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Per I. si intende sia l’età della storia d’Europa compresa tra la conclusione delle guerre di religione del 17° sec. o la rivoluzione inglese del 1688 da un lato e la Rivoluzione francese del 1789 dall’altro, sia la connessa evoluzione delle idee in fatto di religione, scienza, filosofia, politica, economia, storiografia e il rinnovamento delle forme letterarie nel corso del 18° secolo. La metafora della luce contenuta nel termine (fr. Âge des lumières; ingl. Enlightenment; ted.Aufklärung) deriva dalla secolarizzazione e laicizzazione dell’idea di provvidenza o progresso, intesa come attività storica umana: così il concetto di ‘luce di natura’ fu anteposto e contrapposto dai deisti inglesi alla rivelazione cristiana in quanto possesso originario della mente umana; così pure la scoperta delle leggi naturali apparve una più piena rivelazione o ‘illuminazione’. Confluirono con questi due motivi le conclusioni ottimistiche del dibattito sulla teodicea, l’idea della superiorità dei moderni rispetto agli antichi prevalsa in un’annosa querelle, l’ideale continuità con la rivoluzione scientifica e con la rinascenza, lasciando emergere la caratteristica immagine del trionfo della ragione contro le tenebre del fanatismo e della superstizione, che divenne corrente verso la metà del secolo. I contenuti filosofici e scientifici della cultura dei lumi rinviano a un complesso programma di rinnovamento ideologico, civile, politico, che fu elaborato variamente nei diversi paesi (v. fig.) e accompagnò ovunque la crescente egemonia della borghesia commerciale e industriale in lotta con le strutture del sopravvivente mondo feudale.
1. Religione e ragione
L’affermazione solenne dell’autonomia della ragione, che è alla radice della cultura dei lumi, maturò in cerchie ristrette e assunse un peculiare significato politico e religioso negli ultimi decenni del 17° secolo. La superfluità di ogni rivelazione divina, il distacco dalle varie ortodossie ecclesiali, l’autonomia delle leggi morali, l’immagine razionale di un Dio architetto del cosmo svelato dalla nuova scienza, sono gli aspetti costruttivi del deismo, del quale si considera generalmente iniziatore E. Herbert of Cherbury. Ma le grandi linee della disputa settecentesca sulla religione naturale e rivelata hanno piuttosto la loro origine nella critica negativa del cristianesimo storico e della tradizione biblico-ecclesiastica, svolta sia dai grandi eruditi olandesi, sia dai libertini e spiriti forti francesi.
Le condizioni propizie per la maturazione del deismo si crearono in Inghilterra, quando gli eccessi fanatici dell’età puritana stimolarono la formazione di élite di eterodossi, dissenzienti e increduli. All’indomani della rivoluzione del 1688, si richiamarono a J. Locke i deisti e i freethinkers, radicalizzando però in senso antireligioso e politico le sue vedute di cristianesimo ragionevole, infrangendo la tregua con l’episcopato anglicano e il rispetto esteriore per le tradizioni. Si posero su questa strada J. Toland, J.A. Collins, M. Tindal, W. Wollaston e molti altri polemisti e libellisti, la cui rivendicazione di un «cristianesimo senza misteri» si modificò presto in posizioni panteistiche, materialistiche e ateistiche, consapevolmente legate alla critica dell’ideologia whig o tory, e della collusione tra potere politico e religione. Sostenitore di un deismo ‘cristiano’ fu S. Clarke, che combatté i deisti estremisti usando come argomento apologetico l’immagine newtoniana dell’universo-macchina.
La controversia deistica, che si svolse con molta vivacità fino al 1730 circa, coinvolse posizioni politiche di varia tendenza: inizialmente sovversiva, finì per penetrare nei circoli aristocratici, contagiando e acquisendo al deismo anche politici e letterati conservatori, come Bolingbroke e A. Pope. Una vivace reazione al deismo da parte anglicana ebbe i suoi più originali protagonisti nei vescovi e apologisti J. Butler e G. Berkeley, che seppero trasferire la disputa sul piano etico e filosofico. La controversia era sostanzialmente esaurita, quando D. Hume ne ricompose i momenti nella brillante summa dei suoi Dialogues concerning natural religion e ricapitolò dal punto di vista della sua psicologia della ‘credenza’ l’analisi antropologica, sociologica, politica della religione, svolta fin dalla metà del 17° sec. da P. Bayle, Fontenelle, dagli eruditi e dai viaggiatori.
Queste furono anche le fonti della critica antireligiosa svolta clandestinamente inFrancia, nei primi decenni del secolo, da N. Frèret, H. de Boulainvilliers, C.C. Du Marsais, J. Meslier e altri compilatori di manoscritti anonimi, pubblicati dopo il 1760 da d’Holbach. La critica della collusione tra altare e trono, la polemica contro il gesuitismo e il rigorismo giansenistico, l’esigenza di emancipazione politico-religiosa si uniscono qui a un anticlericalismo più risentito, a una più decisa ripresa di tesi epicuree e spinoziane e a una più massiccia campagna ideologica. La disputa emerse cautamente nei primi scritti di Montesquieu eVoltaire, acquistò impeto verso la metà del secolo in anonime pubblicazioni deistiche o ateistiche, fu repressa, risorse con gli scritti di D. Diderot e C.-A. Helvétius, seguì la sorte dell’Encyclopédie, e finalmente dilagò nelle innumerevoli compilazioni materialistiche ed empie edite da d’Holbach. Voltaire tuttavia respinse le radicali conclusioni ateistiche e materialistiche degli enciclopedisti, difendendo il credo deistico che aveva assimilato dagli scrittori inglesi. J.-J. Rousseau, dopo un periodo di stretta collaborazione con gli enciclopedisti, maturò una personale rivendicazione del teismo, espressa nell’Émile e nelle Rêveries e profondamente connessa con le sue vedute morali, educative e politiche.
La stessa multiforme varietà del deismo franco-inglese non consente di ridurre a una formula la critica illuministica della religione; e il quadro si fa ancor più folto se vi si fanno rientrare le discussioni sulle credenze dei primitivi, sugli dei pagani, sulle religioni extra-europee, sui miti e sulle favole antiche, strettamente legate alla mitografia erudita e all’esegesi biblica del tardo Seicento.
In Germania la discussione sulla religione assunse forme erudite e meno vivacemente polemiche, nell’esegesi razionalista di C. Wolff, H.S. Reimarus, nelle discussioni sullo spinozismo, sul deismo e sulle scritture che coinvolsero G.E. Lessing, J.G. Hamann, J.G. Herder e F.H. Jacobi. Gli esiti della controversia sono rappresentati dalla proposta kantiana di una «religione nei limiti della ragione pura», inserita nel contesto della critica della metafisica e della fede pratica scaturente dagli imperativi morali; e, d’altro lato, dall’interpretazione storicistica della provvidenza come progresso e rivelazione continua, dall’ideale lessinghiano di una perpetua «educazione del genere umano», dalla filosofia della storia diHerder.
2. Scienza e filosofia
Non è possibile segnare una netta cesura tra la maturazione del metodo sperimentale nel 17° sec., il razionalismo e l’empirismo da un lato, la gnoseologia illuministica dall’altro. Controverso è il ruolo del metodo e della fisica di R. Descartes nello sviluppo delle scienze, nella formazione di una generale concezione meccanicistica della natura e nel razionalismo dei lumi. D’altra parte le acquisizioni del metodo galileiano vennero a convergere, attraverso l’opera degli accademici del Cimento, di R. Boyle e della Royal Society, di B. Pascal, C. Huygens e dell’Académie des Sciences, nella sintesi newtoniana. Alle soglie del 18° sec. la rivoluzione scientifica era compiuta. La meccanica razionale rappresentava un modello epistemologico per tutte le altre scienze, destinate a estendersi e ramificarsi per circa due secoli senza sostanziali mutamenti nei loro concetti fondamentali. Di qui anche l’egemonia del metodo sperimentale newtoniano sulla riflessione epistemologica.
In Francia furono più sensibili le resistenze opposte alla nuova sintesi scientifica dalla scolastica cartesiana e dai metafisici malebranchiani. Dopo compromessi di vario genere, la sintesi newtoniana fu divulgata da Voltaire, Buffon, Maupertuis,Madame du Châtelet; suoi singoli aspetti furono rinnovati da d’Alembert, A.-C. Clairaut, Maupertuis, L. Euler, R.G. Boscovich. In generale, la fisica newtoniana nutrì anche la polemica ideologica dei philosophes francesi, mentre in Germania e in Italia fu recepita, rispettivamente, nell’ambito delle discussioni metafisico-gnoseologiche della scuola leibniziana, e della tradizione tecnico-matematica della scuola galileiana.
L’altro aspetto capitale della filosofia dei lumi è rappresentato dallo svolgimento e adattamento della gnoseologia di Locke: l’origine empirica delle idee, l’analisi dei processi associativi, la critica delle illusioni linguistiche come fonte di falsi dilemmi metafisici fornirono una soddisfacente giustificazione del metodo sperimentale, confluendo in Inghilterra e in Europa con gli sviluppi delle scienze esatte. Vi si richiamarono i filosofi italiani da A. Genovesi a P. Verri e C. Beccaria; Voltaire, É. Bonnot de Condillac, Helvétius condussero in nome di Locke una serrata critica dello ‘spirito di sistema’ che aveva dominato le costruzioni dei filosofi razionalisti del Seicento. I criteri analitici lockiani furono fatti valere da Condillac nell’analisi del linguaggio, da Helvétius nella critica sociale e politica, soprattutto contro i privilegi dell’educazione aristocratica. D’altra parte Diderot si rifece, oltre Locke e la sintesi newtoniana, al grande progetto baconiano di una connessione articolata tra scienze pure, arti meccaniche e tecnologia, che trovò la sua pratica realizzazione nell’Encyclopédie.
Comune agli enciclopedisti è la concezione non speculativa della filosofia, intesa appunto come riflessione epistemologica sulle varie scienze e sulle loro articolazioni, in vista di un preciso programma economico, politico, civile. I medesimi motivi operano, in direzioni diverse, nell’indagine epistemologica di Berkeley e di Hume, entrambi critici del metodo sperimentale e delle pretese oggettivistiche connesse ai ‘modelli’ fisici (come il concetto di corpuscolo materiale, l’infinito matematico e i raggi ottici). Mentre la critica di Berkeley mirava a mettere in crisi i fondamenti teorici della fisica sperimentale in funzione di una restaurazione metafisica dell’antica immagine del cosmo, qualitativa e platonizzante, Hume operò la dissoluzione scettica dei processi logici e dei presupposti metafisici impliciti nel metodo newtoniano, mostrandone l’origine in abiti psicologici indebitamente ipostatizzati. È noto che la caduta dei presupposti metafisici della fisica, operata da Hume, scosse I. Kant dal ‘sonno dogmatico’ che contrassegna i suoi lavori giovanili. Il problema originario della filosofia critica si configurò in parte come tentativo di ricostruire i fondamenti logici della fisica newtoniana, non più sulle basi irrecuperabili della metafisica razionalista, ma radicandoli nelle strutture a priori della sensibilità e dell’intelletto, così da sottrarli a ogni relativismo scettico. Tempo e spazio assoluti e le leggi della meccanica acquistavano così – dopo un’elaborazione scientifica secolare – lo status ontologico di ‘forme’ trascendentali, condizionanti l’esperienza.
D’altra parte le singole scienze si svilupparono automaticamente secondo i criteri prefissati, a opera di grandi matematici e fisici, come G.L. Lagrange, A.-M. Legendre, G. Monge, P.-S. de Laplace, F.W. Herschel; la chimica moderna fu fondata da A.-L. Lavoisier e J. Priestley; l’elettrologia da B. Franklin, C.-A. de Coulomb, H. Cavendish, L. Galvani, A. Volta. Le ricerche biologiche, a partire dall’opera dei fondatori della microscopia del 17° sec., si svilupparono soprattutto riguardo ai problemi della generazione, grazie a L. Spallanzani, C. Bonnet, Maupertuis, Buffon; mentre l’anatomia comparata e la tassonomia vegetale e animale – ancora rigidamente fissista nei suoi fondatori, J. Ray e C. Linneo – facevano intravedere i processi dell’evoluzione naturale, culminando nell’opera di Lamarck. Anche le scienze biologiche furono profondamente influenzate dalla riflessione filosofica – da Buffon a Kant – e ne subirono reciprocamente l’influenza.
3. L’I. politico
Una prima caratteristica comune ai politici dell’I. consiste nel punto di vista pragmatico, che accantona la trattazione dei problemi politici in chiave di ragion di Stato, e di prudenza o arte di governo – dominante negli scrittori ‘machiavellici’ del Seicento – sostituendovi l’impegno riformistico, la tensione volontaristica a mutare i rapporti sociali. Una seconda costante si riassume nel quesito di Hume, «se la politica possa ridursi a scienza». Entrambe le esigenze riflettono il nuovo ruolo storico della borghesia e l’incidenza crescente della tecnologia e della scienza nella vita associata.
Il peculiare grado di sviluppo economico e politico raggiunto dall’Inghilterra negli anni della rivoluzione ‘gloriosa’ segnò anche un nuovo punto di partenza per l’egemonia della borghesia commerciante. Al nuovo ordinamento, sorto politicamente dal compromesso e sancito dalla Costituzione del 1689, cui la teoria contrattualistica lockiana offriva giustificazione, fece seguito la prassi empirica dell’equilibrio tra i vari poteri dello Stato (monarchia, parlamento, magistratura) e del governo di gabinetto. Assorbendo le tensioni sociali, questo ordinamento favorì lo sviluppo della rivoluzione industriale – dalla metà del secolo in poi – entro un quadro di sostanziale conservazione sociale. Della stabilità delle istituzioni inglesi e di un moderato conservatorismo liberale furono interpreti Bolingbroke, Hume e i grandi storici scozzesi. Anche l’opera dell’economista scozzese A. Smith, nel suo orientamento sociologico, alieno da giudizi di valore, riflette la prassi politica liberale nell’analisi dei processi produttivi capitalistici, dei sottostanti conflitti sociali, della distribuzione della ricchezza, e più in generale nella concezione dello Stato di diritto, rigorosamente limitato nelle sue funzioni economico-sociali.
In Francia, il modello costituzionale lockiano operò profondamente nei programmi di riforma dei philosophes e nella volontà di ricondurre la politica ai modelli esplicativi delle scienze. Voltaire dette l’avvio a un vivace movimento di opinione a favore di un trapianto delle libertà inglesi, che non avrebbe cessato di diffondersi in Europa in tutto il corso del secolo. Nel suo capolavoro, Montesquieu mediò questa esigenza con il tentativo di gettare le basi di una scienza dell’uomo storico-sperimentale e articolò la sua indagine facendo convergere attorno alla formazione delle leggi le componenti religiose, economiche, etico-politiche presenti storicamente nelle varie società. La proposta politica implicita nell’Esprit des lois era quella di un’illuminata razionalizzazione dello Stato, mediante il rinnovo delle antiche forme parlamentari cadute in disuso nell’età assolutistica. Non diversamente orientati furono, in generale, i fisiocratici, teorici del laisser faire in economia, in funzione di un’emancipazione dalle restrizioni e strutture feudali, di una liberalizzazione dell’economia agricola e di un alleggerimento della pressione fiscale sulla proprietà latifondistica. Appaiono dominanti, in questa prospettiva, le proposte riformistiche degli economisti, di G. Bonnot de Mably, di G.-T.-F. Raynal, mentre in taluni articoli dell’Encyclopédie e negli scritti di Helvétius e d’Holbach la violenta polemica antireligiosa si accompagnava a prospettive politiche più radicali, in senso laico e democratico. Le idee egualitarie che si affacciano in alcuni scritti di Diderot, in Morelly, S.-N.-H. Linguet, e più tardi nel comunismo utopistico di F.-N. Babeuf, si richiamano piuttosto alle utopie della rinascenza, alla polemica contro la civiltà-corruzione, al mito del buon selvaggio. Si può considerare intermedia tra il riformismo deiphilosophes e l’egualitarismo degli utopisti la teoria democratica di Rousseau, nella quale confluiscono la problematica giusnaturalista e lockiana da un lato, l’assolutismo hobbesiano dall’altro (con il tema della volontà generale). Il prevalente carattere normativo del Contrat social, le sue complesse implicanze morali, educative, religiose, segnano il profondo distacco di Rousseau dagli altri politici dell’I., nel senso di una concezione etica della vita politica, ben lontana dalla tendenza sociologica o scientifica comunemente affermatasi tra loro.
