www.treccani.it
Enciclopedia online
In filosofia, nome generico di ogni concezione che tende a risolvere la realtà nel pensiero.
Il termine i. si cominciò a usare tra la fine del 17° sec. e il
principio del 18°, per designare l’atteggiamento speculativo di chi,
come G. Berkeley, riduceva a «idea» (nel senso di contenuto
soggettivo della coscienza idea) ogni realtà oggettiva; tale
i. fu poi combattuto specialmente da I. Kant come cui
egli contrapponeva il suo i. trascendentale , che concepiva come
soggetto l’elemento formale della conoscenza restando oggettiva la
materia del conoscere. Eliminato questo residuo oggettivistico dalla
filosofia postkantiana, l’i. assunse l’aspetto di o di i.
oggettivo , a fondamento del quale stava la concezione dell’idea non
più come semplice contenuto della coscienza, ma come suprema forma e
categoria razionale della realtà. Tesi questa ripresa e in diversi modi
sviluppata dall’i. posteriore. Di qui i due valori fondamentali da
allora in poi legati al termine i., che da un lato significa in
generale «soggettivismo», teoria che risolve il reale nel pensiero, e
dall’altro significa più in particolare dottrina dell’oggettiva
idealità razionale del mondo. In funzione di tali significati alcuni
storici hanno ritenuto possibile parlare di i. e di idealisti anche a
proposito di dottrine e di pensatori antecedenti all’effettivo uso
storico di quei termini: e così si può parlare, per es..
dell’ di Protagora o dell’ diPlatone.
Dizionario di Filosofia (2009)
In filosofia, nome generico di ogni concezione che tende a risolvere la
realtà nel pensiero.
Il termine i. si cominciò a usare tra la fine del 17° sec. e il principio del 18°, per designare l’atteggiamento speculativo di chi, come G. Berkeley, riduceva a «idea» (nel senso di contenuto soggettivo della coscienza idea) ogni realtà oggettiva; tale i. fu poi combattuto specialmente da I. Kant come cui egli contrapponeva il suo i. trascendentale , che concepiva come soggetto l’elemento formale della conoscenza restando oggettiva la materia del conoscere. Eliminato questo residuo oggettivistico dalla filosofia postkantiana, l’i. assunse l’aspetto di o di i. oggettivo , a fondamento del quale stava la concezione dell’idea non più come semplice contenuto della coscienza, ma come suprema forma e categoria razionale della realtà. Tesi questa ripresa e in diversi modi sviluppata dall’i. posteriore. Di qui i due valori fondamentali da allora in poi legati al termine i., che da un lato significa in generale «soggettivismo», teoria che risolve il reale nel pensiero, e dall’altro significa più in particolare dottrina dell’oggettiva idealità razionale del mondo. In funzione di tali significati alcuni storici hanno ritenuto possibile parlare di i. e di idealisti anche a proposito di dottrine e di pensatori antecedenti all’effettivo uso storico di quei termini: e così si può parlare, per es.. dell’i. di Protagora o dell’i. diPlatone.
Enciclopedia del Novecento (1978)
Sommario: 1. Introduzione. 2. Il trascendentalismo. 3. Lo
‛gnoseologismo'. 4. L'apporto romantico. 5. L'idealismo rovesciato. 6.
Il ‛significato interno' delle idee. 7. L'idealismo personalistico. 8.
L'idealismo storicistico. 9. L'idealismo gnostico. 10. Idealismo
cristiano e ontologismo critico. 11. La mente come esempio di unità
concreta. 12. L'antitesi tra idealismo e meccanicismo. 13. L'idealismo
nella nuova scienza. 14. Fondamento antropomorfico dell'idealismo e del
meccanicismo. 15. L'idealismo in fisica e in matematica. 16.
L'idealismo in psicologia, in sociologia, nell'informatica. 17.
Conclusione.
1. Introduzione
Sulle dottrine che si qualificavano espressamente come ‛idealistiche'
all'inizio del nostro secolo gravava una pesante ipoteca: la fortuna
che, nel corso dell'Ottocento, aveva avuto l'idealismo classico tedesco
della linea Fichte-Schelling-Hegel; più esattamente, la fortuna che
aveva avuto l'interpretazione hegeliana di tale vicenda, da cui tanta
parte della filosofia, non solo dell'ultimo Schelling, ma anche del
secondo Fichte restava esclusa. Dell'idealismo Hegel era, se non
l'unico maestro, certo il punto di riferimento obbligato. Altre
dottrine, di tutt'altro stampo, si erano professate idealiste nel corso
dell'Ottocento, a cominciare da quella di Schopenhauer che, rimasta
oscura al tempo del suo apparire, era divenuta una guida spirituale
(più o meno correttamente interpretata) per tanta parte del pubblico
europeo anche non specializzato nella seconda metà del secolo.
‛Idealista teologico' si era qualificato anche R. H. Lotze (1817-1881)
che, riconoscendo la necessità di un'impostazione essenzialmente
meccanicistica per la scienza, aveva tuttavia combattuto la
positivistica ‟deificazione della verità scientifica", ancorando
l'intero meccanismo del mondo a un principio originario non meccanico.
E il Lotze influì a sua volta profondamente sull'idealismo del
Novecento, soprattutto anglosassone, anche se la sua influenza rimase
ristretta agli specialisti. Ma, nonostante queste e altre forme non
hegeliane di idealismo, dirsi ‛idealista' al principio del secolo
significava, quasi dappertutto, riferirsi a Hegel, pur con ogni libertà
d'interpretazione.
Oltre a ciò, il rinnovato idealismo novecentesco riceveva una
determinazione particolare dal fatto di contrapporsi al positivismo:
essere hegeliani significava, infatti, prendere posizione contro il
positivismo che dominava in quel momento la scena filosofica. Questa
intenzione rischiava di restringere il senso dell'idealismo professato
a una funzione storica contingente, destinata a esaurirsi quando il
termine di riferimento polemico avesse perso importanza. Di
conseguenza, se ci limitassimo a esaminare l'idealismo nell'ambito
della filosofia tecnica e, per di più, dall'interno della sua stessa
problematica, otterremmo una visione sfocata del suo significato e un
concetto mutilo della sua importanza. E saremmo portati a concludere
che l'idealismo del nostro secolo ha un'importanza esclusivamente
storica, di cui, nella filosofia militante d'oggi, non si sente quasi
più la presenza.
La situazione appare diversa se, in primo luogo, delle dottrine
idealistiche si cercano i motivi profondi, anche non dichiarati, che
danno ad esse un senso che non coincide necessariamente con quello in
cui erano intese all'interno del dibattito con i contemporanei; e se,
in secondo luogo, non ci si limita a considerare la filosofia tecnica
che si professa idealista, ma si va in cerca dell'idealismo in tutte le
sue forme, anche all'infuori della filosofia: nella scienza, per
esempio. Allora diviene possibile liberare l'idealismo novecentesco dal
suo condizionamento storico e trovargli un significato che va al di là
della funzione che ebbe nel clima culturale in cui operava: diviene
possibile cercare, insomma, attraverso l'idealismo novecentesco, i
tratti di una posizione di pensiero che ha una propria ragion d'essere
in qualsiasi epoca e qualunque sia l'etichetta sotto cui si presenta. A
tal fine, che la parabola dell'idealismo novecentesco oggi possa
considerarsi conclusa rappresenta un vantaggio: il significato può
essere visto, ormai, al di sopra della vicenda contingente a cui si
lega.
L'esposizione si articolerà, quindi, in due parti: nella prima (v.
capp. 2-10), si analizzerà la genesi e lo sviluppo delle filosofie che
nel Novecento hanno assunto la qualifica di idealistiche, e se ne
rintracceranno i motivi profondi, anche se non del tutto dichiarati;
nella seconda (v. capp. 11-17) si cercheranno le ragioni costanti di
una posizione idealistica non ristretta alla filosofia tecnica e a ciò
che di essa si qualifica ufficialmente come idealismo, e si tenterà di
riconoscere l'essenza dell'idealismo come tale.
2. Il trascendentalismo
La fortuna del termine ‛idealismo' nella filosofia contemporanea è
legata a Kant e all'uso che Kant aveva fatto della parola. Egli aveva
qualificato come ‛idealismo trascendentale' la dottrina da lui
professata nel periodo ‛critico', e anche dopo di lui tale locuzione fu
usata più d'una volta - sebbene in sensi molto variabili - per
distinguere le nuove dottrine idealistiche da forme d'idealismo
precedenti: non tanto dall'idealismo platonico, la cui tradizione
persisteva bensì, ma trasformata e trasfusa, quanto piuttosto
dall'idealismo berkeleiano o pseudoberkeleiano, che aveva quasi
monopolizzato il significato di ‛idealismo' nel Settecento. Ciò non
toglie che l'aggettivo ‛trascendentale' servisse a specificare, in
coloro che se lo attribuivano, idealismi diversissimi (per esempio, in
Kant e in Schelling), e che altri, principalmente lo Hegel,
considerasse come idealismo genuino solo una dottrina addirittura
antitetica all'idealismo trascendentale di Kant. Come si spiega,
allora, che una linea di pensiero idealistico che si rifà a Kant si
prolunghi ancora nel nostro secolo, e che questa linea passi attraverso
Hegel, che del trascendentalismo kantiano era stato un fiero nemico? La
ragione è duplice. In primo luogo persisteva il bisogno di distinguersi
da un idealismo ‛empirico' come quello, in un primo tempo, di Berkeley,
Collier, Lichtenberg, e poi da varie forme di idealismo semplicemente
psicologico: tale, cioè, che riduce la realtà oggettiva delle cose a
una rappresentazione o stato di coscienza del soggetto singolo. Questa
difesa contro l'idealismo empirico, anche se condotta per vie diverse e
perfino contrastanti, accomuna tutti gli idealisti della linea
‛trascendentale', compreso lo Hegel. In secondo luogo - appunto perché
l'impostazione storiografica di Hegel era accettata anche da coloro che
non condividevano il suo pensiero su nessun altro punto - riusciva
spontaneo vedere nella storia della filosofia uno sviluppo continuo e
dialettico insieme, cioè fatto di tesi e antitesi successive: sicché,
da un lato non si aveva difficoltà a identificare la linea
dell'idealismo trascendentale con lo sviluppo necessario della
filosofia, dall'altro a far passare questa linea attraverso posizioni
dialetticamente contrastanti tra loro.
