagine tipica
degli appartenenti a una società di massa - valutazione che può
essere importante, ad esempio, per i produttori di merci nel momento
di determinare l'offerta, oppure per gli uomini politici in una
democrazia a suffragio universale - non implica di per sé
l'attribuzione di un valore intrinseco alle organizzazioni formate
in prevalenza da ‛uomini-massa', come invece accade quando, in
un'ideologia ‛nazionale' (völkisch), l'individuo viene
valutato in base al suo ruolo nei riguardi dell'organizzazione.
c) L'individuo in quanto caratterizzato dall'appartenenza a una
tra le possibili suddivisioni dell'umanità
Il modo più frequente in cui il singolo diviene consapevole
dell'esistenza di altri individui umani non corrisponde a nessuno
dei due angoli visuali finora esaminati. Spesso infatti non si vede
nell'altro uno tra gli esemplari concreti, tutti di eguale valore,
dell'intera specie umana, bensì un esemplare concreto di una
suddivisione dell'umanità, definita per lo più in base a certi
caratteri presenti in una pluralità di esseri umani e mancanti negli
altri. Se nei giornali si parla di un delitto, esso non sarà stato
commesso da un ‛essere umano', bensì da un uomo, o da una donna, o
da un giovane, o da uno straniero, ecc. La comprensione dell'altro
nella sua qualità di appartenente a un dato sottogruppo umano
costituisce spesso il punto di partenza (anche se non
necessariamente l'unico motivo) per valutare l'individuo stesso.
L'interesse erotico di un uomo per una donna da lui incontrata si
riferisce inizialmente all'altro in quanto ‛essere umano di sesso
femminile'; il sentimento d'amore per l'individuo singolo è fondato
invece su un'ulteriore preferenza, per lo più priva di fondamento
razionale, per quell'individuo rispetto ad altri simili.
Spesso il semplice fatto che l'individuo soggetto e quello oggetto
della valutazione appartengano o no allo stesso gruppo diventa il
criterio determinante della valutazione, e in alcuni casi anche di
una valutazione avente effetti giuridici. L'appartenenza dell'altro
allo stesso gruppo del valutante è allora per lo più (ma non sempre)
motivo di una valutazione positiva, e viceversa. Non ha importanza a
tal fine che si tratti di un gruppo organizzato o semplicemente di
una suddivisione umana definita da certi caratteri differenzianti:
il singolo individuo dà spesso la preferenza ai consanguinei, ai
membri della propria stirpe, ai connazionali, ai correligionari ma
anche agli appartenenti alla propria razza e in alcuni casi alle
persone del proprio sesso per il solo fatto che sono, come suol
dirsi, ‛dei nostri' anziché ‛estranei'. Nei casi estremi, certi
individui sono visti come membri di un popolo eletto da Dio sopra
tutti gli altri, oppure il proprio popolo e gli altri vengono messi
a priori in un rapporto di amicizia o di ostilità per cui
i singoli individui sono considerati senz'altro come amici se
appartengono al proprio popolo e come nemici se appartengono agli
altri. Anche il riferire le prestazioni fisiche di un individuo al
popolo o allo Stato a cui appartiene - idea che è alla base dei
giochi olimpici - costituisce un caso estremo di questo modo di
concepire l'individuo.
Tuttavia, non sempre gli individui sono consapevoli della propria
oggettiva appartenenza a un gruppo umano, organizzato o no; e ancor
meno tale consapevolezza implica necessariamente un interesse alla
conservazione o al rafforzamento dello status del gruppo
stesso rispetto ad altri gruppi, anche se per molti, ad esempio,
l'idea di ‛coscienza nazionale' comporta fra l'altro questa
conseguenza. La valutazione positiva dell'appartenenza al proprio
gruppo da parte dell'individuo deriva non di rado dalla semplice
suggestione esercitata dall'altrui valutazione positiva: spesso
l'individuo ha il timore angoscioso di non condividere la coscienza
di gruppo di chi lo circonda. L'individuo umano, però, è anche in
grado di imparare a verificare se queste appartenenze risultino per
lui - in quanto singolo - vantaggiose o nocive; la ‛coscienza di
gruppo' priva di fondamento razionale, con le conseguenze che ne
derivano, può infatti essere allora sostituita da una valutazione
utilitaristica.
D'altra parte, non sempre l'assegnazione degli individui a un gruppo
umano è fondata su qualità preesistenti: talvolta la mente dell'uomo
crea essa stessa contrassegni d'appartenenza del tutto arbitrari. Se
tra ventidue persone si formano mediante sorteggio due squadre col
fine concordato di disputare una partita di calcio, ciò è
sufficiente perché in ogni singolo individuo assegnato a una delle
squadre nasca un interesse per la vittoria della ‛propria' squadra,
e quindi per un idoneo comportamento di gioco dei propri compagni.
d) Valutazione dell'essere umano in base alla sua utilità per
la realizzazione degli interessi del soggetto valutante
Quando, nel valutare l'altro, non si veda semplicemente in lui un
proprio simile, né si ricorra al criterio ‛arcaico' della sua
appartenenza o non appartenenza allo stesso gruppo del valutante,
l'attenzione si sposta sulle qualità da lui eventualmente possedute
e che occorrerà determinare anche da un punto di vista quantitativo:
si valuta allora l'altro individuo in base all'utilità o al danno
che, con tali qualità, egli può arrecare alla realizzazione di un
interesse proprio del valutante, e in base alla maggiore o minore
utilità (o danno) rispetto a ciò che il valutante può aspettarsi da
altri individui dotati di qualità analoghe. Ad esempio, il
proprietario di beni coi quali è possibile produrre altri beni
mediante lavoro umano è interessato ad altri uomini idonei e
disposti a compiere tale lavoro, nonché alla possibilità di
accordarsi, alle condizioni relativamente più favorevoli, coi
lavoratori relativamente più capaci e volenterosi.
Il bambino interessato a che il genitore rimasto vedovo trovi un
nuovo coniuge ‛adatto', il committente di un prodotto interessato a
che l'imprenditore trovi e utilizzi buoni operai, il singolo
cittadino interessato a che i suoi connazionali eleggano i migliori
capi politici, sono tutti esempi di un possibile interesse
individuale all'attuazione di scelte positive da parte di altri
individui.
e) Valutazione degli individui in base al bene comune
Nella sua forma più sofisticata, il modo di concepire gli altri
individui ora descritto consisterebbe nell'esaminare ogni altro
individuo, sulla scorta di tutte le sue qualità, allo scopo di
accertarne l'utilità diretta o indiretta rispetto al complesso di
tutti gli interessi propri del valutante: in tal modo ciascun
individuo verrebbe considerato e valutato, nella sua unicità,
accanto a tutti gli altri. Molte religioni attribuiscono a un dio
personale una simile valutazione di tutti gli individui, ma è ovvio
che per l'uomo singolo essa risulta praticamente irrealizzabile.
Nella maggior parte delle società umane, l'Eros operante nelle
relazioni interumane porta invece a preferenze non razionalmente
fondate, e quindi arbitrarie, per determinati individui rispetto a
tutti gli altri.
Questi modi così diversi di considerare e valutare l'individuo, e in
particolare l'‛altro' individuo, si riflettono soprattutto nel
diritto, e cioè nel tentativo di dirigere il comportamento umano -
mediante l'emanazione di norme astratte e la minaccia di sanzioni -
verso beni giuridici in modo rispondente agli interessi di coloro
che si adoperano per l'attuazione delle norme giuridiche stesse. Nel
diritto prodotto dagli uomini si pone spesso l'esigenza che il
legislatore valuti ogni individuo in base all'utilità del suo
comportamento nei riguardi di ciò che costituisce il ‛bene comune'.
A questo proposito, è di fondamentale importanza lo stabilire se,
nel tentativo d'identificare il bene comune di una pluralità
d'individui, come criterio di valutazione del comportamento - ed
eventualmente della stessa esistenza del singolo - si debbano
mettere in conto i soli interessi effettivamente esistenti (o
supposti allo stato latente) di tutti gli individui in questione, o
se invece si debba considerare, come ulteriore o addirittura come
unico fattore per il conseguimento di ciò che deve valere come bene
comune di un gruppo umano, anche lo status del gruppo in
quanto tale rispetto agli altri gruppi. Come già si è accennato, le
ideologie ‛nazionali' (völkisch) tendono a identificare il
bene comune di una pluralità d'individui, soprattutto se organizzata
in uno Stato, con la preminenza dello Stato nella sua totalità
rispetto agli altri; invece in una concezione ‛umanistica' o
‛individualistica', orientata cioè a considerare gli uomini come
individui, il gruppo umano - organizzato o no - è oggetto, in quanto
gruppo, di una valutazione positiva solo se la sua esistenza e il
suo funzionamento giovano agli interessi sentiti come propri dagli
individui appartenenti al gruppo, ovvero se questi ultimi sentono
essi stessi un interesse ‛morale' per la preminenza del proprio
gruppo.
Secondo questa concezione del bene comune, la salvaguardia
dell'esistenza e del potere di uno Stato al quale i cittadini
appartengano contro la propria volontà e il cui perpetuarsi sia
dannoso per gli interessi individuali della maggioranza di essi, non
può essere considerata come un fattore determinante nel calcolo del
bene comune. Ciò nonostante trovano sostenitori, soprattutto tra
coloro che hanno personalmente interesse a continuare ad agire come
organi di uno Stato siffatto, le ideologie secondo cui una ‛rinuncia
volontaria' dello Stato non può essere compito dei suoi legislatori.
