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Fisico e filosofo della natura (Pisa 1564 - Arcetri 1642).
Figlio maggiore di Vincenzo, musicista e teorico della musica e
di Giulia Ammannati, trascorse la sua infanzia tra Pisa e Firenze
(dal 1574). Il 5 settembre 1580 (1581 secondo il calendario
pisano) fu immatricolato fra gli "scolari artisti" all'ateneo
pisano. Abbandonata nel 1585 l'università, senza conseguire alcun
titolo, G. sotto la guida di Ostilio Ricci, membro dell'Accademia
fiorentina del Disegno, intraprese la lettura di Euclide e
Archimede. Ben presto progredì a tal punto negli studî da essere
in grado a sua volta di tenere lezioni private ad alcuni allievi a
Firenze e a Siena.
Risalgono a questo periodo i suoi primi scritti: i frammenti Theoremata
circa centrum gravitatis solidorum, sulla determinazione dei
baricentri; il breve trattato La Bilancetta (1586),
progetto di una bilancia idrostatica per la determinazione della
densità dei corpi che testimonia i suoi primi interessi nelle
scienze applicate; e le due lezioni di esegesi dantesca Circa
la figura, sito e grandezza dell'Inferno (1588), tenute
all'Accademia del Disegno.
Del 1587 è l'incontro, a Roma, con Cristoforo Clavio e con
l'ambiente del Collegio Romano, la cui influenza su G. è
documentata dai suoi taccuini, pubblicati in parte nel 19° secolo
con il titolo di Iuvenilia e, relativamente ad alcuni
testi di logica (Tractatio de praecognitionibus et praecognitis,
Tractatio de demonstratione), solo nel 1988. Lo stesso
anno, l'astronomo Giovanni Antonio Magini gli fu preferito sulla
cattedra di matematica dell'università di Bologna. Due anni dopo,
nel 1589, gli venne assegnata la cattedra di matematica a Pisa.
L'immagine corrente di un G. pratico e deciso sperimentatore si
deve in gran parte al suo primo biografo, V. Viviani. Quest'ultimo
affermò che G. era salito sulla torre pendente di Pisa tra il 1589
e il 1592, e "con l'intervento delli altri lettori e filosofi e di
tutta la scolaresca", aveva confutato Aristotele dimostrando che i
corpi cadono alla stessa velocità indipendentemente dal loro peso.
Nel trattato De Motu, scritto intorno al 1591, G. pur
facendo frequente riferimento alle torri, non afferma tuttavia che
tutti i corpi cadono alla stessa velocità ma, piuttosto, che la
loro velocità è proporzionale alla differenza tra le loro densità
e la densità del mezzo attraverso il quale cadono. In altre
parole, era giunto allora alla erronea conclusione secondo la
quale corpi di dimensione diversa ma dello stesso materiale cadono
alla stessa velocità, mentre corpi della stessa dimensione ma di
diverso materiale non cadono alla stessa velocità.
Il periodo padovano (1592-1611)
Nel 1592 a G. fu assegnata la cattedra di matematica a Padova. Le
sue lezioni riguardavano argomenti quali gli Elementi di Euclide,
il Trattato della Sfera di Sacrobosco, l'Almagesto di Tolomeo e le
Questioni meccaniche pseudoaristoteliche. G. fu costretto a dare,
per ristrettezze economiche, lezioni private di ingegneria e
architettura militare a giovani nobiluomini per i quali scrisse
una Breve istruzione all'architettura militare e un Trattato
di fortificazione. Con le stesse motivazioni scrisse anche
il trattato Le mecaniche (1593, 1594, 1699), dedicato
all'esposizione delle macchine semplici.
Accanto a questa attività didattica G. tenne una piccola officina
tecnica, mandata avanti dal meccanico Marcantonio Mazzoleni, dove
venivano prodotti e venduti compassi geometrici e militari,
bussole, squadre e altri strumenti meccanici, più tardi
cannocchiali. Tra queste invenzioni tecniche, il compasso
geometrico-militare destinato a calcoli balistici e geodetici,
risale al 1597. Le vendite del compasso ebbero successo e nel 1606
G. scrisse un manuale in italiano: Le operazioni del compasso
geometrico e militare. Poco tempo dopo B. Capra pubblicò in
latino un trattato sul compasso e accusò G. di plagio. G. promosse
allora un'azione legale contro Capra e pubblicò un'aspra replica
nella quale fornì la sua versione dei fatti.
La prima testimonianza della sua adesione alle tesi di Copernico
si trova in una lettera del maggio 1597 diretta a J. Mazzoni, suo
collega dei tempi di Pisa. Nell'agosto dello stesso anno G.
ricevette una copia dell'opera di Keplero Mysterium
cosmographicum, nella quale la teoria eliocentrica era
difesa con motivazioni matematiche e simboliche. Dopo averne letto
la prefazione G. scrisse a Keplero per dichiarare la propria
adesione all'idea che la Terra si muove ma anche per esprimere il
suo timore di rendere pubbliche le sue posizioni.
Intorno al 1602, G. iniziò a progettare esperimenti con i corpi
in caduta libera in concomitanza con i suoi studî sul moto del
pendolo e il problema della brachistocrona, vale a dire della
curva compresa tra due punti lungo la quale un grave lasciato
cadere con velocità iniziale nulla si muove nel tempo minimo.