Vi è, poi, un carattere formale, ma non per questo meno profondo, che
accomuna tutte queste forme di idealismo: l'intera corrente è legata da
un comune ‛modo di far filosofia' che possiamo qualificare come
‛scolastico', nel significato letterale della parola: di una filosofia
professata nelle scuole o, in altri termini, nelle università. Questo
carattere professionale condiziona il modo di esprimersi dell'intera
corrente e, quindi, anche il suo modo di pensare, di contro a qualsiasi
filosofia non professionale. Schopenhauer, per esempio, nonostante che
per parte sua si richiamasse non solo a Platone, ma anche a Kant, si
sentiva escluso per mentalità, ancor prima che per le vicende
biografiche, da un tal tipo di filosofia, e con molta acutezza ne colse
l'incompatibilità contrapponendo al proprio l'idealismo ufficiale come
‛filosofia delle università'. Il modo scolastico di costruire la
filosofia non è legato a nessun contenuto, tanto che travalica i
secoli, connettendo le filosofie ‛scolastiche' sette-ottocentesche, che
hanno il loro centro di diffusione nelle università tedesche,
addirittura alla scolastica medievale. Il conservarsi di termini
medievali, nonostante che il loro significato muti radicalmente, ne è
un indizio caratteristico. Lo stesso termine ‛trascendentale' può
servire da esempio, pur nel mutare continuo dei suoi significati. Senza
dubbio, se è arduo trovare un'affinità di significato tra il
trascendentale di Kant e quello di Schelling, per legare il significato
kantiano della parola all'originale scolastico occorrono quasi dei
virtuosismi. Ma non è tanto questo ciò che conta, quanto il ‛modo di
adoperare' la parola: un modo tutto tecnico, gergale, che, a chi non è
addentro, sembra slegato dalla concretezza dell'esperienza. Questo
linguaggio chiuso non si trova nei filosofi non scolastici neppure
quando questi (come Schopenhauer) adoperino occasionalmente questo o
quel termine della filosofia universitaria.
L'idealismo del Novecento dunque - almeno l'idealismo ‛ufficiale' - si
lega a una tradizione filosofica universitaria che ne condiziona il
modo di esprimersi e di pensare. Ciò avviene perfino in uno scrittore
come il Croce che pure, professionalmente, vive lontano
dall'università: avviene, cioè, per il solo fatto di appartenere a
quella corrente. E questo legame linguistico con la scolastica
settecentesca è il segno esteriore, ma non estrinseco, di quanto tale
corrente sia condizionata da Kant. Questi, pur attestandosi su
posizioni ben diverse da quelle dei suoi colleghi, aveva speso tutta la
vita insegnando ex cathedra e adoperando come testi da
commentare le opere di Baumgarten, di Crusius, di Tetens e anche di
Wolff: cioè appunto dei filosofi che, in contrapposto al contemporaneo
‛illuminismo mondano', formano quello che si suol chiamare
l'‛illuminismo scolastico'. Il suo pensiero si era modellato su quel
modo di espressione, e il suo successo lo trasmise ai posteri, anche se
questi battevano altre strade. L'uso stesso del latino avvicinava alle
antiche forme codesti professori, anche se novatori nei contenuti, e lo
stile scolastico non fu più sradicato neppure quando, col romanticismo,
si cessò di pensare (oltre che di scrivere) in latino e di ricalcare
sul latino la terminologia germanica.
Conseguenza di ciò è che, al lettore non iniziato, le opere degli
idealisti contemporanei appaiono scritte in un linguaggio cifrato. A
volte esse restano incomprese perfino dagli addetti ai lavori e, in
ogni caso, sono molto più difficili di quelle dei classici
prewolffiani. La filosofia moderna, che era nata fuori delle scuole e
contro di esse - e su questa linea aveva proseguito, in Inghilterra e
in Francia, anche nel Settecento - con l'illuminismo scolastico tedesco
era ridiventata filosofia universitaria, e l'idealismo contemporaneo
risente ancora di tale restaurazione. Poiché, per di più, là dove
l'idealismo domina la scena, prevale la tendenza a identificarlo con
l'intera filosofia, nei paesi dove l'idealismo ebbe più larga fortuna
(quali la Germania e l'Italia) il gergo scolastico assunse una sorta di
esemplarità anche presso coloro che non riconoscevano all'idealismo una
preminenza speculativa, col risultato di estraniare a queste ricerche
coloro che non sono disposti a penetrarne il cifrario. Ciò accresce la
necessità di un'esegesi che renda accessibile l'idealismo novecentesco
al di sotto della sua veste professionale.
3. Lo ‛gnoseologismo'
Un'altra caratteristica dell'idealismo contemporaneo è il suo
‛gnoseologismo', che consiste nel ricondurre i problemi essenziali
della filosofia al problema del conoscere. L'idealismo è una dottrina
della realtà, non una teoria di come si giunga a conoscerla: ma il modo
in cui esso affronta il problema della realtà è egualmente
‛gnoseologistico', sia per ragioni positive, sia per ragioni polemiche.
L'origine kantiana, anche in ciò, è determinante. Kant aveva fondato la
possibilità di un conoscere avente valore di scienza, universale e
necessaria, sull'ipotesi che l'oggetto conosciuto sia condizionato dal
nostro modo di conoscerlo: non dal modo dell'individuo singolo, ma da
quello della mente finita in generale. In ciò consiste appunto il suo
‛trascendentalismo'. Di conseguenza la realtà - non la realtà in sé, ma
la realtà quale ci risulta nell'esperienza - viene ad essere un
‛fenomeno', un ‛apparire': dotato di caratteri oggettivi, bensì, cioè
validi per tutti, ma non indipendenti dal modo di pensare della mente
finita in generale. Questa dipendenza dell'essere dal pensare rimane in
tutto l'idealismo, pur trasponendosi su un piano tutto diverso: perché
nell'idealismo essa condiziona una realtà non più fenomenica soltanto,
ma assoluta. Per Kant l'oggetto dipende dal ‛modo' di pensare, dunque è
condizionato solo nel ‛modo' del suo apparire, cioè per la ‛forma':
nell'idealismo successivo, al contrario, il pensiero condiziona non più
l'apparire, ma l'essere in quanto essere; e non ne condiziona solo la
forma, ma la realtà. Hegel portò all'estremo, anche su questo punto, la
polemica contro Kant e contro la sua distinzione tra il ‛vero' essere e
l'‛essere per noi' dell'esperienza; e anche l'idealismo successivo
conserva una portata metafisica, non solo gnoseologica. Poiché,
tuttavia, l'essere rimane dipendente dal pensiero, e non viceversa (sia
pure dal pensiero in generale, non da quello del singolo), la
metafisica tradizionale, per cui il pensiero deve, al contrario,
riconoscere l'essere, rimane esclusa una volta di più. Conoscere e
pensare, pur assumendo un significato ben lontano da quello che avevano
in Kant, rimangono un primumrispetto a ogni considerazione
dell'essere, e la via per affrontare il problema ultimo della filosofia
rimane pur sempre ‛gnoseologistica', sebbene quel problema non sia
punto il problema gnoseologico: un diverso accostamento, ‛ontologico',
al problema ultimo ci riporterebbe alle impasses della
metafisica tradizionale.
Salvo che negativamente, per l'esclusione della metafisica
(tradizionale), l'interesse fondamentale dell'idealismo non coincide,
dunque, con quello di Kant. Del resto perfino in Kant la riflessione
sul conoscere voleva semplicemente servire di strumento alla fondazione
di una nuova metafisica dell'esperienza, esente dalle difficoltà della
metafisica tradizionale. Fare della filosofia, essenzialmente, una
teoria del conoscere era una tradizione soprattutto britannica: la
mentalità tedesca inclinava, per contro, alla metafisica, e
l'idealismo, anche se di metafisica non vuol più sentir parlare, non si
accontenta di sapere come conosciamo: vuol sapere come sia fatto
l'Assoluto. E, anche se nel nuovo idealismo angloamericano,
conformemente alla tradizione britannica, gli interessi gnoseologici
torneranno in primo piano, pure, anche lì, saran presenti sempre in
funzione del problema di ‛come sia l'Assoluto'.
4. L'apporto romantico
La rivelazione dell'Assoluto è l'aspirazione di tutto l'idealismo
postkantiano, in contrasto con Kant; ed è un'aspirazione tipica del
romanticismo. L'Inghilterra, che diviene la patria del nuovo idealismo,
già nel corso dell'Ottocento aveva associato l'interesse per
l'idealismo a quello per il germanesimo in generale, e per
quell'espressione tipica del germanesimo che era il romanticismo. Il
centro d'irradiamento dell'idealismo anglosassone fu il Balliol College
di Oxford, dove l'interesse per le dottrine idealistiche (spregiate
come fantasticherie dal positivismo) fu importato da un professore di
letteratura greca, B. Jowett: e anche questo è caratteristico, perché
la Germania era la patria del culto ‛romantico' per la classicità.
Classica, per il romantico, è la forma immediatamente rivelativa
dell'Assoluto; e questa forma può consistere così nella bellezza
sensibile come nella verità di un pensiero. La Grecia ci aveva dato la
prima di queste ‛rivelazioni', Hegel s'incaricò di darci la seconda.
Non c'inganni il fatto che Hegel si presentava come antiromantico, come
oppositore di ogni filosofia del sentimento e dell'immediatezza: egli
faceva ciò solo per essere romantico su un piano più profondo. Nel
sistema totale delle mediazioni razionali, che il sistema hegeliano ci
presenta, l'Assoluto si manifesta pur sempre, infatti,
‛immediatamente'. L'interesse per il romanticismo e per una visione
romantica della classicità si associava, dunque, al rinnovato interesse
per Hegel.