Analoghe concezioni circa un diritto autonomo all'esistenza da parte
di associazioni e istituzioni, in contrasto con gli effettivi
interessi personali degli individui interessati, vengono sostenute
anche a proposito di Chiese, forme statali democratiche, ecc.; tali
concezioni non possono che essere rifiutate da chi consideri il bene
comune da un punto di vista individualistico.
Connessa con quanto si è detto è la questione se, nella
determinazione del bene comune, le eventuali concezioni erronee
degli individui associati circa i mezzi atti a realizzare i propri
interessi (supposti in armonia tra loro) possano essere ignorate dal
legislatore che sia convinto della loro erroneità. In altri termini,
si tratta di stabilire se il ‛diritto di autodeterminazione' degli
individui giuridicamente associati al fine di realizzare i propri
interessi includa anche il diritto di seguire strade sbagliate, e se
l'interesse degli associati a seguire strade sbagliate possa essere
assunto come elemento nella determinazione del bene comune. Un modo
errato di attuare gli interessi ultimi, tra loro in armonia, di una
pluralità d'individui potrebbe consistere ad esempio nel rifiuto di
una determinata istituzione collettiva da parte dei singoli.
L'espediente pragmatistico secondo cui l'opinione dei pochi circa la
strada giusta per l'attuazione degli interessi comuni dovrebbe
sempre cedere di fronte all'opinione della maggioranza non tiene
conto soprattutto del fatto, largamente riconosciuto, che nella
società odierna alcuni individui, grazie a qualificazioni personali
fondate sulla ricerca scientifica, sono meglio informati di altri
circa le vie da seguire per realizzare quegli interessi. È singolare
che proprio i sistemi di governo che fondano la propria legittimità
su una base razionale non abbiano trovato il modo di far sì che,
nella promozione del bene comune, la parola decisiva spetti
all'opinione, libera da influssi, degli individui scientificamente
qualificati. Tuttavia, anche se le decisioni sulle vie da seguire
per realizzare gli interessi comuni degli individui associati
fossero riservate unicamente agli scienziati competenti, in una
visione individualistica del bene comune l'obiettivo finale sarebbe
pur sempre costituito dai concordi interessi degli individui alla
propria ‛felicità terrena', interessi che non sarebbe possibile
liquidare come ‛non scientifici'.
Pertanto, quali che siano gli individui da annoverare nella
pluralità il cui bene comune costituisce il punto di riferimento
nella produzione del diritto o in altre attività statali, ciò che
conta sono sempre gli interessi realmente presenti nei singoli. Ora,
questi interessi possono essere molto diversi tra loro: ad esempio,
un individuo può desiderare che il bene comune venga determinato
unicamente per il complesso dei cittadini del proprio Stato, mentre
un altro può sentire come oggetto del suo interesse morale il bene
comune dell'umanità intera e pretendere che il legislatore ne tenga
conto. Un simile dissidio si manifesta oggi quando vi siano da
prendere decisioni di politica economica internazionale che
riguardino i cittadini dei paesi ‛ricchi' e di quelli ‛poveri'.
Difficoltà assai gravi presenta per i filosofi del diritto il
problema d'identificare il bene comune nel caso che la maggioranza
dei membri di una comunità giuridicamente organizzata persegua la
realizzazione dei propri interessi a scapito di quelli della
minoranza, posto che non vi sia in effetti altro modo per realizzare
gli interessi della maggioranza. In tal caso si ripiega per lo più
su una soluzione di compromesso: a certi interessi della minoranza -
garantiti da quei diritti dell'uomo che ci riserviamo di trattare
più a fondo qui appresso - viene attribuito nella determinazione del
bene comune un peso così forte da far sì che essi non possano essere
sopraffatti (a meno di casi eccezionali) dai contrapposti interessi
della maggioranza. Che poi gli stessi diritti dell'uomo spettino
anche ai membri della maggioranza è cosa ovvia.
3. I diritti dell'uomo come mezzo per garantire la coesistenza degli
individui
a) Individuo e diritto.
Indipendentemente dal fatto che si consideri il bene comune da un
punto di vista individualistico o collettivistico, o che addirittura
si prescinda completamente da esso, ogni norma giuridica di
comportamento nasce dal fatto che il singolo individuo ha certi
interessi; che si sforza di realizzarli nello ‛sviluppo della
propria personalità'; che di fronte ai suoi interessi tra loro
divergenti egli tende a conseguire, mediante compromessi, la massima
soddisfazione possibile; e infine dal fatto che egli si sente
toccato nei suoi interessi dalle norme giuridiche e può vedere in un
comportamento conforme a esse il modo relativamente più vantaggioso
per realizzarli. Un comportamento del tutto sciolto da regole da
parte di individui non completamente isolati tra loro ha come
risultato che i tentativi del singolo di attuare i propri interessi
si traducano troppo spesso in un ostacolo allo ‛sviluppo della
personalità' altrui, mentre una disciplina giuridica del
comportamento rappresenta in primo luogo un mezzo per garantire la
coesistenza degli individui. La protezione di un minimo di sviluppo
individuale per tutti dagli impedimenti frapposti da altri è
ottenuta mediante quei principi giuridici che, nel diritto pubblico
come in quello internazionale, sono alla base dei cosiddettti
diritti umani dell'individuo. Fra tali diritti assumono particolare
importanza non soltanto quelli destinati a impedire le violazioni
dei ‛diritti fondamentali' dell'individuo da parte di organi
pubblici (compreso il legislatore stesso), ma anche quei diritti
umani soggettivi che trovano il loro riflesso o la loro attuazione
in obblighi di comportamento a carico di tutti gli altri individui.
A ciò è associata peraltro l'idea che esistono certi doveri umani
elementari dell'individuo verso la totalità degli altri individui,
doveri cui però non corrisponde, negli ‛altri' in quanto singoli, un
diritto rivendicabile in giudizio. Se poi la pretesa violazione di
un diritto umano debba essere denunciata dall'individuo che si
ritiene danneggiato mediante un normale procedimento giudiziario
dinanzi al giudice competente, o se invece ciò debba avvenire con
una particolare procedura dinanzi a tribunali speciali, è una
questione di elaborazione tecnica del diritto positivo sulla quale
non insisteremo oltre.
In numerose carte costituzionali si trovano, accanto a diritti
fondamentali dell'individuo rivendicabili giudizialmente, direttive
programmatiche per l'elaborazione delle leggi, la cui violazione non
può dare origine a rivendicazioni di singoli, anche se tali
direttive si presentano come disposizioni per la salvaguardia di
certi diritti fondamentali o umani dell'individuo. Ai fini delle
applicazioni pratiche è importante esaminare, accanto al complesso
di diritti fondamentali o diritti dell'uomo attualmente recepiti nel
diritto positivo, alcune questioni: se cioè in certi casi questi
diritti, nel loro attuarsi, non vengano a essere in contrasto
reciproco, se nella comune opinione giuridica non esistano, allo
stato latente, altri diritti dell'uomo oltre a quelli già
codificati, e infine se non sia necessario, per garantire nelle
attuali condizioni la coesistenza degli individui, integrare con
altri diritti dell'uomo quelli fondamentali già riconosciuti dal
diritto positivo.
b) Il diritto alla vita
Il primo e più importante diritto di ogni individuo umano venuto
alla luce è il diritto alla vita, ossia a proseguire senza
impedimenti la propria esistenza fino alla morte naturale.
Nell'ordinamento giuridico questo diritto viene tutelato innanzi
tutto mediante il divieto (in condizioni normali, salve cioè alcune
eccezioni) dell'omicidio sia volontario che colposo. Tale divieto si
rivolge, oltre che ai privati, anche agli organi pubblici; è
previsto inoltre che questi ultimi intervengano immediatamente
contro ogni tentativo di violare il divieto stesso. Il diritto alla
vita si traduce in primo luogo in un impegno programmatico del
legislatore a elaborare provvedimenti di legge per proteggere la
vita dalle azioni nocive di altri; per lungo tempo è rimasto
peraltro ignorato il fatto che tale diritto implica anche un impegno
programmatico da parte dello Stato a prendere provvedimenti per
evitare le perdite di vite umane provocate da eventi naturali (per
es., epidemie), fronteggiabili solo mediante un'azione collettiva.
Anche nelle società organizzate statualmente che praticavano la
schiavitù era spesso vietata l'uccisione arbitraria dello schiavo da
parte del padrone, in quanto anche lo schiavo era ‛un essere umano'.
Con maggiore difficoltà s'è affermata nella storia l'idea che
l'ordinamento giuridico di un determinato gruppo umano debba
proteggere dall'uccisione arbitraria lo ‛straniero' con la stessa
forza con cui protegge i propri membri; comunque anche le comunità
fondate su una fede religiosa avente la pretesa esclusiva alla
verità hanno riconosciuto il diritto del ‛miscredente' di veder
tutelata - in particolare nei confronti del ‛credente' - la propria
vita, anche se in un primo tempo a ciò non ha corrisposto un egual
trattamento del miscredente per quanto riguarda altri diritti
dell'uomo.
Il divieto dell'omicidio volontario si presenta come riflesso di un
diritto dell'uomo specialmente là dove sia legalmente ammessa
l'uccisione di esseri viventi diversi dall'uomo. È singolare che
solo presso qualche religione (ad es. nel jainismo) i dubbi circa la
legittimità di limitare il divieto d'uccidere all'omicidio abbiano
portato a estendere tale divieto agli animali in cui sia evidente
una volontà istintiva di difendere la propria vita.