Dapprima enunciò la legge di caduta libera dei corpi (lo spazio
percorso è proporzionale al quadrato del tempo impiegato a
percorrerlo) in una lettera a P. Sarpi nel 1604, asserendo però di
averla derivata dall'assunto che la velocità è proporzionale allo
spazio percorso (mentre giunse solo in seguito a stabilire che la
velocità è proporzionale alla radice quadrata dello spazio
percorso).
Nell'autunno del 1604, la comparsa di una stella nova (cioè di
una supernova) riaccese il dibattito sull'incorruttibilità dei
cieli. In una conferenza pubblica G. sostenne che la "nuova
stella" era la prova che la materia celeste non è immutabile.
Il cannocchiale e la prima condanna delle tesi copernicane
(1609-1610)
Intorno al luglio del 1609 G. ebbe notizia dell'invenzione di un
dispositivo per far apparire più vicini oggetti distanti e subito
dopo realizzò un cannocchiale capace di ingrandire gli oggetti
fino a nove volte, dandone poi una dimostrazione dal campanile di
San Marco. Lo strumento colpì favorevolmente le autorità, che
confermarono a G. un vitalizio e aumentarono il suo stipendio da
520 a 1000 fiorini, una somma senza precedenti per un professore
di matematica. G. non riuscì mai a padroneggiare completamente la
teoria ottica in base alla quale il cannocchiale, costituito
dall'accoppiamento di una lente concava e una convessa,
funzionava. Con uno strumento che ingrandiva quindici volte G., a
partire dal 1610, iniziò a studiare il cielo.
Le sue osservazioni dovevano rivoluzionare l'astronomia: la Luna
apparve come coperta di montagne (G. riuscì persino a stimarne
l'altezza), la Via Lattea si dissolveva in un ammasso di piccole
stelle, nuove stelle comparvero come emerse dal nulla, e, cosa
ancora più straordinaria, furono scoperti quattro satelliti che
orbitavano intorno a Giove. Se Giove con i suoi satelliti ruotava
intorno ad un corpo centrale non si poteva più obiettare che
l'idea della Terra orbitante intorno al Sole con la sua Luna fosse
assurda. G. redasse rapidamente il Sidereus Nuncius che
dedicò a Cosimo II di Toscana. I satelliti di Giove furono detti,
in suo onore, "medicei".
Nel luglio del 1610 G. venne nominato Matematico e Filosofo del
Granduca di Toscana. Nello stesso periodo osservò che Saturno
aveva una forma allungata e ritenne che il fenomeno fosse dovuto a
due satelliti, collaterali rispetto al pianeta. Sfortunatamente, i
satelliti diminuirono di grandezza e alla fine del 1612
scomparvero del tutto. Evidentemente il cannocchiale di G. non era
in grado di risolvere gli anelli di Saturno che sono comunque
difficili da osservare quando si trovano nel piano equatoriale del
pianeta. Nel 1611 G. scoprì che Venere ha fasi come quelle lunari
"sì che necessariamente si volge intorno al Sole, come anco
Mercurio e tutti li altri pianeti".
Quando G. si recò a Roma nella primavera del 1611, il giovane
principe F. Cesi lo accolse tra i membri dell'Accademia dei Lincei
e il cardinale Bellarmino discusse con lui di astronomia.
Nell'estate del 1611, G. sostenne una disputa con i filosofi
peripatetici sulle cause dei corpi galleggianti. Egli riteneva,
d'accordo con Archimede, che la causa del galleggiamento fosse
dovuta alla densità relativa tra i corpi e il liquido in cui erano
immersi, mentre i suoi oppositori aristotelici sostenevano, al
contrario, che questa era data dalla forma dei corpi.
Nel maggio del 1612, G. pubblicò il Discorso intorno alle
cose che stanno in su l'acqua o che in essa si muovono. Il
saggio fu venduto così rapidamente che ne fu preparata una seconda
edizione prima della fine dell'anno. Nell'autunno del 1611 C.
Scheiner, un gesuita che insegnava all'università di Ingolstadt,
scrisse a Mark Welser ad Augusta informandolo di aver scoperto
delle macchie sulla superficie del Sole. G. contestò
l'interpretazione di Scheiner che queste macchie fossero dei
piccoli satelliti orbitanti intorno al Sole. Nel 1612 il principe
Cesi pubblicò l'interpretazione di G. (Istoria e dimostrazione
intorno alle macchie solari e loro accidenti), che affermava
di aver osservato le macchie solari prima di Scheiner. Ciò generò
una contesa tra G. e i gesuiti per la priorità della scoperta.
Nel dicembre del 1613, a Pisa, durante un pranzo alla corte del
granduca, assente G., furono sollevate obiezioni di natura
teologica contro il sistema copernicano. Castelli difese il punto
di vista di G. quando Cristina di Lorena, madre di Cosimo II, gli
chiese la sua opinione. G. scrisse allora una lunga lettera a
Castelli, datata 21 dicembre 1613, nella quale difendeva il
sistema eliocentrico. La quarta domenica di Avvento del 1614 un
frate domenicano, T. Caccini, inveì contro il sistema copernicano
dal pulpito di Santa Maria Novella. Un altro domenicano, N.
Lorini, denunciò G. inviando all'Inquisizione a Roma una copia
della lettera a Castelli. A questo punto G. ampliò la lettera
(nota come Lettera a Cristina di Lorena, dic. 1615), che
contiene il suo pronunciamento più approfondito sui rapporti tra
scienza e Sacra Scrittura. Facendo suo il bon mot del cardinale C.