Se, però, si scende ai problemi tecnici e ai particolari, la fedeltà a
Hegel appare tutt'altro che grande, anche in quegli idealisti
anglosassoni (e poi italiani) che si sogliono chiamare ‛neohegeliani'.
In Inghilterra l'avvio fu dato da un non-universitario, lo Stirling,
con The secret of Hegel (1865). Egli voleva riportare Hegel a
Kant, e rivelava in modo caratteristico quegli interessi gnoseologici
che erano sempre stati tipici del pensiero britannico. Poi vi furono,
su Hegel, i lavori esegetici di W. Wallace (1874), di E. Caird (1883),
di A. Seth (1887). Ma l'opera che sullo spirare dell'Ottocento (1893)
ripropose l'idealismo al nuovo secolo fu un'opera originale e
geniale, Appearance and reality, di F. H. Bradley (1846-1924),
dove di hegeliano c'è ben poco, tranne l'idea dell'Assoluto.
Anzitutto il Bradley dichiara di non essere in grado di presentare una
filosofia sistematica (v. Bradley, 18972, p. IX, p. 553 e passim),
mentre per Hegel solo il sistema è filosofia. In secondo luogo egli
afferma ripetutamente di non riuscire a capire bene lo Hegel: e questo
è un modo molto inglese per respingerne le asserzioni. La verità è che
il Bradley può, semmai, dirsi uno hegeliano a rovescio, poiché il suo
idealismo consiste nel dirci che la mediazione razionale non può
rappresentare il modo in cui l'Assoluto è: essa rappresenta
un'apparenza di Assoluto, che non è certamente la sua realtà. La
mediazione si svilupperebbe, infatti, attraverso relazioni; ma il
Bradley mostra con zenoniana pertinacia che tutte le relazioni, di
qualsiasi specie e comunque pensate, sono inconsistent, nel doppio
significato inglese della parola: cioè appartengono al mondo
dell'‛apparenza' e non della realtà, perché sono ‛contraddittorie'. Ciò
esclude che l'Assoluto possa rivelarsi nel sistema delle relazioni e
che la dialettica costituisca il veicolo ditale rivelazione. Come si
vede, la contraddizione è interpretata da Bradley come un segno di
apparenza, non di realtà, sicché il suo pensiero non può essere né
dialettico, né sistematico (visto che tutte le relazioni sono
‛apparenza'): in altri termini, non può essere ‛razionale', nel senso
hegeliano della parola.
5. L'idealismo rovesciato
Ma in Bradley vi è pur sempre uno hegelismo a rovescio, perché
l'insieme delle relazioni, dicendoci come l'Assoluto non può essere, ci
dice indirettamente come l'Assoluto è: un Tutto ‛non' relazionale, in
cui l'intera realtà è compresa. Quanto più una forma è unitaria e
comprensiva senza essere relazionale, tanto più essa si avvicina al
modo d'essere dell'Assoluto. Questa dottrina bradleiana dei ‛gradi di
verità' (o di ‛realtà': per lui è lo stesso) non regge, se si guarda
attentamente alle critiche che le furono mosse: ma ciò non toglie che
l'idealismo ‛scettico' del Bradley (dove tutto è rovesciato rispetto a
un idealismo positivo, al punto che ‛idealità' qui significa
separazione del what dal that, cioè dell'essenza
dall'esistenza, e quindi l'inverso della ‛realtà',
dove that e what coincidono) sia pur sempre la
romantica ricerca di una rivelazione immediata dell'Assoluto, condotta
per via negativa. Negativa, quanto meno, rispetto all'attività del
‛ragionare' e quindi del ‛giudicare' che è un mettere in relazione. I
suggerimenti positivi in direzione dell'Assoluto sono cercati, per
contro, nell'esperienza etica o estetica, che ci offre esempi di realtà
unitarie sempre più ricche e comprensive. B. Bosanquet (1848-1923),
particolarmente nella sua estetica (v. Bosanquet, 1915), svilupperà
questi suggerimenti.
Nei primi anni del secolo l'idealismo segue la traccia segnata dal
Bradley: vuoi per consentire, come fa H. H. Joachim (1868-1938)
in The nature of truth (1906), vuoi per cercar di sfuggire
alle sue implacabili critiche contro la pensabilità di ogni relazione,
come fa in America J. Royce. Il corollario che il Joachim trae dalla
concezione bradleiana della realtà è il seguente: è impossibile che tra
due termini qualsiasi corra una relazione puramente ‛esterna', tale
cioè che, presupponendo i termini relati, li lasci tali quali erano
prima di entrare in relazione. Questo basta a escludere che la verità
sia ‛corrispondenza' a una realtà data: perché, allora, la realtà
sarebbe appunto identica dentro e fuori della relazione conoscitiva.
Fedele allo ‛scetticismo' del maestro, il Joachim accumula difficoltà
anche sull'altro concetto di verità, da lui preferito, la verità come
‛coerenza'. Ma, in sostanza, è chiaro che per lui, come per Bradley e
per Hegel, la verità è ‛l'intero', cioè l'Assoluto nella sua totalità:
appunto perciò la verità non può essere guardata dall'esterno, come
oggetto della relazione cognitiva. Sintomatiche le discussioni in cui
il Joachim si trovò coinvolto con alcuni filosofi di opposta tendenza
circa la concepibilità di relazioni esterne: il realismo non trova
difficoltà nell'ammettere che due cose, ciascuna ben definita per conto
suo, entrino in relazione tra loro senza che nulla muti perciò al loro
interno, o almeno che esse siano così pensate dalla mente. In verità,
come vedremo, su questo punto entrano direttamente in contrasto le
supposizioni fondamentali dell'idealismo e della dottrina che a esso
direttamente si contrappone.
6. Il ‛significato interno' delle idee
J. Royce (1855-1916) rispose alle difficoltà sollevate dal Bradley in
un saggio ‛complementare' a The world and the
individual (1900-1901), intitolato The one,the many and the
infinite. Per mostrare l'‛inconsistenza' delle relazioni, Bradley aveva
osservato come, per pensarle, si fosse costretti a entrare in un
processo all'infinito: ciò che stabilisce la relazione tra due termini
dev'essere, a sua volta, posto in relazione con ciascuno dei due, ecc.
Royce risponde che il processo all'infinito, ‛interno' al pensiero, è
il carattere stesso dell'Assoluto; e che, quindi, quella che il Bradley
scambia per una difficoltà è una caratteristica positiva. Per
esemplificare, Royce ricorre al ‛sistema autorappresentativo', di cui
il matematico J. W. R. Dedekind si era servito, appunto, per definire
positivamente l'infinito. Autorappresentativo è un sistema che
contiene, all'interno di sé, la rappresentazione di se stesso, come
accadrebbe se si disegnasse una carta geografica perfetta del paese in
cui la carta si trova: essa conterrebbe, nel punto esatto, un'immagine
di sé con un'altra rappresentazione del paese, e così via,
all'infinito. Royce ammette, tuttavia, che questo esempio, e gli altri
fatti sui numeri, non offrono che ‟le aride ossa di un museo
dell'ordine": la vera realtà dell'Assoluto è piuttosto quella di un ‟Io
ideale", di cui il sistema autorappresentativo astratto non è che ‟il
nudo scheletro". E anche in ciò Royce contrasta lo scetticismo di
Bradley: per Bradley, infatti, la persona non offre un'immagine
soddisfacente dell'Assoluto, perché è necessariamente finita, ed
‛esclude' da sé qualcosa. Ma Royce oppone che la persona esclude da sé
ciò che ‛taglia via' da sé, con libera decisione; e questo non la
limita, poiché le possibilità respinte o ‛tagliate via' sono concrete
solo all'interno della volontà cosciente che le esclude: fuori, non
sono che un'astrazione (altrimenti dovremmo pensare, ad esempio, che
Dio sia limitato solo perché non crea tutto il possibile che, pure,
pensa).
Queste analisi sono utili per mostrarci in che senso l'idealismo si
serva del modello della ‛mente': si serve, per forza di cose, della
mente umana, l'unica che conosciamo, tuttavia tenta di prescindere dai
suoi limiti, per considerarla in ciò che ha d'infinito. Il modello
serve da esempio, è come un vettore che ci indica, sia pure con certe
riserve, la direzione in cui cercare la realtà come Assoluto.
L'idealismo non sostiene, almeno in queste forme che andiamo
esaminando, l'inerenza degli oggetti reali alla mente particolare che
li conosce: sostiene l'inerenza di ‛ogni' molteplicità esistente
all'unica realtà assoluta. Se, a volte, esso concepisce la realtà
dell'Assoluto sul modello di una mente pensante, ciò accade perché solo
nella mente pensante si trova un'infinità di particolari tutti
‛interni' all'unità concreta, senza che la loro varietà sia annullata,
ma anche senza che sia dispersa, come è dispersa la varietà delle
determinazioni reali nello spazio.
Un'applicazione importante di ciò è offerta dal Royce nel campo della
‛semantica', con la dottrina del ‛significato interno' delle idee,
fondamento del loro significato esterno. Questa dottrina si può
sintetizzare dicendo che il significato (meaning) di un'idea è la sua
intenzione: e ciò si spiega assai bene tenendo presenti sia il
significato dell'inglese to mean, sia quello scolastico
di intentio. Ciò che l'idea significa può essere bensì, da ultimo,
un fatto, un oggetto esterno a cui l'idea corrisponde: ma l'idea ‟va in
cerca del suo fatto", non si modella passivamente su di esso. La prova
della corrispondenza di un'idea al suo oggetto non può essere cercata,
invero, se non in rapporto allo scopo che l'idea stessa contiene: noi
non potremmo giudicarla falsa o sbagliata se non commisurandola a ciò
di cui va in cerca, a ciò che ‛vuol dire'. Ora, cercando il proprio
oggetto, l'idea non cerca altro che la propria determinazione esplicita
come ‛intenzione consapevole' (come quando cerchiamo, per esempio, di
esplicitare un determinato motivo musicale, che ‛abbiamo in mente'):
quindi essa trova il proprio significato nella misura in cui si
realizza.
