Identità
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Enciclopedia delle Scienze Sociali
(1994)
di Loredana Sciolla
Identità personale e collettiva
sommario: 1. La categoria 'identità' al
crocevia delle scienze sociali. 2. Le origini intellettuali: il Sé
sociale. 3. Il territorio dell'identità: a) aspetti storici;
b) dimensioni teoriche. 4. Identità personale e
differenziazione sociale: a) modelli in sociologia; b) identità
integrate; c) identità debolmente integrate. 5.
Identità collettiva e conflitto: a) l'identità collettiva come
problema nelle scienze sociali; b) logica e forme
dell'identità collettiva. □ Bibliografia.
1. La categoria 'identità' al crocevia delle
scienze sociali
Il termine 'identità', che deriva dal latino idem, lo stesso, è
stato introdotto molto recentemente nelle scienze sociali. Dalle sue
prime apparizioni, all'inizio degli anni cinquanta, esso ha però
subito un processo rapido e ininterrotto di diffusione che,
tuttavia, non è sempre andato di pari passo con l'approfondimento
teorico e concettuale. Anche in ambito scientifico se ne è spesso
fatto un uso generico o allusivo, come se il termine avesse un
significato così evidente e ovvio da non richiedere ulteriori
specificazioni. Ciò è vero soprattutto per la fase del suo primo
emergere, quando viene impiegato nelle discussioni
sull'immigrazione, sui problemi di sradicamento che questa comporta,
o sulla problematicità dell'identità per l'individuo in una società
in rapido mutamento come quella americana. In molti casi l'uso dei
termini 'identità' o 'crisi di identità', mentre indubbiamente
rivela un reale disagio del ricercatore di fronte a fenomeni
percepiti come socialmente rilevanti, non apporta alcun contributo
sul piano analitico, in quanto si limita a riproporre, in maniera
più o meno consapevole, il significato che tali termini assumono nel
linguaggio comune, dove l'identità è perlopiù intesa come unità
della persona, come entità unica e peculiare, in questo senso
intercambiabile con l'idea di individuo. In questa sede il termine
sarà preso in considerazione come concetto analitico, per la sua
capacità di suggerire nuove prospettive teoriche e di gettar luce su
fatti e fenomeni in precedenza trascurati.
Una volta eliminato l'equivoco di un impiego generico del termine
'identità', ci si trova comunque di fronte a una pluralità assai
articolata di prospettive e di approcci. Il tema dell'identità,
infatti, si colloca non solo al crocevia delle scienze sociali, ma,
si potrebbe dire con Claude Lévi-Strauss (v., 1977, p. 9), a più
crocevia, in quanto interessa praticamente tutte le discipline. Al
fine di orientarsi in quello che può apparire a prima vista come un
labirinto, è necessario individuare a grandi linee ciò che accomuna
gli approcci delle principali scienze sociali, rimandando alle
pagine successive (v. capp. 4 e 5) le pur importanti differenze
interpretative che sussistono al loro interno.
Il primo aspetto comune concerne il modo di concepire la natura
dell'identità, ossia il significato da attribuire alla
consapevolezza della propria esistenza continuativa nel tempo. Può
risultare utile a questo riguardo riprendere la distinzione di Derek
Parfit (v., 1984; tr. it., p. 271) tra concezioni non
riduzionistiche o semplici, che intendono l'identità come un'entità
o sostanza spirituale non scomponibile, e concezioni riduzionistiche
o complesse, che invece attribuiscono la continuità temporale
dell'identità a collegamenti tra 'eventi' fisici e mentali, in
particolare alla memoria. Le scienze sociali adottano quest'ultima
concezione, perlomeno in quanto rifiutano un'impostazione
dell'identità come unità-totalità indifferenziata.
Il secondo aspetto riguarda il processo attraverso cui si forma tale
autoconsapevolezza di integrazione temporale. Le scienze sociali,
nel loro complesso, si focalizzano sul carattere relazionale,
intersoggettivo, dell'identità e analizzano i fattori sociali e le
dinamiche interattive che sono alla base della sua genesi e del suo
mantenimento. Questo secondo aspetto distingue l'approccio
all'identità di scienze sociali come la sociologia, l'antropologia,
la psicologia sociale dall'uso sempre più diffuso della nozione di
identità da parte della psicanalisi. Se Sigmund Freud aveva usato il
termine identità una sola volta e in maniera del tutto casuale a
proposito dell''identità ebraica' (v. Erikson, 1968; tr. it., p.
22), la letteratura psicanalitica di matrice freudiana, soprattutto
dalla fine degli anni cinquanta, ha mostrato un crescente interesse
analitico per l'identità, dovuto principalmente alla necessità di
affrontare le sempre più numerose patologie caratterizzate
dall'indebolimento o dalla perdita del senso di integrità e di
coesione del Sé. L'approccio clinico (v. Jacobson, 1964) rimane
centrato sull'individuo e intende la formazione dell'identità
(concepita come un'entità altamente differenziata, ma permanente e
coerente) come un processo intrapsichico. Alcuni psicanalisti,
tuttavia, tra cui si segnala Erik Erikson, hanno rifiutato un
approccio focalizzato solo sui fattori psichici e hanno insistito
sull'interdipendenza tra organizzazione psichica interna e struttura
sociale, tra psicologia e storia, spostando il centro di interesse
teorico di psicanalisi e psichiatria dall'Es all'Ego, dai meccanismi
istintuali di difesa ai meccanismi di adattamento, dallo stadio
infantile a quelli successivi, in particolare l'adolescenza e la
giovinezza.
L'insistenza da parte delle scienze sociali sulla variabilità
storica e sociale dell'identità solleva due questioni. La prima
riguarda la specificità della categoria 'identità' rispetto ad altre
categorie affini sul piano semantico, in particolare i concetti di
'carattere sociale' e di 'personalità di base' che, elaborati negli
anni trenta in un contesto interdisciplinare da psicanalisti come
Erich Fromm e Abram Kardiner, e antropologi come Ralph Linton, Ruth
Benedict e Margaret Mead, ebbero una notevole influenza, negli anni
successivi, su sociologi come David Riesman e, in parte, H. Gerth e
C. Wright Mills, e furono inoltre all'origine della successiva e
controversa formulazione della nozione di 'carattere nazionale'.
Anche se con leggere differenze di accento nei diversi autori, che
possono essere tralasciate in questa sede, tali concetti mettono in
rilievo l'esistenza di tratti psicologici tipici dei membri di
differenti società, dovuti all'influenza che queste esercitano nel
plasmare e condizionare la personalità dei singoli individui che ne
fanno parte.
Sul piano teorico sia le nozioni di carattere sociale e di
personalità di base sia quella di identità affrontano lo stesso
problema classico del rapporto tra individuo e società, tra
personalità individuale e struttura sociale. Diversa è tuttavia la
soluzione che a questo problema cercano di offrire. I primi due
concetti propongono una concezione disgiuntiva dei due termini e una
soluzione deterministica del problema del loro rapporto (la società
modella secondo le proprie esigenze le strutture psichiche e
disposizionali dei suoi membri). Con l'introduzione del termine
identità le scienze sociali intendono stabilire un nuovo nesso
concettuale tra i due elementi del problema, capace di mettere a
fuoco l'interdipendenza tra la dimensione soggettiva dell'azione
sociale e quella oggettiva (struttura sociale e culturale), cercando
di superare la visione tradizionalmente antinomica del rapporto
individuo-società. Il concetto di identità, in altri termini, è
perlopiù usato per descrivere il legame esistente tra problematica
macro, che riguarda il livello di complessità del sistema sociale, e
problematica micro, che riguarda il livello di complessità
dell'attore sociale e del processo decisionale.