Baronio, "l'intenzione dello Spirito Santo essere d'insegnarci
come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo", G. sviluppò
l'idea che Dio parla sia attraverso il "libro della Natura" sia
attraverso il "libro della Scrittura".
Nei primi mesi del 1615, P. A. Foscarini pubblicò una Lettera
sopra l'opinione de' Pittagorici e del Copernico della mobilità
della terra e stabilità del sole e ne inviò copia al
cardinale Bellarmino. Il cardinale rispose che in mancanza di
prove certe sul moto della Terra, Foscarini e G. avrebbero dovuto
contentarsi di parlare in forma ipotetica. Il cardinale aggiunse
che nel caso in cui una prova del moto terrestre si rendesse
disponibile allora bisognava reinterpretare la Sacra Scrittura con
estrema cautela. G., che ricevette una copia di tale lettera, era
convinto di avere questa prova consistente in una sua ipotesi
sull'origine delle maree, che in seguito divenne argomento della
quarta giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi.
G. presentò la sua ipotesi a Roma all'inizio del 1616. Il
risultato fu un esame minuzioso della teoria eliocentrica da parte
del Santo Uffizio e la condanna delle due seguenti proposizioni:
1. "Sol est centrum mundi, et omnino immobilis motu locali", e 2.
"Terra non est centrum mundi nec immobilis, sed secundum se totam
se movetur, etiam motu diurno". La prima proposizione venne
censurata in quanto "stultam et absurdam in philosophia, et
formaliter haereticam", e la seconda come "ad minus esse in Fide
erroneam".
Nello stesso anno la Congregazione dell'Indice a sua volta proibì
il libro di Copernico "donec corrigatur" e condannò la Lettera di
Foscarini. Il cardinale Bellarmino consegnò a G. un documento in
cui si affermava che non gli era mai stata richiesta alcuna abiura
o ritrattazione, ma che era stato semplicemente informato della
decisione della Congregazione dell'Indice. Un memorandum non
firmato, trovato negli atti, andava oltre affermando che a G. si
doveva intimare non solo di rinunciare all'idea che la Terra si
muove ma anche di non farne oggetto di discussione ("seu de ea
tractare"). L'autenticità di questo documento è stata messa in
dubbio, ma fatto sta che esso emerse in occasione del processo del
1633 e fu usato contro Galileo.
Il "Discorso sulle Comete", il "Saggiatore", il "Dialogo" e il
processo (1618-1633)
G., tornato a Firenze, si dedicò al problema della determinazione
della longitudine in mare. Lo scienziato pisano sperava che
tabelle accurate dei periodi di rivoluzione dei satelliti di Giove
avrebbero consentito ai marinai di stabilire la loro posizione
semplicemente osservando i satelliti con il cannocchiale, ma le
tabelle non erano sufficientemente precise da rendere questo
metodo utilizzabile. Nell'autunno del 1618, l'apparizione, in
rapida successione, di tre comete colpì sensibilmente l'opinione
pubblica. G. pensava che le comete fossero un fenomeno puramente
ottico causato dalla rifrazione della luce nell'atmosfera e
scrisse un Discorso sulle comete nel quale criticava le
idee di O. Grassi, professore di matematica al Collegio Romano.
Secondo Grassi le comete erano corpi celesti che viaggiavano al di
là della sfera della Luna. La replica di Grassi, Libra astronomica
ac philosophica (1619), spinse G. a scrivere il Saggiatore
(1623), in cui sviluppò la concezione corpuscolare della materia.
Il nuovo papa Urbano VIII, cui l'opera fu dedicata, accolse G. a
Roma nel giugno del 1624 per ben sei volte. G. rientrò a Firenze
con la sensazione di poter ormai liberamente esprimere le sue idee
intorno al moto della Terra. Nel gennaio 1630 completò il Dialogo
sopra i due massimi sistemi, lungamente atteso.
L'opera è suddivisa in quattro giornate. Nella prima giornata
viene criticata la divisione aristotelica dell'universo in due
sfere nettamente distinte, quella terrestre e quella celeste, sia
confutando la distinzione tradizionale tra moto rettilineo e moto
circolare, sia mostrando le similarità tra la Terra e la Luna.
Nella seconda giornata G. sostiene che il moto della Terra è
impercettibile per i suoi abitanti e che la rotazione della Terra
intorno al suo asse risulta essere più semplice della rotazione
giornaliera della sfera celeste postulata da Tolomeo.
Nella terza giornata G. afferma che la rivoluzione annua della
Terra intorno al Sole offre a sua volta un'interpretazione più
semplice delle posizioni di quiete apparenti e dei moti retrogradi
dei pianeti.
Nella quarta giornata G. dichiara in maniera ingegnosa, ma
erronea, che le maree comprovano il moto della Terra. Il Dialogo
contiene inoltre la formulazione corretta della legge della caduta
dei gravi e una discussione sui principî della relatività e della
persistenza del moto circolare.
Nella primavera del 1630 G. consegnò il Dialogo nelle mani di N.
Riccardi, maestro del Sacro Palazzo. Da questo momento
intervennero alcuni fatti che contribuirono a porre G. in cattiva
luce agli occhi del papa e a creare nuovamente un clima di
sospetto nei suoi confronti. L'astrologo O. Morandi, con il quale
G. aveva stretto amicizia, venne arrestato per aver preannunciato
l'imminente morte del papa. Dannosa per G. risultò pure la sua
familiarità con G. Ciampoli che aveva coltivato amicizie e
conoscenze pericolosamente vicine al cardinale spagnolo Gaspare
Borgia, portavoce di Filippo IV e spina nel fianco di Urbano VIII.