Con ciò, di nuovo, il Royce risponde allo scetticismo del Bradley,
secondo cui, come abbiamo visto, l'‛ideale' è esattamente il contrario
della realtà: è la perenne inadeguatezza
del what al that, dell'essenza all'esistenza. Il
disaccordo, tuttavia, è più apparente che effettivo: al limite, per
entrambi gli idealisti l'Idea è l'Idea assoluta, che coincide con la
realtà. La differenza è che verso questo limite il Royce muove
positivamente, mentre il Bradley preferisce indicarcelo per via
indiretta. Più tardi, il Royce cercherà ancora altri sostegni alla sua
speranza di trovare un immagine umana dell'Assoluto: per esempio nel
rapporto tra assicuratore, assicurato e beneficiario, e simili (v.
Royce, 1914 e 1916).
7. L'idealismo personalistico
Per altri idealisti anglosassoni la persona, anche umana, è qualcosa di
più che un modello finito dell'Assoluto: è una realtà irriducibile essa
stessa. Questo assunto è rivendicato da alcuni ‛contro' lo Hegel - per
esempio da A. Seth (1856-1931) - da altri, come J. E. McTaggart
(1866-1925), attraverso una reinterpretazione di Hegel medesimo la
quale, però, ne inflette molto diversamente i concetti (v. Seth, 1887;
v. McTaggart, 1901). Contro l'idealismo monistico il McTaggart sostiene
che ‟la realtà è costituita da centri immediati, legati mediatamente da
relazioni" (ibid., È 299): due aspetti di una medesima realtà, non due
realtà diverse, anche se il linguaggio ci obbliga a esprimerci come se
lo fossero. E l'immagine di una siffatta unità è cercata dal McTaggart
nell'amore: una relazione che coincide con le volontà che unisce, pur
conservandole nella loro indipendenza (ibid., È 310).
Il manifesto dell'idealismo inglese antimonistico è rappresentato dal
volume collettivo Personal idealism, edito nel 1902 da H. C. Sturt
(1863-1943): un autore che scese poi personalmente in campo contro la
scuola di Oxford in Idola theatri(1906), e cercò di ricondurre la
gnoseologia a un'indagine dei concreti processi conoscitivi della
persona in The principles of understanding (1915). Da ultimo,
l'interesse dei pensatori di questa corrente, compreso lo Sturt, si
manifesta come un interesse etico. W. R. Sorley (1855-1935) cerca
un'armonizzazione dell'ordine della natura con l'ordine morale
concependo l'universo non come un ordine impersonale, bensì come una
suprema Mens (v. Sorley, 1918). H. Rashdall (1858-1924) per
salvare le persone finite giunge a sacrificare l'infinità di Dio (v.
Rashdall, 1902 e 1907). Per lui l'idealismo consiste essenzialmente,
come per Berkeley, nel negare l'esistenza di una materia indipendente
dagli spiriti. Né si scosta molto da ciò il moralista J. S. Mackenzie
(1860-1935), secondo cui il male si spiega con la natura spirituale e
progressiva dell'universo, che avanza bensì verso un'assoluta unità, ma
è un processo non ancora del tutto compiuto (v. Mackenzie, 1902). J. B.
Baillie (1872-1940), uscendo dall'idealismo monistico passò
all'idealismo personalistico (v. Baillie, 1906 e 1921) sotto l'urto
della prima guerra mondiale: il soggetto dell'esperienza diviene ora
l'uomo singolo, che ‛realizza' il mondo nel senso inglese di
‛realizzare': concretare e rendersi conto.
Un analogo movimento dallo gnoseologismo verso i problemi della persona
si nota nell'idealismo francese. Questo aveva con Hegel un rapporto ben
più vago di quello dell'idealismo anglosassone. La sua radice tedesca,
se pur c'era, era piuttosto Kant, filtrato attraverso il fenomenismo di
C. B. Renouvier (1815-1903) e lo studio sul fondamento dell'induzione
di J. Lachelier (1834-1918). Lo scolaro del Renouvier, O. Hamelin
(1856-1907), anche se si richiama a Hegel nel tentativo di ricostruire
il processo di autoposizione dell'Assoluto (v. Hamelin, 1907), si
mostra tutt'altro che hegeliano nel presentare il proprio saggio come
‟una semplice illustrazione del metodo proposto, anziché come
l'autocoscienza dell'Assoluto medesimo". In realtà il ‛metodo
sintetico' dell'Hamelin ha lo scopo di mostrare che, conoscendo il
determinismo cosmico - fondato sulla ‛correlazione' logica, non su una
necessità meccanica - l'uomo può divenirne padrone e raggiungere il
proprio fine, che è ‟il pieno e intero dispiegamento della persona
umana". Nel maggiore scolaro dell'Hamelin, R. Le Senne (1882-1954), il
personalismo diviene esplicito: l'uomo è legato, bensì, all'unico
Assoluto, il ‛valore', ma vive in una sfera esistenziale dove, insieme
con la particolarità, si manifesta l'imperfezione e l'ostacolo (v. Le
Senne, 1934).
8. L'idealismo storicistico
Se per l'aspetto etico tende a divenire, in Francia e in Inghilterra,
una filosofia dei valori, nelle sue radici metafisiche l'idealismo
novecentesco continua ad aderire al problema del Parmenide di
Platone: come conciliare in una veduta unitaria la prospettiva
(parmenidea) dell‛Uno' con quella (impostaci dall'esperienza) dei
‛molti'. L'originalità dell'idealismo italiano sta nel ricondurre
questo problema al problema della ‛storia'. Una storia c'è, infatti,
solo se gli avvenimenti sono legati in una qualche unità; ma, d'altro
canto, l'unità pura (l'uno-uno del Parmenide) di per sé non dà
luogo a storia. La storia è dunque la vera manifestazione
dell'uno-molti platonico, il distendersi del Principio in una pluralità
articolata, pur rimanendo unito a se stesso. Che a questa conclusione
si giunga nella patria di Giambattista Vico, non meraviglia; tuttavia
l'idealismo di Croce e di Gentile, anche se muove dal caratteristico
platonismo della storia che aveva costituito l'originalità di Vico (la
storia come manifestazione temporale delle idee e cioè, per Vico, delle
intenzioni provvidenziali), va ben al di là: in Croce nega ogni
trascendenza del disegno provvidenziale, in Gentile giunge a negare
addirittura il platonismo delle idee, anche nel senso delle intenzioni
provvidenziali vichiane, e diviene, paradossalmente, un idealismo senza
le idee.
La ‛filosofia dello spirito' di Benedetto Croce (1866-1952), presentata
nei tre volumi tra l'Estetica (1902) e la Filosofia della
pratica (1909) - il quarto volume del ciclo, Teoria e storia
della storiografia (1915), è uno sviluppo
della Logica del 1909 - conserva all'Idea un contenuto
proprio, irriducibile al contenuto della storia: ammette, infatti,
quattro forme dell'attività spirituale, distinte secondo le quattro
‛categorie' dell'arte, della conoscenza concettuale, della volizione
economica e della volizione etica. Tra queste quattro forme corre una
‛dialettica dei distinti' che dal Croce è chiamata col nome vichiano di
‟storia ideale eterna". La storia che corre nel tempo si svolge
‛secondo' questa dialettica, senza esserne la pura e semplice
estrinsecazione, sicché il sistema delle forme conserva,
apparentemente, una certa trascendenza essenziale (non esistenziale)
rispetto agli eventi. Senonché a questa trascendenza dell'Idea rispetto
alla storia l'idealismo del Croce, per un altro verso, resiste. Croce
infatti nega che vi sia una filosofia (o conoscenza concettuale di
forme) distinta dalla storiografia, e dice che l'unica vera filosofia è
la conoscenza dell'universale concretamente individuato negli eventi
particolari dell'arte, del sapere, della vita politica e morale, cioè
della storia concreta. Attraverso successive precisazioni che il Croce
fornisce al proprio pensiero e anche attraverso il modo in cui lo mette
in pratica come critico (o, ciò che per lui è lo stesso, come storico),
noi vediamo infatti che il suo interesse si appunta precisamente sulle
‛individuazioni' dell'universale, e che la stessa dialettica delle
quattro forme, più che il sistema dell'Assoluto, è una ‛sistemazione'
che il Croce propone con l'intento d'investire direttamente dell'unità
dello Spirito la molteplicità degli eventi storici, e di fare di questi
i veri portatori dell'Idea. È vero che, contro Gentile e la sua scuola,
Croce non acconsentì mai a riconoscere come astratta la quadruplicità
delle forme (cfr. per es. Panlogismo, misticismo e
distinzione, in appendice a Il carattere della filosofia moderna,
1941): tuttavia questa quadruplicità (tutta legata, a partir
dallaLogica del 1909, nella ‛circolarità dello spirito') va intesa
più come un simbolo o come una cifra del concreto che come una
struttura assoluta in se stessa.