Le società che ammettono l'uccisione di animali si limitano a
proibire la crudeltà e a vietare lo sterminio di specie rare,
sempreché vi sia un certo numero di persone autorevoli a ciò
interessate per ragioni morali o utilitarie. Anche la conservazione
della specie umana, nel suo complesso o in una determinata
sottospecie, può essere oggetto di un interesse umano, eventualmente
sostenuto dalla legislazione; in ogni caso, ovviamente, il diritto
che ciascun individuo ha di vivere indisturbato agisce
indirettamente a favore della protezione dell'intera specie. Solo in
seguito agli avvenimenti della storia più recente il divieto di
uccidere volontariamente altri individui è stato rafforzato nel caso
che l'intenzione omicida si riferisca a tutti gli appartenenti a un
dato ‛popolo' (divieto del ‛genocidio' sancito dalla Convenzione del
9 dicembre 1948; v. genocidio).
La proibizione dell'omicidio volontario ha trovato per lungo tempo
un'eccezione nella pena di morte inflitta per la trasgressione di
determinate norme giuridiche: pena che, a differenza di altre, non è
certamente rivolta alla correzione del colpevole. Altrettanto
importante è l'eccezione costituita dall'ammissibilità
dell'uccisione di individui ‛nemici' nel corso di una guerra
regolare tra gruppi umani legittimati a combattere. A ciò si
aggiunge, in quasi tutti gli ordinamenti giuridici, il diritto di
uccidere per difendere da un'aggressione illecita una vita umana o
anche altri beni giuridici; tale diritto, richiamandosi allo stato
di necessità derivante da un pericolo di vita per sé o per i propri
congiunti, viene talvolta ammesso anche in circostanze diverse da
un'aggressione da parte dell'ucciso.
Dappertutto è caduto in desuetudine il ‛diritto' - fondato su una
concezione magica del mondo - all'omicidio connesso col cannibalismo
o con sacrifici religiosi, ‛giustificati' non di rado in passato col
perseguimento del bene comune. Solo in qualche ordinamento penale è
ammessa la possibilità di legittimare con lo stato di necessità
l'omicidio volontario diretto a salvare chi uccide o una terza
persona - la cui vita venga giudicata, in base a una ponderazione di
valori, più preziosa di quella dell'ucciso - da un pericolo mortale
‛non' causato dall'uccisore. È discutibile poi se e in quali
circostanze sia lecito predisporre intenzionalmente pericoli letali
allo scopo d'identificare o fermare l'autore di un atto illecito o
d'impedire aggressioni contro beni giuridici diversi dalla vita di
terzi. Ad esempio, alcuni ordinamenti considerano punibile
(specialmente in caso di ‛successo') l'installazione di congegni
automatici da sparo contro ladri o altri intrusi, quando non ne
venga segnalata l'esistenza e talvolta anche quando tale
segnalazione sussista. È da notare che nelle convenzioni sui diritti
dell'uomo non viene stabilito espressamente se il diritto alla vita
sia violato o no da analoghi dispositivi destinati a impedire
l'espatrio clandestino: le posizioni assunte in proposito dai vari
Stati sono tra loro discordi.
L'omicidio volontario viene oggi considerato dappertutto come lecito
quando esso rappresenti l'unico mezzo disponibile per respingere
un'aggressione illecita alla vita altrui. Quest'azione di legittima
difesa è ammessa anche nei confronti di chi sia incapace d'intendere
e volere, così come non è punibile l'omicidio risultante da una
legittima difesa putativa. Per contro, in molti paesi la pena di
morte viene oggi rifiutata, anche nel caso di omicidio, come un tipo
di punizione indegno dell'uomo.
Analogamente, nel moderno diritto internazionale una condotta
militare implicante l'uccisione di uomini è considerata lecita solo
se rappresenta la difesa da una guerra d'attacco; a tale proposito
spesso si richiede che la guerra difensiva sia diretta soltanto a
impedire ulteriori aggressioni ed eventualmente a ristabilire lo status
quo. È discussa la liceità di un inizio preventivo delle
operazioni belliche in seguito a semplici preparativi d'aggressione
messi in atto dalla controparte, come pure la liceità di una guerra
originata da violazioni del diritto internazionale i cui effetti su
un determinato Stato siano assimilabili a quelli di un attacco
armato. È ugualmente dubbio se il divieto di far ricorso per primi
alla forza delle armi debba considerarsi sospeso allorché in uno
Stato non sia più garantito il di- ritto umano alla vita. Il diritto
‛umano' del singolo alla vita vige anche in caso di guerra, nel
senso che l'uso intenzionale della forza contro la vita dei non
combattenti, dei combattenti disarmati e di quelli disposti ad
arrendersi è vietato dalle prescrizioni ‛umanitarie' del diritto
internazionale di guerra. Il divieto di arrecare al nemico - col
pretesto che si tratta di conseguenze inevitabili di atti bellici -
perdite di vite umane militarmente ‛superflue' deriva non tanto
dalla volontà di tutelare gli individui interessati quanto dal
divieto, che ricade, come caso particolare, nel divieto di
genocidio, di condurre una guerra di sterminio contro la nazione
nemica.
La disciplina legislativa del diritto umano alla vita incontra
alcune difficoltà nel caso in cui, di fronte a una vita umana in
pericolo, chi ne abbia la possibilità ometta di prestare soccorso.
L'obbligo di aiutare chi versi in imminente pericolo di vita in
seguito a incidenti o a eventi naturali, come pure per atti illeciti
di terzi, viene in genere imposto a chi esercita determinate
attività (medici, agenti di polizia, ecc.). Alcuni ordinamenti,
peraltro, considerano punibile chiunque ometta di salvare un altro
individuo da un imminente pericolo di vita, quando ciò sia possibile
senza compromettere importanti beni giuridici del soccorritore (cfr.
il È 330 c del Codice penale della Repubblica Federale Tedesca).
La maggior parte degli ordinamenti giuridici obbligano inoltre
genitori, figli e talvolta anche altri consanguinei, nonché i
coniugi, a fornire il necessario ed eventualmente a prestare
assistenza personale al congiunto che non sia in grado di
sostentarsi con le proprie forze. È singolare il fatto che in molte
elencazioni di diritti fondamentali non sia espressamente menzionato
il diritto umano a un analogo aiuto da parte dello Stato, sia pure
come semplice intervento sussidiario; e ciò anche nei paesi in cui
in effetti questo soccorso statale viene di regola prestato, in
particolare nei casi di estrema indigenza. In alcune costituzioni,
ad esempio in quella italiana, il diritto dell'ammalato privo di
mezzi a essere assistito a spese dello Stato vien fatto derivare da
un diritto fondamentale dell'individuo e dall'interesse della
collettività alla salute di tutti. La mancanza di un accordo
internazionale in proposito non consente peraltro d'ipotizzare
l'esistenza di un obbligo giuridico degli Stati di soccorrere gli
abitanti di un altro paese colpito da carestia o da analoghe
calamità. Nel caso delle costituzioni che prevedono un diritto
fondamentale al lavoro, a esso deve intendersi associato, anche in
mancanza di un'esplicita disposizione, il diritto di chi è privo di
mezzi - in quanto sia inabile al lavoro ovvero, pur essendo abile e
volenteroso, non riesca a trovare lavoro - all'assistenza statale
(cfr. l'art. 38 della Costituzione italiana). Un'altra specie
d'integrazione del diritto umano alla ‛vita mediante il lavoro'
consiste nella norma, prevista da numerosi ordinamenti giuridici,
per cui al lavoratore dipendente a tempo pieno dev'essere
corrisposto un salario minimo sufficiente al sostentamento.
Si discute tuttora se, accanto al diritto umano alla conservazione
della vita, vi sia anche quello di anticipare volontariamente la
propria morte. Mentre è scomparsa quasi dappertutto la punibilità
del tentato suicidio contemplata nei vecchi codici penali,
l'omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio sono considerati
tuttora punibili; d'altra parte, sembra che negli ultimi tempi si
vada affermando l'opinione che gli atti rivolti a prolungare, contro
il volere espresso o presunto dell'interessato, una vita che sta
ormai per spegnersi non siano ammissibili e in ogni caso non
facciano parte dei doveri professionali del medico.
Per lungo tempo, il problema di definire quali comportamenti umani
debbano essere vietati dal legislatore in quanto provocano
colposamente un'abbreviazione della vita altrui non è stato visto
sotto l'aspetto del diritto dell'individuo alla vita. I pericoli per
l'uomo creati dalla tecnica moderna e la riduzione della durata
media della vita dovuta ad altre conseguenze della civiltà
contemporanea sono stati accettati in larga misura in quanto
ritenuti ‛compatibili con l'interesse sociale': si è argomentato
cioè che nel conseguimento del bene comune vada accettata come
inevitabile la possibilità di un abbreviamento della vita di singoli
individui, scelti dal caso: la giustificazione sarebbe data dal
concorde interesse di tutti gli altri o anche soltanto della grande
maggioranza. Solo negli ultimi tempi si è affermata, come corollario
del diritto dell'individuo alla vita, l'esigenza di un più rigoroso
controllo dello Stato sui pericoli letali a cui un gran numero di
persone è esposto in caso di ‛incidenti', per esempio nelle centrali
nucleari.
c) Il diritto a un trattamento umano e a un'esistenza dignitosa
Una volta affermato il diritto dell'individuo di essere aiutato a
sopravvivere, è comprensibile che specialmente chi si richiama a
tale diritto non veda in esso un puro e semplice diritto alla vita,
bensì il diritto di condurre un'esistenza ‛degna dell'uomo'.