L'8 marzo 1632, dopo un concistoro piuttosto burrascoso, Urbano
VIII decise di epurare il suo seguito dagli elementi favorevoli
alla Spagna e bandì quindi Ciampoli da Roma.
La caduta di Ciampoli ebbe gravi conseguenze per Galileo. Tra il
1630 e il 1631, Ciampoli aveva giocato un ruolo decisivo per
ottenere il permesso di pubblicare il Dialogo. Riccardi aveva
garantito l'imprimatur ma insisté che gli venissero inviate la
prefazione e la conclusione. Quando il censore di Firenze diede
l'assenso per la pubblicazione nel settembre 1630, Riccardi
cominciò a sollevare difficoltà affermando che G. si era impegnato
a tornare a Roma per discutere la versione finale del manoscritto.
Nel frattempo una epidemia di peste aveva reso difficili gli
spostamenti tra Firenze e Roma. A questo punto Riccardi propose
che una copia del lavoro fosse inviata a Roma per essere rivista
da Ciampoli e da lui stesso. Anche questa richiesta fu in seguito
disattesa; da quel momento in poi Riccardi non udì più nulla del
lavoro di G. fino a che non gli arrivò a Roma una copia del libro
già pubblicato. Con suo sommo stupore esaminando l'imprimatur
fiorentino scoprì che figurava d'averlo lui stesso approvato.
Convocato per dar conto della sua condotta, Riccardi si giustificò
dicendo d'aver ricevuto da Ciampoli la direttiva di autorizzare la
pubblicazione.
Il Dialogo andò alle stampe nel giugno 1631 e fu pronto solo nel
febbraio 1632. Copie del libro giunsero a Roma tra la fine di
marzo e l'inizio di aprile, irrompendo così sulla scena romana
solo poche settimane dopo il concistoro durante il quale il
cardinale Borgia aveva attaccato Urbano VIII. Qualsiasi
"ciampolata", come la chiamò Urbano VIII, da quel momento in poi
sarebbe stata controllata molto severamente. Nell'estate del 1632,
Urbano VIII ordinò di investigare sull'autorizzazione del Dialogo.
Nell'incartamento del Santo Uffizio relativo a G. la commissione
trovò un memorandum non firmato del 1616 in cui gli si intimava di
non sostenere, insegnare o difendere in alcun modo l'idea che la
Terra si muove. I commissarî, considerando valida l'ingiunzione,
giunsero alla conclusione che G. avesse trasgredito un ordine
formale del Santo Uffizio. Alla luce di questa scoperta G. venne
convocato a Roma dove arrivò, con molto ritardo, il 13 febbraio
1633. Nonostante la sua decisa smentita, G. venne giudicato
colpevole dal Santo Uffizio di aver trasgredito agli ordini della
Chiesa. La mattina del 22 giugno 1633 fu condotto in una sala del
convento di Santa Maria sopra Minerva a Roma e fu fatto
inginocchiare durante la lettura della sentenza che lo condannava
all'incarcerazione. Mentre era ancora inginocchiato G. ritrattò
formalmente il suo errore. La condanna prevedeva il carcere
formale in Roma, poi commutato in residenza coatta nel palazzo
arcivescovile in Siena, dove G. trascorse alcuni mesi
affettuosamente ospitato dal cardinale A. Piccolomini.
Soltanto nel dicembre 1633 poté ritornare ad Arcetri, ove
trascorse gli ultimi anni della sua vita in stato di dimora
vigilata. Divenne cieco nel 1638.
I "Discorsi" e gli ultimi anni (1634-1642)
G. cercò conforto impegnandosi a fondo nel lavoro. In due anni
completò i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due
nuove scienze attinenti alla meccanica ed ai movimenti locali, un
libro al quale si deve la sua imperitura gloria di scienziato. La
prima delle "due nuove scienze" consisteva in una trattazione
matematica originale della struttura della materia e della
resistenza dei materiali. G. dimostrò che esiste un limite alle
dimensioni di qualsiasi corpo dello stesso materiale che mantenga
le stesse proporzioni.
La seconda scienza riguardava il moto naturale che veniva
discusso, per la prima volta, alla luce della legge dei quadrati
dei tempi dei corpi in caduta libera e della composizione
simultanea e indipendente dei moti. Prese insieme, queste leggi
permisero a G. di scoprire l'andamento parabolico della
traiettoria dei proiettili e di fornirne una descrizione accurata.
Quando cominciò a cercare un editore si trovò di fronte a un nuovo
problema: la Chiesa aveva emesso un veto generale contro la
pubblicazione o ristampa di ogni sua opera. Il manoscritto di G.
venne inviato a L. Elzevir in Olanda dove fu pubblicato nel 1638.
Negli ultimi anni G. si occupò della determinazione delle
longitudini, della costruzione di orologi a pendolo, di problemi
meccanici, e della luce lunare.
Morì ad Arcetri l'8 gennaio 1642. Il progetto di una solenne
sepoltura in Santa Croce fu vietato da Roma e si realizzò solo nel
1737.