Per quanto presentato come idealistico, perciò, l'immanentismo crociano
tende a trovare l'Assoluto sul piano stesso dei ‛fatti': su un piano
non troppo distante da quello a cui mirava il positivismo, dal Croce
combattuto. La diversità è che nell'idealismo crociano i fatti sono
fatti ‛storici', cioè legati in unità dalla spiritualità della storia,
anziché dalla legalità della natura. Tuttavia, poiché l'aspirazione di
Croce è di investire dello spirito assoluto ‛ciascun' fatto nella sua
individualità, senza far posto a differenze di valore, un immanentismo
siffatto appare, a ben vedere, più vicino al naturalismo che
all'idealismo, fatta salva la storicità degli eventi (fuori della quale
la natura sarebbe un'astrazione). E come naturalismo - sia pure
naturalismo della storia - esso trova i suoi ascendenti veri
nell'immanentismo naturalistico del Rinascimento italiano. La sua
vicinanza al positivismo diviene impressionante, del resto, se si pensa
che il positivismo italiano di R. Ardigò aveva anch'esso origini
rinascimentali, assai più che ottocentesche; e che l'affermazione del
Croce secondo cui ‟tutti i fatti sono fatti storici" non differisce
essenzialmente da quella dell'Ardigò, secondo cui ‟tutti i fatti sono
divini", poiché per il Croce essere ‛storico' significa, precisamente,
essere ‛divino'. Tendendo a investire ciascun particolare della
totalità dello spirito, il Croce non riconosce, se non come empiriche,
differenze di valore (per esempio, tra un'opera d'arte e l'altra) e dà
valore assoluto a ciascuna individualità (che non è per lui, da ultimo,
individualità della persona, bensì dell'opera: ‟il vero soggetto della
storia è il predicato"). Per questo anche nella ricerca
critico-storiografica si ferma non meno volentieri sui cosiddetti
‛minori' che sui ‛maggiori', dato che tra essi, in linea di principio
non riconosce nessuna differenza: ‟Dell'universale è da ripetere, come
per il Dio cercato invano per tutta la serie dei finiti e ritrovato in
ogni punto di essa, und Du bist ganz vor mir!" (v. Croce, 1915, p.
49).
Opposta la via battuta da Giovanni Gentile (1875-1943), anche se certe
conseguenze vengono a coincidere. Il suo idealismo costituisce il punto
d'arrivo d'una tradizione idealistica bimillenaria, rovesciata rispetto
al suo punto di partenza platonico. Nell'idealismo di Gentile, infatti,
scompaiono le ‛idee', e non ci sono più neppure ‛categorie' nel senso
hegeliano o crociano della parola: tutte le distinzioni di contenuto
cadono nell'astratto, e di concreto non c'è che l'‛atto' del pensare,
lo ‛spirito come atto puro', di cui Gentile, nel 1916, ci dà
la Teoria generale. L'‛altro' dal pensare, e cioè il ‛pensato', è
bensì posto di necessità dallo spirito, nel senso che l'atto non puo
‛farsi' concretamente come pensiero senza pensare un pensato: ma
codesto pensato può essere un oggetto qualsiasi, visto che serve solo
perché il pensiero vi passi per ritornare dialetticamente su di sé. Il
Gentile presenta ciò come una Riforma della dialettica
hegeliana (1913), ma è chiaro che si tratta, piuttosto, di una sua
negazione: la dialettica hegeliana era una serie di passaggi necessari
tra un contenuto e l'altro, e questo, per il Gentile, è una ‛dialettica
del pensato', un'astrazione: l'unica necessità, e quindi l'unica
dialettica sempre identica, sta nel passaggio del pensiero attraverso
‛un' pensato (qualsiasi). Supporre un legame necessario tra pensati fa
parte di quel (platonico) ‛mito dell'apodissi' che Gentile vuole
scalzare. Le idee, al plurale, divengono così per Gentile qualcosa di
astratto, e perciò di empirico: di ideale non rimane che l'‛atto'. Per
questo abbiamo detto: idealismo senza le idee.
Anche la storia, come storia dello spirito, è storia dell'atto puro che
pone via via se stesso (autoctisi) attraverso sempre nuovi pensati,
senza tuttavia mai uscire, in concreto, dall'identità con sé. Gentile
chiama questo processo ‟storia eterna" (lasciando cadere il termine
‛ideale' dalla vichiana ‟storia ideale eterna") e, paradossalmente,
identifica in tutto e per tutto con questa storia eterna la storia che
corre nel tempo: non solo molto più radicalmente di quanto facesse il
Croce, ma anche con un sottinteso opposto: nel Croce l'identificazione
(ancora imperfetta) andava a beneficio dei singoli eventi storici,
investiti ciascuno di tutto il valore universale, mentre nel Gentile va
a beneficio dell'unico atto sempre identico, della cui storia gli
eventi singoli sono momenti. Il finito non è altro, insomma, che un
luogo di passaggio dell'infinito, che attraverso di esso ‟corre e si
fa", come il Dio di Scoto Eriugena. Con ciò l'idealismo gentiliano
rivela le sue vere radici ‛gnostiche' (laddove l'idealismo crociano
rivelava le sue vere radici naturalistiche): il finito, il pensato, la
‛carne' (come anche Gentile la chiama, con parola di San Paolo) è
l'eterna caduta di Dio che, in essa, prende coscienza di sé. Sicché la
‛carne' come tale è sempre il male, pur essendo un momento dialettico
necessario dello spirito, che è sempre il bene. Anche qui, di
conseguenza, il ‛modo' in cui la carne si configura è indifferente,
purché essa serva di termine dialettico al farsi dello spirito.
L'astratto è necessario al concreto solo perché ‟l'Io senza oggetto è
anch'esso un'astrazione" (v. Gentile, 1917-1921, vol. II, È 7, p. 24).
E di questa indifferenza per il modo in cui l'oggetto si configura vi
sono in Gentile innumerevoli esempi: per la Pedagogia (1912) il
contenuto insegnato è solo un pretesto perché il discente ‟ritrovi se
stesso nell'oggetto conosciuto"; per la Filosofia del diritto (1916)
‟il bene è l'atto della volontà", mentre la legge ormai fissata che lo
lega è il male, che c'è solo in quanto è ‟risoluto e annientato nel
bene"; e così via.
9. L'idealismo gnostico
Questi motivi gnostici dell'idealismo gentiliano si fanno prevalenti
nella filosofia di Ugo Spirito (n. 1896) che, per quanto variabile nei
suoi mezzi d'espressione, e pur cadendo ormai fuori dell'idealismo,
mantiene sempre una sostanziale fedeltà al gentilianesimo. Specialmente
nell'‛onnicentrismo' di La vita come amore(1953), si vede che il
problema centrale, per Spirito, è il problema della salvezza, e che la
salvezza sta nel ‛riconoscersi' salvi nel Tutto. A questo punto quella
dimensione gnoseologica dell'idealismo, che era ancora così
appariscente agli inizi del secolo, si rivela sempre più un bagaglio
ereditato attraverso Kant e la successiva filosofia tedesca, ma
estraneo agli interessi più profondi degli idealisti maggiori.
Anche in
P. Martinetti (1872-1943), se in un primo tempo sono appariscenti le
tracce della sua formazione tedesca (v. Martinetti, 1904) e l'influsso
della ‛filosofia dell'immanenza' di W. Schuppe (1836-1913), tosto
l'interesse religioso sale in primo piano nel volume La
libertà (1928) e nei saggi raccolti in Ragione e
fede (1942). L'Introduzione alla metafisica contiene, nella
sua parte centrale, una discussione di tutte le forme dell'idealismo,
inteso come uno sforzo per superare il ‛realismo ingenuo' di chi pensa
la realtà in sé e la realtà percepita come due serie parallele. Da
ultimo l'idealismo è prospettato come una dottrina per cui la
rappresentazione non è un semplice rispecchiamento soggettivo della
realtà, bensì la realtà stessa. Ma l'intento metafisico di questo
idealismo, solo apparentemente gnoseologico, è subito rivelato
dall'assunto che ‟la coscienza comprende, in un tutto indivisibile, Dio
e il mondo" (v. Martinetti, 1904, p. 134). La coscienza è dunque
un'indicazione verso l'unità del Tutto, e il nostro compito è
realizzare ‟questa unità che è la vera vita, universale ed eterna"
(ibid., p. 409), l'‟identità di natura tra Dio e il mondo" (ibid., p.
475). Quanto alla libertà, l'opera del 1928 ci dice che essa esiste
nella misura in cui l'identità col Tutto si realizza: codesta misura è
in noi sempre imperfetta, perché l'aspirazione a identificarsi con il
Tutto si trova sempre a lottare contro tendenze pragmatiche, contro una
‟razionalità schiava dell'impulso"; tuttavia, almeno nelle personalità
superiori, essa basta a rivelare la nostra affinità con la realtà
divina, ‟come partecipazione iniziale di natura" (ibid., p. 345). ‟Il
Regno degli spiriti - dice un testo del 1933 - è la vita perfetta dello
spirito nella sua eterna unità. In questa vita risiede la realtà
assoluta" (v. Martinetti, 1942, p. 407).
Questo idealismo si svela, dunque, come uno spiritualismo di tipo
gnostico-manicheo: il riconoscimento della nostra unità con Dio
attraverso il contrasto tra lo spirito e l'apparenza della ‛carne' e
cio che ci ‛manifesta' salvi: uno ‛spiritualismo' ancor più evidente
che nelle sue fonti tedesche (E. von Hartmann, A. Spir).
10. Idealismo cristiano e ontologismo critico
Più classica la trattazione del problema dell'uno e dei molti
nell'idealismo di B. Varisco (1850-1933), che pubblicò la sua opera
principale (I massimi problemi) nel 1910 e, contro l'idealismo
monistico, difese un idealismo pluralistico dei ‛centri di coscienza',
analogamente a quanto aveva fatto in Inghilterra, per esempio, un
McTaggart contro la linea di Bradley e di Bosanquet. Vi era, del resto,
una comune radice nel Lotze, e questa affinità di problemi fece sì che
la filosofia del Varisco avesse una certa risonanza in Inghilterra.
Dopo lunghe esitazioni, dovute a un'esigenza di rigore metodologico,
l'idealismo varischiano mise capo al teismo di un Dio-persona, che
trascende i soggetti singoli, mentre questi sono immanenti in lui,
poiché ‟non ci può essere nulla che non sia anche ipso factonella
coscienza del soggetto universale".
Più netta la rivendicazione della personalità del singolo in Augusto
Guzzo (n. 1894), secondo il programma tracciato da Idealismo e
cristianesimo (1936): universale è la ragione come forma, ma chi
‛fa uso' della ragione è sempre un io singolo e personale, non un
soggetto unico trascendentale (v. Guzzo, 1947). Anche qui l'indagine
gnoseologica è il punto di partenza, ma l'interesse ultimo è diverso:
un interesse, essenzialmente, morale.