Concepire l'identità come una costruzione sociale e un prodotto
storico pone anche un secondo problema di tipo epistemologico, che
emerge con forza da studi antropologici recenti (v. Lévi-Strauss,
1977; v. Heelas e Lock, 1981; v. La Fontaine, 1991⁵). Alcuni di
essi, che hanno un precedente illustre nello studio compiuto da
Marcel Mauss alla fine degli anni trenta sull'evoluzione storica
della categoria di persona (v. Mauss, 1938), mettono in risalto la
grande eterogeneità che contraddistingue le rappresentazioni
dell'identità presso società non occidentali. In alcune società
africane, ad esempio, la nozione di persona sembra avere un
carattere composito, frammentato in una molteplicità di elementi,
difficilmente riconducibili a una sintesi.
Il problema epistemologico riguarda la possibilità di considerare la
nozione di identità come una categoria fondamentale, capace di
mettere a fuoco processi transculturali, presenti in ogni comunità e
società umana, o di considerarla viceversa un costrutto storicamente
variabile, irriducibile a elementi comuni. Nonostante i pareri, a
questo proposito, siano tutt'altro che omogenei, credo non sia
contraddittorio riconoscere il carattere storico-culturale della
nozione di identità e nello stesso tempo affermare la sua vocazione
universale. Ciò è possibile se si sostiene che il concetto di
identità mette a fuoco un nucleo invariante, costitutivo
dell'esistenza sociale in quanto tale, che tuttavia viene declinato
in maniera diversa dalle diverse società e culture. Ad esempio, per
quanto alcune culture concepiscano l'identità personale come
costituita da una molteplicità di elementi eterogenei, non arrivano
a dissolverla, ma si avvalgono di interpretazioni diverse del
principio di integrazione temporale. Tutte le società, inoltre,
stabiliscono diversi livelli di identificazione-contrapposizione tra
'noi' e 'gli altri', anche se non necessariamente negli stessi
termini o in termini affini.
2. Le origini intellettuali: il Sé sociale
Quando le scienze sociali, in particolare la sociologia e la
psicologia sociale, hanno rivolto l'attenzione alla problematica
dell'identità si sono ricollegate a quelle teorie che per prime
avevano cercato di ricondurre fenomeni tipicamente individuali, come
la concezione di sé e la mente, a processi di tipo sociale,
contribuendo così ad avviare su basi scientifiche un approccio
psicosociologico integrato. Sono stati due studiosi americani a
elaborare, all'inizio del XX secolo, un approccio sociale a quella
specifica capacità di autoriflessione che essi non chiamano
identità, ma 'Sé'. Si tratta di Charles Horton Cooley (v., 1902) e
George Herbert Mead (v., 1934), entrambi vicini al pragmatismo
filosofico e annoverati tra i predecessori di quel programma teorico
e di ricerca denominato 'interazionismo simbolico'.
Fin dal 1902 Cooley sembra aver già ben chiaro che una teoria
sociale del Sé comporta un nuovo modo di guardare al rapporto tra
l'individuale e il sociale, che non li consideri come 'entità'
distinte, ma come due 'facce' dello stesso processo. Questa
prospettiva intende evitare i rischi di due forme opposte di
determinismo: il determinismo biologico, secondo cui l'individuo è
spinto da forze disposizionali interne, e il determinismo culturale,
secondo cui risulta plasmato da forze esterne. Cooley utilizza
l'immagine del "looking-glass self" ("Sé specchio") per richiamare
l'attenzione sul fatto che l'individuo non può concepire un'idea di
sé senza fare implicitamente riferimento ad altri. L'immagine del
"Sé specchio" è suggestiva, ma in parte fuorviante anche rispetto
agli stessi processi studiati da Cooley. Il modo in cui il soggetto
forma la propria autorappresentazione non è da intendersi come un
mero riflesso dell'opinione dei gruppi sociali con cui egli entra
successivamente in contatto: vi concorrono infatti diversi
meccanismi, come il modo in cui l'individuo immagina di apparire al
gruppo, la percezione del giudizio sulla propria apparenza, la
reazione in termini di rafforzamento o di indebolimento della stima
di sé.
Cooley, tuttavia, non esplora a fondo i processi specifici
attraverso cui il Sé si forma, né ricorre a descrizioni analitiche
di quest'ultimo. La svolta decisiva in direzione di una teoria
integralmente sociale del Sé si ha con Mead nello studio pubblicato
postumo Mind, self and society. L'aspetto innovativo dell'approccio
di Mead non va cercato solo nella definizione del Sé, la cui
caratteristica distintiva rispetto all'organismo biologico consiste
nella riflessività, ossia nella possibilità di "essere al contempo
soggetto e oggetto" (v. Mead, 1934; tr. it., p. 154), ma risulta
anche in altri due punti. Il primo consiste nella sua peculiare
concezione della natura di tale capacità autoriflessiva,
tradizionalmente definita come 'coscienza': essa non è più intesa
come una sorta di sostanza spirituale o di 'anima', di cui l'essere
umano sarebbe misteriosamente dotato a differenza degli animali
inferiori, ma come un prodotto sociale ed evolutivo. Non si tratta
solo di una critica all'idea metafisica dell'autocoscienza, ma anche
di un superamento di quelle concezioni filosofiche idealistiche che,
pur mettendo in risalto i condizionamenti sociali del Sé, continuano
a considerarlo pre-esistente rispetto a questi. Per Mead, invece, il
Sé è integralmente e costitutivamente sociale, nel senso che nelle
molteplici relazioni sociali in cui l'individuo è coinvolto si
costituisce interamente la sua capacità di autorappresentarsi come
centro di elaborazione autonoma.
Il secondo aspetto innovativo riguarda l'individuazione del
meccanismo specifico che rende possibile il costituirsi di questa
capacità. Non è attraverso il ripiegamento soggettivo su se stessi
che si 'accede' a una supposta interiorità, ma attraverso
l'interazione mediata linguisticamente. È dunque in 'modo indiretto'
che l'individuo può diventare oggetto a se stesso, partecipando alle
esperienze dei propri simili, "assumendo gli atteggiamenti che nei
suoi confronti tengono gli altri individui che con lui convivono
all'interno di uno stesso ambiente sociale, o nell'ambito di uno
stesso contesto di esperienza e comportamento" (v. Mead, 1934; tr.
it., p. 156). Quando l'individuo è in grado di assumere il ruolo
degli altri diventa anche capace di guardare a se stesso dal loro
punto di vista, di iniziare così una conversazione 'interiore'.
L'importanza cruciale della comunicazione linguistica risiede nel
fatto che essa veicola 'simboli significativi'.
A differenza dei gesti o segni naturali, come il richiamo della
chioccia o l'ululare del lupo, che evocano invariabilmente la stessa
risposta sia in chi stimola sia in chi osserva, i simboli
significativi implicano un elemento interpretativo: per rispondere a
un simbolo bisogna aver imparato a evocare in se stessi il
significato che esso assume per l'altro con cui si comunica. La
concezione del Sé proposta da Mead, se per un verso segna una svolta
rispetto al pensiero metafisico, alle filosofie del soggetto e alla
psicologia introspezionista, in una direzione da Mead stesso
definita "comportamentista", per un altro verso si distingue dal
comportamentismo classico elaborato da J.B. Watson e da B.F. Skinner
proprio per l'importanza attribuita ai processi interni all'attore
sociale nello svolgimento dell'interazione e nella costruzione
attiva del mondo sociale.Sul piano teorico il suo distacco dal
comportamentismo, ma anche da autori come Cooley, che avevano
precedentemente focalizzato l'attenzione sul Sé, si evidenzia nello
sforzo di dare una descrizione analitica di tali processi interni
attraverso la scomposizione del Sé in due elementi principali:
l''io' e il 'me'.