Guidato dall’irradiamento cosmopolitico dell’I. franco-inglese, il riformismo e dispotismo illuminato seguì orientamenti differenziati nei vari paesi europei. Le riforme trovarono terreno propizio laddove sussisteva un tessuto socioeconomico sviluppato, come nella Toscana leopoldina e nella Lombardia dei Verri e di C. Beccaria; conservarono carattere autoritario ed ebbero scarsa presa sulle strutture civili nell’Impero austriaco sotto Maria Teresa e Giuseppe II, nellaRussia di Caterina II e nella Prussia di Federico II. Il regno di Napoli vide la fioritura autonoma di un complesso moto intellettuale, di cui furono protagonistiF. Galiani, A. Genovesi, F.M. Pagano, G. Filangieri, che recepirono e rielaborarono originalmente negli studi storici, giuridici, economici, le proposte emerse dal gran dialogo europeo, promuovendo e sopravanzando insieme le riforme civili, rese discontinue e incerte dall’irresoluta azione della monarchia e dall’organica arretratezza del regno.
Già attorno al 1760 la politica coloniale degli Stati europei aveva trovato critici acuti nei philosophes, sensibili al fascino dello stato di natura e del buon selvaggio, in nome della filantropia. La richiesta di abolire la tratta dei neri nelle colonie americane, l’analisi dello sfruttamento coloniale delle Indie e del corrispettivo arricchimento commerciale delle grandi compagnie si delinearono con maggior precisione negli scritti dei viaggiatori e nell’opera dell’abate Raynal. La formazione ideologica dei philosophes americani si svolse in tale ambiente, riflettendo variamente, oltre al filantropismo e all’anticolonialismo, anche le premesse lockiane e baconiane dell’enciclopedismo: T. Paine teorizzò i fondamenti etici della rivoluzione americana, T. Jefferson vi introdusse le fondamentali scelte politiche, B. Franklin ne interpretò i valori popolari, attraverso un’attiva mediazione con i circoli illuministici francesi. Così, firmatari della Dichiarazione d’indipendenza del 1776, essi la giustificarono alla luce dei medesimi principi dell’autogoverno, del consenso, delle garanzie dei diritti individuali, che erano alla base del contrattualismo lockiano e che – in assenza di rigide strutture socio-economiche – conferirono una fisionomia peculiare al liberalismo americano e all’evoluzione storica degli Stati Uniti, propaggine autonoma dal ceppo dell’I. europeo.
4. L’I. giuridico
Il
complesso delle concezioni razionalistiche assunte dalla filosofia
illuminista del 18° sec. in relazione al diritto – incentrate sulla
critica alla tradizione, alle istituzioni, all’ordine morale e alle
normative vigenti – trova espressione nell’individualismo, che
attribuisce un ruolo centrale al singolo, a cui vengono riconosciuti
nuovi diritti, codificati per la prima volta in Francia
nella Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del
1789. L’I. giuridico fa propria anche la tesi utilitaristica, in virtù
della quale è moralmente buono solo ciò che rende possibile il
conseguimento dell’utile sociale. Gli illuministi non rinnegano la
razionalità delle norme del diritto naturale, ma ritengono che queste
ultime si possano realizzare solo nel diritto positivo; quindi affidano
alla volontà del legislatore il compito di tradurre in norme il diritto naturale,
ponendo la legge al primo posto nella gerarchia delle fonti. In campo
penale, le istanze illuministiche danno luogo a una concezione
garantista della pena.
Dizionario di Filosofia (2009)
Nell’accezione
più propria, un determinato periodo storico della vita politica e
culturale europea ( oltre); in senso lato, si parla poi di I. (o
neo-i.) anche a proposito di altre forme e manifestazioni storiche
della cultura, nelle quali si ritiene di poter ravvisare taluni di
quegli aspetti strutturali che si considerano caratteristici dell’I.
storicamente considerato.
L’età dei lumi.
L’I. (fr. Âge des lumières, ingl. Enlightenment, ted. Aufklärung) designa nell’uso corrente sia l’età della storia d’Europa compresa tra la conclusione delle guerre di religione del sec. 17° o la Rivoluzione inglese del 1688 da un lato, e la Rivoluzione francese del 1789 dall’altro, sia la connessa evoluzione delle idee in fatto di religione, scienza, filosofia, politica, economia, storiografia e il rinnovamento delle forme letterarie nel corso del sec. 18°. La metafora della «luce» contenuta nel termine (con i sostantivi e aggettivi derivati: lumi, éclairé, enlight ened, Aufklärer, ecc.) deriva da una secolarizzazione e laicizzazione dell’idea di provvidenza, o progresso, intesa come attività storica umana: così il concetto di «luce di natura» fu anteposto e contrapposto dai deisti inglesi alla rivelazione cristiana in quanto possesso originario della mente umana; così pure la scoperta delle leggi naturali apparve una più piena rivelazione o «illuminazione», come nel celebre distico di Pope: «La natura e le sue leggi erano immerse nella notte; Dio disse ‘sia Newton’, e tutto fu luce». Confluirono con questi due motivi le conclusioni ottimistiche del dibattito sulla teodicea (cui parteciparono Bayle, William, King, Leibniz, Shaftesbury, Rousseau, Voltaire, Kant), l’idea della superiorità dei moderni rispetto agli antichi prevalsa in un’annosa querelle, l’ideale continuità con la rivoluzione scientifica e con la rinascenza, lasciando emergere la caratteristica immagine del trionfo della ragione contro le tenebre del fanatismo e della superstizione, che divenne corrente verso la metà del secolo. I contenuti filosofici e scientifici della cultura dei lumi rinviano a un complesso programma di rinnovamento ideologico, civile, politico, che fu elaborato variamente nei diversi paesi e accompagnò ovunque la crescente egemonia della borghesia commerciale e industriale in lotta con le strutture del sopravvivente mondo feudale.
Le valutazioni dell’Illuminismo.
Le varie immagini dell’I., nate dalle polemiche circa la sua vivente ere dità, hanno lungamente condizionato e condizionano tuttora le prospettive storiografiche. Nel sec. 19° furono coinvolti nel dibattito gli idéologues francesi, i critici socialisti della società borghese, i fondatori delle scienze sociali, i teorici dello Stato di diritto, gli storici della Rivoluzione francese. In sede più stret tamente filosofica, l’idealismo tedesco, il marxismo, il positivismo, il materialismo e più tardi lo stori cismo e la filosofia della scienza hanno conservato saldi legami con l’uno o l’altro aspetto dell’eredità illuministica. Di qui i criteri selettivi parziali, e spesso polemici, che sono all’origine di modelli convenzionali sui quali si specula e si discute. Per es., la critica hegeliana dell’intelletto astratto ha condizionato lungamente la valutazione dell’I. nell’ambito della cultura idealistica e storicistica, dando luogo più tardi a rivalutazioni parziali e tendenziose. I teorici del marxismo, ereditando a loro volta tale schema interpretativo, hanno gene ralmente travisato i nessi reali che legano la loro opera a quella di Rousseau, dei comunisti utopisti e degli economisti, dei materialisti e dei philosophes. Ancora, il ricordo del dispotismo illuminato e del riformismo ha nutrito le ideologie empirico-mode rate, in partic. nei paesi anglosassoni, immobiliz zando l’eredità illumi nistica in formule conservatrici e in agiografie. La discus sione storio grafica, pur innestandosi su basi così articolate e polemiche, ha contribuito a moltiplicare le ricerche sul sec. 18°, a differenziare prospettive e giudizi, a ricostruire i contesti sociali e politici del movi mento delle idee, tendendo a storicizzare sia la cultura dei lumi, sia la consapevolezza del nostro debito nei suoi confron-ti. Anche da questo punto di vista, le tensioniideali profonde dell’età dei lumi vengono a prolun-garsi fino a noi, rendendo illusoria ogni disinte-ressata contemplazione.
Religione e ragione.
L’affermazione solenne dell’autonomia della ragione, che è alla
radice della cultura dei lumi, maturò in cerchie ristrette e assunse un
peculiare significato politico e religioso negli ultimi decenni del
sec. 17°. La superfluità di ogni rivelazione divina, il distacco dalle
varie ortodossie ecclesiali, l’autonomia delle leggi morali, l’immagine
razionale di un Dio architetto del cosmo svelato dalla nuova scienza,
sono gli aspetti costruttivi del deismo, del quale si considera
generalmente iniziatore Herbert di Cherbury. Ma le grandi linee della
disputa settecentesca sulla religione naturale e rivelata hanno
piuttosto la loro origine nella critica negativa del cristianesimo
storico e della tradizione biblico-ecclesiastica, svolta sia dai grandi
eruditi olandesi, sia dai libertini e spiriti forti francesi.
Le condizioni propizie per la maturazione del deismo si crearono in
Inghilterra, quando gli eccessi fanatici dell’età puritana stimolarono
la formazione di élites di eterodossi, dissenzienti e increduli. La
singolare fortuna del socinianismo di origine italo-polacca nella
cerchia cui appartennero Newton e Locke; il motivo erasmiano della
tolleranza, importato dai Paesi Bassi tramite i profughi calvinisti
Bayle, Gilles Le Clercq, Pierre Jurieu e i teologi arminiani; la
ripresa di una religiosità umanistica e platonizzante da parte di
Cudworth, More e degli altri «latitudinari» di Cambridge; la critica
dell’«entusiasmo» fanatico e la penetrazione di motivi
scettico-libertini, trovarono un punto di equilibrio nella concezione
lockiana del cristianesimo ragionevole, compendiato in una semplice
massima: «credere che Cristo è il messia, e vivere una buona vita».
All’indomani della rivoluzione del 1688, si richiamarono senz’altro
a Locke i deisti e i freethinkers, radicalizzando però in senso
antireligioso e politico le sue vedute, infrangendo la tregua con
l’episcopato anglicano e il rispetto esteriore per le tradizioni. A
parte Charles Blount, compilatore di testi deistici d’ispirazione
hobbesiana, si posero su questa strada Toland, Collins, Matthew Tindal,
William Wollaston, Thomas Woolston, Thomas Morgan e molti altri
polemisti e libellisti, la cui rivendicazione di un «cristianesimo
senza misteri» si modificò presto in posizioni panteistiche,
materialistiche e ateistiche, consapevolmente legate alla critica
dell’ideologia whig o tory, e della collusione tra potere politico e
religione. Sostenitore di un deismo «cristiano», in realtà sociniano,
fu Clarke, che combatté i deisti estremisti usando come argomento
apologetico l’immagine newtoniana dell’Universo-macchina, preceduto e
seguito in questo da Richard Bentley, William Whiston, George Cheyne e
molti altri fisico-teologi, in Inghilterra e sul continente, e
combattuto da Leibniz in una celebre disputa epistolare. Una posizione
intermedia fu assunta da Shaftesbury, discepolo di Locke in politica e
dei platonici di Cambridge in etica, difensore di un teismo
naturalistico.
La controversia deistica, che si svolse con molta vivacità fino al
1730 circa, coinvolse posizioni politiche di varia tendenza:
inizialmente sovversiva, finì per penetrare nei circoli aristocratici,
contagiando e acquisendo al deismo anche politici e letterati
conservatori, come Bolingbroke e Pope. Una vivace reazione al deismo da
parte anglicana, iniziata da Charles Leslie e da William Warburton,
ebbe i suoi più originali protagonisti nei vescovi e apologisti Butler
e Berkeley, che seppero trasferire la disputa sul piano etico e
filosofico; e un’eco popolare in William Law e nei mistici suoi
seguaci, fondatori del metodismo. La controversia deistica era
sostanzialmente esaurita, quando Hume ne ricompose i momenti nella
brillante summa dei suoi Dialoghi sulla religione naturale , e
ricapitolò dal punto di vista della sua psicologia della «credenza»
l’analisi antropologica, sociologica, politica della religione, svolta
fin dalla metà del sec. 17° da Bayle, Fontenelle, dagli eruditi e dai
viaggiatori. Queste furono anche le fonti della critica antireligiosa
svolta clandestinamente in Francia, nei primi decenni del secolo, da
Nicolas Fréret, Henry Boulainvilliers, César Chesneau Du Marsais, Jean
Lévesque de Burigny, Jean Meslier e altri compilatori di manoscritti
anonimi, pubblicati dopo il 1760 da Holbach. La critica della
collusione tra altare e trono, la polemica contro il gesuitismo e il
rigorismo giansenistico, l’esigenza di emancipazione politico-religiosa
si uniscono qui a un anticlericalismo più risentito, a una più decisa
ripresa di tesi epicuree e spinoziane e a una più massiccia campagna
ideologica.
La disputa emerse cautamente nei primi scritti di Montesquieu e
Voltaire, acquistò impeto verso la metà del secolo in anonime
pubblicazioni deistiche o ateistiche, fu repressa, risorse con gli
scritti di Diderot ed Helvétius, seguì la sorte dell’Encyclopédie, e
finalmente dilagò nelle innumerevoli compilazioni materialistiche ed
empie edite da Holbach. Le persecuzioni giansenistiche, gesuitiche,
governative radicalizzarono la discussione, fino a farla coincidere con
la più vasta battaglia intrapresa dai philosophes sul piano delle
libertà politiche e delle riforme economico-sociali. Lo testimonia
soprattutto la propaganda anticristiana condotta da Voltaire attorno
agli anni Sessanta, in innumerevoli libelli e satire, simmetrica ai
suoi interventi in clamorosi casi giudiziari contro blasfemi ed empi,
nel nome della tolleranza religiosa. Voltaire tuttavia respinse le
radicali conclusioni ateistiche e materialistiche degli enciclopedisti,
difendendo il credo deistico che aveva assimilato dagli scrittori
inglesi.
Rousseau, dopo un periodo di stretta collaborazione con gli
enciclopedisti, maturò una personale rivendicazione del teismo,
espressa nell’Emilio e nelleRêveries e profondamente connessa
con le sue vedute morali, educative e politiche. La stessa multiforme
varietà del deismo franco-inglese non consente di ridurre a una formula
la critica illuministica della religione, se non si vogliono escludere
‒ come a volte accade ‒ Rousseau e Hume; e il quadro si fa ancor più
folto se vi si fanno rientrare le discussioni sulle credenze dei
primitivi, sugli dei pagani, sulle religioni extraeuropee, sui miti e
sulle favole antiche, strettamente legate alla mitografia erudita e
all’esegesi biblica del tardo Seicento.
Dalle meditazioni di Vico sulla nascita del mito alla grande disputa
sui riti cinesi, dalle indagini di Newton sulla cronologia biblica ai
saggi di Boulanger e di Ch. de Brosses sui culti selvaggi, un ampio
dibattito avvia in tutta Europa l’indagine comparata sul- le religioni.