Un posto a sé nell'idealismo del Novecento occupa infine
la Critica del concreto(1921) di P. Carabellese (1877-1948). Anche
per lui, come per Gentile, l'‛idea' è assolutamente non pluralizzabile:
ma, per poter arrivare a questo risultato occorre fare dell'idea non
già un ‛atto puro' soggettivo, bensì l'‛oggetto' puro: l'unità e
identità è nell'oggetto, in cui tutte le vedute soggettive coincidono,
non nei soggetti, che non possono non essere plurimi. L'idea di cui
parla il Carabellese è dunque l'idea teologica', o l'idea Dio' (dove
il fatto che non si debba dire l'idea di' Dio caratterizza quella
particolare posizione di pensiero che si chiama ‛ontologismo'). Quanto
al 'concreto', questo si trova solo nell'‛intrinsecità' dei soggetti
con l'oggetto, la quale non va pensata come un rapporto di altro con
altro, ma come un'unica ‛compattezza'. Così quell'immanenza che i
seguaci di Gentile (Fazio-Allmayer, Saitta, Spirito) cercavano, in
quegli anni, in una radicalizzazione della tesi attualistica del
maestro era trovata, paradossalmente, dal Carabellese in un suo
rovesciamento: l'uno è l'oggetto.
11. La mente come esempio di unità concreta
Da quanto si è detto risulta chiaro che l'idealismo novecentesco - come
ogni altro, del resto - è qualcosa di molto più complesso di ciò che G.
E. Moore si illuse di confutare, all'inizio del nostro secolo, nella
celebre Refutation of idealism(‟Mind", New Series, 1903, XII, pp.
433-453, poi in Philosophical studies, 1922). Esso non si riduce,
cioè, ad affermare che gli oggetti comunemente considerati come
‛esterni' non esistono indipendentemente dalla nostra coscienza.
Il Moore ha, naturalmente, buon gioco nell'osservare che i contenuti di
coscienza non sono ‛parti' della coscienza, e che questa non è mai
chiusa solipsisticamente in sé, perchè già il semplice ‛aver
sensazione' di qualcosa è un uscire dal cerchio della coscienza. Nessun
idealista non solipsista direbbe qualcosa di diverso. Ma se,
ciononostante, l'idealismo mette in questione l'indipendenza
dell'oggetto dal pensiero che lo pensa, ciò avviene per una ragione più
profonda e più generale. Il fatto è che per l'idealismo ‛in nessun
caso' (quindi, solo a titolo di conseguenza, neppure nel caso
particolare del rapporto conoscitivo) le cose relate sono indipendenti
dal rapporto che ‛in concreto' le lega. Le relazioni possono bensì
essere considerate astrattamente dalle cose relate, che, in tal caso,
divengono indifferenti ad esse: ma codesta astrazione - legittima e
necessaria, per esempio, nelle scienze - presuppone quel rapporto
concreto da cui la relazione viene astratta. Ora, in tale rapporto
concreto l'indifferenza dei termini alla relazione che li lega non
sussiste più. Preso nel suo significato più generale, il modo di vedere
idealistico è dunque un rifiuto di pensare che vi siano ‛anzitutto'
cose isolate, o termini, o elementi affatto indipendenti l'uno
dall'altro, e ‛poi' una loro relazione pensata dalla mente, o stabilita
da un accostamento nello spazio, o data comunque da un incontro tra una
cosa e l'altra.
Le relazioni ci sono perché la pluralità delle cose si
costituisce, anzitutto, all'interno di una fondamentale ‛unità', da cui
lo stabilirsi di relazioni dipende. Se, ora, la conoscenza si considera
come un ‛rapporto' (poniamo: tra il soggetto e l'oggetto; ma non è
detto che questo modo di considerarla sia soddisfacente), ne viene che
anche in questo caso le due entità relate non possono essere
considerate come indipendenti l'una dall'altra, se non per astrazione.
Questo caso particolare, tuttavia, non costituisce punto, da solo,
tutto il problema dell'idealismo; e se nella filosofia moderna questo
aspetto del problema passa sovente in primo piano, ciò avviene
soprattutto perché la mente conoscente rappresenta un esempio di unità
che non sopravviene alle cose relate, ma ne fonda la relazione. Infatti
la molteplicità dei pensieri, delle sensazioni, in genere degli atti
mentali, non sussiste indipendentemente dall'unità della mente
pensante.
Perciò l'idealismo, da Kant in poi, si fa forte
dell'impossibilità di concepire la mente come un insieme di contenuti
che ‛anzitutto' ci siano per conto loro e poi siano raccolti in unità:
è chiaro che nessuna unità raccogliticcia sarebbe capace di costituire
ciò che chiamiamo ‛mente' o ‛coscienza'. Prendiamo gli atomi di
Democrito: questi possono aggregarsi, agganciarsi, formare composti
dotati di proprietà diverse da quelle dei singoli componenti, ma
nessuna di queste proprietà è pensabile come mente, coscienza o simili.
Le proprietà della mente non sono, dunque, funzione delle proprietà dei
suoi contenuti elementari (ammesso che riusciamo a isolarveli). Ma,
sebbene il pensiero quale lo conosciamo abbia questo privilegio, di
rappresentare un caso evidente, e afferrabile dall'interno, in cui la
relazione tra i contenuti non si ‛aggiunge' ad essi, è chiaro che il
pensiero del soggetto singolo non soddisfa assolutamente ai requisiti
di un'unità concreta totale, antecedente alla pluralità delle cose in
relazione. Infatti, appunto perché ‛singolo', il soggetto è ancora una
delle entità in relazione con altre: con altri soggetti, o anche con
cose che non hanno carattere di soggetto. Esso stesso, quindi, esige di
essere ricompreso in un unità più grande, totale.
I
l nostro pensiero, per l'idealismo contemporaneo, è solo un esempio,
un mezzo per risalire a un'unità originaria che non s'identifica punto
con quell'esempio che ci aiuta a concepirla. Quell'unità può, a volte,
essere intesa come una sorta di ‛Soggetto unico', come un
Supersoggetto, superiore ai singoli e identificabile col Dio personale:
ma più spesso (come in Bradley) è pensata come un'unità non soggettiva,
fino a giungere al caso limite dell'Idea carabellesiana, che è oggetto
puro. Anzi, i soggetti singoli sono in certo modo d'impaccio per
l'idealismo, data la loro tendenziale irriducibilità, che impedisce di
ricomprenderli in un'unità assoluta: e appunto lo sforzo di superare
questa difficoltà dà luogo, come abbiamo visto, a peculiari forme di
idealismo monadistico (McTaggart, Varisco), o personalistico (Guzzo, Le
Senne).
Queste varie forme d'idealismo, particolarmente sollecite di salvare le
personalità singole, si trovano in polemica con quella che è la
tendenza dell'idealismo in generale a subordinare (fino, al limite, a
obliterarle) le singolarità plurime all'unità ideale. Se, infatti, si
traessero le ultime conseguenze dalla supposizione che i singoli
sussistano nel Tutto in modo analogo a quello in cui i pensieri
esistono nella mente, è chiaro che l'indipendenza dei singoli verrebbe
cancellata.
12. L'antitesi tra idealismo e meccanicismo
Il problema più generale dell'idealismo è dunque quello, ancora
platonico, dell'‛uno' e dei ‛molti'. L'unità del Tutto è postulata per
dare un fondamento alle relazioni tra gli enti, e l'assunto veramente
essenziale dell'idealismo può formularsi così: impossibilità di
concepire, salvo che per astrazione, una relazione del tutto ‛esterna'
tra due cose qualsiasi. Vediamo di qui come la discussione sulla natura
non relazionale dell'Assoluto, impiantata dal Bradley
in Appearance and reality, sia stata determinante. I suoi effetti
si ritrovano nella polemica, sviluppatasi su ‟Mind" nei primi due
decenni del secolo, tra il seguace del Bradley, H. H. Joachim, e
pensatori di indirizzo diverso (Hoernlé, Stout, Rogers, Wadia, ma
soprattutto Russell e Moore). Il punto su cui l'incomprensione tra le
due parti è più totale, ma anche più significativa, è precisamente la
possibilità o impossibilità di una relazione esterna. A un cultore di
logica come il Russell riesce del tutto inconcepibile trovare una
qualche difficoltà nell'ipotesi che ‟lo stesso uomo possa essere nel
medesimo tempo figlio di uno e fratello di un altro" (v. Russell, 1906,
p. 531), ossia che un ente, restando ‛identico' a sé, entri in diverse
relazioni. Infatti, se si guarda alla possibilità di pensare ciò
astrattamente, la difficoltà non esiste, più di quanto esista
nell'ipotesi che a>b e a〈c, essendo asempre
identico ad a. Il ‛nuovo realismo' di Russell e Moore è
un'applicazione di ciò, perché consiste nel dire: dunque, un medesimo
color verde, restando identico, può sussistere, sia per conto suo, sia
in relazione con altre qualità, sia in relazione con i vari
percipienti. Se, però, la relazione è considerata come un legame
‛reale', e non astrattamente pensato, la difficoltà di pensarla come
totalmente esterna ai termini tra cui intercorre - cioè, tale che nei
termini non vi sia nulla di diverso per il fatto di essere o no in
relazione - è una difficoltà tutt'altro che fittizia. L'unica
concezione della realtà che rimanga coerente con quella veduta è,
probabilmente, l'atomismo di Democrito: qui, infatti, il movimento
degli atomi, a cui si riduce ogni possibile mutamento di relazione, non
porta nessuna differenza in ciò che ciascun atomo è in sé.
Si vede di qui che la vera opposizione di fondo, in tutta la filosofia,
non è tra idealismo e realismo, bensì tra idealismo ed empirismo
meccanicistico. Tale opposizione verte sul modo di concepire l'‛unità'
tra il molteplice, e può formularsi così: per il meccanicismo le
proprietà di una realtà complessa, presa globalmente, sono ‛funzione'
delle proprietà degli elementi semplici che la compongono (ossia: ne
dipendono interamente, anche se non sempre sappiamo come). Per
l'idealismo, al contrario, l'esistenza stessa degli elementi, che
entrano in una realtà complessa, è funzione del modo globale in cui la
realtà si costituisce e si configura: quindi il Tutto è logicamente e
ontologicamente anteriore agli elementi che vi si possono isolare.