Letteratura
G. ha un posto rilevante anche nella storia della letteratura non
solo e non tanto per i suoi scritti d'argomento letterario (oltre
alle ricordate lezioni dantesche scrisse: Considerazioni sulla
Gerusalemme liberata, Postille e correzioni al Furioso) quanto per
essere stato praticamente il primo a scrivere di scienza in
volgare. Il suo bel fiorentino cinquecentesco, piegato a
significare nuove cose con un numero minimo di innovazioni e di
traslazioni di significato, rappresenta una tappa importante nello
sviluppo della lingua italiana. Non meno valida, la sua prosa,
artisticamente: celebrata già ai suoi tempi per la sua chiarezza,
essa è pervasa dallo stupore, dall'umiltà dinanzi alla grandezza
delle sue scoperte; dall'ammirazione per le infinite possibilità
dell'ingegno umano, dalla gratitudine verso Dio, dal senso
religioso di una verità più alta dinanzi alla quale tutti debbono
arrestarsi. L'ironia di fronte ai piccoli uomini, che chiudono gli
occhi per non vedere, diventa sarcasmo verso gli avversarî più
potenti, contro i quali la ragione non è sufficiente. Pur persuaso
della sua verità, G. ha bisogno di riviverla dialetticamente in
ogni istante: da ciò la forma dialogica che caratterizza le sue
opere maggiori.
DBI
di Ugo Baldini
- Nacque a Pisa il 15 febbr. 1564 da Vincenzio e Giulia
Ammannati.
I Galilei (detti così dal nome o soprannome d'un antenato, il cui
cognome era Bonaiuti) appartenevano alla nobiltà fiorentina e la
loro genealogia è nota dal secolo XIV. Esecutore e compositore di
musica, teorico tra i maggiori del Cinquecento, Vincenzio trasmise
doti e passione ai figli Galileo, virtuoso di più strumenti, e
Michelangelo, musicista professionista. Dalla sua attività non
trasse però redditi adeguati, sebbene l'integrasse col commercio
di tessuti: le fonti parlano di ristrettezze o anche di povertà.
Nel 1562, trasferitosi a Pisa, vi aveva sposato l'Ammannati. A
Galileo seguirono Virginia (1573), Michelangelo (1575) e Livia
(1578). Altri figli, Benedetto e Anna, morirono presto; vi fu
forse un'altra sorella, Lena (Elena).
Fino al 1574 la famiglia rimase a Pisa, affidata durante le
assenze di Vincenzio al cognato Muzio Tedaldi, e il G. v'iniziò
gli studi. Entro la fine del 1574 i Galilei si trasferirono a
Firenze, dove egli studiò lingue e letterature classiche forse con
un J. Borghini, alle cui carenze avrebbe supplito con l'impegno
personale (restano versioni da autori greci). V. Viviani, il cui
Racconto istorico della vita di G. è fonte principale sulla sua
infanzia e gioventù, parla del gusto di riprodurre macchine e
congegni, annuncio della manualità tecnica del G. maturo, e ne
esalta le doti per il disegno (forse dipinse anche per diletto).
Nel 1578 il Tedaldi parlò dell'intento del padre di far
frequentare al giovane l'Università di Pisa e si disse lieto che
"haviate riavuto Galileo". La frase è stata collegata a studi con
i padri vallombrosani: secondo Viviani il G. studiò logica con un
membro dell'Ordine; una fonte lo dice ex novizio in S. Trinita,
casa vallombrosana di Firenze; una afferma che aveva studiato a
Vallombrosa, da dove il padre l'avrebbe tolto col pretesto di cure
agli occhi. Questi studi sarebbero quindi avvenuti tra 1577 e
1578, ma l'ammissione al noviziato non poteva precedere il
compimento del quindicesimo anno, e il periodo a Vallombrosa non
trova conferme. Forse, per ragioni economiche, Vincenzio collocò
il figlio come studente in S. Trinita lasciando credere che
sarebbe entrato nell'Ordine, e frequentando la scuola conventuale
da interno, in abito monastico, il G. poté essere ritenuto un
novizio. Nel settembre 1581 s'immatricolò nel corso di arti della
Sapienza pisana per conseguire la laurea in medicina, ritenuta dal
padre mezzo d'innalzamento economico. Le modalità dei suoi studi
sono mal note. Secondo Viviani non seguì i corsi di matematica, ma
quelli filosofici di G. Borri, F. Buonamico, F. Verino, G. Libri
(criticherà poi i primi due, e Libri contesterà le sue
osservazioni telescopiche), e inizialmente quelli medici (con
scarso impegno, nonostante la presenza di un A. Cesalpino). La
tradizione lo dice già critico verso l'aristotelismo accademico,
attribuendo la sua maturazione a vie non istituzionali: studio
personale di testi aristotelici e platonici; loro confronto
spregiudicato con dati osservativo-sperimentali; attitudine a
porre in termini meccanici fenomeni dell'esperienza comune. Ancora
secondo Viviani le oscillazioni d'un lampadario del duomo di Pisa
gli suggerirono l'isocronismo dei pendoli; non v'è ragione di
negarlo, anche se le prove sperimentali vennero dopo e se Viviani
eccedette affermando che costruì allora un congegno (pulsilogio)
per misurare tempi col conto delle oscillazioni. Per alcuni
storici il periodo universitario spiega solo la conoscenza di
dottrine che poi criticò, mentre altri lo considerano fonte di
parte del suo bagaglio concettuale. Alla matematica il G. si
avvicinò nel 1583 per influsso di O. Ricci, lettore della
disciplina nell'accademia del disegno di Firenze e nella paggeria
medicea. Secondo certe fonti Vincenzio, cultore di matematica, non
l'aveva insegnata al figlio per non distoglierlo dalla medicina, e
il G. dapprima gli nascose la svolta nei propri studi; il padre
l'avrebbe poi lasciato libero nelle scelte, purché si rendesse
presto indipendente. Il disinteresse per la medicina è un dato
notevole; il G. lesse Galeno e poco altro, e le sue idee in
biomeccanica non dipesero dalla tradizione medico-naturalistica.