Stranamente, nelle elencazioni di diritti fondamentali previsti
dalle leggi questo diritto di vedersi assicurato un livello minimo
del tenore di vita e d'istruzione passa in secondo piano rispetto ai
numerosi diritti di libertà nei confronti di interventi statali
lesivi della dignità umana. Tali diritti comprendono in particolare
il diritto di circolare liberamente in ogni parte del territorio
statale aperto alla generalità dei cittadini, il diritto
all'integrità fisica (salvo il consenso dell'interessato), il
diritto di formarsi un'opinione indipendente e di esprimerla
liberamente, il diritto di costituire una famiglia, ecc. Tuttavia
accade spesso che, attraverso leggi generali, parecchie di queste
libertà siano esposte a violazione da parte sia della pubblica
amministrazione che del legislatore. In altri casi, i vari aspetti
che questi diritti fondamentali presentano sono trattati, nella
pratica, in modo differente: ad esempio, il diritto del singolo di
non essere costretto ad abbandonare il luogo di residenza è stato
violato su larghissima scala negli scorsi decenni, nonostante che il
diritto alla libera scelta della residenza comprenda, oltre al
diritto di trasferirsi, anche il ‛diritto al proprio luogo natio'.
Specialmente nei paesi economicamente sviluppati dell'Occidente, si
fa consistere la dignità dell'esistenza individuale nel godimento
del maggior numero possibile di questi diritti di libertà. In tali
paesi, spesso l'unico sforzo compiuto dallo Stato per rendere
operante il diritto a un tenore di vita dignitoso consiste nel
vietare ai datori di lavoro l'impiego di lavoratori (anche se
consenzienti) in condizioni lesive della dignità umana, oppure nel
vietare ai proprietari di case di affittare alloggi il cui stato
offenda la dignità degli inquilini. D'altra parte, l'impostazione da
parte del legislatore di una politica economica tendente ad
accrescere il reddito nazionale in misura tale da garantire a ogni
cittadino un livello minimo di vita non può certo essere oggetto di
una pretesa rivendicabile dai singoli in giudizio; così pure il
diritto umano a un livello minimo d'istruzione riesce raramente a
concretarsi nell'istituzione di scuole pubbliche nelle zone in cui
esse manchino.
Come abbiamo visto, l'idea che il diritto umano a un'esistenza
dignitosa comprenda anche il diritto alla garanzia di un livello
minimo di vita è passata in secondo piano rispetto alla
rivendicazione dei ‛diritti di libertà'; ciò ha avuto come
consegnenza l'offuscamento di un'altra rivendicazione potenziale nel
campo dei diritti dell'uomo, e cioè la presumibile esigenza di non
venire al mondo senza un minimo di opportunità di condurre
un'esistenza dignitosa. A una pianificazione demografica statale che
reagisca al pericolo della sovrappopolazione favorendo la
contraccezione ed eventualmente l'aborto volontario spesso si
contrappone ancora l'affermazione di un diritto umano alla piena
‛libertà' di procreazione.
Ma non appena, in un futuro più o meno vicino, il diritto a un
dignitoso tenore minimo di vita verrà a essere minacciato e i
provvedimenti di politica demografica diventeranno inevitabili, non
si potrà più eludere la questione se quei provvedimenti debbano
tendere a garantire al massimo numero possibile di persone un tenore
minimo di vita o se invece si debba cercare di ottimizzare sia il
numero degli abitanti che la composizione della popolazione in
funzione di un tenore di vita che sia il più elevato possibile.
Poiché questa problematica è divenuta d'attualità solo negli ultimi
tempi, senza che la maggior parte degli individui ne abbia preso
ancora coscienza, non s'è ancora potuta formare un'opinione
prevalente al riguardo.
Un'analoga arretratezza si può constatare del resto a proposito di
un diritto dell'individuo che pure è sancito come fondamentale dalla
maggior parte delle costituzioni, e cioè del diritto di formarsi
liberamente un'opinione. In effetti, quanto più viene assicurata
agli individui la possibilità di mantenere un tenore di vita minimo,
tanto più diventa forte nei singoli la tendenza - quando occorra
opporsi agli sforzi compiuti da altri per realizzare i loro
interessi, che siano in contrasto con i propri - a ricorrere a mezzi
‛diversi' dai tentativi di pregiudicare la vita e la libertà di
movimento altrui. In tal caso si cercherà soprattutto di modificare,
mediante l'imposizione di opinioni, il contenuto degli interessi che
gli altri individui avvertono come propri. Si pone allora il
problema di un ulteriore diritto dell'individuo, consistente nella
libertà di sottrarsi a simili pressioni, ed eventualmente il
problema di un diritto del singolo di essere aiutato a valutare
criticamente quei tentativi d'influenzarlo. Per lo più l'idea di
questi diritti dell'uomo rimane oggi soffocata dall'importanza
attribuita all'universale diritto alla libertà non solo di esprimere
la propria opinione, ma d'influenzare mediante tale espressione
l'opinione altrui. Ciò nonostante da questo diritto, pur chiaramente
subordinato, dell'individuo di non vedersi trasformato in uomo-massa
da una propaganda non richiesta si è potuta già trarre la
conseguenza che non è lecito sottoporre contro la loro volontà gli
utenti dei mezzi pubblici di trasporto all'invadenza della
pubblicità radiofonica. Di difficile realizzazione appare anche il
proposito di tutelare l'individuo dai tentativi indesiderati
d'influenzarlo compiuti nell'ambito di istituzioni semipubbliche o
durante il lavoro.
Ci si può chiedere poi se non si debba ammettere, accanto agli
altri, un diritto dell'individuo di non essere disorientato da
informazioni false nella formazione delle proprie opinioni. Accanto
a quest'aspetto difensivo del diritto umano alla verità occorre
peraltro considerare, come corollario dello stesso diritto, un
obbligo programmatico, a carico dello Stato, di favorire la ricerca
scientifica e di diffondere fra tutti gli interessati le conoscenze
così acquisite. Per ora, anche questo diritto umano rimane in
subordine rispetto al diritto ‛fondamentale' del singolo di non
incontrare ostacoli nel diffondere le proprie opinioni con lo scopo
d'influenzare l'opinione altrui.
Mentre sono ancora largamente diffuse le concezioni che negano alla
donna il diritto di decidere se continuare o interrompere la
gravidanza, al dovere dei genitori di allevare il bambino fino a
quando abbia raggiunto l'autonomia viene per lo più associato un
loro diritto - recepito talvolta nella costituzione come diritto
fondamentale - d'influenzare unilateralmente la formazione delle
opinioni del figlio e la sua visione del mondo. D'altra parte,
l'obbligo di frequentare le scuole pubbliche spesso non è diretto a
correggere mediante un'informazione pluralistica l'influsso
unilaterale dei genitori, ma viene strumentalizzato dai partiti e
dalle organizzazioni dominanti, che si avvalgono della loro
posizione di datori di lavoro degli insegnanti per esercitare
influssi altrettanto unilaterali. È anche raro che di fronte al
diritto dei genitori di decidere circa l'educazione del figlio
riesca ad affermarsi un diritto di quest'ultimo a una formazione il
più possibile adeguata alle sue doti individuali.
Dal diritto dell'individuo di veder tutelata la libera formazione
delle proprie opinioni viene oggi tratta in alcuni paesi la
conseguenza che i mass media pubblici come la stampa, la
radio e la televisione non devono essere sfruttati da monopoli - di
diritto o di fatto - per esercitare influssi unilaterali. Da parte
loro, i dittatori che in vari paesi sono stati innalzati al potere
dagli ‛uomini-massa' si sforzano di modellare l'opinione di tutti i
sudditi su quella di coloro da cui dipende la conservazione di tale
potere; ma anche nelle ‛libere' democrazie i governanti considerano
il proprio diritto d'influire unilateralmente sulla formazione
dell'opinione degli adulti come preminente rispetto al diritto a
un'informazione pluralistica che consenta la ‛libera' formazione di
opinioni individuali.
Idee alquanto vaghe si hanno sulla possibilità di dedurre dal
diritto a un trattamento umano del singolo l'inammissibilità di
certe forme ‛inumane' di rapporti interpersonali e la conseguente
necessità di reprimerle. Ci si riferisce qui a forme d'‛inumanità'
nelle punizioni, nella condotta della guerra (non condannata a
priori), nei trattamenti medici, ma anche nel comportamento
verso gli animali e verso l'ambiente naturale. Le valutazioni di
questo genere sono esposte alle continue modificazioni dell'opinione
pubblica; il tentativo di tradurre il diritto a un trattamento umano
in un diritto fondamentale, rivendicabile in giudizio, alla
repressione dell'inumanità (si pensi ad esempio alle proteste
popolari contro le costruzioni che compromettono l'ambiente) obbliga
di solito i giudici competenti ad adeguare di volta in volta il loro
giudizio alle tendenze in atto nell'opinione pubblica.
d) Il diritto alla sfera privata
Forse mai nella storia dell'umanità ha avuto significato pratico la
questione se l'individuo possa rivendicare come un diritto umano
irrecusabile il diritto di condurre un'esistenza da eremita, ossia
libera da qualsiasi contatto con gli altri uomini. Ma nella società
moderna uno dei diritti umani più importanti è quello dell'individuo
di decidere egli stesso, in un determinato ambito, se stabilire o no
rapporti con altri e, in caso affermativo, quale forma dare,
d'intesa con gli interessati, a questi rapporti. Al diritto, già da
lungo tempo riconosciuto all'individuo, di pensare da sé e di non
dover rendere conto ad alcuno circa i risultati delle proprie
riflessioni (in particolare, circa le proprie ‛opinioni' e la
propria ‛coscienza') s'è affiancato negli ultimi tempi il diritto
dell'individuo alla segretezza e alla libera determinazione della
propria ‛vita privata'.