La concezione dell'attore di Mead si differenzia, inoltre,
dall'approccio utilitarista all'azione sociale per il ruolo centrale
attribuito alla ricostruzione dei processi di socializzazione e
all'analisi della temporalità della coscienza. Per quanto riguarda
la descrizione analitica del Sé, che risulterà molto importante
ancorché spesso fraintesa dalla successiva analisi dell'identità, le
due componenti sono da intendersi in primo luogo nel loro comune uso
grammaticale, secondo cui il termine 'io' si riferisce al soggetto
di un enunciato mentre il termine 'me' al complemento oggetto.
Sarebbe tuttavia errato pensare al me come a ciò che appare all'io
quando si autoesamina. Conformemente alla sua impostazione
integralmente sociale del Sé, l'io - definito in maniera ambivalente
a volte come coscienza, a volte come spontaneità istintuale - non è
mai considerato come un dato immediato e interiore ma sempre come
reazione al me, che rappresenta l'assunzione da parte dell'individuo
degli atteggiamenti degli altri. È chiaro, da questo punto di vista,
che l'io di Mead non ha nulla a che vedere con l'Ego freudiano.
Questa distinzione, inoltre, ha un carattere solo concettuale
perché, come precisa Mead, l'io e il me sono, nell'esperienza
dell'individuo, strettamente interrelati, indicano le fasi di uno
stesso processo in cui egli continuamente adatta in anticipo se
stesso alla situazione e al contesto sociale di appartenenza (il
me), reagendo tuttavia a essi in maniera critica o di adesione (in
base all'io). Mead (v., 1934; tr. it., p. 188) definisce l'io una
"figura storica" perché viene esperito solo nella memoria.
La possibilità che il Sé diventi un centro di autoregolazione del
comportamento, in grado di integrare le diverse componenti, dipende
però dall'introduzione di un ulteriore concetto: quello di "altro
generalizzato", che è definito da Mead come l'assunzione
dell'atteggiamento dell'intera comunità. Se con il me l'individuo
assume semplicemente l'atteggiamento che gli altri, entro situazioni
specifiche, tengono nei suoi confronti, con l'altro generalizzato
egli diventa capace di integrare i diversi me entro un Sé unitario.
Con l'elaborazione di questo concetto fondamentale Mead sembra
introdurre un'ulteriore dimensione: le aspettative normative più
generalizzanti che solo la partecipazione a un gruppo sociale
organizzato (non necessariamente la società nel suo insieme) può
suscitare. Le componenti del Sé, che sono state descritte
analiticamente, vengono illustrate da Mead anche sul piano genetico,
come esito del processo di socializzazione, studiato soprattutto
nella fase dell'infanzia e con particolare riferimento alla
differenza tra il 'gioco puro e semplice' e il 'gioco organizzato'.
3. Il territorio dell'identità
a) Aspetti storici
I percorsi che, dalla metà degli anni cinquanta, configurano la
'mappa' del concetto di identità nelle scienze sociali sono, come
già si è detto, molteplici in quanto coinvolgono la psicanalisi
neofreudiana, la psicologia sociale, l'antropologia, la sociologia,
e il loro intreccio e reciproco rimando sono tali da renderne ardua
una ricostruzione storica (v. Gleason, 1983). Esiste però una figura
chiave nella storia del concetto di identità nelle scienze sociali,
che detiene una sorta di primogenitura e ha contribuito in maniera
fondamentale alla sua elaborazione e diffusione, anche se dalla fine
degli anni sessanta ha perso molto della originaria influenza. Si
tratta di Erik Erikson, psicanalista neofreudiano, che ha per primo
richiamato l'attenzione sul concetto di identità dell'io (v.
Erikson, 1950).
La notevole forza di attrazione nei confronti delle discipline
sociologiche, antropologiche e psicosociologiche posseduta da questo
concetto dipende dalla netta impostazione storica e sociale che
Erikson gli ha conferito. Approfondendo un'idea solo abbozzata dalla
teoria freudiana, Erikson mette in luce che lo sviluppo del senso
soggettivo di continuità personale dipende in larga misura dalle
possibilità dell'individuo di trovare riconoscimento in comunità e
gruppi sociali più estesi.
La valutazione e l'identificazione da parte degli altri sono dunque
alla base dell'autoriconoscimento e della capacità di integrare e
ordinare gerarchicamente la molteplicità dei ruoli. Le novità che il
concetto di identità introduce, rispetto alla prospettiva freudiana,
sono numerose. Tre sono particolarmente importanti. La prima segnala
l'insufficienza del concetto freudiano di identificazione, che in
Freud si limita a designare i processi inconsci di assimilazione di
oggetti e persone durante l'infanzia. L'identità "comincia dove
termina l'utilità dell'identificazione e nasce dal ripudio selettivo
e dalla reciproca assimilazione delle identificazioni infantili e
del loro assorbimento in una nuova configurazione. Questa, a sua
volta, dipende dal processo con il quale una società (spesso
attraverso vari gruppi sociali) identifica il giovane individuo" (v.
Erikson, 1968; tr. it., p. 188).
La seconda novità consiste nel considerare il processo di
categorizzazione sociale sotto un duplice profilo: come definizione
oggettiva, esterna e vincolante per l'individuo, e come
autopercezione, soggettiva e modificabile nel corso dell'interazione
sociale. La terza novità infine deriva direttamente dalle prime due
e riguarda le situazioni e i fenomeni sociali che il concetto di
identità contribuisce a chiarire. L'interesse della ricerca si
estende a un più ampio arco del ciclo di vita dell'individuo, in
particolare all'adolescenza, di cui si mettono in risalto le
discontinuità rispetto alle identificazioni precedenti. Inoltre
l'analisi di Erikson rileva la complementarità dello studio del
ciclo di vita individuale e di quello della collocazione storica di
ogni configurazione di identità. Troviamo un esempio dell'efficacia
euristica di questa prospettiva nell'analisi che Erikson compie
della gioventù nelle società occidentali contemporanee: essa viene
intesa come una nuova fase della vita, contrassegnata da una
'moratoria psicosociale', un periodo 'istituzionalizzato' di
esplorazione e sperimentazione personale di ruoli e stili di vita,
privo di punti di riferimento precisi, e proprio per questo
contrassegnato da sentimenti di incertezza, da forte ambivalenza e
dai conseguenti rischi di confusione e di crisi di identità (v.
Erikson, 1968).
Con queste premesse non è affatto sorprendente che il concetto di
identità elaborato da Erikson in ambito clinico abbia costituito un
canale importante attraverso cui esso è stato introdotto sul terreno
sociologico e psicosociologico. Nell'ambito della Scuola di Chicago,
all'interno della tradizione interazionista, il termine 'identità' è
stato subito recepito e ricollegato, con alcune significative
modificazioni e anche con una certa disinvoltura non priva di
ambiguità teoriche, alla teoria sociale del Sé di Cooley e,
soprattutto, di Mead. La categoria di identità nella versione di
Erikson aveva il merito, vista dall'ottica della scuola
interazionista, di offrire un'alternativa all'approccio
deterministico e statico alla teoria del ruolo, che era prevalente
nell'opera pionieristica dell'antropologo culturale Ralph Linton e,
più in generale, nello strutturalfunzionalismo, dove si finiva per
stabilire una tendenziale congruenza tra aspettative di ruolo e
comportamenti effettivi di ruolo. D'altro canto la teoria del Sé
sociale di Mead, che dava spazio agli aspetti interpretativi del
processo di assunzione dei ruoli sociali, presentava una lacuna
connessa alla sua peculiare impostazione comportamentista. In
particolare, non riusciva a render conto di tutti quei casi, sempre
più frequenti nelle società complesse, in cui un individuo si trova
di fronte ad alternative e deve scegliere tra definizioni
contrastanti del comportamento appropriato, né spiegava perché tra
tutti i ruoli appresi nel corso della socializzazione l'attore
sociale ne selezioni solo alcuni.