Nonostante l'assenza di prospettive e lo stato precario della
famiglia, nel 1585 tornò a Firenze senza laurearsi.
Le modalità degli studi matematici influirono sulla sua attività
scientifica. Tra 1583 e 1585 studiò gli Elementi euclidei (forse
nell'edizione di N. Tartaglia) e Archimede (resta un esemplare
annotato della princeps basileense del 1544). Poi lavorò a un
commento all'Almagesto, approfondì Archimede e matematici recenti:
la statica di F. Commandino e Guidobaldo Dal Monte, i commenti a
Euclide e alla Sfera di J. de Sacrobosco del gesuita C. Clavio (C.
Schlüsse; forse sua prima fonte su Copernico), la Sfera di A.
Piccolomini. Studiò Apollonio e Pappo meno di Archimede, e forse
non approfondì Diofanto e l'algebra da F. Viète in poi;
l'approccio geometrico sarà in lui prevalente. Trascurò gnomonica
e teoria del calendario ma non l'astrologia - pur antitetica alla
sua idea di scienza - in parte per convenzione, in parte per
richieste o per guadagno (restano le natività delle figlie e
oroscopi per amici e autorità; nel 1604 una denuncia
all'Inquisizione di Padova, che non ebbe corso, l'indicò come
astrologo). In lui l'ottica, pur essenziale per il lavoro sul
telescopio e per certe sue concezioni fisiche, fu soprattutto
pratica (dirà oscura la Dioptrice di G. Keplero), e hanno scarso
ruolo la trigonometria recente, certi metodi di calcolo (fu
astronomo più "fisico" che "matematico"), i logaritmi. Resta da
chiarire quanto ciò dipese da casualità, scelte o aspetti della
cultura matematica a Firenze. Il G. dirà di aver dedicato più anni
alla fisica che mesi alla matematica, ma insegnò la seconda e a
essa dedicò i primi lavori (rimasti gli unici, a parte l'abbozzo
di una riformulazione della teoria delle proporzioni). Si trattava
di lemmi e teoremi sui centri di gravità di solidi (conoide
parabolico, cono, piramide); di uno si conserva una copia del
dicembre 1587, sottoscritta da amici e approvata da G. Moleto,
matematico dell'Università di Padova. Nel 1586 costruì una
"bilancia idrostatica", impiegata con modifiche fino a metà '600,
corredata da uno scritto esplicativo (La bilancetta), pubblicato
solo nel 1644, e da una Tavola delle proporzioni delle gravità in
specie de i metalli e delle gioie pesate in aria ed in acqua. Il
suo sperimentalismo matematico fu forse ispirato anche dal padre,
che studiò la divisibilità dei semitoni con corde vibranti aventi
pesi alle estremità. Se partecipò a queste ricerche la tesi della
natura quantitativa delle qualità percettive, perno della sua
epistemologia, poté derivare da suggestioni altrettanto tecniche
che teoriche. Il lavoro non matematico più importante di quegli
anni è un gruppo di testi denominato De motu antiquiora, raramente
datati e talora stesi in più versioni; li si colloca attorno al
1590, durante l'insegnamento a Pisa, ma per alcuni si è pensato al
1586 o 1587. La loro data è rilevante per la genesi delle
concezioni galileiane e per fissare il loro rapporto con altri
scritti pure a lungo inediti, gli Iuvenilia dei mss. galileiani 27
e 46 della Biblioteca nazionale di Firenze.
Si tratta di parti trascritte dal G. di un corso di logica e di
uno su De caelo e Physica di Aristotele, tenuti nel Collegio
Romano dei gesuiti. La parte logica proviene dal corso di P. Valla
nel 1587-88 o da un testo derivato; quella fisica ha forti
corrispondenze in corsi degli anni 1580-1590. Gli Iuvenilia sono
quindi datati prevalentemente nel 1589-90; secondo alcuni
interpreti il G. vi inserì idee proprie, che sono però ancora
aristoteliche; ne verrebbe che l'aristotelismo non fu solo oggetto
delle sue critiche, ma origine delle sue concezioni, e che il De
motu, più originale, non precederebbe il 1591. Tuttavia certamente
galileiano è solo il De motu, che confuta tesi aristoteliche e
analizza i moti "naturali" con concetti archimedei, non giungendo
ancora a risultati validi e restando in parte tradizionale, ma
prefigurando sviluppi successivi; non v'è prova che il G.
conoscesse il tentativo analogo di G.B. Benedetti.
Ebbe anche interessi letterari. Tra 1587 e 1588 tenne due lezioni
sul luogo dell'inferno dantesco nell'Accademia Fiorentina; ne fu
membro prima del 1599, e nel 1605 fu ascritto alla Crusca. Scrisse
versi berneschi Contro il portar la toga (da parte dei docenti),
una traccia di commedia, uno scherzo in dialetto veneziano, sei
sonetti. Le "Considerazioni al Tasso" e postille all'Orlando
furioso mostrano una netta preferenza per Ariosto (lo conobbe
quasi a memoria). Amò la letteratura dialettale veneta e Ruzante,
e iniziò a tradurre la Batracomiomachia. Un capitolo in terzine
Contro gli aristotelici, attribuitogli, è dell'allievo Jacopo
Soldani; sue aggiunte alla canzone Per le stelle Medicee
temerariamente impugnate di A. Salvadori passarono nella stampa.