Nell'atomismo antico l'opposizione al postulato fondamentale
dell'idealismo si coglie con evidenza, perché ogni relazione consiste
in un semplice ‛accostamento' di unità indivisibili, affatto
indifferenti ai rapporti in cui si trovano. Poiché queste unità
indivisibili (atomi) hanno certe proprietà geometriche, quali l'essere
tondeggianti o il possedere uncini, da tali proprietà dipendono
interamente le proprietà dei composti: ad esempio la fluidità (propria
di insiemi di particelle senza uncini) o la coesione (propria di
insiemi di particelle con uncini). Ma la sola vera unità reale è quella
dei singoli elementi (atomi), non dei loro insiemi, la cui unità è
‛apparente'. Questa dottrina, rimasta sostanzialmente immutata in tutto
il meccanicismo posteriore, era una risposta alla sfida di Protagora
circa l'impossibilità di distinguere tra ciò che ‛appare' e ciò che
‛è'. Per Democrito l'apparenza è funzione di certe realtà da essa
distinte (atomi nel vuoto), al cui essere in sé è del tutto
indifferente il collegarsi, e quindi l'apparire, o non apparire.
L'idealismo nacque, con Platone, come una diversa risposta alla
medesima sfida. Anche qui la realtà dell'idea si distingue
dall'immediata apparenza sensibile, ma non perché sia un insieme di
materiali dati, semplicemente accostati, bensì come un mondo unitario
di forme, secondo cui il sensibile si configura. Nella misura, sempre
imperfetta, in cui risponde a quelle forme o ‛idee', il sensibile
‛esiste', è ‛conoscibile' ed è ‛buono' (unum, verum, bonum).
Si noti che la parola ἰδέα nel senso di ‛forma', era usata tanto da
Democrito (ἄτομος ἰδέα) quanto da Platone; senonché nel primo designava
la figura geometrica dei singoli elementi ‛materiali', nel secondo la
‛conformazione' globale di una situazione, che la rende più o meno
conforme all'idea del Bene. In altri termini, per l'idealismo l'idea è
una forma del Tutto, in funzione della quale sussistono le parti; per
il meccanicismo, al contrario, la forma appartiene alle parti, come
proprietà di elementi materiali dati, che antecedono alla composizione
e la determinano.
I termini dell'antitesi non mutano nel corso dei secoli, sebbene
raramente si mantengano puri come all'origine. Il punto è sempre
quello: se la realtà sia concepibile come una composizione di elementi
ai quali è indifferente entrare o no in composizione, o se, invece, gli
elementi sussistano solo in funzione di un loro modo globale di
configurarsi. Secondaria, per contro, la questione se tali elementi
siano materiali in senso fisico o no; e, del resto, il concetto di
materia fisica non è oggi lo stesso che ai tempi di Democrito, mentre
identico è il concetto di ‛elemento dato' che entra in una
composizione. Tale elemento è ‛materiale' nel senso che è il materiale
del composto. Non per nulla, nel luogo citato, il Russell lamentava che
nel libro del Joachim ‟ogni pagina presuma che tutti i costituenti di
un complesso debbano essere complessi": questo assunto è effettivamente
essenziale all'idealismo, perché esclude che si possa ottenere il
complesso a partire da elementi semplici.
13. L'idealismo nella nuova scienza
Dopo la nascita della nuova scienza, idealismo ed empirismo
meccanicistico ricompaiono e s'intrecciano, condizionando tutta la
visione del mondo. Il meccanicismo ha dalla sua il vantaggio di non
presupporre ‛cause finali' e, fin dove le sue spiegazioni giocano, va
preferito. Se, però, si guarda allo sviluppo della scienza, ci si
accorge che essa non si fonda mai su un meccanicismo esclusivo. Non
sempre la scienza muove da dati per ricostruire, in funzione di essi,
le proprietà dei complessi: spesso una vena idealistica più o meno
espressa la porta a condizionare l'esistenza stessa dei dati a
strutture globali e, in questo senso, ideali (esempio tipico: il
concetto di ‛campo'). Ciò non sarebbe accaduto se l'esperienza ci
permettesse una qualche volta d'incontrare gli atomi di Democrito,
poiché, allora, ogni forma complessa diverrebbe funzione di quella del
‛dato' materiale, della ἄτομος ἰδέα.
Ma ciò non avvenne; anzi, il ‛semplice' rimase esso stesso un'‛idea',
mentre l'esperienza ci metteva sempre di fronte a strutture complesse,
aventi una ‛loro' forma. E la scienza torna ad essere idealistica nella
misura in cui è scienza di tali strutture (espresse, in genere, da
funzioni matematiche), dalle quali dipende la stessa esistenza ed
esperibilità della materia. L'impostazione pitagorico-platonica, e
quindi idealistica, presente nella scienza fin da Galileo, non esclude
la tendenza meccanicistica, ma si equilibra e si compone con essa.
Idealistica è la stessa scienza cartesiana, nonostante il suo
meccanicismo e la prescrizione di spiegare tutto con soli ‛numero,
figura e movimento' (abbandonando le ‛forme sostanziali' di tipo
aristotelico). Infatti il ‛numero' degli elementi che entrano nella
spiegazione meccanica cartesiana non è mai un ‛dato' primitivo e
assoluto, poiché è funzione delle figure ritagliate nel tutto
indivisibile dell'estensione: cioè, in sostanza, di proprietà ideali.
Per Cartesio, infatti, la sostanza estesa è una sola, e i corpi vi si
distinguono soltanto in funzione del movimento tra le figure.
Nel dinamismo settecentesco (per es., in R. Boscovich) l'aspetto
idealistico della scienza cerca di affermarsi da solo, su un piano
fisico oltre che metafisico, sebbene senza successo. La realtà ed
esperibilità della materia dovrebbero dipendere interamente dai
rapporti tra le forze (mentre nel meccanicismo le forze stesse
presuppongono gli elementi materiali che muovono e che si urtano): ma
questo assunto non riesce a dar conto dei fenomeni. E anche in seguito,
fino ai giorni nostri, nessuna teoria scientifica soddisfacente ha
potuto fondarsi su una concezione esclusivamente idealistica o
esclusivamente meccanicistica del reale: tutte sono costrette a valersi
di ‛entrambe' queste prospettive.
14. Fondamento antropomorfico dell'idealismo e del meccanicismo
Questo fatto trova una spiegazione che può illuminarci sull'origine
essenziale (e non solo storica) dell'opposizione tra idealismo e
meccanicismo. Entrambi hanno la loro radice nella nostra costituzione
originaria, da cui dipende il modo in cui possiamo agire nella realtà
d'esperienza. Noi operiamo, per un verso, meccanicamente, muovendo
elementi materiali per mezzo di altri elementi materiali (in ultima
analisi, per mezzo del nostro corpo). Per un altro verso, però,
operiamo idealmente, ‛progettando' l'intenzione globale della nostra
azione: e codesto progetto è, appunto, uno dei significati che
popolarmente assume la parola ‛idea'. Ora il meccanicismo identifica la
realtà col primo aspetto del nostro modo di operare (e, quindi, anche
di scoprire come la realtà sia fatta), l'idealismo col secondo. Per
l'idealismo, la disposizione e il movimento degli elementi materiali
sussistono solo in funzione di un configurarsi ‛unitario' della realtà;
e questo può intendersi per analogia con un progetto umano. Si ricordi,
a questo proposito, la parabola con cui Platone critica il meccanicismo
fisico di Anassagora nel Fedone (97 b - 98 c): la ragione per
cui Socrate si trova in carcere non sono i movimenti dei suoi tendini e
delle sue ossa, bensì il non aver ‛voluto' fuggire. Il principio
unitario della realtà totale è pensato appunto dall'idealismo per
analogia con un progetto intenzionale, che coordina gli elementi
materiali di cui si serve; e tale analogia è adombrata da Platone in
forma di mito, nella figura del Demiurgo (o ‛artigiano'). L'idealismo
di tipo neoplatonico (plotiniano), anche per influsso di Aristotele, si
libera bensì dell'antropomorfismo del progetto, ma non di quello della
‛finalità', sia pure concepita come finalità ‛interna'. In ogni caso il
tutto è logicamente anteriore alle parti, e non dipende dalle parti
medesime, quasi fossero elementi primitivi ‛dati'.
Sia il meccanicismo, sia l'idealismo sono, dunque, concezioni
antropomorfiche della realtà, tratte dal modo di operare dell'uomo; ma,
come nel modello umano nessuno dei due aspetti può stare senza l'altro,
così nella concezione della realtà nessuna delle due concezioni può
affermarsi come esclusiva: separata da ogni intenzione unitaria,
l'azione meccanica sarebbe un'astrazione; ma senza qualche dato
materiale su cui agire il progetto resterebbe un'‛idea', nel senso
frustrante che a volte assume questa parola. Ecco perché una dialettica
ineluttabile lega, logicamente e storicamente, l'idealismo al suo
opposto.
15. L'idealismo in fisica e in matematica
Dopo quanto si è detto, è chiaro che un esame dell'efficacia che
l'idealismo ha avuto nel nostro secolo non può restringersi alle
filosofie idealistiche ex professo. L'idealismo s'incontra ovunque
si ammetta che forma dat esse rei (per usare l'antico detto),
cioè gli elementi materiali sono concepiti in funzione della forma
globale e non viceversa. E questo avviene in tutte le scienze, a
partire dalle scienze fisiche e dalle matematiche, ma sempre in
tensione con la tendenza opposta.