Nel medesimo contesto rientra anche l’imponente processo contro il
cattolicesimo condotto da Giannone nel Triregno, rielaborazione
dell’interpretazione politica della religione d’origine spinoziana,
deistica e libertina. In Germania la discussione sulla religione assume
forme erudite e meno vivacemente polemiche, nell’esegesi razionalista
di Wolff, Reimarus, Sempler, nelle discussioni sullo spinozismo, sul
deismo e sulle scritture che coinvolsero Lessing, Hamann, Herder e
Jacobi.
Gli esiti della controversia sono rappresentati, da una lato, dalla proposta kantiana di una «religione nei limiti della ragione pura», inserita nel contesto della critica della metafisica e della fede pratica scaturente dagl’imperativi morali; e, d’altro lato, dall’interpretazione storicistica della provvidenza come progresso e rivelazione continua, dall’ideale lessinghiano di una perpetua «educazione del genere umano», dalla filosofia della storia di Herder. L’incontro del deismo militante franco-inglese con la cultura teologica luterana, con il pietismo e con la tradizione esegetica germanica ‒ in una situazione politica stagnante ‒ si esaurì in un razionalismo e storicismo contemplativo. Al di là della filosofia romantica della religione, nutrita profondamente di questa cultura, la dimensione politica del deismo sarà recuperata nella critica radicale della sinistra hegeliana, che tornerà a ispirarsi a Bayle, Holbach e Hume.
Scienza e filosofia.
Non è possibile segnare una netta cesura tra la maturazione del
metodo sperimentale nel sec. 17°, il razionalismo e l’empirismo da un
lato, la gnoseologia illuministica dall’altro. Controverso è il ruolo
del metodo e della fisica di Descartes nello sviluppo delle scienze ‒
matematica, meccanica, astronomia, biologia ‒ nella formazione di una
generale concezione meccanicistica della natura e nel razionalismo dei
lumi. D’altra parte le acquisizioni del metodo galileiano vennero a
convergere, attraverso l’opera degli accademici del Cimento, di Boyle e
dei virtuosi della Royal Society, di Pascal, Chr. Huygens e
dell’Académie des sciences, nella sintesi newtoniana. Un momento
decisivo di trapasso è rappresentato dalla sistemazione definitiva
della meccanica nei Principia mathematica e della teoria
della luce nell’Opticks di Newton, nella maturazione dell’analisi
infinitesimale a opera di Newton, Leibniz, G.-F.-A. de L’Hôpital, dei
Bernoulli, di B. Taylor e di altri. Alle soglie del sec. 18° la
rivoluzione scientifica era compiuta. La meccanica razionale
rappresentava un modello epistemologico per tutte le altre scienze,
destinate a estendersi e ramificarsi per circa due secoli senza
sostanziali mutamenti nei loro concetti fondamentali.
Di qui anche l’egemonia del metodo sperimentale newtoniano sulla
riflessione epistemologica, sorretta dal prestigio della nuova ottica e
della nuova astronomia gravitazionale. In Inghilterra la fisica di
Newton, profondamente radicata nella cultura metafisico-teologica dei
maestri di Cambridge, aveva combinato le loro nozioni del tempo e dello
spazio assoluti con l’atomismo di origine epicureo-gassendiana, e con
la matematica dell’infinito successivamente sviluppata da B. Cavalieri,
I. Barrow, J. Wallis.
Una versione più nettamente positivistica della sintesi newtoniana,
già elaborata dai diretti discepoli J. Keill, Freind, Pemberton, C.
MacLaurin, fu svolta nei Paesi Bassi – dove era stata profonda
l’influenza cartesiana – e diffusa in tutta Europa attraverso i manuali
di P. Musschenbroeck e L.W.J. ‘s Gravesande. In Francia furono più
sensibili le resistenze opposte alla nuova sintesi scientifica dalla
scolastica cartesiana e dai metafisici malebranchiani. Dopo compromessi
di vario genere, tentati in fisica e in metafisica da Fontenelle,
Castel, Pluche e altri, la sintesi newtoniana fu divulgata da Voltaire,
Buffon, Maupertuis, Madame du Châtelet; suoi singoli aspetti furono
rinnovati da Alembert, A.-C. Clairaut, Maupertuis, Eulero, Boscovich.
Il cosmopolitismo delle accademie ‒ Berlino, Pietroburgo, Bologna ‒
consentì una rapida circolazione di uomini e idee, stimolando ovunque
il ricambio tra l’attività scientifica periferica e quella dei due
massimi centri, Parigi e Londra.
In generale, la fisica newtoniana nutrì anche la polemica ideologica
dei philosophes francesi, mentre in Germania e in Italia fu
recepita, rispettivamente, nell’ambito delle discussioni
metafisico-gnoseologiche della scuola leibniziana, e della tradizione
tecnico-matematica della scuola galileiana.
L’altro aspetto capitale della filosofia dei lumi è rappresentato
dallo svolgimento e adattamento della gnoseologia di Locke: l’origine
empirica delle idee, l’analisi dei processi associativi, la critica
delle illusioni linguistiche come fonte di falsi dilemmi metafisici,
fornirono una soddisfacente giustificazione del metodo sperimentale,
confluendo in Inghilterra e in Europa con gli sviluppi delle scienze
esatte. Vi si richiamarono i filosofi italiani, da Genovesi a Verri e
Beccaria; Voltaire, Condillac, Helvétius condussero in nome di Locke
una serrata critica dello «spirito di sistema» che aveva dominato le
costruzioni dei filosofi razionalisti del Seicento. I criteri analitici
lockiani furono fatti valere da Condillac nell’analisi del linguaggio,
da Helvétius nella critica sociale e politica, soprattutto contro i
privilegi dell’educazione aristocratica.
Più indirettamente, d’Alembert vi si richiamò nella redistribuzione
delle discipline in seno all’orbis scientiarum eredita- to
dall’enciclopedismo secentesco. D’altra parte Diderot si rifece, oltre
a Locke e alla sintesi new- toniana, al grande progetto baconiano di
una connessione articolata tra scienze pure, arti mecca- niche e
tecnologia, che trovò la sua pratica realizzazione nell’Encyclopédie.
Comune agli enciclopedisti è la concezione non speculativa della
filosofia, intesa appunto come riflessione epistemologica sulle varie
scienze e sulle loro articolazioni, in vista di un preciso programma
economico, politico, civile: nesso di teoria e prassi che riflette una
consapevole presa di coscienza da parte del Terzo Stato ‒ di cui gli
enciclopedisti furono gli ideologi ‒ del proprio ruolo storico. I
medesimi motivi operano, in direzioni diverse, nell’indagine
epistemologica di Berkeley e di Hume, entrambi critici del metodo
sperimentale e delle pretese oggettivistiche connesse ai «modelli»
fisici (come il concetto di corpuscolo materiale, l’infinito matematico
e i raggi ottici). Mentre la critica di Berkeley mirava a mettere in
crisi i fondamenti teorici della fisica sperimentale in funzione di una
restaurazione metafisica dell’antica immagine del cosmo, qualitativa e
platonizzante, Hume operò la dissoluzione scettica dei processi logici
e dei presupposti metafisici impliciti nel metodo newtoniano,
mostrandone l’origine in abiti psicologici indebitamente ipostatizzati.
Ai loro punti di vista si è richiamata la filosofia della scienza
moderna, dalla critica della meccanica di Mach ‒ momento centrale della
crisi relativistica ‒ all’analisi positivistica del linguaggio
scientifico.
È noto che la caduta dei presupposti metafisici della fisica,
operata da Hume, scosse Kant dal «sonno dogmatico» che contrassegna i
suoi giovanili lavori gnoseologici, teologici, cosmologici, orientati
nel senso di una ricezione eclettica di motivi tardo-cartesiani,
leibniziani, newtoniani, correnti nella scolastica post-wolffiana. Il
problema originario della filosofia critica si configurò in parte come
tentativo di ricostruire i fondamenti logici della fisica newtoniana,
non più sulle basi irrecuperabili della metafisica razionalista, ma
radicandoli nelle strutture a priori della sensibilità e
dell’intelletto, così da sottrarli a ogni relativismo scettico. Tempo e
spazio assoluti e le leggi della meccanica acquistavano così ‒ dopo
un’elaborazione scientifica secolare ‒ lostatus ontologico di
«forme» trascendentali, condizionanti l’esperienza. Ma l’instabilità
del tentativo kantiano risalta dalla frammentazione interna delle
treCritiche e dalle ricorrenti tentazioni di restaurare una
metafisica della natura; inoltre, verso la fine del secolo, gli studi
di K.F. Gauss facevano entrare definitivamente in crisi la convinzione
che la geometria euclidea fosse quella «naturale», iniziando così una
corrosione ben più radicale delle premesse teoriche della meccanica
classica. Comunque il profondo nesso che lega ancora la filosofia di
Kant alle scienze esatte fu travisato dai suoi critici idealisti, dando
luogo a un riflusso speculativo nella filosofia della natura, e
sanzionando la dicotomia tra metodo sperimentale e conoscenza
storico-politica, ignota all’Illuminismo.
D’altra parte le singole scienze si svilupparono automaticamente secondo i criteri prefissati, a opera di grandi matematici e fisici, quali J.L. Lagrange, A.M. Legendre, G. Monge, P.S. Laplace, W. Herschel; la chimica moderna fu fondata da A. Lavoisier e J. Priestley; l’elettrologia da B. Franklin, Ch.A. Coulomb, H. Cavendish, L. Galvani, A. Volta. Le ricerche biologiche, a partire dall’opera dei fondatori della microscopia del sec. 17°, si svilupparono soprattutto riguardo ai problemi della generazione, grazie a L. Spallanzani, Ch. Bonnet, Maupertuis, Buffon; mentre l’anatomia comparata e la tassonomia vegetale e animale ‒ ancora rigidamente fissista nei suoi fondatori, J. Ray e Linneo ‒ facevano intravedere i processi dell’evoluzione naturale, culminando nell’opera di J.B. de Lamarck. Anche le scienze biologiche furono profondamente influenzate dalla riflessione filosofica ‒ da Buffon a Kant ‒ e ne subirono reciprocamente l’influenza.
L’Illuminismo politico. S
e è generalmente presente nelle teorie politiche del sec. 18° l’idea
di progresso, associata alle vedute illuministiche sulla storia e sulla
società, il criterio d’interpretazione va a sua volta mediato con la
considerazione delle forze economico-sociali che di tale schema si
giovarono per affermare la propria iniziativa politica. Anche qui,
l’emancipazione della borghesia dalle forme della società feudale, la
modificazione delle forze e dei rapporti di produzione, la costituzione
della grande industria capitalistica, si svilupparono secondo ritmi
diversi nei vari paesi europei, stimolando o accompagnando l’evoluzione
delle concezioni politiche. Una prima caratteristica, comune ai
politici dell’I., consiste nel punto di vista pragmatico, che accantona
la trattazione dei problemi politici in chiave di ragion di Stato, e di
prudenza o arte di governo ‒ dominante negli scrittori «machiavellici»
del Seicento ‒ sostituendovi l’impegno riformistico, la tensione
volontaristica a mutare i rapporti sociali. Quindi, una seconda
costante si riassume nel quesito di Hume, «se la politica possa ridursi
a scienza». Entrambe le esigenze riflettono il nuovo ruolo storico
della borghesia e l’incidenza crescente della tecnologia e della
scienza nella vita associata. Il peculiare grado di sviluppo economico
e politico raggiunto dall’Inghilterra negli anni della rivoluzione
«gloriosa» segnò anche un nuovo punto di partenza per l’egemonia della
borghesia commerciante.
La costituzione del 1689, e la teoria contrattualistica lockiana che
la giustificava, furono ben definite da S. Laski come la nascita della
concezione dello Stato in quanto «società a responsabilità limitata»,
fondata sul consenso di un’élite, improntata a corretti rapporti
commerciali tra i protagonisti della vita economica, riservante loro il
godimento della proprietà e degli altri diritti individuali, la
garanzia delle leggi, la tolleranza delle opinioni. Al nuovo
ordinamento ‒ sorto politicamente dal compromesso, e negante in teoria
il diritto divino del monarca ‒ fece seguito la prassi empirica
dell’equilibrio tra i vari poteri dello Stato (monarchia, parlamento,
magistratura) e del governo di gabinetto. Assorbendo le tensioni
sociali, quest’ordinamento favorì lo sviluppo della rivoluzione
industriale ‒ dalla metà del secolo in poi ‒ entro un quadro di
sostanziale conservazione sociale. Della stabilità delle istituzioni
inglesi e di un moderato conservatorismo liberale furono interpreti
Bolingbroke, Hume, i grandi storici scozzesi, e più tardi Burke,
critico del giacobinismo e della rivoluzione d’oltre Manica.
Anche l’opera dell’economista scozzese A. Smith, nel suo
orientamento sociologico, alieno da giudizi di valore, riflette la
prassi politica liberale nell’analisi dei processi produttivi
capitalistici, dei sottostanti conflitti sociali, della distribuzione
della ricchezza, e più in generale nella concezione dello Stato di
diritto, rigorosamente limitato nelle sue funzioni economico-sociali.
La fissazione dei concetti fondamentali della scienza economica moderna
si deve alla peculiare convergenza tra l’analisi scientifica della vita
morale condotta dalla scuola scozzese, il liberalismo politico
teorizzato da Hume e le teorie fisiocratiche.
In Francia il modello costituzionale lockiano operò profondamente
nei programmi di riforma dei philosophes e nella volontà di
ricondurre la politica ai modelli esplicativi delle scienze. Voltaire
dette l’avvio a un vivace movimento d’opinione a favore di un trapianto
delle libertà inglesi, che non avrebbe cessato di diffondersi in Europa
in tutto il corso del secolo. Nel suo capolavoro Montesquieu mediò
questa esigenza (viva soprattutto nella celebre formula della divisione
dei poteri, direttamente ispirata a Bolingbroke) con il tentativo di
gettare le basi di una scienza dell’uomo storico-sperimentale, e
articolò la sua indagine facendo convergere attorno alla formazione
delle leggi le componenti religiose, economiche, etico-politiche
presenti storicamente nelle varie società. La proposta politica
implicita nello Spirito delle leggi
(1748) era quella di un’illuminata razionalizzazione dello Stato,
mediante il rinnovo delle antiche forme parlamentari cadute in disuso
nell’età assolutistica.
Non diversamente orientati furono, in generale, i fisiocratici,
teorici del laisser faire in economia, in funzione di
un’emancipazione dalle restrizioni e strutture feudali, di una
liberalizzazione dell’economia agricola e di un alleggerimento della
pressione fiscale sulla proprietà latifondistica. I loro programmi,
maturati nell’ambito dell’Encyclopédie, trovarono difficoltà a tradursi
in concrete iniziative di governo ‒ a causa della persistente
diffidenza e ritrosia da parte del parlamento di Parigi e della
monarchia a lasciarsi guidare dai riformatori ‒ finché non prevalsero
con Luigi XVI, A.R.J. Turgot e J. Necker.
Ma ormai l’evoluzione politica ed economica del Terzo Stato aveva
largamente preceduto le capacità di adattamento del sistema, rigido e
sclerotico, ponendo in movimento le forze che lo avrebbero travolto.
Appaiono dominanti, in questa prospettiva, le proposte riformistiche
degli economisti, di Mably, di G.T.F. Raynal, mentre in taluni articoli
dell’Encyclopédie e negli scritti di Helvétius e d’Holbach la
violenta polemica antireligiosa si accompagnava a prospettive politiche
più radicali, in senso laico e democratico. Le idee egualitarie che si
affacciano in alcuni scritti di Diderot, in E.G. Morelly, S.N.H.