Dal 1585 cercò l'indipendenza economica. Un documento del 1587
afferma che aveva insegnato nello Studio di Siena, e privatamente
a Siena e Firenze. Dell'insegnamento pubblico non v'è traccia; del
privato lo sono forse rapporti successivi con nobili senesi, e sue
deposizioni circa il testamento di G.B. Ricasoli Baroni (1590-92)
indicano in quest'ultimo un allievo fiorentino. Il G. visse a
tratti in casa del Ricasoli - quasi suo coetaneo -anche come
compagno di studi poetici e filosofici. Quando l'amico, preso da
disturbi psichici, fuggì da Firenze, su richiesta dei familiari lo
seguì (maggio 1589) fino a Lucca e Genova. Nacque per
l'insegnamento privato un breve Trattato della sfera, edito
postumo. Dal 1587 concorse a letture di matematica in varie sedi.
Inviò i propri teoremi a diversi e li presentò al Clavio a Roma
per averne l'appoggio per una lettura a Bologna; il gesuita
sostenne G.A. Magini, ma la conoscenza ebbe un ruolo in seguito.
Infine nel 1589 fu chiamato nell'Università di Pisa, dove iniziò
le lezioni nel novembre e proseguì studi e ricerche sui baricentri
dei solidi. Attorno al 1590 tracciò - forse per primo - la
cicloide, e ne misurò l'area meccanicamente e con approssimazione;
lavorò al De motu; dialogò con J. Mazzoni, filosofo non originale
ma non dogmaticamente aristotelico e capace di informarlo su altre
tradizioni, come la platonica. G. Mercuriale, docente di medicina
autore di un trattato innovativo di ginnastica, destò forse il suo
interesse per il moto animale, documentato in seguito. Viviani
attesta un esperimento per controllare la tesi aristotelica della
proporzionalità dei tempi di caduta dei gravi ai loro volumi; esso
è parso dubbio, ma il De motu ne sconta implicitamente l'esito.
Il G. non considerò la lettura a Pisa come approdo definitivo,
anche per l'esiguità del compenso; nel 1590 Dal Monte lo propose
come successore di Moleto a Padova, al momento senza buon esito.
L'insoddisfazione crebbe con la morte del padre nel 1591, che gli
impose a lungo di sostentare la famiglia (una vertenza per la dote
della sorella Virginia andò oltre il 1600). Ebbe screzi
accademici, forse non solo dottrinali: nei versi sull'uso della
toga mostrò insofferenza per i formalismi e gusto per i piaceri
della vita. Ma fu forse decisivo il risentimento di Giovanni de'
Medici per il parere negativo del G. su un suo congegno per
dragare la darsena di Livorno (il Medici gli sarà poi contrario
nella disputa sul galleggiamento). Nel 1592 Dal Monte gli suggerì
d'andare a Padova per richiedere una cattedra; vi andò nell'estate
e a fine settembre, malgrado la candidatura del Magini, padovano,
ebbe la lettura di matematica per quattro anni rinnovabili per
altri due, con provvigione annua (180 fiorini) modesta, ma
maggiore di quella pisana. Al rinnovo nel 1599 ebbe provvigione
doppia, e nel 1606 una di 520 fiorini, inconsueta per i
matematici; nel 1609, dopo l'offerta del telescopio al governo
veneto, verrà la conferma a vita con lo stipendio di 1000 fiorini.
Iniziò i corsi nel dicembre 1592, seguendo una rotazione biennale:
sfera e Elementi di Euclide; teoria dei pianeti (astronomia
avanzata). Almeno un anno, però, trattò le Questioni meccaniche
pseudoaristoteliche. Si è creduto che insegnasse anche
fortificazione in base alle Brevi instruzioni all'arte militare
(forse del 1593; scrisse pure un Trattato di fortificazione), ma
poté trattarsi di un corso privato. Le testimonianze e gli aumenti
retributivi provano che il suo insegnamento ebbe successo, ma esso
fu quasi irrelato ai suoi studi e ricerche: in astronomia si
attenne al geocentrismo (privatamente usò ancora il Trattato della
sfera, fedele a Sacrobosco). Il trattatello Le mecaniche, forse
scritto pure per corsi privati tra 1593 e 1599 (il testo
conservato reca forse modifiche successive), riguarda la parte
matematica della meccanica - statica e teoria delle macchine
semplici - sulla scorta di Dal Monte.
Pur con tratti originali (dimostra la legge della leva
diversamente da Archimede, considera situazioni statiche come
limiti di quelle cinetiche, usa il concetto di "momento"),
l'operetta non configura ancora una meccanica integrata. Gli
scritti di fortificazione, che accennano appena ai temi balistici
della meccanica galileiana evoluta, si sarebbero forse sviluppati
col concretarsi (mancato) di due iniziative: tra 1603 e 1604 il G.
trattò per divenire matematico del duca di Mantova Vincenzo
Gonzaga (ruolo che avrebbe incluso l'ingegneria militare), e nel
marzo 1610 concorse per la lettura di matematica nell'Accademia
Delia di Padova, riservata ad aspiranti alla carriera delle armi
(rimane il programma che presentò; gli fu preferito il nobile
padovano Ingolfo Conti).