Tuttavia, accade spesso che sia insufficientemente garantito il
diritto di tenere segreti i propri pensieri di fronte alle
sollecitazioni provenienti dagli organi pubblici o da altri organi.
Supposto che vi siano persone sospettate di abusare della posizione
occupata nell'apparato statale per svolgere attività illegali (in
particolare, attività lesive dei diritti fondamentali), e che agli
organi pubblici competenti spetti l'obbligo d'impedire l'attuazione
di questi abusi, non è facile decidere se sia lecito richiedere a
queste persone sospette non solo di manifestare il proprio
atteggiamento interiore ma anche, eventualmente, di provare
l'attendibilità delle proprie dichiarazioni.
Mentre in molte costituzioni la volontaria manifestazione del
proprio atteggiamento interiore - specialmente allo scopo
d'influenzare l'opinione altrui - si configura come un diritto
fondamentale, rimane in gran parte non chiarito in che modo si possa
garantire un ‛diritto fondamentale di non rivelare' la propria
opinione quando si sia sollecitati a farlo dalla manifestazione
dell'opinione altrui, o quando taluno faccia dipendere la propria
libera decisione di avere o no rapporti con altri dal fatto che
questi ultimi esprimano la loro intima opinione.
Del resto anche il diritto alla libera determinazione della propria
sfera privata (o ‛intima') ha dei limiti: nell'ambito della sfera
privata i rapporti consensuali pericolosi per la vita o per la
salute non possono andare molto più in là dei corrispondenti
rapporti in pubblico (ad esempio nello sport), mentre per quanto
riguarda certi rapporti sessuali volontari attuati nella sfera
intima la punibilità che un tempo trovava così spesso applicazione
oggi è diventata per lo più inoperante. I perduranti impedimenti al
matrimonio non sono però considerati incompatibili con il diritto
umano di contrarre liberamente matrimonio, né sono caduti i
corrispondenti divieti delle relazioni sessuali - anche se
consensuali - al difuori del matrimonio. Non è nemmeno accettata la
possibilità di ridursi, con l'uso di droghe o anche solo con un modo
di vivere evidentemente nocivo alla salute, in condizioni tali da
dover far valere il proprio diritto all'assistenza altrui per
mantenersi in vita: le implicazioni pratiche di ciò sono ancora
oggetto di discussione.
Un importante complemento del diritto umano alla libertà di rapporti
con gli altri nella sfera privata è costituito poi dal diritto di
non essere obbligati a tali rapporti né con mezzi legali né con
pressioni d'altro genere. Ne deriva, come nel caso del diritto alla
vita, l'inammissibilità sia della costituzione di obblighi giuridici
che impongano tali rapporti contro la volontà degli interessati, sia
della costrizione, per esempio al matrimonio, da parte di privati
(cfr. in proposito la Convenzione del 10 dicembre 1962); ne consegue
inoltre la penalizzazione dell'uso della forza nella sfera privata e
dell'istigazione a tale uso.
e) I diritti dell'uomo nei rapporti sociali esterni alla sfera
privata
Una volta che all'individuo siano stati assicurati, come diritti
dell'uomo, un tenore minimo di vita, un minimo di diritti di libertà
e l'inviolabilità della sfera privata, il fatto che nello Stato di
diritto esista un ‛generale diritto di libertà' implica che i
tentativi dei singoli di realizzare i propri interessi possano
provocare, in mancanza di una disciplina giuridica del
comportamento, conflitti di vario genere. La libertà goduta dal
singolo gli consente di adottare un comportamento idoneo alla
realizzazione degli interessi degli altri individui nella misura in
cui costoro contribuiscano col proprio comportamento alla
realizzazione dei suoi propri interessi; in tal modo, nello Stato di
diritto possono essere esercitati tra gli individui pressioni
legittime di varia natura. È compito del legislatore, nella sua
sollecitudine per il bene comune, mitigare i conflitti tra gli
individui e contenere l'esercizio di tali pressioni mediante
restrizioni della libertà generale di comportamento. Non vi è quindi
nessun diritto umano che metta assolutamente al sicuro l'individuo
cittadino di uno Stato da pressioni esercitate da altri; né d'altra
parte è riconosciuto all'individuo il diritto di astenersi da ogni
rapporto con gli altri per evitare le suddette pressioni, o di
pretendere che ogni singolo rapporto debba stabilirsi col pieno e
libero consenso di tutti.
Viceversa, viene spesso ipotizzato un dovere dell'individuo di
sfruttare nel modo migliore le proprie capacità in un'attività utile
al bene comune ed esercitata a contatto con gli altri al difuori
della sfera privata, indipendentemente dal fatto che in tal modo
l'individuo possa o no soddisfare anche i propri interessi. Ma anche
quando tale dovere sia espressamente formulato in alcune carte
costituzionali (cfr. ad es. l'art. 4, comma 2, della Costituzione
italiana), non può trattarsi di un principio giuridico direttamente
applicabile, la cui inosservanza possa considerarsi punibile o
comunque accertabile nel corso di un procedimento giudiziario.
Se il suddetto principio fosse coerentemente applicato, verrebbero
meno ogni libera scelta della professione o del mestiere e ogni
libera scelta dell'altro contraente in un qualsiasi negozio, come
pure ogni libertà di decisione riguardo all'esercitare - pur potendo
provvedere altrimenti al proprio mantenimento - un lavoro libero o
un lavoro dipendente, come anche riguardo all'eventualità e al modo
d'impiegare economicamente le proprie sostanze.
La maggior parte dei governanti fuggono la tentazione di imporre
dall'esterno a ciascun individuo quest'ipotetico dovere di usare nel
modo ottimale le proprie capacità, per il semplice fatto che una
simile imposizione presupporrebbe l'esistenza di metodi per
determinare le capacità latenti degli individui, metodi di cui allo
stato attuale le scienze umane non dispongono ancora. Evitando di
tradurre in un obbligo giuridico coercibile il dovere di svolgere
un'attività adeguata alle capacità individuali, il legislatore evita
anche di affrontare due problemi: in primo luogo, se e in che modo
lo Stato debba garantire al singolo la possibilità di un pieno
sviluppo e sfruttamento delle sue capacità individuali, e in secondo
luogo se e in che modo lo Stato debba assicurare a ciascuno, in
cambio delle sue prestazioni socialmente utili, un salario
corrispondente, caso per caso, all'utilità di quelle prestazioni per
il bene comune.
Al diritto dell'individuo di sviluppare la propria persosonalità
entro i limiti delle leggi fa dunque riscontro - data la mancanza di
un vero e proprio obbligo giuridico di orientare tale sviluppo in
senso ottimale rispetto al bene comune - la libertà di ‛non'
sviluppare le proprie capacità; tuttavia ciò non esclude la
possibilità d'imporre, mediante norme giuridiche astratte, singoli
obblighi di partecipazione attiva. Pertanto il diritto fondamentale
dell'individuo - esplicitamente previsto da alcune costituzioni - di
non essere adibito a ‛lavori forzati' ammette sempre come eccezione
l'eventualità che vengano disposti servizi d'emergenza in caso di
necessità sociali o prestazioni obbligatorie ‟nel quadro dei normali
doveri civici" (cfr. l'art. 8 del Patto sui diritti politici e
civili del 19 dicembre 1966). Il diritto umano, oggi universalmente
riconosciuto, di non essere tenuti in ‛schiavitù' significa quindi
essenzialmente che non può essere imposto al singolo uno status
giuridico in base al quale altri privati possano costringerlo a
loro piacimento a prestazioni d'opera.
Posto che all'individuo spetta il diritto alla libertà d'opinione,
la libertà di ‛coscienza' in esso inclusa implica che le norme
giuridiche statali non possano vietare all'individuo di
‛riconoscere' ad altre norme extragiuridiche un carattere vincolante
per il suo comportamento: nella sfera esterna alle norme giuridiche,
cioè, gli individui possono sempre farsi guidare, tramite la propria
‛coscienza', da norme etiche o religiose. Si parla anche talvolta di
un diritto dell'individuo di non essere costretto dalle norme
giuridiche dello Stato a comportarsi in modo ‛contrario alla propria
coscienza' ed eventualmente alle proprie convinzioni religiose: ma è
un diritto che non viene mai riconosciuto in tutte le sue
implicazioni. Alcune costituzioni prevedono, con riferimento al
servizio militare armato in tempo di guerra, un diritto fondamentale
dell'individuo di non essere obbligato dal legislatore, sotto
minaccia di pena, a compiere atti - giuridicamente ammessi - contro
la vita o anche solo contro l'integrità fisica di altri uomini,
quando ciò risulti inconciliabile con la propria ‛coscienza'. Questo
diritto fondamentale andrebbe logicamente esteso ai servizi di
polizia e a quelli sanitari: è diventato ad esempio d'attualità il
problema se il collaborare a un procurato aborto consentito dalla
legge rientri nei doveri d'ufficio del medico dipendente da un ente
pubblico. Il vero problema di questo diritto fondamentale di essere
esonerato su richiesa dal comportarsi in modo contrario alla propria
coscienza consiste da un lato nel fatto che esso implica una
sollecitazione a palesare la propria coscienza, e quindi una
violazione del diritto umano di mantenerla segreta, e dall'altro nel
fatto che non è possibile accertare nei casi singoli la sincerità di
un simile appello alla coscienza.