Linguet, e più tardi nel comunismo utopistico di F.N. Babeuf, si
richiamano piuttosto alle utopie della rinascenza, alla polemica contro
la civiltà-corruzione, al mito del buon selvaggio. Si può considerare
intermedia tra il riformismo dei philosophes e
l’egualitarismo degli utopisti la teoria democratica di Rousseau, nella
quale confluiscono la problematica giusnaturalista e lockiana da un
lato, l’assolutismo hobbesiano dall’altro (con il tema della volontà
generale). Il prevalente carattere normativo del Contratto sociale,
le sue complesse implicanze morali, educative, religiose, segnano il
profondo distacco di Rousseau dagli altri politici dell’I., nel senso
di una con- cezione etica della vita politica, ben lontana dalla
tendenza sociologica o scientifica comunemente affermatasi tra loro.
Ben al di là della riforma della Polonia e della Corsica, cui
Rousseau dedicò i propri progetti di Costituzione, il suo pensiero
politico nutrì la generazione giacobina in tutta Europa. Il suo apporto
modificò profondamente i presupposti del giusnaturalismo e della
concezione dello Stato di diritto, influendo sia su Kant e sulla
tradizione liberale successiva, sia sullo sviluppo delle idee
socialiste.
Guidato dall’irradiamento cosmopolitico dell’I. franco-inglese, il
riformismo e dispotismo illuminato seguì orientamenti differenziati nei
vari paesi europei. Le riforme trovarono terreno propizio dove
sussisteva un tessuto socioeconomico sviluppato, come nella Toscana
leopoldina e nella Lombardia dei Verri e di Beccaria; conservarono
carattere autoritario ed ebbero scarsa presa sulle strutture civili
nell’Impero austriaco sotto Maria Teresa e Giuseppe II, nella Russia di
Caterina II e nella Prussia di Federico II. In questi paesi le idee
illuministiche non divennero patrimonio di
vaste élite sociali e si limitarono volta a volta a suggerire
la riforma dei codici penali, la laicizzazione dello Stato, la
razionalizzazione della vita economica, l’ammodernamento dei sistemi
educativi. Nel Regno di Napoli la persistente tradizione
giurisdizionalista giannoniana favorì la fioritura autonoma di un
complesso moto intellettuale, di cui furono protagonisti Galiani,
Genovesi, Pagano, Filangieri, che recepirono e rielaborarono
originalmente negli studi storici, giuridici, economici, le proposte
emerse dal gran dialogo europeo, promuovendo e sopravanzando insieme le
riforme civili, rese discontinue e incerte dall’irresoluta azione della
monarchia e dall’organica arretratezza del Regno.
Già attorno al 1760 la politica coloniale degli Stati europei aveva trovato critici acuti nei philosophes, sensibili al fascino dello stato di natura e del buon selvaggio, in nome della filantropia. La richiesta di abolire la tratta degli schiavi neri nelle colonie americane, l’analisi dello sfruttamento coloniale delle Indie e del corrispettivo arricchimento commerciale delle grandi compagnie si delinearono con maggior precisione negli scritti dei viaggiatori e nell’opera dell’abate Raynal. La formazione ideologica dei philosophes americani si svolse in tale ambiente, riflettendo variamente, oltre al filantropismo e all’anticolo- nialismo, anche le premesse lockiane e baconiane dell’enciclopedismo: Th. Paine teorizzò i fondamenti etici della rivoluzione americana, Th. Jefferson v’introdusse le fondamentali scelte politiche, Franklin ne interpretò i valori popolari, attraverso un’attiva mediazione con i circoli illuministici francesi. Così, firmatari della Dichiarazione d’indipendenza del 1776, essi la giustificarono alla luce dei medesimi principi dell’autogoverno, del consenso, delle garanzie dei diritti individuali, che erano alla base del contrattualismo lockiano e che ‒ in assenza di rigide strutture socio-economiche ‒ conferirono una fisionomia peculiare al liberalismo americano e all’evoluzione storica degli Stati Uniti, propaggine autonoma dal ceppo dell’I. europeo.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1994)
Paolo Casini
Sommario: 1. L'età dei Lumi: a) definizione e
periodizzazione; b) gli usi di una metafora; c) unità e
diversità dei Lumi. 2. Metodo scientifico e ricerca sociale: a)modelli
epistemologici rivali; b) la scienza della natura umana. 3.
Politica e ideologia: a) l'eredità del diritto naturale;
b) la teoria politica di Locke; c) critica dell'assolutismo e
ricerca sociale da Fénelon a Montesquieu; d) teoria e pratica: gli
enciclopedisti; e) la teoria politica di Rousseau. 4. Alle origini
dell'economia politica. 5. La critica del sovrannaturale. 6. Gli
utopisti. 7. L'idea di progresso. □ Bibliografia.
1. L'età dei Lumi
a) Definizione e periodizzazione
Il termine 'illuminismo' (franc. Lumières, ingl. Enlightenment,
ted. Aufklärung, sp. Ilustración) coincide all'incirca, nelle
periodizzazioni della storia europea, con il Settecento, detto già dai
contemporanei 'secolo dei Lumi' o 'secolo filosofico'. Sono controversi
il termine a quo, sovente identificato con la crisi della coscienza
europea della fine del XVII secolo, il termine ad quem, collocato di
solito all'inizio della Rivoluzione francese, e la 'cesura' o
'continuità' tra Lumi e Rivoluzione. Le varie soluzioni date a tali
problemi influenzano ovviamente l'uso che si fa del termine per
definire, in senso più proprio ma non più rigoroso, gli aspetti
'idealtipici' dell'epoca: una concezione della ragione, un movimento
etico-politico, un'ideologia, un modello di cultura. Una tradizione
consolidata fa risalire l'inizio dell'itinerario dei Lumi all'avvento
del regime costituzionale whig al di là della Manica, al movimento
deistico, all'empirismo di Locke e alla scienza di Newton, al
razionalismo e giusnaturalismo che aveva i suoi centri di diffusione in
Olanda. Importate e assimilate dalla cultura francese tra gli anni
della Reggenza (1715-1723) e la metà del Settecento, queste correnti si
irradiarono variamente - sia come movimento di rinnovamento culturale,
sia come programma di riforme dall'alto - nella penisola iberica, negli
Stati italiani, nelle corti di Prussia, di Russia e d'Austria, sotto lo
scettro dei despoti illuminati dalla philosophie.
b) Gli usi di una metafora
La metafora dei 'Lumi' ha origini antiche. Il termine, polisemico e
carico di remote suggestioni religiose, passò gradualmente a
significare l'uso laico della ragione nella ricerca filosofica e
scientifica, fino a diventare la parola d'ordine di un'élite di
intellettuali che si sentì investita di una missione comune: promuovere
il sapere antimetafisico e fondato sui successi del metodo
sperimentale, limitare l'influenza delle Chiese sugli Stati e
sull'educazione, bandire i pregiudizi e le superstizioni, far trionfare
lo spirito di tolleranza, riformare le istituzioni, illuminare le
coscienze, diffondere nel popolo l'educazione e la cultura.
Si può far risalire alla letteratura deistica inglese dell'età di
Locke l'immagine pregnante della 'luce di natura' come verità iscritta
nella ragione umana, distinta dalla Rivelazione, con una forte valenza
anticonfessionale.
A metà del XVIII secolo il processo di secolarizzazione della metafora
in senso laico e scientista era compiuto, come si ricava da alcuni
testi esemplari. Per esempio, in una pagina della satira I gioielli
indiscreti (1748) Diderot, a proposito dei progressi del metodo
sperimentale, evoca l'immagine di una "fiaccola la cui luce si spande
lontano nell'aria"; Rousseau nel suo primo Discorso (1750) apostrofa,
sia pure in chiave polemica, l'umanità intenta a "dissipare con i lumi
della ragione le tenebre nelle quali la natura l'aveva avvolta"; nel
discorso preliminare dell'Encyclopédie (1751) d'Alembert traccia la
genealogia dei progressi della ragione segnando una netta dicotomia tra
i "tempi tenebrosi" del Medioevo e "la luce che rinasce". A Napoli, nel
1753, Antonio Genovesi esordì come professore di economia notando il
ritardo dell'avvento dei Lumi nella penisola: mentre "niuna parte o
poche in Europa fussero rimaste, le quali da questo nuovo lume di
ragione non fussero state illuminate [...] noi fummo l'ultima Esperia
dell'orbe letterario" (Discorso sopra il vero fine delle lettere e
delle arti).La coscienza dell'avvento dei Lumi e della ragione
riecheggiava a suo modo il mito umanistico dell'età nuova e della
rinascita dell'antico.
Alla 'rinascenza delle lettere e delle arti', e soprattutto alla
svolta segnata dalla rivoluzione scientifica del Seicento, si
riconnettono idealmente i disegni retrospettivi della genealogia dei
Lumi dovuti a d'Alembert, Turgot, Rousseau, Voltaire, Condorcet, Kant,
dove la sintesi newtoniana ha una collocazione paradigmatica. Si pensi
al noto passo della Critica della ragion pura sulla "rivoluzione del
modo di pensare" in fisica, punto di svolta del pensiero moderno, con
l'immagine della "luce" che colpì Galileo e i suoi seguaci. Rispondendo
al quesito 'Was ist Aufklärung?', sollevato nel 1783 da un pubblicista
luterano, Kantreinterpretò a suo modo il motto oraziano "sapere
aude", diffuso tra i cultori dei Lumi: "Abbi il coraggio di servirti
della tua propria intelligenza! [...] L'illuminismo è l'uscita
dell'uomo da uno stato di minorità che è da imputare a lui stesso". La
celebre definizione, coerente con la critica kantiana della ragione,
non può essere ipostatizzata su un piano metastorico.
c) Unità e diversità dei Lumi
Storici di varia formazione disciplinare hanno costruito in modo
più o meno consapevole 'tipi ideali' della cultura dei Lumi,
combinandone variamente taluni motivi di fondo: la fiducia nella
ragione, il rifiuto del principio d'autorità, la critica universale, la
lotta contro la superstizione e il fanatismo, la tendenza
utilitaristica e filantropica, l'idea di tolleranza, la
secolarizzazione della provvidenza, l'ottimismo, il progresso, la
costante tensione tra riforma e utopia e simili. Non diversamente da
ciò che è accaduto per simili concetti epocali - Umanesimo,
Rinascimento, Romanticismo - i tentativi di costruire un modello
onnicomprensivo dell'illuminismo sono entrati in crisi, soprattutto da
quando si è perduta la sua coerenza di idolum theatri. Era questo un
aspetto della polemica storicistico-romantica contro la raison o il
Verstand, termini con i quali si designavano negativamente la presunta
mentalità antistorica, l'intellettualismo, lo spirito geometrizzante e
scientista dei Lumi.
La 'rivalutazione dell'illuminismo', promossa fin dal primo
Novecento da studiosi come Dilthey, Troeltsch, Meinecke, Cassirer,
Hazard, Becker, ha progressivamente ampliato i criteri selettivi dei
'valori' dell'illuminismo su vari versanti: i nessi con il diritto
naturale, la continuità con la rivoluzione scientifica del Seicento, i
contesti politici, sociali, economici. Gli epistolari e le edizioni
critiche degli autori maggiori e minori - Voltaire, Rousseau, Diderot,
Hume, ma anche Helvétius, Meslier, dom Deschamps, Beccaria, Giannone e
gli altri illuministi italiani - hanno consentito riletture
approfondite. Ricerche 'pluridisciplinari' hanno interagito con i
metodi desunti dall'antropologia strutturale, dalla sociologia, dalla
linguistica, dall'etnologia e dalle altre scienze umane con esiti non
privi di dilettantismo.
Fin dagli anni sessanta gli stessi progressi della ricerca sulla
cultura dei Lumi hanno paradossalmente contribuito a dissolverne
l'immagine unitaria in un generico clima culturale. Sono allora
subentrate dizioni caute, che designano più o meno felicemente il
Settecento come "un'età di crisi" (L. G. Crocker), "un nuovo paganismo"
(P. Gay) e, per l'area italiana, con l'epiteto "riformatore" (F.
Venturi). Ricerche ulteriori condotte con i criteri della microstoria o
della storia delle mentalità, circa la ricezione delle idee
filosofiche, la diffusione del libro, la cultura popolare, il fronte
degli antagonisti, le culture conservatrici o retrive (anti-Lumières),
contribuiscono a rimettere in discussione i retroscena
dell'ideologia.Ridimensionata come definizione di un'epoca, la formula
'illuminismo' designa tuttavia per convenzione aspetti ben noti della
cultura settecentesca: nell'epistemologia il rifiuto della metafisica,
la rinunzia ai 'sistemi' e ai procedimenti a priori, la limitazione
della conoscenza all'ambito dei fenomeni, una tecnica di ricerca per
analisi e sintesi mutuata dalla fisica matematica e dal calcolo
infinitesimale. Queste tendenze entrarono in simbiosi con il retaggio
delle correnti scettiche della tarda Rinascenza: la filosofia
corpuscolare, il pirronismo storico, il 'libero pensiero', la cultura
semiclandestina dei libertini eruditi, i motivi antireligiosi attinti
ai filosofi dell'antichità e accolti in cerchie sempre più ampie di
proseliti come reazione di rigetto nei riguardi dei conflitti
confessionali e delle persecuzioni settarie condotte all'ombra della
ragion di Stato o della Santa Inquisizione.
Di ideologia militante si può parlare a partire dagli anni in cui,
nella Londra 'augustea' e nella Francia della Reggenza, maturarono idee
repubblicane, aspirazioni a una radicale emancipazione sociale e
politica dall'assolutismo, dall'egemonia delle Chiese e confessioni
religiose e dalle altre forme di dominio dell'antico regime. Non v'è
uno strato sociale omogeneo a cui attribuire, nei vari paesi europei,
la prima genesi dell'ideologia politica dei Lumi; furono élites di
intellettuali, non di rado provenienti dai seminari gesuitici o dalle
file del clero cattolico o riformato e gravitanti ai margini dei ceti
colti e delle istituzioni. La massoneria di rito scozzese e inglese,
che si affermò anche sul continente dopo il 1730, fece propri non pochi
motivi ideali dei Lumi, li tradusse nei suoi rituali e nei suoi
simboli, e istituì in tutta Europa una vasta rete di solidarietà (anche
se il ruolo storico dell'attività latomistica resta difficile da
definire in sede storica, affidato com'è a inafferrabili indizi). In
anni e in forme diverse nei vari epicentri dei Lumi - la Londra
augustea, la Parigi della Reggenza, più tardi la Milano del "Caffè", la
Napoli dei giuristi ed economisti cosmopoliti, i centri italiani minori
(Pisa, Parma, Lucca), le università tedesche, le corti e le accademie
di Berlino e San Pietroburgo - si formarono piccoli nuclei di
intellettuali adepti della 'filosofia', promotori di movimenti di
riforma delle istituzioni, consiglieri dei despoti
illuminati.L'ideologia dei Lumi non fu astratta come si è spesso
ripetuto, ma ebbe varie anime. Nei paesi più avanzati assimilò il
sapere progettuale e pragmatico dei ceti emergenti: aristocratici
colti, giuristi e avvocati prossimi alle corti, membri della borghesia
imprenditrice. Non le furono tuttavia estranei i sogni, le aspirazioni
e le frustrazioni di marginali, chierici, profeti, visionari, intrisi
di nostalgie evangeliche e di velleità egalitarie, che diffusero i temi
della miscredenza, dell'ateismo, del materialismo, proposero codici di
leggi naturali e riforme radicali della società e dello Stato,
scrissero romanzi utopistici.