L'influenza implicita della prospettiva di Erikson sulla scuola
interazionista in sociologia è già chiara in un importante articolo
di Nelson Foote, in cui l'autore sostiene che per colmare questa
lacuna della teoria del ruolo è necessario prestare maggiore
attenzione agli aspetti motivazionali. Egli considera centrale a
questo fine il concetto di identificazione che singolarmente usa al
posto di quello di identità, ma con un intento critico nei confronti
di Freud analogo a quello espresso da Erikson. Con il termine
identificazione intende, infatti, "l'approvazione di e il
coinvolgimento in una particolare identità o serie di identità" da
parte dell'individuo (v. Foote, 1951, p. 17). Viene messo in
risalto, come già in Erikson, il ruolo che il riconoscimento e la
ratifica da parte di altri significativi assumono nello sviluppo
della concezione di sé. Tuttavia il concetto di identificazione, in
questa accezione, si distingue dalla prospettiva di Freud e da
quella dello stesso Erikson per l'importanza attribuita al
linguaggio. Interessato a elaborare una teoria sociologica della
motivazione e a evitare il ricorso a spiegazioni in termini di
'predisposizioni' e tratti di personalità, Foote è portato ad
accentuare, sulla scorta di alcuni contributi decisamente innovativi
di K. Burke (v., 1945) e di C.W. Mills (v., 1940), il potere insito
nel meccanismo sociale di "dare nomi", di attribuire le persone a
categorie.
L'accettazione del nome, ossia l'assegnazione a una determinata
categoria da parte degli altri, trasforma la mera appartenenza a
gruppi sociali e l'assunzione di ruolo in elementi della concezione
di sé, che non è dunque intesa staticamente ma come un processo di
costruzione e realizzazione.
Se l'influenza del concetto di identità coniato da Erikson diventa
esplicita e generalizzata tra i numerosi sociologi e psicologi
sociali che, negli anni cinquanta e nei primi anni sessanta, hanno
contribuito a creare quel variegato programma teorico e di ricerca
definito 'interazionismo simbolico', è proprio perché esso consente
di risolvere il problema della motivazione dell'azione senza
ricorrere al concetto di predisposizione. La valorizzazione
cognitiva e affettiva della collocazione entro categorie sociali,
nella duplice dimensione di definizione esterna al soggetto e di
autopercezione, conferisce secondo Gregory P. Stone (v., 1962, p.
93) specificità al concetto di identità rispetto a quello di self.
Senza dubbio il concetto di identità, così inteso, riusciva a
gettare nuova luce sui problemi dell'etnicità e dei pregiudizi
razziali, in quanto riconduceva fenomeni come la chiusura e la
discriminazione non tanto a conflitti intrapsichici o a disturbi di
personalità, quanto a processi di definizione di confini e ad
appartenenza di gruppo.
D'altro canto la recezione del concetto eriksoniano di identità
nell'ambito della scuola interazionista non era priva di ambiguità
ed era stata attuata con una certa disinvoltura teorica. L'ambiguità
risiede nella distanza che separa un modello come quello di Erikson
che, nonostante le aperture sociopsicologiche, resta un modello di
tipo strutturale, legato cioè all'idea di una struttura psichica
profonda, interna e permanente, e quello avanzato dalla teoria
interazionista che, pur nelle sue molteplici varianti, accentua
l'aspetto processuale e situazionale dell'identità, per cui
quest'ultima non deve solo essere conferita socialmente, ma anche
continuamente sostenuta e resa plausibile in base al riconoscimento
sociale.
La diversità degli approcci emerge con forza fin dall'inizio da uno
studio di Anselm Strauss, l'autore che per primo ha riconosciuto
l'importanza del concetto di identità elaborato da Erikson,
innestandolo direttamente nell'alveo della Scuola classica di
Chicago: ciò appare evidente già dal titolo, Mirrors and masks, che
fa riferimento agli "specchi" di C.H. Cooley e alle "maschere" di
R.E. Park. Strauss (v., 1959) intende la propria indagine sulle
trasformazioni dell'identità come un semplice spostamento di 'fuoco'
dell'interesse dagli stadi infantili, analizzati dalla teoria
psicanalitica di Freud, e da quelli adolescenziali, analizzati da
Erikson, alla vita adulta. Anche se propone di utilizzare il termine
'trasformazione' piuttosto che 'sviluppo', in quanto quest'ultimo è
più compromesso con l'idea di una serie di stadi prefissati lungo un
continuum, Strauss non appare del tutto consapevole della profonda
differenza di presupposti teorici che caratterizza la sua acuta e
pionieristica indagine sulle sfide che i passaggi istituzionalizzati
di status e i cosiddetti 'punti di svolta' (turning points)
rappresentano per l'identità.Forse per questa ragione, negli anni
sessanta e settanta - tra gli autori che si rifanno
all'interazionismo simbolico o a posizioni che stanno a cavallo tra
quest'ultimo e l'etnometodologia, come nel caso di Erving Goffman -
il riferimento a Erikson scompare quasi del tutto.
Il concetto eriksoniano di identità dell'io non ha più un ruolo
centrale nemmeno nell'altro filone di studi sull'identità che si
afferma in America a partire dalla seconda metà degli anni sessanta
per opera soprattutto di due studiosi di origine austriaca, Peter L.
Berger e Thomas Luckmann (v., 1966), i quali compiono un'ulteriore
operazione di 'innesto' sull'originario 'tronco' pragmatista e
interazionista americano, collegandolo, sulla scorta dell'opera di
Alfred Schutz, alla fenomenologia di matrice husserliana.
L'impostazione sociocognitiva di questi autori - che ha notevoli
affinità, sul versante della psicologia sociale, con la prospettiva
di studiosi come H. Tajfel e J. Turner - ha dato nuovo vigore agli
studi sull'identità, mettendo in risalto le implicazioni cognitive
del processo di socializzazione e dando quindi una portata più ampia
alla teoria meadiana del Sé sociale.
Applicando il concetto di "definizione della situazione" di W.I.
Thomas e quello di "profezia che si autoadempie" di R.K. Merton allo
studio del processo di costruzione dell'identità, Berger ritorna con
forza sull'idea, già espressa nell'articolo di Foote, del potere
costitutivo delle definizioni sociali. La società, in altri termini,
crea la stessa realtà psicologica nel senso che offre all'individuo
dei modelli psicologici in cui riconoscersi (v. Berger, 1966). Come
aveva già notato Marcel Mauss, la categoria 'persona' non è una
struttura psichica innata, ma una struttura di credenze sociali che
l'individuo impara ad apprendere. Tale prospettiva dà l'avvio a una
letteratura assai vasta, che si è andata ampliando e articolando in
questi ultimi anni anche attraverso l'apporto di prospettive
teoriche assai diverse: ad esempio quella di Michel Foucault, che
intende studiare i meccanismi o 'tecnologie' attraverso cui la
modernità avrebbe plasmato e trasformato la soggettività e il modo
di guardare a essa.