Ancor meno approfondito sembra essere in generale il problema se,
una volta escluso un diritto di non partecipare alla vita sociale,
non si debba almeno riconoscere un diritto dell'individuo di
rimanere esente da coercizioni giuridiche o da pressioni sociali che
lo costringano, contro la propria coscienza, a esercitare pressioni
su altri o a partecipare ad attività di pressione sociale (sciopero,
boicottaggio, ecc.). Anche in questo caso il diritto costituzionale
positivo contempla solo alcuni aspetti della questione, come ad
esempio la ‛libertà di non associazione', ossia il diritto di non
essere costretti a far parte di un sindacato, ecc.; in pratica,
neppure questi diritti fondamentali sono sempre pienamente garantiti
da pressioni da parte di privati.
Maggior attenzione è stata dedicata a un altro diritto umano,
derivante in ultima analisi dalla libertà d'opinione, e cioè al
diritto dell'individuo di non essere oggetto di coercizioni
giuridiche o di pressioni sociali che lo costringano a partecipare
alla diffusione di opinioni o a sostenere finanziariamente attività
di tal genere. Sebbene nella maggior parte degli Stati sia
assicurato all'individuo il diritto di non essere inserito dallo
Stato o da altri, contro la propria volontà, in comunità organizzate
su basi religiose o ideologiche, spesso non viene garantita a questo
riguardo una piena tutela dalle pressioni private; e probabilmente
ciò non potrà accadere finché tra le libertà fondamentali
dell'individuo sarà inclusa quella d'informare gli altri circa la
propria e l'altrui appartenenza a una data comunità religiosa o
ideologica.
Non esiste evidentemente un diritto generale dell'individuo di non
entrare contro la propria volontà a far parte di un'organizzazione,
quando ciò non tocchi la sua libertà d'opinione e di coscienza.
Finché l'umanità sarà divisa in una moltitudine di Stati, si porrà
peraltro l'importante questione di un eventuale diritto
dell'individuo di appartenere o non appartenere a uno di essi. La
disposizione contenuta nell'art. 24 del Patto sui diritti politici e
civili, secondo cui ogni nato ha ‛diritto' di acquisire la
cittadinanza di uno Stato, rimane tuttora inefficace. A essa si
associa un diritto dell'individuo di rinunziare per volontaria
dichiarazione a una cittadinanza da lui comunque acquisita, e quindi
anche un diritto di emigrare liberamente dallo Stato di cui era
cittadino; questo diritto viene però a essere praticamente svuotato
quando se ne impedisca l'esercizio con la motivazione che esso
potrebbe compromettere la sicurezza dello Stato d'origine (cfr.
l'art. 12 del Patto sui diritti politici e civili). Sempre nel caso
di rinunzia volontaria alla cittadinanza, è stata fra l'altro
sollevata la questione se il diritto all'espatrio sussista solo dopo
che lo Stato da cui si emigra sia stato risarcito delle spese
sostenute per l'educazione dell'emigrante.
Mentre vengono riconosciuti, in linea di principio, il diritto di
rinunziare a una cittadinanza e quello di emigrare, non vi è
attualmente nessun diritto umano dell'emigrante di scegliersi
liberamente una nuova patria. Pressoché nessuno Stato concede la
cittadinanza in base a una semplice dichiarazione spontanea di
adesione, ma tutti conferiscono ai propri organi un maggiore o
minore potere discrezionale di rifiutare la naturalizzazione.
Spesso, anzi, le limitazioni legali poste a tale discrezionalità
sono fondate su criteri che possono per altro verso - e cioè dal
punto di vista dei diritti dell'uomo - apparire sconcertanti, come
ad esempio l'appartenenza a una determinata razza o nazione.
Molto delicato è oggi il problema del diritto
all'‛autodeterminazione' in quanto diritto dell'uomo. Da un lato il
diritto dell'individuo di rinunziare alla propria cittadinanza è
incompleto senza un diritto all'espatrio, e dall'altro esso non è
considerato sostanzialmente leso qualora ne discenda un obbligo di
espatriare. Dal cosiddetto diritto di autodeterminazione ‛dei
popoli' si deduce invece che gli individui che compongono la
popolazione di un ‛territorio' dovrebbero poter abbandonare
collettivamente la comunità statale a cui appartengono, con la
consenguenza che anche il territorio da essi abitato si separerebbe
da quello dello Stato in questione. I problemi pratici che
quest'aspetto del diritto di autodeterminazione presenta riguardano
le modalità di delimitazione dei territori per la popolazione dei
quali si chiede l'esercizio del diritto, l'eventuale discriminazione
fra antichi residenti e immigrati, e infine la possibilità di
costringere a emigrare, in seguito all'esercizio del diritto
d'opzione, la minoranza di coloro che sarebbero soddisfatti dallo status
quo.
Se il diritto di autodeterminazione non viene concepito come il
diritto di una maggioranza che si separa dagli altri, bensì come il
diritto dei singoli individui di costituire uno Stato d'accordo con
tutti coloro che intendono formare insieme una comunità nazionale,
non si potrà negare a questi individui, qualora essi non
rappresentino già la maggioranza degli abitanti di un territorio, la
disponibilità di un territorio statale. Si è ancora molto lontani
dal trovare le modalità pratiche per realizzare un diritto di
autodeterminazione siffatto, inteso cioè in senso individualistico.
Nei Patti dell'ONU sui diritti umani, le formulazioni con cui viene
attribuito ai ‛popoli' il diritto di autodeterminazione possono anzi
interpretarsi nel senso che sono in definitiva altri Stati a
decidere quali collettività umane debbano o non debbano considerarsi
come un ‛popolo' avente diritto all'autodeterminazione, e a quale
popolo ‛appartenga' ciascun individuo.
f) Il diritto all'uguaglianza di trattamento
Può considerarsi come un contrassegno delle culture primitive il
fatto che molto spesso, nel valutare giuridicamente il comportamento
umano, esse tendono ad attribuire un'importanza decisiva alla pura e
semplice appartenenza o non appartenenza degli individui al gruppo
che effettua la valutazione: nell'imposizione di obblighi o nella
concessione di diritti e di opportunità il ‛forestiero' è quindi
svantaggiato rispetto ai membri del gruppo per il solo fatto di
essere un forestiero.
Per contro, il diritto dell'individuo all'‛uguaglianza di
trattamento', oggi riconosciuto in linea di principio, significa
che, nella valutazione giuridica del comportamento individuale in
base a norme di legge astratte, l'appartenenza a un dato gruppo
umano non può essere usata come criterio di differenziazione quando
da essa non dipenda (o addirittura non possa dipendere) la capacità
dell'individuo di comportarsi in un dato modo. Pertanto, ogni
individuo ha lo stesso diritto alla vita (nel senso già indicato)
indipendentemente dalla razza, dal sesso, dall'età, dalla religione,
dalla cittadinanza, dalla discendenza, ecc., e inoltre gli attentati
a questo diritto sono vietati con la stessa forza a ogni altro
individuo, a prescindere anche in questo caso dalle ‛appartenenze'
sopra elencate. Il diritto all'uguaglianza di trattamento - nel
senso che viene esclusa, in quanto irrilevante per la definizione
della questione, ogni discriminazione dipendente dall'appartenenza a
un gruppo - è solo un aspetto di un principio più comprensivo,
recepito in parecchie costituzioni: il principio di equità, per cui
condizioni uguali non possono essere trattate in modo differente.
Analogamente a quanto avviene per il principio di uguaglianza,
inteso in questa formulazione più ampia, anche la pratica attuazione
dell'idea che l'individuo non possa essere legalmente favorito o
svantaggiato semplicemente a causa dell'appartenenza o non
appartenenza a un gruppo umano solleva numerosi problemi, che la
dottrina dei diritti dell'uomo non ha ancora risolto. Ci si può
chiedere, ad esempio, se violi o non violi il principio sopra
espresso lo Stato che dia al suo diritto privato una forma non
unitaria, facendo dipendere l'applicazione dell'una o dell'altra
norma particolare dalla semplice appartenenza degli interessati a un
gruppo umano caratterizzato da uno dei criteri sopra esposti, nel
caso che risulti con certezza che tutti gli individui in questione
sono unanimi nel volere essi stessi una tale differenziazione. Posto
che in uno Stato coesistano aderenti a varie confessioni, tutti
concordi nel ritenere che i rapporti familiari fra gli appartenenti
a ciascuna comunità religiosa debbano essere regolati da un diverso
diritto religioso in quanto sono diverse ad esempio le esigenze
religiose relative all'istituto del matrimonio, nessuno potrà
sostenere che il diritto umano all'uguaglianza di trattamento sia
leso da una simile differenziazione. Ciò vale soprattutto quando le
varie confessioni disapprovino concordemente la celebrazione di
matrimoni misti o quando la disciplina di tali matrimoni venga
ripartita pariteticamente fra i vari diritti religiosi, e purché il
singolo abbia piena libertà di passare da una comunità religiosa
all'altra. Analogamente, non costituisce una violazione del diritto
all'uguaglianza di trattamento un'apartheid su basi
razziali o su altre basi che sia voluta da tutti gli individui.
È sufficiente però che vi sia un ristretto numero di individui che,
pur professando una religione, non approvino (almeno per quanto li
riguarda) questa differenziazione su basi confessionali del diritto
di famiglia statuale, perché si ponga la questione di come si possa
tener conto del loro diritto all'uguaglianza di trattamento, e se
basti costituire solo per essi un diritto di famiglia
confessionalmente neutro.