2. Metodo scientifico e ricerca sociale
a) Modelli epistemologici rivali
Il ripudio delle visioni del mondo totalizzanti e dei sistemi
metafisici edificati dai filosofi del Seicento si deve in gran parte
alla rivoluzione scientifica. I successi del metodo galileiano, la
riforma baconiana della logica induttiva, lo sperimentalismo dei
naturalisti avevano segnato l'avvento di un nuovo stile di ricerca
collegiale e verificabile, che trovò un comune terreno di cultura nelle
accademie dell'Europa continentale, ma dette i suoi frutti più avanzati
in Inghilterra nell'età e nell'ambiente della Royal Society, con
l'epistemologia di Locke e con la sintesi di Newton.
All'inizio del XVIII secolo la fisica matematica raggiunse uno stadio
di maturità tale da segnare una netta discriminazione tra scienza
positiva e pseudoscienze. Nonostante il suo segreto interesse per i
miti della tradizione alchimistica, nei Principia mathematica e
nell'Ottica Newton delimitò con rigore il dominio epistemologico
proprio della meccanica, dell'ottica, dell'astronomia. Nel nuovo
'sistema del mondo' le ragioni teologali restavano sullo sfondo e non
interferivano con le leggi della meccanica celeste; la 'via matematica'
interpretava i fenomeni della natura per tentativi ed errori, mostrando
la fallacia dei criteri aprioristici - la "geometrizzazione a oltranza"
(A. Koyré) del mondo naturale - su cui era fondato il romanzo fisico di
Descartes e dei suoi seguaci. La contrapposizione tra
Newton e Descartes - canonica nella prima metà del
Settecento - riproduce in modo schematico il conflitto tra 'spirito di
sistema' e 'spirito sistematico' che animò il dibattito filosofico e
scientifico europeo tra il 1720 e il 1750.
Dal corpus della fisica newtoniana si svilupparono due nuove
scienze, la chimica e l'elettrologia. Nelle scienze della vita, accanto
alle classificazioni zoologiche e botaniche che conservavano la fissità
delle categorie aristoteliche di genere e specie, nuovi criteri
descrittivi resero dinamica l'antica concezione fissista della scala
naturae e introdussero i primi spunti di una concezione trasformistica
delle specie viventi. L'estensione del dominio del visibile dovuta alla
microscopia alimentò un vasto dibattito sulle strutture elementari
della materia vivente e sui processi della generazione animale. La
crescita ormai autonoma delle discipline sperimentali rivoluzionò
l'assetto tradizionale delle mappe del sapere. L'immagine baconiana
dell'albero delle conoscenze umane, accolta con alcune modifiche dagli
enciclopedisti francesi, destituiva la metafisica del suo antico rango
di 'scienza prima'. Al senso del sacro e del mistero subentravano la
rinuncia alle cause occulte, la dimostrazione razionale, il
fenomenismo, l'interesse per le arti e le tecnologie dell'homo faber.
La metafora cartesiana di una 'macchina', smontabile nei suoi minimi
elementi costitutivi e ricostruibile razionalmente, fu estesa dall'uomo
all'intero universo. Così il vecchio "spirito di sistema" - per
parafrasare un'espressione di d'Alembert - fu sostituito dalle
procedure ipotetiche e probabilistiche proprie del metodo sperimentale,
in cui consiste il "vero spirito sistematico". Nel Traité des systèmes
(1749) Étienne Bonnot de Condillac illustrò caso per caso la crisi dei
sistemi razionalistici e la svolta metodica che dissolveva tutta
un'immagine del sapere.
b) La scienza della natura umana
Sotto la sfida del modello analitico lockiano-newtoniano, le
tradizionali scienze del conoscere e dell'agire umano - gnoseologia,
psicologia, etica, politica, economia - si trasformarono in progetti
sperimentali. La rinascita della fisica corpuscolare contribuì a
riformulare su nuove basi i tradizionali problemi della sensibilità,
delle facoltà dell'anima e dei suoi rapporti con il corpo. Il Saggio
sull'intelletto umano (1688) di Locke rigettava le idee
innate e limitava l'orizzonte gnoseologico alla sfera dei sensi e della
riflessione, svuotando le vecchie categorie metafisiche di sostanza e
di causa. I suoi seguaci risolsero in senso agnostico, a volte
esplicitamente materialistico, il dualismo tra mente e materia, e
affrontarono lo studio delle funzioni mentali con i medesimi criteri
usati con successo per i fenomeni fisiologici, fisici, astronomici.
Vari progetti di una 'scienza della natura umana' e del contesto
sociale si proposero di competere per rigore e sistematicità con le
scienze naturali.
A un programma di questo genere si ispirava la "nuova scena di
pensiero" annunciata da David Hume, che presentò il suo Trattato
sulla natura umana (1739) come il primo tentativo di analisi
sperimentale delle idee e delle passioni: "Vale la pena di tentare se
la scienza dell'uomo non comporti lo stesso rigore di cui si sono
mostrate suscettibili molte parti della filosofia naturale. Pare che ci
siano tutte le ragioni del mondo per immaginare che la si possa portare
al massimo grado di esattezza" (Estratto del Trattato sulla natura
umana).
L'indagine di Hume sul contenuto dei dati dei sensi, sulle funzioni
dell'intelletto e sulle passioni è sorretta da una trama 'sistematica',
ma avversa ai sistemi, sulla falsariga della metodologia newtoniana. Il
disegno, condiviso dai teorici scozzesi del moral sense e
dell'utilitarismo - Francis Hutcheson, Adam Smith, Dugald Stewart,
Thomas Reid -, finì per passare dalla filosofia morale alla scienza
sociale e all'analisi economica.Un altro seguace di Locke, David
Hartley, elaborò nelle sue Osservazioni sull'uomo (1749) una teoria
psicofisiologica che spiegava i nessi tra sensibilità, cervello e
pensiero in termini di 'vibrazioni' delle fibre nervose. L'associazione
delle idee riproduceva al livello della coscienza la concatenazione dei
moti e delle percezioni elementari, nel quadro di una visione unitaria
del sistema corpo-mente.
Anche in Francia l'antropologia degli illuministi si richiamò a
premesse lockiane. Nelle Lettere filosofiche
(1734) Voltaire elogiò Locke per aver saputo sostituire
all'antico 'romanzo dell'anima' la 'storia' delle sue operazioni e
funzioni, e considerò come un'ardita ipotesi di lavoro la cauta
congettura lockiana secondo la quale la materia "potrebbe essere capace
di pensare".
Su questo medesimo terreno si mossero i sensisti e i materialisti:
nella sua prima opera, il Saggio sulle origini delle conoscenze umane
(1746), Condillac ripercorse il tracciato dell'analisi
lockiana tentando di ricostruire la successione delle operazioni della
mente a partire da un solo principio, la sensibilità, alla quale
ridusse i bisogni, le reazioni agli stimoli ambientali, il linguaggio e
le più complesse funzioni intellettuali. Nel Trattato sulle sensazioni
(1754) si servì della metafora di una "statua organizzata internamente
come noi", che acquista gradualmente l'uso dei cinque sensi, per
definire le varie sfere dell'attività sensoriale e la rete delle loro
interconnessioni (sinestesia), attribuendo al tatto un ruolo
fondamentale nella rappresentazione del mondo esterno.
Se questo approccio metodico si poneva già sul terreno della
psicologia sperimentale, un deciso materialista come Julien Offroy
de La Mettrie estese allo studio della mente umana il modello
esplicativo della medicina iatromeccanica. Nella Storia naturale
dell'anima (1745) e in L'uomo-macchina (1748) tutti gli aspetti della
vita psichica sono ricondotti entro una prospettiva fisiologica e visti
come epifenomeni 'meccanici' dell'organismo. Al di là delle
dichiarazioni programmatiche - volutamente provocatorie nei confronti
di ogni dottrina spiritualistica - La Mettrie usò ingegnosi criteri
comparativi che mettevano a confronto non soltanto il corpo e la
psiche, ma la psicologia e fisiologia umana e quella del regno animale.
Louis Leclerc de Buffon, nella sezione L'uomo della sua Storia naturale
(1749), intraprese una descrizione comparativa che, pur rendendo
omaggio alla spiritualità dell'anima, considerava la 'scienza
dell'uomo' come parte di una più vasta indagine fisiologica, biologica,
zoologica.
Queste proposte teoriche sollevarono vivaci controversie sia
all'interno che all'esterno dell'Encyclopédie (1751 ss.). Pochi anni
più tardi, Claude-Adrien Helvétius estese la discussione
gnoseologica ai problemi delle interazioni tra natura e cultura,
individuo e ambiente. I suoi trattati Sullo spirito (1758) e Sull'uomo
(1770) collocano la 'scienza dell'uomo' sul terreno sociale ed
educativo, abbozzando una spiegazione comportamentistica dei fatti
psichici. "Dai fatti sono risalito alle cause. Ho ritenuto di dover
trattare la morale come tutte le altre scienze, e di costruirla come
una fisica sperimentale" (Sullo spirito, Prefazione). Nel suo schema
utilitaristico le capacità intellettuali e morali di ogni individuo
dipendono non dalla natura ma dalla cultura, ossia dall'influenza
dell'educazione, dell'ambiente, del caso sulla sensibilità fisica. La
natura è plasmabile e perciò, secondo Helvétius, una buona pedagogia
avrebbe fatto di ogni essere umano un genio e posto le premesse di una
felicità diffusa. Il miglioramento morale dell'umanità sarebbe derivato
da riforme sociali e politiche che avessero saputo istituire un
efficiente sistema di pubblica educazione. Nell'età dei Lumi il
dibattito sulla scienza sperimentale della natura umana - prematuro in
sede biologica e psicofisiologica - si legò ai progetti di riforma,
alla critica delle istituzioni, alla fede nella perfettibilità
dell'uomo e della società, entro la prospettiva del contrattualismo e
del diritto naturale.
3. Politica e ideologia
a) L'eredità del diritto naturale
L'elaborato corpus delle teorie giusnaturalistiche che il XVII
secolo consegnò all'età dei Lumi (v. Giusnaturalismo e
giuspositivismo) era modellato, nei principî e nei metodi, sui criteri
deduttivi della geometria euclidea. L'antico concetto di natura proprio
del pensiero giuridico subì l'influenza del metodo sperimentale:
l'assioma della analogia naturae, sul quale si fondava la possibilità
stessa di una descrizione rigorosa del mondo fisico secondo 'leggi'
matematiche, finì per coincidere con l'immutabilità della lex naturae,
che la tradizione giuridica poneva a fondamento di ogni altra legge
positiva, morale, civile, politica. Gli antichi postulati dello jus
naturale - quali la definizione aristotelica dell'uomo come πολιτιϰόν
ζιῶον o i precetti del diritto romano, neminem laedere, unicuique suum
tribuere, pacta servare - furono ripresi nella formulazione di dottrine
quali la sociabilitas naturale, i diritti inalienabili della persona,
le idee di giustizia e di eguaglianza, la sovranità popolare, il patto
sociale. Nella cultura filosofica del XVIII secolo queste idee
costituirono lo sfondo comune ai più vari orientamenti del pensiero
politico, dal riformismo dei philosophes ai vari 'codici della natura'
formulati dagli adepti dell'utopia, dal mito del buon selvaggio agli
ideali egalitari e comunistici, fino ad assumere un ruolo centrale
nelle solenni dichiarazioni dei diritti di fine secolo.Una certa
simmetria tra giusnaturalismo e scienza naturale si rispecchia nello
stesso uso linguistico: le leges della fisica newtoniana sembravano
possedere requisiti di oggettività, universalità e necessità pari alle
'leggi' o massime del diritto naturale discusse dai giureconsulti e
teorici della politica del XVII secolo: Althusius, Grozio, Pufendorf,
Spinoza, Hobbes, Cumberland, Algernon Sidney, Hooker. Probabilmente tra
i due domini l'influenza fu reciproca, e simmetrico è lo spostamento
d'accento dal modello deduttivo della μέψοδοϚ euclidea ai criteri
induttivi prevalenti nel metodo sperimentale. Inoltre, se è vero che da
entrambe le parti le metafore usate per definire le leggi recano
un'impronta dell'antica terminologia teologica e metafisica, non meno
evidente è il rapido processo di secolarizzazione che si riflette
nell'uso linguistico. La codificazione delle leggi di natura fu
generalmente intesa dagli epigoni dell'età dei Lumi - forse con la sola
rilevante eccezione di Giambattista Vico - non più come un dono della
divina Provvidenza, ma come un compito della ragione umana da svolgere,
anziché alla piena luce della Rivelazione, nel "crepuscolo delle
probabilità" (secondo le parole di Locke), ossia entro la sfera ben
delimitata dell'esperienza storica, sociale, politica.
b) La teoria politica di Locke
A
nche su questo piano la meditazione empiristica di Locke segnò uno spartiacque rispetto alle formule geometrizzanti dei sistemi razionalistici del XVII secolo. Nei giovanili Saggi sulla legge di natura (1664) il filosofo inglese rigettava il concetto metafisico di un lumen naturale come contenuto della coscienza innato e intuitivo, affermando invece la conoscibilità della lex naturae per via empirica. Il medesimo approccio induttivo contraddistingue la teoria politica del Secondo trattato sul governo civile (1690), che riprende da Hobbes e Pufendorf, ma in chiave empiristica, la fictio teorica del passaggio dell'uomo dallo stato di natura allo stato sociale. La serrata polemica contro i presupposti dell'assolutismo (il potere paterno teorizzato da Robert Filmer, il pactum subiectionis di Thomas Hobbes) servì a Locke, nel Primo trattato, per eliminare i sofismi del diritto divino e del dispotismo. Ancor prima della Rivoluzione del 1688, Locke teorizzò nel suo esilio olandese i criteri di legittimazione costituzionale del nuovo potere 'borghese' in base al consenso dei governati. La tesi contrattualistica fu fatta propria dal partito whig e inserita nel Bill of rights del 1689. La cacciata della dinastia Stuart e l'avvento del sovrano olandese Guglielmo d'Orange furono interpretati nei termini di un nuovo patto costituzionale che sanciva il compromesso per il controllo dello Stato tra l'antica aristocrazia feudale e i nuovi ceti mercantili e imprenditoriali.
Nel Secondo trattato il discorso lockiano, pur restando fedele alla
nozione di una legge naturale di eguaglianza e giustizia, fonda sul
principio del consenso l'uscita dallo stato di natura, la stipulazione
del patto sociale, l'origine e la natura della sovranità, l'assetto del
governo e dello Stato. Originale è la teoria della proprietà privata
come diritto connaturato con la libertà e la vita, che sorge già nello
stato di natura mediante il lavoro. La titolarità individuale di questo
diritto, che Locke considera fonte di tutti gli altri, è consolidata
all'atto della stipulazione del patto sociale. La sua limitazione è
giustificata soltanto dallo scopo di proteggerlo più efficacemente,
nella misura in cui si rende così possibile la soddisfazione della
medesima esigenza da parte di altre persone.Il potere civile che nasce
dal patto è volto anzitutto a garantire il godimento della proprietà e
degli altri diritti a essa connessi. Non è del tutto chiaro, nel
Secondo trattato, se il patto originario istituisca la società civile o
politica e poi il governo; se cioè vi sia un duplice patto, come in
altri teorici del contrattualismo. Chiaro è tuttavia il corollario: il
principio del consenso comporta la limitazione dei poteri che il
governo civile esercita. Il potere legislativo appartiene ai contraenti
tramite la rappresentanza, che è una semplice mandataria della loro
volontà, per cui ci sono due diversi diritti di ribellione: del
parlamento contro il re, quando violi la costituzione, del popolo
contro il potere legislativo, quando questi tradisca il mandato
ricevuto. La distinzione tra società civile e governo rende 'legale' la
resistenza alla tirannide, e il suo rovesciamento, in tutti i casi in
cui diritti inalienabili siano violati.