Non a caso, invece, il riferimento a Erikson e, più in generale,
alla tendenza psicanalitica neofreudiana ridiventa attuale quando il
concetto di identità viene assimilato da Parsons e inglobato nello
strutturalfunzionalismo, giungendo a occupare un ruolo centrale
entro la teoria dell'azione (v. Parsons, 1968). Qui, infatti,
l'identità torna a essere intesa come una componente essenziale
della struttura psichica, nettamente separata dal sistema sociale e
culturale: la sua funzione innovativa sarebbe proprio quella di
collegare quest'ultimo alla personalità individuale complessiva. In
questa prospettiva permane una certa ambiguità teorica, già
riscontrata in alcuni autori appartenenti al filone interazionista,
dovuta al collegamento un po' eclettico tra Freud e Mead. Mentre,
tuttavia, questi autori tendevano a leggere Freud attraverso Mead,
nel caso di Parsons avviene il contrario.
b) Dimensioni teoriche
Del concetto di identità sono state rilevate tre dimensioni o
componenti teoriche, presenti, anche se in modi e con accentuazioni
diverse, nei vari apporti disciplinari che hanno contribuito alla
sua elaborazione e diffusione. Possiamo convenzionalmente definirle
come dimensione locativa, integrativa e selettiva (v. Sciolla,
Identità..., 1983). In base alla dimensione locativa l'attore
sociale concepisce se stesso all'interno di un campo, entro confini
che lo rendono affine ad altri che con lui li condividono. Tale
dimensione rimanda ai processi della categorizzazione e
dell'identificazione. La psicologia sociale ha spesso preferito
indicarla con il termine 'identità sociale', in quanto "parte della
concezione di sé di un individuo, che gli deriva dalla conoscenza
della propria appartenenza a uno o più gruppi sociali" (v. Tajfel,
1974, p. 69). L'identificazione, come aveva già intuito chiaramente
Foote nel suo lavoro anticipatore (v. Foote, 1951), non indica la
mera appartenenza oggettiva a una categoria sociale, ma è
espressione, allo stesso tempo, dell'autopercezione e del
riconoscimento da parte degli altri (v. Melucci, 1982). L'individuo,
soprattutto in una società complessa, può appartenere a più gruppi
sociali (ad esempio a un movimento politico e a una associazione
professionale) e svolgere molteplici ruoli (di genitore, figlio,
lavoratore, ecc.) che implicano delle aspettative sociali, ma
sviluppare sentimenti di attaccamento nei confronti di uno o alcuni
di essi.
Parlare di ruoli e status come categorie sociali costitutive
dell'identità ha spesso creato dei malintesi, dovuti in gran parte
alla disinvoltura con cui il termine 'identità' è stato usato in
maniera intercambiabile con il termine 'Sé' (self in inglese,
tradotto in italiano ora con il pronome riflessivo 'sé' ora con
quello di prima persona 'io'). Quando si dice che l'individuo ha
molti Sé perché è capace di ricoprire simultaneamente più ruoli e di
passare, nel corso di una giornata o nel breve arco di tempo di
un'interazione 'situata', da un ruolo a un altro presentando
svariate immagini di sé, non vuol dire che si stia parlando di una
pluralità di identità, anche se la gestione di più ruoli e le
aspettative contraddittorie a questi collegate possono creare
problemi di coordinamento cognitivo e conflitti motivazionali. La
dimensione locativa del concetto di identità indica che per definire
se stessi in quanto individualità è necessario riconoscersi in un
insieme più ampio. Essa rinvia dunque alla presenza di valori - e
non solo ad aspetti di ordine cognitivo - che consentono di
stabilire dei confini tra la categoria 'noi' e la categoria 'altri'.
Tali confini non coincidono necessariamente con quelli di un gruppo
particolare (ad esempio un gruppo etnico), in quanto possono
riguardare categorie più ampie (ad esempio il genere) ed estendersi
fino a comprendere la comunità astratta degli esseri umani (come
avviene nei modelli di valore universalistici). Il termine "altro
generalizzato" coniato da Mead rappresenta questa dimensione, mentre
Parsons ne ha sottolineato con forza il carattere duplice, cognitivo
e affettivo-valutativo.
Se la dimensione locativa suggerisce che l'identità non si
costituisce in un'arena interiore ma presuppone sempre un uditorio,
ossia il riconoscimento in altri e da parte di altri, la dimensione
integrativa rimanda a un principio di integrazione simbolico e
temporale dell'esperienza. Si tratta di un principio di consistenza
interna che riguarda la necessità sia di collegare le esperienze
passate e presenti e le prospettive future in un insieme dotato di
senso, sia di coordinare motivazioni e credenze eterogenee, legate
alla molteplicità dei ruoli o, per usare la terminologia di Mead, ai
diversi 'me'. Mentre vi è un certo accordo nel rilevare l'importanza
di questa dimensione, non si può dire altrettanto per quanto
riguarda il grado di integrazione né il suo modo di operare. Un
criterio per classificare i vari approcci in sociologia (v. cap. 4)
è proprio quello di considerare le diverse strategie concettuali a
cui si è fatto ricorso per dare significato a questa dimensione.
La terza dimensione portante del concetto di identità riguarda
l'orientamento all'azione e può essere chiamata selettiva. Questa
dimensione, presente in gran parte della letteratura che ha
approfondito gli aspetti teorici del concetto di identità, è stata
rilevata con chiarezza da quegli autori che - come Parsons e, in
anni più recenti, Pizzorno - pur a partire da prospettive diverse si
sono confrontati direttamente con il paradigma utilitarista di
spiegazione dell'azione sociale. Essa rimanda a quei meccanismi
stabilizzatori delle preferenze, in grado di risolvere il problema
dell'incertezza di lungo periodo, che sono alla base della
possibilità stessa del calcolo razionale. Pizzorno (v., 1983 e 1986)
osserva che, per poter valutare il proprio interesse e calcolare i
costi e i benefici, il soggetto agente deve assumere che i suoi
criteri di valutazione siano identici quando valuta i costi e quando
fruisce dei benefici, deve cioè assumere la propria continuità nel
tempo, che è impossibile sulla base dei soli dati individuali e
comporta il riconoscimento intersoggettivo. Il concetto di identità
finisce dunque per acquistare una portata teorica e metodologica
generale, in quanto contribuisce all'elaborazione di un modello di
attore sociale più comprensivo di quello utilitarista neoclassico
che prevale nell'economia ed è largamente presente nella scienza
politica.
4. Identità personale e differenziazione sociale
a) Modelli in sociologia
Nella breve storia sopra delineata del concetto di identità nelle
scienze sociali questo concetto è stato perlopiù utilizzato in
riferimento al problema del rapporto tra individuo e società.
L'identità era quindi riferita alla persona e l'attenzione era
focalizzata sui processi di formazione dell'individualità, anche se
le dimensioni teoriche del concetto non solo non precludono la sua
applicabilità ad attori collettivi, ma lo hanno reso particolarmente
utile quando, in anni recenti, è stato utilizzato per spiegare
dinamiche intergruppo e descrivere diverse forme di comunità e
organizzazione sociale (v. cap. 5).
In sociologia il problema del rapporto tra individuo e società si è
posto, fin dagli esordi, come rapporto tra gradi di libertà
dell'azione individuale e coesione del sistema sociale. Durkheim,
osservando per primo che l'aumento della differenziazione sociale -
nel duplice significato di aumento di volume della società e di
aumento del numero delle relazioni tra le sue componenti - andava di
pari passo con la crescita dell'autonomia e della personalità
individuale, ne aveva offerto una spiegazione ingegnosa ma un po'
paradossale. In De la division du travail social aveva scritto:
"Nessuno contesta al giorno d'oggi il carattere vincolante della
regola che ci ordina di essere, e di essere sempre di più, una
persona" (v. Durkheim, 1893; tr. it., p. 394). L'apparente paradosso
sta nel fatto di descrivere in modo deterministico l'ampliamento dei
gradi di libertà; la libertà è, secondo le parole di Durkheim, essa
stessa prescritta da una norma sociale, quindi effetto di una
costrizione. La riflessione sociologica sull'identità personale può
essere vista come il tentativo di trovare un concetto capace di
evitare questa rappresentazione paradossale del problema, in grado
di descrivere analiticamente i meccanismi specifici che legano la
differenziazione del sistema sociale ai processi di individuazione.