In fisica l'esempio più cospicuo e più noto d'interpretazione
idealistica della realtà è la teoria einsteiniana della relatività
generale, dove la presenza delle masse materiali diviene una funzione
di certe variabili di natura geometrica. Ma, sia questa, sia, ancor
più, la successiva teoria del ‛campo unificato' non fanno altro che
portare al limite una tendenza caratteristica di tutta la fisica
contemporanea: interpretare il ‛concetto di sostanza' per mezzo del
‛concetto di funzione' (per usare i termini di E. Cassirer, v., 1910).
Se questa tendenza potesse giungere fino in fondo, si dovrebbe
concludere che ‛la realtà è una formula', o ‛la realtà è una funzione'.
Ma tale tendenza se ne trova costantemente di fronte un'altra:
reinterpretare a loro volta i dati che entrano nella formula come dati
fisici, almeno provvisoriamente primitivi. Ed ecco allora (per fare un
esempio), in sede d'interpretazione delle equazioni di Maxwell,
l'affermazione che ‟deve pur esserci un soggetto del verbo
‛oscillare'"; ecco la ricerca di ‛particelle', almeno per il momento,
‛elementari', dalle cui proprietà dovrebbero dipendere le leggi fisiche
espresse nella formula, ecc. Ora, codesta irriducibilità delle due
posizioni si spiega se si pensa al modo in cui la verità fisica si può
far ‛risultare'. Per un verso, non c'è dato che si presenti
nell'esperienza come ‛puro' dato, e che quindi risulti, da sé, come
primitivo, indipendentemente da un nostro progetto sperimentale
complesso che lo ‛fa' risultare. Perciò noi ‛facciamo'
(idealisticamente) l'esperienza. Ma, per un altro verso, non c'è nessun
nostro progetto operativo - e sperimentale in particolare - che possa
fare a meno di appoggiarsi a ‛dati' da considerarsi come
provvisoriamente immutabili nel corso dell'operazione. Quindi la
concezione idealistica della realtà fisica non potrà mai mancare, ma
neppure potrà mai restare sola.
L'interessante è che le due tendenze si fronteggiano perfino nella
matematica pura. Se noi guardiamo alla ricerca novecentesca sui
fondamenti, vi troviamo da un lato un'impostazione ‛insiemistica' che
presuppone gli individui da raccogliere in insiemi, poi in insiemi di
insiemi, ecc.; dall'altro un'impostazione ‛assiomatica' in cui si
stabiliscono, anzitutto, certe regole per la manipolazione dei segni e,
in base ad esse, si costituiscono le entità matematiche. La prima
impostazione può dirsi materialistica, la seconda formalistica e
idealistica. Spesso si parla anche in matematica di ‛platonismo', come
di una concezione che riferisce le matematiche a un mondo di enti
ideali dati (alla mente) e da riconoscere così come sono. In realtà,
questo dovrebbe dirsi piuttosto un ‛empirismo ideale', ed è più una
caricatura di certe espressioni metaforiche di Platone che
un'interpretazione corretta del suo idealismo, in cui l'idea appartiene
al ‛mondo invisibile', perché è la norma secondo cui l'oggetto si
configura, non essa stessa l'oggetto di un'esperienza, sia pure mentale.
Fedele, per contro, a un diverso tipo d'idealismo, questa volta
kantiano, è la concezione della matematica detta intuizionistica, dove
l'ente matematico si genera a partire dall'atto mentale che isola
nell'esperienza un'unità, aggiungibile via via ad altre unità, in cui
si fa astrazione dalle differenze individuali. L'aspetto idealistico
ditale dottrina sta nel fatto che l'‛esistenza' degli enti matematici
viene a dipendere dalla possibilità di ‛costruirli', attraverso una
serie finita di passaggi, dove l'intuizione ha un carattere operativo,
e non di registrazione passiva.
16. L'idealismo in psicologia, in sociologia, nell'informatica
Passando al campo della psicologia, troviamo nel nostro secolo una
scuola che può dirsi tipicamente idealistica nel senso sopra
dichiarato: la ‛psicologia della forma' (M. Wertheimer, W. Köhler,
ecc.) che, in polemica con l'associazionismo e l'atomismo psichico,
mostra come le proprietà percettive di molte figure complesse non siano
funzione di quelle degli elementi che le compongono. E, in genere,
tutte le ‛psicologie della totalità' rivelano una tendenza
antimeccanicistica, rivendicando il carattere globale delle
manifestazioni della vita psichica. Taluni (K. Lewin) hanno cercato di
applicare principi analoghi anche alla psicologia sociale. Su un piano
più metafisico, del resto, l'interpretazione dialettica dei fatti
sociali e storici, presente nel cosiddetto ‛idealismo menscevizzante'
di A. M. Deborin (1881-1963: caduto in disgrazia sotto lo stalinismo
nel 1931), vuol essere appunto una scienza delle leggi e delle forme
generali del mondo - in cui rientrano anche le forme dei fenomeni
sociali - in polemica contro un'interpretazione meccanicistica del
mondo storico.
Anche in una scienza sviluppatasi negli ultimi decenni, quale
l'informatica, è presente una vena idealistica, a cui generalmente non
si fa caso. Infatti, perché un messaggio (per es., una successione dei
segni 0 e 1 presi in un certo ordine) costituisca un'‛informazione'
occorre che esso sia colto globalmente e che il suo senso (quand'anche
si trattasse, al limite, di un segno solo, non seguito da altri) sia,
per dir così, ‛totalizzato': e ciò non può essere l'effetto di
un'azione puramente meccanica di ciascun componente elementare, sommata
a quella degli altri. Un insieme di elementi (e ‛elementi' significava,
in origine, precisamente ‛lettere dell'alfabeto') costituisce
un'informazione a patto di non essere accostato ‛solo' meccanicamente.
Tutto lo scibile o, subordinatamente, un lungo poema e simili, possono
esser trasmessi da una successione di 0 e di 1, ma sempre a patto che
ciascun segno sia preso insieme con gli altri, e questo ‛insieme' è un
rapporto tipicamente ‛ideale', che l'accostamento grafico o cronologico
dei segni può simboleggiare, ma non costituire.
Anche l'interpretazione, così fortunata, di molti fenomeni biologici
per mezzo della teoria dell'informazione introduce in biologia una vena
idealistica che sfugge all'attenzione di molti scienziati. Per un verso
si meccanizza lo ‛strumento' con cui l'informazione si trasmette, per
esempio da cellula a cellula, ma per un altro verso se ne idealizza il
risultato, presupponendo una capacità totalizzante, e pertanto non
meccanica, nella cellula o nel vivente in generale. Interpretare un
fenomeno come risultato di un'informazione è esattamente l'opposto che
interpretarlo meccanicamente; e, infatti, in un mondo costituito
esclusivamente da atomi di Democrito non vi sarebbe nessuna possibilità
d'informazione nella ‛realtà' (cioè nei singoli atomi, immodificabili),
ma solo nell'‛apparenza' (cioè in una inspiegabile apprensione globale
di un insieme di atomi). Se, per esempio, attribuiamo all'informazione
l'effetto che un telegramma ha sul comportamento di chi lo riceve, ciò
avviene perché non siamo in grado di spiegare tale effetto
meccanicamente, ma solo idealmente, cioè con il senso globale del testo
del telegramma. Ciò non esclude, naturalmente, che sia necessario un
mezzo meccanico di trasmissione del testo, anzi, lo esige.
L'interessante è che si possano costruire anche macchine capaci di
totalizzare il senso globale di un'informazione: il cui comportamento,
cioè, non sia determinato meccanicamente dall'azione di un singolo
elemento di un messaggio sommantesi a quella degli altri, bensì
dall'insieme del messaggio medesimo. Ciò avviene perché la macchina,
pur essendo interconnessa (per definizione) meccanicamente, incorpora
in sé un ‛progetto unitario' e, come tale, ideale. A fondamento
dell'unità del progetto di una macchina, e quindi della macchina
stessa, si trova l'intenzione o l'‛idea' del suo funzionamento, in
rapporto alla quale soltanto la macchina è una macchina (e non un
accozzo di atomi).
Nell'informazione coesistono, dunque, i due aspetti che abbiamo più su
rilevato in ogni operazione umana: l'aspetto ideale del senso o
dell'intenzione unitaria, e l'aspetto meccanico degli elementi che si
collegano variamente. Fin dalle origini, l'alfabetizzazione del
linguaggio fu un mezzo per porre il secondo aspetto al servizio del
primo: attraverso una successione di segni o di suoni, accostati in un
determinato ordine, è possibile trasmettere qualsiasi contenuto ideale,
ogni senso, ogni sentimento, ogni nozione, ecc., purché vi sia la
capacità di prendere quegli elementi insieme, globalmente e
ordinatamente.
17. Conclusione
L'idealismo non si riduce alle dottrine filosofiche ufficialmente
qualificate come idealistiche: più generalmente, esso è la tendenza a
considerare come preminente, in tutti i campi, il ‛modo' complessivo e
unitario in cui la realtà si presenta, in contrasto con la tendenza
empiristica a considerare come primario e assoluto il ‛dato', e a far
dipendere dal suo comporsi meccanico con altri dati l'insieme reale.
L'analogia con l'intenzione umana dà all'unità idealistica del reale il
senso di un fine intrinseco, di un ‛valore' che subordina a sé e
organizza tutti gli elementi molteplici di cui si serve per la propria
realizzazione: senso che si trova anche nell'accezione comune della
parola ‛ideale'. In ultima analisi, l'idealismo fa dipendere la realtà
dal ‛valore', mentre l'empirismo la fa dipendere dal ‛fatto' o dal
‛dato'. A cagione della costituzione ontologica dell'uomo, entrambe le
posizioni hanno una loro ragione da far valere: ma, nelle sue forme
filosoficamente più consapevoli, l'idealismo tende a presentarsi come
l'interpretazione ultima della realtà, assegnando alla realtà intera
una radice unitaria che è essenzialmente valore. La formula più
appropriata per esprimere questa posizione è, dunque, quella proposta
dal Lachelier al termine della sua tesi Du fondement de
l'induction: ‟Le cose sono, perché lo vogliono e perché lo meritano a
un tempo" (v. Lachelier, 1933, vol. I, p. 81).