Le formule liberali del "savio Locke" sostituivano al diritto
divino dei re la legittimazione del potere borghese nel nome della
proprietà. Nonostante le loro lacune, esse nutrirono in tutto il corso
del XVIII secolo le teorie e la pratica riformatrice dei Lumi. Entro
contesti sociali, politici ed economici meno avanzati persisté
l'influenza dottrinale degli scritti
di Grozio e Pufendorf, tradotti in francese e commentati
da Jean Barbeyrac. Nell'area franco-svizzera le teorie
giusnaturalistiche furono rielaborate dal ginevrino Jean-Jacques
Burlamaqui.
Nell'area germanica ebbero sviluppi autonomi ad opera
di Leibniz e dei suoi contemporanei o seguaci, come Johann
Franz Buddeus, Christian Thomasius, Christian Wolff, Walter von
Tschirnhaus, i quali elaborarono una tradizione giuridico-politica che
culminò negli scritti di Immanuel Kant.L'eredità del diritto naturale
fu intensamente coltivata dagli illuministi italiani. A Milano, nella
cerchia del periodico "Il Caffè" (1764-1766), l'esigenza di una riforma
della legislazione civile e penale dette il suo frutto più originale
nel trattato Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria.
La riformulazione teorica del 'diritto di punire', sottratto
all'arcaico criterio della vendetta e del castigo divino, si fondava
qui sui principî razionali dell'utilitarismo e del contrattualismo, con
l'aurea regola 'la massima felicità per il maggior numero'. Tradotta in
francese da André Morellet, l'opera del Beccaria aprì un ampio
dibattito internazionale sull'abolizione della pena di morte, che giovò
a introdurre in vari paesi europei la riforma e la codificazione del
diritto penale.Nel Regno di Napoli la lezione del giusnaturalismo di
Grozio e Pufendorf si innestò sulla tradizione degli studi romanistici.
Rinnovò la storia del diritto con i lavori di Gianvincenzo Gravina e
influì sulla meditazione circa lo stato di natura e le origini umane
dalla quale sorse la visione ciclica della storia di Giambattista
Vico.
Lo studio del diritto si caricò di fermenti illuministici con la
grande polemica regalista condotta da Pietro Giannone nella Istoria
civile del Regno di Napoli (1723); con l'insegnamento di Antonio
Genovesi e dei suoi discepoli, fino alla Scienza della legislazione
(1780-1791) di Gaetano Filangieri, l'ampia e matura summa della
riflessione giuridica dei Lumi che, alla vigilia della Rivoluzione,
prospettò i problemi teorici e pratici relativi alla codificazione del
diritto.
c) Critica dell'assolutismo e ricerca sociale da Fénelon a Montesquieu
Fin dagli ultimi anni del XVII secolo, l'assolutismo di Luigi XIV
suscitò in Francia un movimento di opposizione aristocratica ispirato
inizialmente dall'arcivescovo di Cambrai, il teologo e
moralista François de Salignac de la Mothe-Fénelon. La protesta
antidispotica si intensificò negli ultimi anni di regno del Re Sole,
con le proposte di riforme fiscali e istituzionali avanzate da Pierre
Le Pesant de Boisguillebert e da Sébastien de Vauban. Un riformista
aristocratico fu anche Henri de Boulainvilliers, che ricercò nella
conquista franca i titoli della libertà nobiliare, teorizzò una società
patriarcale e sottopose vari progetti di riforme al successore di Luigi
XIV, il reggente duca d'Orléans.
Il maggior teorico della politica della prima metà del secolo
fu Charles-Louis de Secondat de Montesquieu, considerato dai
fondatori della sociologia come uno dei loro antesignani. In tutta la
sua opera si avverte un'irrisolta tensione tra giusnaturalismo e
relativismo, tra metodo aprioristico-deduttivo e ricerca induttiva.
Curioso in gioventù di ricerche naturalistiche, commentatore di
Machiavelli e di Hobbes, Montesquieu si pose esplicitamente problemi di
metodologia della ricerca giuridica, storica, sociale. Se da un lato
condivise le premesse apodittiche del giusnaturalismo riguardo alle
leggi naturali, dall'altro recepì gli orientamenti propri del metodo
sperimentale. Sebbene fosse un attento lettore del Principe e dei
Discorsi di Machiavelli, respinse le massime della ragion di Stato e la
concezione dell'arte politica come casistica della conquista del
potere, fondata sulla forza, sull'inganno e sul raggiro. Credeva nella
possibilità di spiegare i fatti sociali e politici ricostruendo
razionalmente la trama delle azioni individuali sullo sfondo delle
circostanze storiche oggettive: nelle Considerazioni sulle cause della
grandezza e della decadenza dei Romani (1734) la ricerca riguarda i
nessi cause-effetti in un caso esemplare della storia antica.Il campo
d'osservazione si estese in senso comparativo alla tipologia delle
società e dei regimi politici nello Spirito delle leggi (1748). V'è,
nell'esordio, il richiamo all'idea di una legalità universale immanente
così nella natura come nella società: la "natura delle cose" è fondata
su "rapporti necessari", cioè su leggi o nessi rigorosamente
deterministici.
Occorre tuttavia distinguere la regolarità degli eventi che si
susseguono nel mondo naturale dai fenomeni discontinui del "mondo
intelligente". I fatti umani e sociali appaiono assai meno riducibili a
'leggi' che non quelli astronomici, fisici o meccanici. Ma Montesquieu
crede al metodo dell'induzione: "Ho cominciato con lo studiare gli
uomini e, in mezzo a quella infinita diversità di leggi e di costumi,
mi è parso che non fossero solo le loro fantasie a guidarli. Ho posto i
principî, e ho visto i casi particolari piegarvisi come da soli, le
storie di tutte le nazioni non esserne che la conseguenza e ogni legge
particolare collegata o dipendente da un'altra legge più generale" (Lo
spirito delle leggi, Prefazione). L'analisi montesquieviana delle
'cause' operanti nelle diverse strutture sociali si fonda su criteri
comparativi che indagano anzitutto la morfologia delle legislazioni e
delle istituzioni, alla ricerca di nessi significativi tra le forme di
governo, i sistemi giuridici, i costumi, le consuetudini, la situazione
fisico-geografica e il regime climatico dei vari paesi (la 'teoria dei
climi'). Acute considerazioni e raffronti riguardano i moventi
psicologici e in senso lato 'morali'.
Su queste premesse si innesta la ricerca giuridica e politica in senso
proprio, che fa corrispondere a ciascun tipo di governo l'impronta
psicologica dominante tra i governati: il 'principio' della repubblica
è la virtù, della monarchia il senso dell'onore, del dispotismo la
paura. Modificando la classificazione delle forme di governo di tipo
aristotelico, Montesquieu sussume sotto i suddetti 'principî' euristici
i dati e le osservazioni della ricerca induttiva, a loro volta soggetti
a costante verifica. I principî giovano a organizzare un'estesissima
messe di osservazioni storiche, sociali, giuridiche, desunte dalle
fonti più varie, con l'intento di individuare il nesso unitario
(l'"esprit") che tiene insieme gli elementi molecolari di un processo
storico, di una struttura sociale, di un popolo. Dalla legislazione
l'esame si estende all'educazione, alla religione, al regime fiscale,
ai rapporti economici, all'organizzazione militare e così via: "Molte
cose governano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime
del governo, i costumi, le usanze, donde si forma uno spirito generale
[esprit général] che ne è il risultato" (lib. XIX, cap. 4).
Come è stato rilevato da molti critici, il tentativo compiuto
dall'autore per costruire una scienza della società restò frammentario
e lacunoso.
L'impostazione empirica della sua indagine sulle forme politiche
positive si giustappone a intenzioni normative, il giudizio di fatto al
giudizio di valore. L'apparente imparzialità dello studio dei governi e
delle legislazioni non nasconde la sua netta opzione per i regimi
liberi, la condanna del dispotismo "corrotto per natura", l'elogio del
"governo misto" all'inglese, una monarchia moderata fondata sulla
divisione dei tre poteri in senso lockiano, che si controllano e si
equilibrano reciprocamente. D'altra parte l'estrema relatività delle
leggi positive e delle forme di governo storicamente osservate -
connesse alle irripetibili caratteristiche climatiche, storiche,
proprie di ciascun popolo - non consente al teorico di prescrivere
modelli universalmente validi. Nonostante l'adesione di Montesquieu
alla temperie ideologica dei Lumi, non c'è nello Spirito delle leggi
una precisa direttiva per la riforma della monarchia francese, salvo la
nostalgia della libertà 'gotica' dei primitivi popoli germanici e il
richiamo all'antica costituzione feudale del Regno, alla quale risalire
per trovare un rimedio al recente processo di esautoramento dei poteri
intermedi (parlamenti, clero, nobiltà) e all'accentramento
assolutistico istituito da Luigi XIV e dai suoi ministri.
d) Teoria e pratica: gli enciclopedisti
Condannato all'Indice nel 1751, Lo spirito delle leggi costituì un
modello e un termine di confronto, in sede teorica e pratica, per il
'partito' dei philosophes militanti, al quale
appartennero François-Marie Arouet de Voltaire, Denis
Diderot, Jean Le Rond d'Alembert e gli altri protagonisti
della grande Encyclopédie parigina (1750-1766). La cerchia degli
enciclopedisti fu definita da Diderot "una società di uomini legati
dall'interesse generale del genere umano e da un sentimento di
reciproca benevolenza" (voce Enciclopedia). In realtà, i loro
orientamenti ideologici e politici si articolarono in direzioni diverse
e talora contrastanti, pur convivendo entro e fuori i tomi in folio del
grande dizionario.I contrasti si acuirono sotto l'incalzare delle
reazioni degli avversari. Una prima crisi si aprì nel 1752, quando una
tesi apertamente sensistica e in parte ispirata da Diderot fu sostenuta
in Sorbona dall'abbé de Prades, collaboratore per gli articoli
teologici. Lo scandalo indusse i gesuiti e il 'partito devoto' di corte
a esigere da Luigi XV un arrêt che ordinava un'effimera sospensione
dell'opera. Assai più grave la seconda crisi, provocata dall'articolo
Ginevra di d'Alembert (nel VII volume, 1757), scritto con la complicità
di Voltaire, e dalle polemiche che ne seguirono.
La violenta reazione del Parlamento di Parigi, di osservanza
giansenista, contro il trattato De l'esprit di Helvétius ottenne nel
1759 la condanna definitiva dell'opera, appena giunta al VII volume.
Dopo la clamorosa rottura con Rousseau e la defezione di d'Alembert,
Diderot si dedicò ormai da solo agli ultimi dieci volumi di testo, che
comparvero sottobanco nel 1766, seguiti dagli undici volumi di tavole
illustrative dedicate alle arti e ai mestieri.Non si può ridurre la
battaglia d'opinione promossa dagli enciclopedisti a una lotta
'politica' contro "la religione e il governo", come ebbe a dire
Diderot. In realtà il movimento enciclopedistico contava forti appoggi
all'interno della corte. Impresa editoriale di notevoli dimensioni
economiche, coinvolgeva una vasta trama di interessi di un ceto sociale
emergente: se non una 'classe', certo una variopinta élite della quale
facevano parte talune frange intellettuali dell'aristocrazia e del
clero; settori della borghesia imprenditoriale e mercantile; gruppi di
regi funzionari, intendenti, magistrati; cultori di arti e mestieri;
infine i liberi scrittori che a capo dell'impresa, come notò il
Tocqueville, "si trovarono a un certo punto a svolgere il ruolo che,
nei paesi liberi, spetta normalmente ai capi partito" (L'antico regime
e la Rivoluzione, lib. III, cap. 1).
Dal punto di vista ideologico, la vitalità di questa fenice più
volte risorta dalle sue ceneri non consisté nella coerenza formale di
una teoria politica e sociale. Un certo eclettismo è considerato un
vanto da Diderot, che si richiamò alla scepsi e all'audacia
intellettuale dei naturalisti della Rinascenza, pur ponendosi
all'avanguardia della cultura scientifica e filosofica contemporanea.
La sintesi newtoniana, con i suoi ulteriori sviluppi, fu esposta da
d'Alembert in numerose voci di matematica, meccanica, fisica,
astronomia, ottica. Validi compilatori scrissero voci di chimica
pre-lavoisieriana, geografia, storia naturale, anatomia, medicina. La
critica biblica, le credenze, istituzioni e tradizioni della religione
cristiana furono presentate in centinaia di articoli dal tono subdolo,
scettico e irriverente, mentre il gioco dei rinvii tra voce e voce
consentiva di seminare dubbi e argomentazioni insidiose.
Dal punto di vista filosofico gli enciclopedisti si richiamarono,
fin dal Discorso preliminare di d'Alembert e dal Prospetto di Diderot,
a Francesco Bacone, Descartes, Newton, Locke, e più implicitamente ai
deisti, liberi pensatori e miscredenti, come risulta da molte voci
minori. Baconiana è la descrizione delle arti meccaniche in voci
accompagnate da migliaia di mirabili tavole, uno degli aspetti più
originali dell'intera opera. Classificare i contributi degli
enciclopedisti alle 'scienze sociali' allora appena in germe, come ha
tentato di fare René Hubert (1923), è impresa antistorica. Tuttavia gli
studi recenti hanno approfondito i temi politici ed economici che si
intrecciano, e in taluni casi nascono, nelle pagine dell'Encyclopédie.
Numerose voci relative alla classificazione delle forme di governo e ad
altri temi di teoria politica ricalcano lo Spirito delle leggi di
Montesquieu. Tuttavia la presenza indiretta di questo autore non
esaurisce il complesso problema della 'politica'
dell'Encyclopédie.
Nella voce Autorità politica Diderot attaccò la teoria teocratica
di Bossuet, argomentò contro il potere paterno e il diritto divino,
accolse il principio contrattualistico del consenso dei governati,
negando implicitamente i principî assolutistici sui quali la monarchia
francese si fondava. Per questo motivo la voce fu denunciata come
sovversiva dal gesuita Berthier, e contribuì a provocare il primo arrêt
del 1752.
In Diritto naturale Diderot espone la teoria dell'origine pattizia
della società, ispirata ai principî giusnaturalistici di Pufendorf e di
Locke. La formula che definisce la 'volontà generale' diede luogo a una
complessa confutazione da parte di Rousseau, autore di Economia
politica, articolo non compilativo ma problematico, uno tra i più
originali del dizionario. La cautela e moderazione di molti altri
articoli politici si spiega soltanto in parte con il problema esterno
della censura, cui gli enciclopedisti dovevano assoggettarsi; giacché,
anche da un punto di vista teorico interno, essi furono ben lontani,
tra il 1750 e il 1760, dall'assumere posizioni radicali,
antimonarchiche o rivoluzionarie, come invece Diderot avrebbe fatto in
vari scritti degli anni successivi, dopo gli insuccessi delle riforme
di Maupeou e Turgot, il fallimento del dispotismo illuminato in Francia
e il precipitare della crisi dell'antico regime.In complesso, le voci
di teoria politica inserite nella Encyclopédie si limitarono a proporre
la giustificazione teorica del potere mediante il patto sociale, il
principio della sovranità popolare, il consenso, la divisione e
l'equilibrio dei poteri, la teoria lockiana dei limiti della sovranità.