La diversità degli approcci al concetto di identità nel campo della
sociologia, come si è visto, non riguarda il suo carattere sociale e
intersoggettivo; da questo punto di vista non ha senso distinguere
tra identità personale e identità sociale, come si usa spesso fare
in psicologia, perché l'identità è personale solo in quanto
'localizzata' nell'individuo, ma è sociale nel suo processo di
costituzione (implica cioè il riconoscimento di altri). Si possono
invece riscontrare sensibili differenze nel modo in cui viene
rappresentata la dimensione integrativa dell'identità personale, sia
per quanto riguarda il principio o criterio attraverso cui
l'integrazione si realizza, sia per quanto riguarda il grado di
coordinazione presupposto. È questa dimensione, che rimanda alla
continuità e alla permanenza del soggetto, ossia alla sua
individualità e particolarità, che crea il problema. Si tratta,
infatti, di evitare la rappresentazione paradossale di Durkheim e di
render conto dei meccanismi complessi attraverso cui la libertà e la
soggettività dell'attore sociale emergono dalle articolazioni della
società.
In base al grado di integrazione o consistenza interna considerato
necessario per poter parlare di identità personale, le teorie
sociologiche possono essere classificate in due grandi categorie:
quelle che postulano il massimo di integrazione e consistenza e
quelle che richiedono solo un debole livello di coordinamento.
Chiamerò le prime identità integrate e le seconde identità
debolmente integrate. Esse possono essere suddivise ulteriormente al
loro interno in base al criterio che rende possibile l'integrazione.
b) Identità integrate
L'integrazione del soggetto agente è intesa come massima coerenza e
unità in primo luogo da quegli autori che intendono l'identità come
struttura della personalità individuale. Questa posizione,
largamente presente in psicologia e diffusa soprattutto attraverso i
lavori di Erikson, è rappresentata in sociologia da Parsons, che
definisce l'identità come una "struttura di codici" e "il sistema
centrale dei significati di una personalità individuale" (v.
Parsons, 1968; tr. it., p. 70). Reinterpretando l'eredità freudiana
in modo da renderla compatibile con la propria teoria dell'azione
sociale, Parsons aggiunge alle componenti individuate da Freud - Es,
Ego e Super-Ego - la nuova componente dell'identità, che svolge
all'interno della personalità il ruolo più importante e stabile (in
quanto sovraordinato a quello degli altri sottosistemi) di dare
significato ai processi coordinativi e realizzativi dell'attore
individuale.
L'identità propriamente non 'agisce', ma controlla i processi di
azione.
Nella complessa prospettiva sistemica elaborata da Parsons
l'identità mette in relazione il sistema della personalità con il
sistema dei codici e dei valori condivisi dalla società. Se
l'individuo tipico di una società che ha raggiunto un alto grado di
differenziazione strutturale riesce ad affrontare i complessi
problemi decisionali, le tensioni e i conflitti derivanti dalla
pluralizzazione dei coinvolgimenti di ruolo, è perché ha
interiorizzato codici culturali, sia cognitivi sia valutativi,
altamente generalizzati e indipendenti dalla specificità delle
singole aspettative di ruolo. Questa capacità non è, secondo
Parsons, innata ma è appresa nel corso del processo di
socializzazione, in particolare negli stadi successivi all'infanzia
quando l'individuo entra a far parte di cerchie sociali via via più
ampie di quelle familiari (scuola, gruppi generazionali,
cittadinanza).
L'identità, alla fine del processo di socializzazione, si presenta
come una struttura stabile e internamente coerente. L'unitarietà e
la consistenza interna vengono dunque fatte derivare dalla
congruenza con un sistema unitario e condiviso di valori. È
significativo, da questo punto di vista, che Parsons arrivi a
sostenere che l'identità rappresenta il punto in cui l''io' e il
'me' della teoria meadiana coincidono. La coerenza interna
dell'identità individuale e la conformità sociale sembra non possano
essere pensate separatamente senza dar luogo a forme patologiche o
riconducibili alla categoria della devianza. Ritorna, nella
formulazione più sofisticata dell''individualismo
istituzionalizzato', l'idea durkheimiana che l'autonomia
dell'individuo e i gradi di libertà delle sue decisioni siano
prescritti dal sistema, prerequisiti funzionali di una struttura
sociale altamente differenziata. L'assunto dell'interiorizzazione ne
dissolve però l'apparenza paradossale, in quanto la prescrizione non
è più vista come un fatto costrittivo esterno agli individui, ma
coinvolge le loro motivazioni e la loro adesione consapevole.Un
altro modo di intendere l'unità dell'identità, non contraddittorio
con quello sopra delineato ma più dinamico, proviene dalla
prospettiva teorica dell'interazionismo simbolico, solitamente vista
in contrapposizione allo struttural-funzionalismo parsonsiano.
Ralph H. Turner parte dalla distinzione tra 'immagine di sé' e
'concezione di sé' o identità. Mentre la prima è legata alla
situazione ed è quindi effimera e instabile, la seconda "muta più
lentamente, mostra una tendenza alla coerenza ed è percepita
dall'individuo come un qualcosa di ineliminabile" (v. Turner, 1968;
tr. it., p. 91). Anche per Turner il principio organizzatore e
integratore dell'identità sono i valori, considerati però non come
fonte di coesione sociale, ma come base della prevedibilità del
comportamento nell'interazione sociale. Criticando la possibilità di
rilevare empiricamente tale dimensione attraverso il cosiddetto 'Who
am I?', test elaborato da M. Kuhn e dai suoi allievi dell'Università
dello Iowa, Turner ritiene che l'identità possa essere osservata
solo attraverso l'esame delle reazioni ai mutamenti dell'immagine di
sé in situazioni controllate.
Detto in termini diversi, l'identità dell'individuo diventa visibile
e operante quando è minacciata da immagini di sé incongruenti che
gli altri gli rimandano nel corso dell'interazione sociale. In
questi casi, attraverso una dinamica affine a quella descritta da L.
Festinger (v., 1957) con la teoria della dissonanza cognitiva,
l'individuo cercherà di eliminare l'incoerenza mediante azioni
orientate all'affermazione dell'identità attraverso la produzione di
immagini di sé che la confermino. La coerenza dell'identità,
diversamente che nella prospettiva parsonsiana, è sia un fattore
determinante sia un prodotto dell'interazione.
c) Identità debolmente integrate
L'identità è pensata da alcuni autori come molteplice. Il
principio di integrazione non significa necessariamente unità o
perfetta coerenza, ma può anche indicare che la connessione
sincronica (tra diversi sé compresenti) e diacronica (tra sé
successivi) è debole e non elimina le incongruenze, ma si realizza
sulla base di diverse strategie interpretative. Anselm Strauss (v.,
1959), ad esempio, sottolinea la funzione di ordinamento simbolico
svolta dalla memoria. Il senso di continuità non si basa sul numero
e sull'intensità dei cambiamenti nel comportamento del soggetto, ma
sul quadro simbolico entro il quale elementi altrimenti discordanti
possono essere riconciliati e messi in relazione. Il caso
paradigmatico, riportato da Strauss, è quello del convertito a una
setta religiosa la cui biografia appare caratterizzata dall'assoluta
discontinuità tra il Sé precedente e il Sé successivo alla
conversione. Eppure anche in questo caso la continuità può essere
più profonda della discontinuità qualora il convertito, nonostante
la frattura, concepisca la vita passata come necessaria preparazione
a quella futura. Tutta una serie di eventi devianti possono così
essere spiegati e reinterpretati come tentazioni, prove,
ripensamenti dell'ultimo minuto, segni di un più profondo destino
che si deve realizzare. Strauss sottolinea dunque che la continuità
temporale è opera della memoria, che seleziona e 'ricuce' gli eventi
passati sulla base di un disegno temporalmente più ampio, rivolto al
presente e al futuro.