Con questo problema ne è connesso un altro: se cioè si possa
consentire anche al ‛singolo' - nell'esercizio delle libertà
riconosciutegli dal diritto, tra le quali vi è anche quella di
concludere contratti - di trattare altre persone in modo
differenziato in base a quegli stessi criteri di cui il legislatore
non può valersi (almeno non contro la volontà degli interessati)
senza ledere il diritto all'uguaglianza di trattamento. Attualmente
tale possibilità viene spesso esclusa, cosicché è considerata
inammissibile, ad esempio, l'assunzione preferenziale di lavoratori
di una determinata razza. Se però esiste un diritto dell'individuo
di stabilire o no liberamente rapporti consensuali con altri nonché
un diritto di non fornire informazioni sui propri convincimenti
intimi e sulle motivazioni del proprio agire, l'intervento statale
può essere tutt'al più giustificato qualora sia stata
volontariamente manifestata l'intenzione di procedere,
nell'esercizio della propria libertà, a discriminazioni fondate su
criteri inammissibili. Ma una volta ammesso ciò, si pone l'ulteriore
problema se non si debba almeno garantire all'individuo il diritto
di tener nascoste alle altre persone (in quanto non si tratti - come
nel caso dell'appartenenza a una data razza - di caratteristiche di
per sé evidenti) quelle caratteristiche che non possono dar motivo a
una discriminazione legale. Soprattutto, è diventato d'attualità il
problema di tenere segreti i dati caratteristici individuali
memorizzati presso gli organi pubblici, cosicché possano essere
usati solo per scopi consentiti dalla legge. Ma un diritto alla
segretezza dei dati (ad es. circa la religione professata)
richiederebbe in pratica anche un divieto dell'altrui sollecitazione
a rendere noti volontariamente i dati stessi, o addirittura un
divieto della loro spontanea rivelazione.
Supponiamo che i membri di un determinato gruppo umano,
contrassegnato da un carattere inammissibile ai fini di una
differenziazione legislativa (come per es. l'appartenenza a una
casta), siano stati sottoposti per lungo tempo a un trattamento
discriminatorio da parte di una precedente legislazione lesiva dei
diritti dell'uomo o da parte della società: può darsi che in tal
caso, per attuare l'uguaglianza di trattamento, sia necessario
accordare temporaneamente un'esplicita preferenza ai membri del
gruppo finora svantaggiato. Può sorgere però la questione se una
tale preferenza sia ammissibile anche quando, in sostanza, siano
rilevanti ai fini del bene comune le sole differenze quantitative
fra le prestazioni dei vari individui, come ad esempio nel caso di
valutazioni date a prove d'esame. Analogamente, certi provvedimenti
con cui s'intende garantire che nelle scuole pubbliche bambini di
razze diverse vengano educati insieme - come il cosiddetto busing
degli scolari negli Stati Uniti - possono risolversi in
un'altra discriminazione, a danno di quei bambini che sono costretti
a compiere un percorso più lungo per recarsi a scuola.
Il diritto dell'individuo di non essere trattato in base
all'inammissibile criterio dell'appartenenza a un dato gruppo umano
diviene più che mai evidente quando si tratti di dar attuazione a
certi diritti spettanti a tutti gli uomini: posto che fra questi
diritti vi sia ad esempio la libertà di emigrare dallo Stato in cui
si risiede, si ha una duplice violazione di un diritto fondamentale
allorché l'emigrazione è vietata - ovvero è consentita unicamente -
agli appartenenti ad alcune razze o religioni.
Finché l'umanità sarà divisa in una moltitudine di Stati, sara
tuttavia impossibile eliminare del tutto il criterio di
discriminazione legale costituito dalla cittadinanza, o anche dalla
residenza in un determinato Stato. È vero che la giustizia penale di
uno Stato dev'essere amministrata in modo che l'entità della pena
sia commisurata alle sole circostanze del caso concreto, e non al
fatto che il colpevole o la parte lesa siano o non siano cittadini
di quello Stato; è però altrettanto vero che il singolo può
rivendicare in giudizio per esempio un diritto all'assistenza in
caso di indigenza o un diritto all'istruzione solo nei riguardi
dello Stato di cui è cittadino (o eventualmente, in via provvisoria,
di quello in cui risiede), ma non nei riguardi di un altro Stato.
Così pure non vi è alcun diritto umano universale in virtù del quale
il singolo possa immigrare, cercare lavoro o svolgere un'attività
economica in uno Stato di cui non sia cittadino contro la volontà di
quello Stato, nonostante che oggi si riconosca all'individuo il
diritto fondamentale di stabilirsi nello Stato d'origine e di
emigrare da esso (o dallo Stato in cui risiede). Né costituisce una
violazione del diritto all'uguaglianza di trattamento il fatto che
nel diritto internazionale privato, come pure in quello penale,
l'ordinamento applicabile sia spesso definito assumendo come
criterio di collegamento la cittadinanza: un uso ‛discriminatorio'
della cittadinanza nel diritto internazionale privato potrebbe
scorgersi solo nel fatto che, mentre il cittadino dello Stato sede
del foro ha la facoltà di scegliere se appellarsi al proprio
ordinamento o a quello dell'altro Stato, tale facoltà è preclusa
alla parte straniera. La dottrina, sostenuta dagli autori americani,
del governmental interest nel campo del diritto
internazionale privato si risolve nell'applicazione da parte del
giudice della lex fori ogni volta che essa risulti, nel
caso concreto, più vantaggiosa per il concittadino; e se a molti
manca la sensazione che in tal modo venga violato il principio
fondamentale dell'uguaglianza di trattamento, ciò accade
evidentemente perché in numerosi paesi chi richieda l'applicazione
di un ordinamento diverso dalla lex fori (anche se si
tratta di quello del proprio paese) deve poter dimostrare che tra i
due ordinamenti sussiste una differenza sostanziale.
La suddivisione dell'umanità in vari Stati implica poi altre
conseguenze per la tutela dei diritti dell'uomo. Anche quando,
infatti, l'ordinamento giuridico di uno Stato garantisca a ogni
individuo, indipendentemente dalla sua appartenenza allo Stato
medesimo, certi diritti fondamentali, esso può però influire
sull'altrui comportamento - necessario per l'attuazione di quei
diritti - solo entro i limiti che il diritto internazionale pone
all'esercizio della sovranità statale. Anche se gli accordi
internazionali prevedono che certi diritti umani debbano essere
garantiti a ogni uomo e non soltanto ai cittadini degli Stati
contraenti, nessuno di questi può intraprendere atti sovrani di
forza a sostegno di quei diritti al difuori dei propri limiti
territoriali. Secondo l'attuale opinione giuridica, uno Stato è
attivamente legittimato a pretendere che ogni altro Stato
garantisca, nell'ambito della propria sovranità, i diritti umani
universali riconosciuti dal diritto internazionale e la loro
osservanza da parte dei propri organi; si è però concordi nel
ritenere che la parte lesa (cioè l'individuo) non possa pretendere
giudizialmente che uno Stato di cui egli non è cittadino faccia uso
della legittimazione attiva conferitagli dal diritto internazionale.
Ciò vale anche nel caso che la violazione dei diritti dell'uomo
internazionalmente garantiti venga accertata, su denunzia del
singolo, da un tribunale internazionale, ad esempio mediante la
Commissione europea per i diritti dell'uomo. Anche il diritto del
cittadino di uno Stato di essere tutelato dal medesimo, a norma del
diritto internazionale, contro le violazioni dei diritti dell'uomo
compiute da altri Stati viene spesso discusso o rimesso al giudizio
discrezionale delle autontà di governo dello Stato d'origine.
Come già si è accennato, dal punto di vista dei diritti dell'uomo il
singolo non può pretendere da uno Stato diverso dal proprio un aiuto
economico per la propria sussistenza, così come non ha alcun diritto
d'immigrare in un altro Stato che non sia disposto ad accoglierlo.
Ciò premesso, il diritto d'asilo che alcune costituzioni prevedono a
favore di singoli stranieri vittime di persecuzioni politiche
rappresenta non tanto un diritto dell'uomo quanto un'occasione per
lo Stato che dà asilo di pronunziarsi su fatti di politica interna
di un altro Stato, il che sarebbe altrimenti impedito dal divieto
d'ingerenza.
Il diritto dell'individuo di usare a proprio piacimento dei beni
riconosciuti di sua proprietà - e nel possesso dei quali egli è
tutelato dall'ordinamento giuridico - non viene più concepito come
un diritto esente da limitazioni. Analogamente al bene comune, anche
il ‛vincolo di utilità sociale' della proprietà messo in evidenza da
alcune costituzioni può essere inteso in senso collettivistico o
individualistico. Le ideologie degli Stati collettivistici
giustificano l'espropriazione dei beni privati per pubblica utilità
con l'argomento, ad esempio, che il bene espropriato serve a scopi
militari. Il fatto che il socialismo ponga alla proprietà un vincolo
di utilità sociale particolarmente drastico, che porta ad abolire in
generale la proprietà privata dei mezzi di produzione, rappresenta -
come già notava Oscar Wilde - una forma d'‛individualismo', in
quanto s'intende così favorire gli interessi degli appartenenti alla
classe non proprietaria. Dal vincolo di utilità sociale della
proprietà deriva, anche quando sia consentito alle persone fisiche
di essere proprietarie, il divieto di tenere sfitte le abitazioni
quando sussista un bisogno di alloggi, di sottrarre al commercio
generi alimentari, ecc. Tuttavia anche questo vincolo è ben lontano
dall'essere inteso come un vincolo a favore di tutta l'umanità, in
quanto esso è operante solo nei riguardi dei cittadini dello Stato
in cui si trova il bene in questione. Analogamente, certe
risoluzioni dell'ONU si richiamano al diritto dei popoli di disporre
autonomamente e a proprio vantaggio delle ‛risorse naturali' del
loro territorio, ma evitano di formulare per questi popoli un
obbligo di usare le risorse stesse a vantaggio del bene comune di
tutti gli abitanti della Terra.
g) Esiste un diritto dell'uomo all'equità?