Nonostante le loro divergenze, gli autori apparvero schierati su un
fronte comune, che invocava riforme parziali promosse dall'alto, ossia
dai principi illuminati dalla philosophie. Rientrano in tale programma
importanti voci filosofiche o economiche fornite da alcuni protagonisti
dell'economia fisiocratica, che esordirono come compagni di strada
degli enciclopedisti.
e) La teoria politica di Rousseau
Alla teoria e alla pratica del dispotismo illuminato furono
estranei gli sviluppi del pensiero politico di Jean-Jacques
Rousseau. Il Discorso sulle scienze e le arti (1750) e il Discorso
sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza (1754) entrarono in
conflitto con le tematiche del progresso della Encyclopédie, per la
quale Rousseau scrisse numerose voci di teoria musicale ed Economia
politica, primo abbozzo del Contratto sociale. Le sue divergenze con
Diderot - descritte nelle pagine autobiografiche e negli epistolari di
entrambi i 'fratelli nemici' - hanno sempre rappresentato una sfida per
gli studiosi dell'illuminismo, sia per la complessità del loro
rapporto, sia per i motivi sentimentali, sociali, politici emergenti
nell'opera di Rousseau e per i connessi risvolti psicologici. Ci si può
limitare a dire, per quanto riguarda le peculiarità della teoria
politica rousseauiana, che essa nasce da una metacritica del
giusnaturalismo dei Lumi. Se i teorici del diritto naturale invocavano
la legge di natura e il patto sociale soprattutto per arginare la
pratica dell'assolutismo, limitare e bilanciare i poteri dello Stato,
affermare i diritti dell'uomo e del cittadino in un contesto
riformistico, Rousseau non esitò a "scavare fino alla radice"; cioè a
dare un fondamento radicalmente democratico alla sovranità della legge,
alla concezione dello Stato, alla libertà dell'individuo (i cui diritti
naturali vengono ceduti alla volontà generale e trasformati in diritti
civili), all'esercizio della sovranità popolare.
Nel Discorso sulla diseguaglianza l'immagine dello stato di natura
corrente negli scritti dei teorici giusnaturalisti è rifiutata in
quanto proiezione nel passato della società civile stessa, con i suoi
insanabili conflitti. L'ipotesi circa le origini umane, ricostruite in
chiave genetico-antropologica, revoca in dubbio la nozione di un
diritto preesistente alle società storiche, iscritto nella natura e
praticato dagli uomini. Rousseau sostituisce alla fictio juris dello
stato di natura la ricostruzione induttiva di un lungo processo;
tratteggia le fasi dell'incivilimento, attraverso le quali
l'animale-uomo delle origini trasforma se stesso, diventa socievole,
crea famiglie e cerchie di convivenza via via più vaste, mediante l'uso
degli utensili, il linguaggio, la danza, la musica e la poesia
primitiva. Un'ulteriore critica contro i teorici del diritto naturale è
che l'eguaglianza e la libertà primitive non sono consolidate, ma
vanificate dalla istituzione della proprietà privata e dalla
stipulazione del patto. Così lo stato di guerra generalizzato non va
posto alle origini, come aveva pensato Hobbes, ma al termine del
processo, nella società civile. Il patto sociale, nella formulazione
corrente, è un atto iniquo; esso convalida la proprietà individuale,
ingiustamente acquisita dai forti a danno dei deboli, il potere
usurpato dagli astuti sugli ingenui, e perciò legittima
surrettiziamente l'ineguaglianza delle condizioni sociali.
Alla pars destruens del suo "sistema triste ma vero" seguì, nella
voce Economia politica e nei manoscritti preparatori del Contratto
sociale, la pars construens: il progetto di un diverso modello di
patto, al quale Rousseau assegnava il compito di ristabilire rapporti
umani equi e di sostituire al diritto naturale della scuola quello
autentico o 'ragionato'. Occorreva restaurare in teoria e in pratica
l'eguaglianza e la libertà originarie, tradite dal processo
dell'incivilimento e dalle ideologie dei "giureconsulti e altri sofisti
pagati" che giustificavano le società fondate sulla diseguaglianza. In
vari passi del Contratto sociale le 'figure' concettuali della teoria
giusnaturalista riappaiono entro un contesto diverso, apparentemente
tutto politico e giuridico, in realtà profondamente segnato
dall'impronta del pensiero religioso di Rousseau. La soluzione
ottimistica del problema della teodicea, che tratteggiò in una lettera
a Voltaire del 18 agosto 1756, rifiuta il mito del peccato originale.
La scelta teologica 'sociniana' di Rousseau, esposta nella 'professione
di fede del vicario savoiardo' che fa parte dell'Emilio, ha importanti
corollari sul piano educativo e su quello sociale. Su di essa si fonda,
da un lato, la proposta di un tipo di educazione del tutto nuovo, unico
mezzo atto a creare cittadini anziché sudditi nei grandi Stati retti
dalle monarchie di antico regime, dall'altro lato il progetto di
rigenerazione della società mediante un nuovo patto, destinato ai
piccoli Stati o alle città a misura d'uomo: originariamente Ginevra, la
città natale idealizzata da Jean-Jacques; in seguito la Corsica di
Pasquale Paoli e la Polonia dei patrioti confederati.La democrazia
teorizzata da Rousseau è diretta, ma la sovranità, la volontà generale
può fare solo leggi.
Così, a fianco del potere legislativo appare un potere esecutivo (o
governo), che deve applicare la legge con i suoi atti particolari. Il
governo può essere monarchico, aristocratico, democratico e misto. Il
governo democratico è soltanto una di queste forme, non la più efficace
né la migliore; appare preferibile a essa l'aristocrazia elettiva e
moderata.Al di là delle formule icastiche e spesso fuorvianti con le
quali Rousseau definisce la 'dittatura' della volontà generale, il vero
scopo che si propose di raggiungere era quello di garantire il rispetto
della vox populi da parte di coloro che sono chiamati, a vario titolo,
a esercitare il potere. Le clausole del patto sociale e i modi della
realizzazione della volontà generale postulano una completa
moralizzazione della vita politica - definita a volte 'calvinista'
dagli interpreti - secondo i criteri di una 'virtù' solo nominalmente
coincidente con quella degli antichi, di Machiavelli e di
Montesquieu.
4. Alle origini dell'economia politica
Il processo di unificazione degli Stati nazionali aveva indotto gli
economisti del XVII secolo a discutere i problemi del commercio
internazionale dal punto di vista dei vincoli e dell'intervento dello
Stato, della bilancia commerciale e dell'accumulazione di moneta, merce
nella quale le teorie mercantiliste avevano individuato l'unica forma
di ricchezza privata e pubblica. La crescita della produzione
industriale e il progresso tecnico spostarono l'attenzione sui problemi
del capitale, del lavoro salariato, della liberalizzazione dei mercati.
Essi avviarono Petty, Locke, North a superare la tematica del
mercantilismo con un'analisi politica, sociale ed economica che
prendeva atto del nuovo assetto del potere e usava nuovi
criteri.William Petty mutuò dallo sperimentalismo della Royal Society
il metodo di trattazione quantitativa dei fenomeni economico-sociali.
Il metodo statistico che teorizzò nella Political arithmetick (postuma,
1690) - una scienza destinata a notevoli sviluppi nel secolo dei Lumi -
era finalizzato alla ricognizione della ricchezza e alla tassazione
proporzionale. Su tale problema il seguace della teoria hobbesiana
dello Stato articolò in altri scritti sparse osservazioni circa i
concetti di rendita, lavoro, salario, valore, anticipando i temi
dell'economia classica. John Locke, studiando nel 1691 il degrado della
moneta metallica, abbozzò una teoria del lavoro come fonte del valore e
della rendita, e s'interrogò sul rapporto esistente tra interesse del
denaro e rendita fondiaria. Dudley North, nei Discourses upon trade
(1691), unificò sotto il termine stock sia la terra che la moneta,
fonti di profitto.
Locke e North difesero la libertà dei mercati, considerarono la moneta
come semplice mezzo di scambio e la formazione dei prezzi in funzione
della domanda e dell'offerta, e misero in luce le esigenze della
rimunerazione del capitale in quanto tale, limitando i privilegi della
proprietà terriera.
Gli esordi della teoria economica capitalistica prendevano atto di
una rivoluzione agricola in corso. In Francia, al termine delle lunghe
guerre di Luigi XIV e dopo la crisi finanziaria provocata nel 1720
dalle riforme di John Law, s'impose l'emancipazione della proprietà
terriera dai vincoli feudali e dagli ostacoli che le scelte
mercantiliste del Colbert avevano fatto gravare sulla produzione
agraria privilegiando l'economia cittadina. La principale attività
produttiva del paese era soffocata da dazi interni, imposte vessatorie
e divieti di esportazione dei grani. La cerchia degli economisti
fisiocratici raccolti attorno al Quesnay rovesciò tale impostazione,
teorizzando la totale libertà dei mercati e l'attribuzione di un ruolo
egemonico alla produzione agricola rispetto alla manifattura e
all'industria.
Negli articoli che scrisse per l'Encyclopédie il chirurgo di
corte François Quesnay mise a fuoco il suo approccio
epistemologico con una critica dell'apriorismo cartesiano (Évidence);
descrisse le varie tipologie della conduzione fondiaria (Fermiers), e
fondò sulla cerealicoltura le sue "massime del governo economico"
(Grains). Erano argomenti fino allora esclusi dall'"economia politica",
termine che ancora Rousseau, nell'articolo così intitolato, applicava
alla tradizionale scienza 'aristotelica' dello Stato e della
società.
Diversa la prospettiva che Quesnay aprì a questa disciplina con il
Tableau économique, dove quantificò in un grafico l'interdipendenza tra
dati sociali e dati economici. Classificò le spese nazionali globali in
"produttive" e "sterili" - esclusivamente agricole le une, destinate le
altre all'industria e all'artigianato - e ne studiò la dinamica: gli
'anticipi' forniti dai proprietari (sotto forma di prestiti di terra e
mezzi di produzione ai fittavoli); la rendita lorda, in parte assorbita
dai salari dei lavoratori, in parte dall'utile dei fittavoli e dalle
imposte; il 'prodotto netto', ossia i legittimi interessi che vanno a
retribuire il capitale investito detratti gli anticipi. Il grafico
iniziale esamina l'interdipendenza di questi fattori nella situazione
'naturale' di massima libertà e prosperità, che assicura una
distribuzione ottimale del reddito; i successivi presentano modifiche
delle singole voci, che violano l'ordine e provocano perciò il declino
della ricchezza globale. Il modello di Quesnay trae dalla fisiologia la
metafora della 'circolazione' della ricchezza nel corpo sociale e
presuppone che l'agricoltura ne sia l'unica scaturigine, alimentata
dalle due classi produttive, proprietari e addetti; sono sterili le
altre attività, esercitate dalla classe dei commercianti e lavoratori
industriali. Tutti costoro sono mantenuti dall'attività agricola
mediante i salari e i profitti provenienti dagli anticipi dei
produttori.Una équipe di economisti lavorò attorno alla teoria nel
quindicennio 1760-1775. Il Tableau fu divulgato da Victor de Riqueti,
marchese di Mirabeau, nell'Ami des hommes (1760) e nella Philosophie
rurale (1766). Le idee del Quesnay furono rielaborate con varianti
nelle pubblicazioni di Nicolas Baudeau, che curò il periodico
"Éphémérides du citoyen", e da Pierre-Samuel Dupont de Nemours, con i
sei volumi della Physiocratie.
A Pierre-Paul Lemercier de la Rivière si deve il
manifesto ideologico della fisiocrazia, L'ordre naturel et essentiel
des sociétés politiques (1767), che cala il primato dell'agricoltura e
le leggi della circolazione della ricchezza entro lo schema metafisico
di un assetto statico 'normale' della società: principio su cui si
fondano il credo del laissez faire e della eliminazione dei vincoli che
ostacolano la natura, e la concezione della società come entità
immobile, sottratta a ogni processo evolutivo.Le analisi economiche del
Quesnay furono incluse in una scienza sociale onnicomprensiva, che
esercitò una profonda suggestione sui despoti illuminati europei.
In Francia un momento culminante dell'influenza politica dei
filosofi fu la nomina di Robert-Jacques Turgot a controllore
generale delle finanze. Enciclopedista, economista critico della scuola
fisiocratica, Turgot estese all'industria la teoria della produttività
e del profitto. Come ministro, liberalizzò nel 1774 il commercio dei
grani, mentre i Dialoghi (1770) di Ferdinando Galiani alimentavano i
dubbi e le discussioni sul dogmatismo fisiocratico. La carestia del
1775, le sommosse popolari e l'opposizione dei ceti più retrivi fecero
fallire l'impresa di Turgot e segnarono la fine della fisiocrazia e
delle riforme.
Caduto nell'oblio il 'sistema' fisiocratico, gli economisti ne
ereditarono alcune idee - la funzione essenziale del lavoro, il ciclo
annuale, il principio liberistico - ma misero in discussione ciò che
concerne il primato dell'agricoltura, le classi, il capitale, la
rendita. L'immagine corrente dei fisiocratici come precursori di Adam
Smith fu accreditata dallo stesso autore della Ricchezza delle nazioni,
che a Parigi entrò in contatto con Quesnay e i suoi seguaci, e sceverò
dal proprio punto di vista i meriti e i limiti della scuola. Mosse al
"medico molto speculativo" due obiezioni di fondo: non esiste un regime
esemplare di buona salute del corpo politico, ma la "saggezza della
natura" fa sì che ciascun individuo, perseguendo il miglioramento della
propria condizione, provveda ai correttivi che assicurano la
conservazione dell'organismo. Inoltre "l'errore capitale di questo
sistema consiste nel fatto che esso rappresenta la classe degli
artigiani, manifatturieri e commercianti come interamente sterile e
improduttiva" (lib. IV, cap. IX).
Adam Smith si formò e insegnò nel fervido clima illuministico
delle università scozzesi, dove il metodo sperimentale era applicato
alla filosofia morale e all'economia. Da Francis Hutcheson attinse la
massima utilitaristica della 'massima felicità per il maggior numero' e
i suggerimenti teorici riguardanti la divisione del lavoro, il valore,
il prezzo, la moneta, l'imposta, la domanda e l'offerta. Respinse il
dogma dell'esclusiva fertilità del suolo e rivalutò il ruolo dei
lavoratori industriali, i quali accrescono la ricchezza nazionale di
una quota che eccede il loro consumo, si fissa nel prodotto lavorato e
vi aggiunge valore. Il loro lavoro è 'più produttivo' di quello degli
agricoltori, e una nazione industriale è comparativamente più ricca
delle nazioni agricole, giacché può importare da queste ultime grandi
quantità di beni grezzi in cambio di piccole quantità di
manufatti.Nell'Inghilterra della prima rivoluzione industriale
l'attenzione di Smith si rivolse anzitutto ai fenomeni della
manifattura e del mercato.
La Ricchezza delle nazioni (1776) esordisce con un esempio celebre:
nella manifattura degli spilli diciotto operazioni ripartite tra
altrettanti operai moltiplicano duecentoquaranta volte la produttività
del lavoro individuale. Questa è la prima e unica fonte della ricchezza
nazionale. La divisione del lavoro non è frutto di saggezza ma si deve
alla universale, spontanea "tendenza a trafficare, barattare, scambiare
una cosa con l'altra". La cooperazione tra gli esseri umani nasce
dall'egoismo e dallo scambio ("non dalla benevolenza del macellaio, del
birraio o del fornaio noi attendiamo il nostro pranzo, ma dalla
considerazione del loro proprio interesse": lib. I, cap. II). Ne
conseguono la teoria della moneta come convenzione sostitutiva del
baratto in natura e la dicotomia tra valore d'uso e valore di scambio
delle merci. La quantità di moneta è la misura nominale del valore di
scambio in un determinato tempo e luogo; la quantità di lavoro è il
valore reale, atemporale, incorporato nella merce, in termini di ore
impiegate, o in termini della quantità di lavoro "che la merce può
acquistare o comandare" a sua volta. Pertanto "il lavoro è l'unica
misura universale ed esatta del valore" (lib. I, cap. V).