La sociologia fenomenologica contemporanea fa ricorso a strategie
concettuali analoghe, ma non identiche, a quelle elaborate da
Strauss nell'ambito dell'interazionismo simbolico. Innanzitutto la
necessità di pensare all'identità come debolmente integrata,
oltreché altamente instabile, deriva direttamente da un modo di
intendere il processo di differenziazione sociale che ne mette in
risalto gli aspetti dissociativi, di segmentazione istituzionale e
di pluralizzazione culturale (v. Berger e altri, 1973). In sintonia
con altri approcci di diversa matrice intellettuale (da Arnold
Gehlen a Daniel Bell, a Niklas Luhmann), essa mette in luce che il
processo di differenziazione sociale produce il passaggio da un
sistema sociale centrato, le cui varie istanze sono organizzate da
un unico principio di sviluppo (sia esso individuato dalla
durkheimiana logica della divisione del lavoro o dalla parsonsiana
logica dell'integrazione sociale), a un sistema sociale acentrato
nel quale convivono più principî organizzativi (v. Negri e altri,
1983).
La pluralizzazione simbolica, che pone non solo il problema
dell'ampliamento delle scelte possibili ma anche quello più
difficile da risolvere della loro incommensurabilità, mette in
discussione la possibilità di trovare il criterio integratore
dell'identità individuale, come pensava Parsons, in un sistema
unitario e condiviso di codici culturali (v. Sciolla,
Differenziazione..., 1983). L'identità viene rappresentata come un
'Sé componenziale', una sorta di puzzle costituito da una pluralità
di elementi che si incastrano, a cui nemmeno la socializzazione
primaria può più garantire un centro fortemente unificante. Anche
questo modello, nonostante sembri dissolvere l'idea stessa di
consistenza e di continuità, pur in maniera debole e scarsamente
approfondita sul piano teorico fornisce un criterio di integrazione.
Peter Berger (v., 1965) individua delle 'tecniche' di gestione dei
diversi Sé, che funzionano sulla base di modelli preconfezionati di
ricostruzione biografica; tra esse riveste una particolare
importanza la psicoterapia, intesa come costruzione di modelli
psicologici operanti nella società come 'profezie
autorealizzantisi'. La distanza rispetto alla teoria parsonsiana
della interiorizzazione non potrebbe essere più grande.
Un altro modo, anch'esso radicalmente antipsicologico, di pensare a
un'identità debolmente integrata è quello presentato da Erving
Goffman col suo 'modello drammaturgico' dell'interazione sociale.
Questo autore, in realtà, più che al tema dell'identità sembra
interessato all'analisi dei diversi Sé che l'individuo presenta
negli incontri fuggevoli della vita quotidiana, definiti "sistemi
situati di attività" (v. Goffman, 1961; tr. it., p. 94). Nonostante
ciò, nella maniera suggestiva ma poco sistematica che gli è
congeniale, Goffman individua con il concetto di "distanza dal
ruolo" una sorta di strategia per gestire e coordinare la
"molteplicità simultanea di Sé" (ibid., p. 134) legata
all'esecuzione dei singoli ruoli. Non atteggiamento radicato nella
struttura psichica del soggetto, ma comportamento comunicativo con
l'altro nei rapporti faccia a faccia, la "distanza dal ruolo"
segnala l'esistenza di confini al di là della singola situazione,
indica che il soggetto agente non è interamente deducibile dalla
presentazione ufficiale del Sé. Non bisogna pensare che l'identità
venga, in questo modo, 'svelata'; essa è, invece, nell'ottica
goffmaniana, letteralmente costruita attraverso questo sofisticato
meccanismo di identificazione e distacco.
5. Identità collettiva e conflitto
a) L'identità collettiva come problema nelle scienze sociali
È solo in anni assai recenti che il concetto di identità è stato
applicato ad attori collettivi. L'introduzione dell'espressione
'identità collettiva' si deve soprattutto agli studi sociologici,
antropologici e storici sull'etnicità e sui movimenti sociali. Come
è stato sottolineato (v. Epstein, 1978; v. Pistoi, 1983), il
riemergere di conflitti etnici in molte società occidentali, tra gli
anni sessanta e settanta, insieme all'ingresso sulla scena sociale
di movimenti che hanno una base diversa dalla classe sociale
(differenze generazionali o sessuali) richiedeva nuovi approcci al
problema dell'etnicità e dell'azione collettiva, approcci che
fossero in grado di spiegare la persistenza e l'intensità dei
vincoli di appartenenza nel cuore del mondo sviluppato. Il concetto
di identità collettiva sembrava possedere questo valore euristico.
Tuttavia l'applicazione del concetto di identità alle collettività
ha sollevato problemi di ordine teorico e metodologico.
L'obiezione principale è venuta dalla sociologia fenomenologica che
vi ha colto il rischio di cadere in ipostatizzazioni del genere di
quelle fatte dalla scuola di Durkheim con il concetto di 'coscienza
collettiva' o dalla sociologia tedesca 'hegeliana' degli anni venti
e trenta (v. Berger e Luckmann, 1966; tr. it., p. 235). A questa
obiezione si può rispondere che il rischio sarebbe reale solo se si
intendesse l'identità collettiva come un'entità unitaria, una
totalità, del tutto esterna e costrittiva rispetto agli individui.
Vi è anche la possibilità di concepire l'identità collettiva come la
risultante di processi complessi, costituita da un'autonoma
delimitazione di confini e costruzione di simboli, che interagisce
tuttavia con le aspettative dei singoli individui che in essa si
riconoscono, ma con essa possono entrare in contrasto, in una sorta
di equilibrio instabile i cui esiti possono essere sia la
modificazione dell'identità dei singoli (nel caso estremo l'uscita
dal gruppo), sia la modificazione dell'identità del gruppo stesso
(nel caso estremo la dissoluzione dell'identità collettiva) (v.
Sciolla, Identità..., 1983, p. 14).
L'utilità euristica dell'applicazione del concetto di identità ad
attori collettivi (gruppi etnici, movimenti sociali, ecc.), a meno
di usarlo in maniera del tutto aspecifica, è proprio quella di
sottolineare che l'appartenenza (etnica, nazionale, ecc.) ha un
aspetto soggettivo e uno oggettivo, rimanda cioè sia a categorie
sociali esterne sia all'autopercezione (v. Epstein, 1978; tr. it.,
p. 40), e di concepirla quindi non in maniera statica, come dato o
legame primordiale immodificabile, ma in maniera dinamica, come
processo di costruzione e di modificazione di confini.
La riflessione contemporanea sull'identità nelle scienze sociali,
anche quando viene riferita alla persona, tende d'altro canto a
evitare concezioni sostanzialistiche e a cogliere analiticamente le
sue molteplici componenti. Come ha sottolineato Melucci (v. 1982, p.
68), la distinzione tra identità individuale e identità collettiva
non riguarda la struttura analitica. Le diverse dimensioni (v. § 3b)
possono essere applicate altrettanto efficacemente a gruppi sociali,
senza che ciò comporti necessariamente l'adozione di un paradigma di
tipo olistico. La definizione di confini (dimensione locativa) è
ritenuta una componente fondamentale per caratterizzare l'identità
collettiva dei gruppi etnici e delle nazioni. Mentre per queste
ultime i confini assumono un carattere territoriale e giuridico (v.
Smith, 1991, p. 14), per i primi possono anche essere sociali in
senso lato (v. Barth, 1969).