Non può esservi un diritto dell'individuo, rivendicabile davanti a
giudici umani, ad avere un ordinamento statale così conformato che,
invece di stabilire regole astratte di comportamento e schemi per
l'esecuzione delle sanzioni comminate, dia a ogni singola situazione
di conflitto d'interessi tra individui una soluzione d'autorità la
quale sia fondata su una valutazione degli individui in questione
tale da tener conto di tutti gli aspetti rilevanti per il bene
comune. Né è possibile parlare di un diritto a un ordinamento umano
della coesistenza degli individui fondato su una valutazione
dell'individuo quale ci si può attendere, in definitiva, solo da un
essere divino. Non può esservi dunque un diritto dell'uomo,
rivendicabile dinanzi a giudici umani, a un ordinamento ‛equo' sotto
forma di norme astratte, e neppure un diritto a che la cosa pubblica
sia affidata alle persone più qualificate; e ciò anche quando una
carta costituzionale affermi esplicitamente che la legislazione
dev'essere rivolta solo al bene comune e che gli incarichi pubblici
vanno riservati agli individui più capaci.
Se poi nella produzione del diritto il legislatore non è orientato
verso il bene comune, ma tende in definitiva a favorire gli
interessi di determinati individui, è meno che mai possibile parlare
di un diritto di questi ultimi all'effettiva attuazione di un
ordinamento siffatto.
Le minuziose prescrizioni sull'organizzazione dello Stato e sul modo
di costituirsi e di funzionare dei suoi organi, spesso contenute
negli accordi internazionali e nelle disposizioni costituzionali sui
diritti umani, si spiegano in genere col fatto che gli istituti così
previsti possono considerarsi - in base alle esperienze compiute e
all'attuale grado di civiltà della maggior parte delle nazioni -
come il modo più funzionale per attuare il diritto. Ora ciò ha poco
a che vedere con i diritti umani dell'individuo. Ad esempio, il
fatto che il diritto positivo debba essere applicato in modo equo e
obiettivo da giudici imparziali consegue dalla natura stessa del
diritto e non ha bisogno di trovare fondamento in un diritto degli
individui coinvolti in un dato procedimento giudiziario. Non è
infondato il sospetto che le suddette prescrizioni - spesso svuotate
di contenuto a causa del permanere di certi principi generali -
vengano presentate come corollari dei diritti dell'uomo per
mascherare il fatto che alcuni ditali diritti, già da noi denunziati
come insufficientemente garantiti, non sono in realtà stati recepiti
in quei documenti.
Analogamente, il ricorso alla tortura va rifiutato non solo perché
essa costituisce una violazione dei diritti umani nei riguardi di
chi sia effettivamente colpevole, ma soprattutto perché porta a
risultati erronei nell'applicazione del diritto allorché viene
inflitta a persone indiziate, ma oggettivamente innocenti. La
punizione di un comportamento senza la preventiva pubblicizzazione
della sua illiceità e punibilità è inammissibile non solo perché
lede un diritto umano, ma per il semplice fatto che, senza la
pubblicità delle sue norme, il diritto non può adempiere la sua
funzione di guida del comportamento umano.
Va invece intesa come derivante da un vero e proprio diritto umano
l'inammissibilità del fatto che il legislatore, per dissuadere dal
compiere atti illeciti, commini pene a carico di innocenti che non
siano in grado di ostacolare il colpevole nel compimento di tali
atti; la capacità di dissuasione nei riguardi del colpevole
potenziale nascerebbe in questo caso dalla sua solidarietà con
coloro che verrebbero colpiti dalla pena collettiva. Tuttavia, solo
in poche costituzioni (ad esempio in quella italiana, al comma 1
dell'art. 27) le pene collettive vengono esplicitamente dichiarate
contrarie ai diritti dell'uomo. Attualmente, di fronte
all'‛inumanità' dei sequesti di persona compiuti da privati - che
del resto già configurano le fattispecie di vari reati - numerosi
governi sostengono la necessità di accordi internazionali per
reprimere queste attività.
Non può invece considerarsi come applicazione di una pena collettiva
contraria ai diritti dell'uomo il fatto che chi conosce l'identità
del colpevole sia punito per esser venuto meno all'obbligo giuridico
di denunziarlo o sia passibile di pena in caso di ulteriore
favoreggiamento; non vi è infatti nessun diritto dell'uomo che esima
dall'obbligo di tutelare gli altri o di denunziare i reati compiuti
da terzi.
Ancor oggi le rappresaglie conseguenti a violazioni del diritto
internazionale colpiscono per lo più individui che non sono gli
effettivi autori delle violazioni stesse, e in particolare nella
legittima condotta di una guerra vengono colpiti, oltre agli autori
dell'atto contrario al diritto delle genti - atto che giustifica la
guerra difensiva - anche degli innocenti; ma tutto ciò non può
considerarsi come una violazione del diritto umano che condanna le
pene collettive, in quanto le rappresaglie di pertinenza del diritto
internazionale e la guerra difensiva non sono ‛pene'. Per contro, la
cattura di ostaggi, specialmente fra gli abitanti di un territorio
occupato, è dichiarata esplicitamente inammissibile, così come non è
lecito attuare rappresaglie contro la popolazione civile di un paese
occupato o contro prigionieri di guerra.
Secondo l'opinione oggi prevalente, il diritto dell'individuo
innocente di non essere punito per atti altrui che egli non sia in
grado d'impedire non giustifica in nessun caso la pretesa del
singolo di non essere chiamato a contribuire al risarcimento delle
vittime di atti illegali, e ciò nonostante che l'onere economico di
tale contributo possa risultare equivalente a quello di una pena
pecuniaria. In particolare, non può considerarsi come lesivo di un
diritto umano l'aggravio arrecato al contribuente da eventuali oneri
derivanti da illegalità compiute da organi pubblici. Si sostiene a
tale proposito che, specialmente in una democrazia, la
corresponsabilità finanziaria del contribuente nelle illegalità e in
altri comportamenti errati dei governanti può costituire un
incentivo affinché il singolo, nell'esercizio dei propri diritti
politici, vigili che ai pubblici uffici siano preposte le persone
più adatte; ma si tratta invero di un'aspettativa ancora lontana
dalla realtà. Inoltre, la responsabilità dei membri di una comunità
giuridicamente organizzata riguardo ai danni provocati da illegalità
di organi pubblici non si estende al caso in cui il legislatore
abbia l'obbligo programmatico di produrre un diritto non conforme
all'equità. Anche l'idea, spesso riproposta, di un diritto umano dei
meno istruiti di essere tutelati da sopraffazioni attuate mediante
provvedimenti legislativi non può dar luogo a pretese giudizialmente
rivendicabili a risarcimenti di danni, che in ultima analisi
andrebbero a gravare sul gettito fiscale di una generazione
successiva di individui incolpevoli.
Mentre si parla spesso di un ‛diritto umano' del colpevole di essere
punito solo in base a una legge penale emanata anteriormente al
delitto, è raro che nelle società di massa e nelle democrazie si
ravvisi una possibile violazione di un diritto umano dei cittadini
nel fatto che questi siano chiamati a sostenere gli oneri derivanti
da illegalità commesse dagli organi pubblici, mentre i funzionari
responsabili rimangono del tutto impuniti. Solo pochi vedono ancora
nella mancata punizione di gravi illegalità dei massimi organi
pubblici la violazione di un diritto umano di coloro che
direttamente o indirettamente sono colpiti da quegli atti e dagli
oneri che ne derivano. Il ‛diritto' dell'individuo d'impegnarsi
personalmente - con mezzi legali, ed eventualmente anche con mezzi
considerati illegali dal diritto positivo - per l'attuazione di un
ordine ‛equo' tra gli uomini appartiene in effetti a un ambito
normativo diverso da quello giuridico. A un obbligo morale in tal
senso dovrebbe corrispondere un impegno dell'individuo a verificare
di quali capacità egli possa disporre in questa lotta per l'equità.
In pratica, l'attività svolta dall'individuo per l'avvento di un
ordinamento equo in una pluralità di persone può aver successo solo
grazie alla collaborazione con altri individui animati dagli stessi
intenti; pertanto, sono pur sempre certi diritti fondamentali,
spesso garantiti dall'ordinamento giuridico dello Stato, a fornire
all'individuo gli strumenti per realizzare la sua aspirazione
all'equità: così il diritto di partecipare all'elezione dei più
importanti organi pubblici, quello di associarsi liberamente e, in
certi casi, il diritto costituzionale alla resistenza collettiva
contro un potere statale illegittimo.
Per la natura stessa dell'uomo, uno sviluppo e un'estrinsecazione
della personalità individuale al difuori della società rappresentano
un'utopia. Posto quindi che vi sia un interesse razionale
dell'individuo a partecipare mediante istituzioni collettive
all'attuazione del bene comune, da un lato egli non potrà evitare
che sia messo talvolta in pericolo il libero dispiegarsi delle sue
doti individuali e dall'altro non potrà aspettarsi che le leggi
umane siano sufficienti ad assicurare la piena attuazione del bene
comune. Si comprende allora come molte religioni antropocentriche -
intendendo per tali quelle che rifiutano di vedere nell'individuo
umano solo uno fra i tanti elementi costitutivi dell'universo - si
aspettino da un'esistenza ‛oltremondana' dell'individuo, pensato
come capace di sopravvivere alla perdita della sua corporeità, anche
una liberazione del singolo dalle illibertà insite nella sua vita
terrena di uomo tra gli uomini, vita terrena esplicantesi in una
coesistenza retta da un ordinamento più o meno imperfetto.