Le considerazioni di Smith sul costo e sulla retribuzione del
lavoro, del capitale, della terra, sulla composizione del prezzo, sul
prezzo naturale e su quello di mercato, sull'equilibrio della domanda e
dell'offerta, sul salario davano una prima sistemazione teorica a
concetti già noti. Nel libro V - dedicato all'imposizione e al debito
pubblico - le intenzioni normative si giustappongono all'osservazione
dei fatti. Ovunque un ottimismo provvidenziale aggiunge giudizi di
valore a giudizi di fatto. Il quadro complessivo della società
concorrenziale pretendeva di avere una validità metastorica e di
rispecchiare le leggi 'naturali' dell'economia di mercato. Ma le aporie
della teoria e i contrapposti interessi dei gruppi sociali fecero della
Ricchezza delle nazioni il paradigma delle 'contraddizioni' del
capitalismo.
5. La critica del sovrannaturale
La nota personale più dissonante che Rousseau recava nell'ideologia dei
Lumi non era tanto politica, quanto religiosa: la replica fideista che
oppose alla propaganda anticristiana dei philosophes. La loro polemica
anticristiana era volta a dissacrare la psicologia della superstizione,
la nozione stessa di religione rivelata, ogni reverenza verso la
teologia e le Scritture; a negare i miracoli, i tradizionali argomenti
circa l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio, il sovrannaturale
in genere. Il materiale propagandistico empio impiegato dai
philosophes, non tanto nell'Encyclopédie quanto nelle massicce campagne
di stampa promosse da Voltaire e d'Holbach negli anni settanta, era
attinto alle fonti classiche dell'antichità, alla scepsi erudita di
Montaigne, Charron e dei loro emuli 'libertini', alla copiosa
letteratura prodotta dai liberi pensatori inglesi, olandesi, francesi
del tardo Seicento.
L'esplorazione dei manoscritti clandestini, lavoro filologico
d'équipe tuttora in corso, rivela la diffusione capillare e la
consistenza 'sociologica' del proselitismo anticristiano, opera
collettiva e anonima di compilatori oscuri, difficili da identificare
sotto i nomi di liberi pensatori notori: tra gli inglesi Thomas Hobbes
e i deisti John Toland, Anthony Collins, John Blount, Thomas Chubb, il
Bolingbroke e lo Shaftesbury; tra i francesi il poligrafo Thémiseul de
Saint-Hyacinthe, lo storico e filosofo Henri de Boulainvilliers,
l'accademico Jean-Baptiste Mirabaud, l'erudito Nicolas Fréret, il
grammatico César Dumarsais e altri personaggi più oscuri, che negli
anni della Reggenza avevano realmente costituito una cerchia di
iniziati e compilatori di testi clandestini.
A parte le finte attribuzioni, testi di più antica origine
circolarono adespoti, come il Theophrastus redivivus, il trattato De
tribus impostoribus, la Lettre de Thrasibule à Leucippe, l'Examen de la
religion, i Doutes sur la religion, Le philosophe, Le militaire
philosophe e, ancora, lettere, dialoghi e riflessioni. La massa di
questi manoscritti conservati nelle biblioteche francesi supera,
secondo il censimento più recente, i centotrenta titoli.
V
ariegate tradizioni di pensiero confluiscono in queste compilazioni:
le teorie dell'impostura delle religioni e della religione politica,
risalenti a Bruno e Machiavelli; le discussioni sull'immortalità
dell'anima di Pomponazzi e degli aristotelici padovani; le filosofie
della natura tardorinascimentali; l'erudizione libertina del XVII
secolo; le interpretazioni materialistiche della fisica dei vortici di
Descartes e dell'Ethica di Spinoza, l'epicureismo di Gassendi, il
materialismo di Hobbes e Toland, le dispute circa l'anima degli
animali, le teorie della materia connesse alla nuova scienza. In alcuni
casi i manoscritti recano la testimonianza di un nicodemismo
irreligioso vissuto con l'intensità di una fede: è il caso di Le ciel
ouvert à tous les hommes di Pierre Cuppé, e soprattutto del Testament
del parroco miscredente di Étrépigny, Jean Meslier. La vicenda di
questa violenta professione di fede, blasfema e anticristiana,
circolata manoscritta in innumerevoli copie, poi edita in forma
'purgata' da Voltaire (1762) e d'Holbach (1772), ma rimasta inedita
nella sua versione originale fino al 1864, è emblematica dell'intero
movimento clandestino delle idee tra la fine del regno di Luigi XIV, la
Reggenza e l'età dell'Encyclopédie.
Il senso complessivo di questi testi, e della loro utilizzazione da
parte degli enciclopedisti, consisté nel più radicale tentativo di
emancipazione da ogni forma di religione istituzionale e confessionale.
La campagna d'opinione, divenuta particolarmente intensa negli anni
settanta in coincidenza con l'aggravarsi della crisi delle istituzioni
e dei connessi fenomeni di repressione e d'intolleranza, si configurò
come un vero e proprio movimento di ribellione all'antico regime. Ma il
suo tono era tutt'altro che uniforme: se, nelle pubblicazioni uscite a
getto continuo dalla fucina di Ferney, la battaglia di Voltaire contro
l'infâme conserva ben viva la fede deistica, la parallela campagna di
stampa promossa dal barone d'Holbach con l'aiuto del suo braccio destro
Jacques-André Naigeon ha un tono inequivocabilmente ateo e
materialistico.Una versione dello spirito anticristiano dei Lumi non
destinata alla propaganda, ma filosoficamente argomentata e matura, va
ricercata in taluni scritti che i philosophes non poterono pubblicare e
lasciarono inediti: il Trattato di metafisica di Voltaire, La
passeggiata dello scettico e La sufficienza della religione naturale di
Diderot, la Storia naturale della religione e soprattutto i Dialoghi
sulla religione naturale di David Hume.
6. Gli utopisti
La riscoperta dell'utopismo settecentesco, anticipata da pionieri come
A. Lichtenberger e G. Chinard, è cresciuta a ritmo serrato negli anni
1960-1980, fino a diventare quasi una moda. Sotto l'incalzare della
crisi del marxismo si è dissolto il vecchio schema engelsiano che
tracciava un progresso dialettico irreversibile del pensiero socialista
"dall'utopia alla scienza". Sottratto a tale prospettiva ancillare,
l'utopismo settecentesco appare un elemento non più marginale ma
intrinseco alla corrente principale dei Lumi: si pensi agli episodi
utopici inseriti in testi 'realistici', come l'aneddoto dei Trogloditi
nelle Lettere persiane di Montesquieu; il paese di Eldorado nel Candido
di Voltaire; il popolo dei Montagnons nella Lettera a d'Alembert di
Rousseau, o la società di Clarens nella Nuova Eloisa; gli episodi del
romanzo Cleveland dell'abbé Prévost. La finzione usata con tanto
successo da More, Bacone, Campanella fu ripresa da grandi scrittori per
disegnare classiche utopie: Fénelon per il regno ideale del Salento
nelle Avventure di Telemaco; Samuel Johnson per quello di Abissinia nel
racconto Rasselas; Diderot nel Supplemento al Viaggio di Bougainville.
Nei primi due testi v'è un lucido ideale di buongoverno e di felicità
terrena; nel terzo un gioco di ironica evasione da ogni tipo di tabù
sessuale o religioso, sotto il segno del mito del buon selvaggio.
La rilettura dei grandi autori ha dato nuovo rilievo agli analoghi
temi presenti nei minori e nei minimi, spesso inediti o dimenticati,
rivelando così un'impressionante messe di variazioni modulate con una
vastissima gamma di strumenti espressivi, forme e tecniche letterarie:
il gusto esotico, le favole sui paesi lontani, i viaggi di fantasia
negli spazi terrestri o extraterrestri, le robinsonnades, le ucronie,
le proiezioni chiliastiche sorgenti al margine delle tensioni
rivoluzionarie e dei sogni profetici circa la palingenesi della società
o la creazione di società 'altre'.
Le radici dell'utopia illuministica sono state ricercate in quei
testi del XVII secolo che ebbero maggior successo e diffusione nel
XVIII, come i viaggi immaginari La Terre australe connue di Gabriel
Foigny o la Histoire des Sévarambes di Denis Veiras; il resoconto
dell'esploratore barone La Hontan, che nei suoi Dialogues avec un
sauvage descrive la società primitiva degli Uroni canadesi, privi di
leggi, giudici, preti, e ignari così del disagio della civiltà. D'altra
parte sono riemerse dall'oscurità le figure di autori di utopie assai
diffuse in forma di manoscritti clandestini o di testi a stampa, come
il misterioso Morelly, autore del Codice della natura (1755) e della
Basiliade; il curato Meslier, di cui si è già detto; il monaco
benedettino dom Deschamps, autore di un trattato metafisico a chiave,
Le mot de l'énigme métaphysique et morale appliqué à la théologie et à
la philosophie du temps, che ha visto la luce e ha suscitato grande
interesse soltanto in anni recenti.Il 'livellatore' radicale dom
Deschamps criticò l'ideologia dei Lumi e preconizzò l'avvento di una
'società morale' egalitaria e comunistica, destinata a succedere alla
'società legale' e a svelare il grande enigma metafisico della
coincidenza Tutto-Nulla.
Il blasfemo e plebeo curato Meslier fu il profeta di un comunismo
materialista e ateo, che si sarebbe instaurato quando "l'ultimo re
fosse stato strangolato con le budella dell'ultimo prete". Tra gli
innumerevoli utopisti dei Lumi questi due ecclesiastici ribelli sono
figure emblematiche: portavoce degli oppressi, dei diseredati e degli
emarginati, sognarono una totale redenzione terrestre, surrogato di
quella celeste nella quale non credevano più. La promessa cristiana del
Regno, svelata come un inganno e un instrumentum regni, lasciava in
loro la nostalgia dell'assoluto, della fraternità ed eguaglianza
evangelica, il miraggio di un mutamento radicale della condizione umana
e di un riscatto definitivo.Una forma originale dell'utopia è la
'ucronia' o futurologia.
Un modello del genere è L'an 2440 (1770) di Louis-Sébastien
Mercier, definito "una vera e propria rivoluzione copernicana nella
storia dell'utopia" (R. Trousson), perché proietta la prospettiva
utopica non più nello spazio ma nel tempo. Nella finzione del romanzo
un dormiente, risvegliandosi a Parigi sette secoli dopo l'età dei Lumi,
trova una società che ha realizzato gli ideali 'utopistici' del
buongoverno e della perfettibilità. Lo Stato perfetto ha dato al rogo i
libri e tende a cancellare la memoria storica del passato, considerato
come il regno della preistoria e dell'errore. La vera storia dell'uomo
è ricominciata da zero.La soluzione chiliastica dell'enigma della
storia rivela la sua intrinseca finalità e consente di comprendere il
significato del progresso. La frattura totale, la cancellazione del
passato e il nuovo inizio della storia sono appunto le figure
simboliche che la recente storiografia ha individuato nei rituali delle
feste della Dea Ragione, nel calendario e perfino nei progetti
urbanistici della Rivoluzione francese.
7. L'idea di progresso
Le antinomie e i paradossi dell'idea di progresso che accompagnarono
l'intero sviluppo del pensiero illuministico non datavano dall'inizio
del Settecento. La riflessione dei due secoli precedenti li aveva già
formulati sotto la sollecitazione delle scoperte geografiche e del mito
del buon selvaggio: il confronto con l'altro da sé costrinse
l'umanesimo occidentale a un rigoroso esame di coscienza e contribuì a
mettere in crisi le certezze teologali della 'storia' cristiana della
salvezza. D'altra parte la rivoluzione scientifica, distruggendo il
principio di autorità, impose l'abbandono del sapere scolastico e della
cieca venerazione per gli antichi.
Negli scritti di Francesco Bacone e nelle concezioni pansofiche dei
suoi successori puritani - Samuel Hartlib, Thomas Sprat, Joseph
Glanvill, Henry Oldenburg e gli altri adepti della Royal Society - si
delineò una visione ottimistica della crescita delle conoscenze
positive, non disgiunta dalla profezia 'biblica' di un prossimo avvento
del regnum hominis, reso possibile dai progressi della scienza e dalla
tecnica. L'età dei Lumi ereditò in forma laicizzata la profezia
baconiana; ma non lasciò cadere del tutto l'antica concezione ciclica
delle vicende umane, legata alla mentalità astrologica, e il mito di
un'antichissima sapienza iniziatica che ebbe ancora seguaci come Newton
e Vico.
La complessa disputa sugli antichi e i moderni, che fu dibattuta in
tutta Europa nella seconda metà del Seicento, ebbe un duplice esito,
letterario e filosofico-scientifico. La tesi della superiorità degli
antichi, mai veramente negata sul piano del gusto e della creazione
artistica, apparve ormai insostenibile dal punto di vista della
scoperta scientifica. La soluzione dicotomica del problema, teorizzata
con varie sfumature da scrittori come Charles Perrault e Bernard de
Fontenelle, permise di tratteggiare una concezione lineare e cumulativa
del progresso della ragione. Ferma restando l'idea di una natura sempre
egualmente feconda, la crescita del sapere apparve un processo univoco:
"Una mente colta - scrisse Fontenelle ricalcando un'immagine di Pascal
- è composta, per così dire, da tutte le menti dei secoli precedenti"
(Digression sur les anciens et les modernes, cap. IV). Il progresso del
sapere non cancellava però la valutazione pessimista delle altre
vicende della storia umana, considerata non come magistra vitae, bensì
come "lo spettacolo delle perpetue rivoluzioni delle cose umane".
Nell'ideologia dei Lumi ottimismo scientista e pessimismo storico si
alternano. L'antico dilemma teologico della giustizia divina e della
presenza del male nel mondo fu ridiscusso nel primo Settecento da
William King, Bayle e Leibniz, e nutrì la disputa tra Rousseau e
Voltaire sulla Provvidenza.
Dopo aver oscillato con viva partecipazione emotiva tra ottimismo
mondano e pessimismo metafisico, l'autore di Candido (1755) volse in
satira la teodicea di Leibniz, disegnando in chiave autobiografica
l'ironico contrappunto tra la massima 'tutto è bene' e le sventure del
protagonista. Nel Saggio sui costumi Voltaire rovesciò la visione
provvidenziale della storia della salvezza; nel Secolo di Luigi XIV
disegnò il cammino incerto della civilisation, tra le alternative di
progresso e regresso che intervallano le "quattro età felici" del
genere umano: l'Atene di Pericle, la Roma di Augusto, la Firenze dei
Medici, la Francia di Luigi XIV.Numerosi ideologi e utopisti modularono
variamente la tematica del progresso. I progetti di Charles-Irénée
Castel, abbé de Saint-Pierre, sul governo repubblicano e sulla pace
perpetua furono commentati da Rousseau e da Kant. Quadri e sinossi dei
progressi dello spirito umano furono tracciati da François-Jean de
Chastellux, dall'economista Turgot, da Nicolas-Antoine Boulanger,
studioso di antichità comparate, dal matematico Jean-Antoine-Nicolas de
Condorcet, vittima della Rivoluzione, figura nella quale la fede nella
teoria del progresso dell'umanità si giustappose tragicamente alle
contraddizioni della pratica.
Tale situazione conflittuale era implicitamente iscritta nella metafora stessa dei Lumi, contrapposti alle tenebre. Le dure repliche della storia si contrapposero agli entusiasmi dell'ideologia e della propaganda. Eventi quali il terremoto di Lisbona del 1755, la soppressione dell'Encyclopédie nel 1759, le crisi ricorrenti del partito filosofico, la 'distruzione' dei gesuiti nel 1773, l'insuccesso delle riforme tentate da Maupeou nel 1770 e da Turgot nel 1772, la percezione dei segni forieri della Rivoluzione, scandirono le ondate di fede e sfiducia nel progresso che una critica sommaria ha sovente relegato nel limbo delle incoerenze teoriche.