L'accento posto sui confini significa che le identità collettive si
basano su processi di inclusione e di esclusione, che distinguono
'noi' da 'loro'. Anche il senso di continuità e di permanenza nel
tempo (dimensione integrativa) rappresenta una caratteristica
rilevante; essa fa riferimento alla costruzione di una memoria
storica, basata sull'elaborazione di miti e di simboli comuni,
rivitalizzata attraverso riti celebrativi e commemorativi (v. Smith,
1991, p. 14). L'aspetto selettivo e interpretativo della memoria di
un gruppo (ad esempio una nazione) non ha nulla a che vedere con
l'idea di una mente collettiva, ma fa invece riferimento al ruolo
cruciale svolto dall'élite intellettuale e politica. La dimensione
che rimanda a meccanismi di stabilizzazione delle preferenze e di
orientamento all'azione acquista senso solo se riferita a gruppi che
possiedono precisi centri decisionali e organismi dirigenti.
b) Logica e forme dell'identità collettiva
Gli interessi intellettuali che oggi spingono un gran numero di
scienziati sociali a utilizzare la nozione di identità collettiva,
per quanto numerosi ed eterogenei, sono classificabili in due tipi.
Il primo, che muove soprattutto sociologi e psicologi sociali, è
l'interesse teorico per la comprensione dell'azione sociale, dei
meccanismi generali che spingono gli individui, in certe condizioni
sociali, ad agire collettivamente. L'identità collettiva è
utilizzata, in questi casi, come modello interpretativo alternativo
ad altri modelli, in particolare quelli riconducibili a paradigmi
economicisti. Il secondo tipo di interesse, che si riscontra
soprattutto tra storici e antropologi, è prevalentemente
descrittivo: la categoria 'identità collettiva' serve a descrivere i
processi di formazione, di persistenza e di trasformazione di alcuni
gruppi e organizzazioni sociali.
Nel primo caso l'identità collettiva spiega la logica dell'azione
sociale, nel secondo caso sintetizza gli elementi caratteristici di
una forma di raggruppamento sociale.
Le ricerche di psicologia sociale sulle relazioni intergruppo
partono dalla considerazione che "la definizione di un gruppo
(nazionale, razziale o d'altro genere) acquista un senso solo in
presenza di altri gruppi" (v. Tajfel e Frazer, 1978; tr. it., p.
377). Esse mostrano che non è il contenuto intrinseco dei gruppi
(linguaggi, culture, ecc.) che costituisce l'identità collettiva e
la fonte di identificazione motivazionale per i singoli, ma la
valutazione positiva che deriva dal confronto con altri gruppi
rispetto a cui ci si differenzia. Quando, attraverso questo
confronto, l'individuo avverte una minaccia allo status del proprio
gruppo, tende a mettere in atto delle strategie che gli consentano
di modificare la situazione.
Riprendendo la distinzione di A.O. Hirschman (v., 1970) tra "exit" e
"voice", H. Tajfel rileva che quando non è possibile adottare
strategie di exit, ossia abbandonare il gruppo per un altro che
rappresenti un referente positivo, l'individuo cerca di modificare
gli aspetti negativi del gruppo operando in diversi modi, che vanno
dall'assimilazione culturale alla reinterpretazione delle
caratteristiche del proprio gruppo, fino alla creazione di nuove
'ideologie'. In tutti questi casi l'identità è concepita come un
'meccanismo causale' dell'azione collettiva rivolta al cambiamento
sociale. Gran parte dei movimenti etnici ed etnonazionalisti che
sono apparsi sulla scena politico-sociale delle società occidentali
avrebbe origine non tanto in conflitti di interesse quanto in
conflitti di identità (v. Tajfel e Frazer, 1978; tr. it., p. 380).
In ambito sociologico il concetto di identità collettiva è alla base
di un modello generale che spiega la partecipazione politica
tentando di rispondere a una serie di problemi posti da questa
partecipazione, che non sono risolti in maniera esaustiva dai
modelli di tipo utilitarista, basati sull'idea che l'individuo
agisce perseguendo il proprio interesse. Alessandro Pizzorno (v.,
1983 e 1986) ha cercato di rispondere al problema centrale dello
studio dell'azione collettiva, quello che nel linguaggio corrente
delle scienze sociali viene denominato 'paradosso del free rider'
(libero battitore). Il paradosso consiste nel fatto che, se
l'individuo persegue il proprio interesse, non si spiega come mai
partecipi ad azioni collettive (dal voto ai movimenti sociali) i cui
benefici potrebbe ottenere comunque senza sobbarcarsi i costi
dell'informazione e della partecipazione.
Il problema è complesso ed è stato trattato in una letteratura assai
ampia. Qui è sufficiente osservare come la tesi di Pizzorno tenda a
spostare l'attenzione sul fatto che i meccanismi di esclusione
generati dal sistema della rappresentanza politica rendono
indispensabile la formazione di nuove identità collettive, in grado
di assicurare quel riconoscimento intersoggettivo su cui si basa la
valutazione dell'interesse individuale. In altri termini, se
l'obiettivo dell'azione collettiva è la formazione di una
collettività identificante, la partecipazione non va vista come un
costo perché senza partecipazione non si può ricevere
riconoscimento.Per antropologi e storici il concetto di identità
collettiva rappresenta una chiave di lettura adatta a descrivere
fenomeni quali la persistenza e la trasformazione dei gruppi etnici
in contesti industrializzati, il sorgere di nuove nazioni da un
passato di tipo coloniale, il riacutizzarsi di conflitti su base
etnica e nazionalistica nel mondo sviluppato.
Gli studi empirici su singoli casi e in contesti specifici sono
ormai molto numerosi. L'importante è chiedersi che cosa aggiunga
l'ottica dell'identità collettiva all'analisi di fenomeni già
ampiamente studiati in passato. Come ha sottolineato A.L. Epstein
nel suo studio comparativo di tre diversi contesti etnografici, il
concetto di identità consente di vedere l'etnicità in una maniera
dinamica, non come legame primordiale e come contenuto culturale
stabilito una volta per tutte, ma come dialettica tra i processi di
categorizzazione sociale esterni al gruppo e quelli interni di
autocategorizzazione (v. Epstein, 1978). Diventa così possibile
comprendere perché e come i confini etnici continuino a operare
anche in situazioni caratterizzate da un alto grado di erosione
culturale: l'identità etnica, in questi casi, può fornire il mezzo
per riorganizzare il comportamento e le relazioni sociali, come è
avvenuto per il 'tribalismo' della Copperbelt nello Zambia (ibid.,
p. 187), ma può anche gettare luce sui meccanismi da cui si genera
in un contesto sociale non etnico una nuova categoria sociale dotata
di uno status ascritto, come nel caso degli hibakusha, le vittime
sopravvissute di Hiroshima.
In secondo luogo, pensare in termini di identità collettiva
significa superare concezioni ipersemplificate dei gruppi etnici
intesi come 'gruppi di interesse', in competizione per l'ottenimento
di risorse scarse, concezioni che non spiegano i molti casi, come
quelli dei Paesi Baschi e della Catalogna in Spagna o dei Fiamminghi
in Belgio, in cui aspirazioni separatiste e rivendicazioni etniche
sorgono proprio nelle zone più prospere ed economicamente avanzate.
Infine, l'analisi in termini di identità - che ovviamente non è
l'unica possibile - mettendo in luce l'esistenza di nuclei
intoccabili e non negoziabili, come l'autoattribuzione vera o
immaginaria di origini comuni e di un comune destino, aiuta a
comprendere l'intensità e l'esplosività con cui si presentano i
conflitti di questo tipo, e anche le difficoltà di una loro
risoluzione.