Fino al 1604 si occupò di astronomia in modo didattico e ristretto
all'analisi classica dei moti orbitali: non v'è traccia di
osservazioni pianificate o lavori avanzati. Un mutamento fu
prodotto dalla supernova di quell'anno, cui dedicò tre lezioni,
ponendola con misure parallattiche tra le stelle, che
l'aristotelismo diceva immutabili. Il metodo, non nuovo, fu
respinto dai filosofi universitari, ligi alla cosmologia
aristotelica; nel Discorso intorno alla nuova stella (Padova 1605)
un discepolo di C. Cremonini, primario di filosofia, collocò la
nova nel mondo sublunare e la disse composta da esalazioni
terrestri. Per non infrangere la partizione delle competenze
accademiche il G. ispirò a un amico, il benedettino G. Spinelli,
una replica in dialetto rustico padovano attribuito a un Cecco di
Ronchitti (Dialogo in perpuosito de la stella nuova, Padova e
Verona 1605). Pubblicò per interposta persona anche in seguito,
quando volle dibattere con toni forti, ma è dubbio che siano sue
le Considerazioni di un fittizio Alimberto Mauri (Firenze 1606)
contro il Discorso nel quale si dimostra, che la nuova stella non
è cometa, né stella generata (Firenze 1606) del fiorentino L.
Delle Colombe. Costui però dovette crederlo, e ciò preparò urti
successivi. I rapporti del G. con Cremonini e altri filosofi dello
Studio furono ambivalenti; la cordialità esterna celò forse
tensioni, mentre fu buono il rapporto con docenti di medicina, pur
ancora parzialmente legati alla fisiologia galenica. Quello con S.
Santorio, pioniere dell'analisi quantitativa di fatti metabolici,
è difficile da circostanziare. Ebbe per medico G. Fabrici
d'Acquapendente, e nel 1606 lo propose per protomedico al granduca
di Toscana; i lavori di Fabrici sulla meccanica articolare e i
movimenti animali furono base di certe sue idee in biomeccanica (è
però possibile che in parte li ispirasse).
Dal 1601, anche per altri oneri imposti dal matrimonio della
sorella Livia, sembra che incrementasse l'insegnamento privato.
Restano note sui corsi (fortificazione, compasso di proporzione,
cosmografia, geometria, aritmetica e ottica elementare, meccanica,
topografia) e sui frequentanti, talora a pensione presso di lui,
che usavano testi che forniva a pagamento. Anche un'attività
tipica, la produzione di strumenti e congegni, fu dovuta sia a
interessi tecnici sia alla ricerca di introiti aggiuntivi. Nel
dicembre 1593 richiese un privilegio per una pompa ad acqua, che
non commercializzò (il progetto è perduto, e le ricostruzioni
ipotetiche). A circa il 1597 risale il "compasso geometrico e
militare", che univa alle funzioni di squadra per artiglieri usi
distanziometrici, altimetrici e di calcolo preludenti a quelli dei
successivi regoli. Il debito verso strumenti precedenti non è del
tutto chiaro; esibì il compasso nelle lezioni private e ne
vendette esemplari con un manuale d'uso poi dedicato al principe
Cosimo de' Medici (Le operazioni del compasso geometrico et
militare, Padova 1606). Dal luglio 1599 tenne in casa un artigiano
per fabbricarli con altri strumenti di misura. Quando un
dilettante di matematica, B. Capra, negò che l'inventore fosse il
G. e pubblicò un manuale scritto forse con il maestro, il tedesco
S. Mayr (Usus et fabrica circini cuiusdam proportionis, Padova
1607), che plagiava il suo, il G. ne ottenne la confisca dai
riformatori dello Studio di Padova, e pubblicò un'aspra Difesa
contro alle calunnie e imposture di Baldessar Capra milanese
(Venezia 1607).
La costruzione di strumenti ha scarso nesso con le ricerche di
allora. Anche l'interesse iniziale per il telescopio fu tecnico;
appresane l'esistenza nel giugno-luglio del 1609, senza vederlo e
ricorrendo quasi solo all'intuito ne costruì uno di tre
ingrandimenti e un secondo di otto, che donò alla Serenissima per
usi militari e nautici. La prima osservazione astronomica certa è
del novembre, con uno di venti ingrandimenti. Non sembra che gli
fossero chieste consulenze militari o civili (spettanti a uffici
appositi), ma fu sentito privatamente: in una lettera del 1593 a
G. Contarini, provveditore all'Arsenale, indicò nel remo una leva
che sposta insieme resistenza e fulcro. In Veneto il G. fu noto
soprattutto per l'attività didattica e tecnica. Le sue ricerche,
esposte per lo più in opere successive, sono quasi sempre
posteriori al 1600; nessuna nota di meccanica o astronomia è
datata prima, sebbene leggesse Copernico prima del 1590. In
lettere del 1597 a Keplero e Mazzoni si disse copernicano,
aggiungendo di aver trattato il tema in uno scritto; il nucleo
della teoria delle maree, che poi addusse a prova
dell'eliocentrismo, risale forse al 1595. Ma il suo interesse
iniziale per il dibattito cosmologico dovette avere forma fisica
più che osservativa (nel 1600 non rispose a una lettera di T.
Brahe, e la corrispondenza anteriore non tocca problemi
propriamente astronomici). Anche ammesse lacune documentali, tra
1592 e 1600 il G. appare volto in prevalenza ad applicazioni e a
far valere economicamente le proprie competenze. Per spiegare il
mutamento occorrerebbe chiarire se e quando collegò i moti
planetari a questioni cinematiche. Dato che la scelta copernicana
precedette le ricerche sulle seconde, non si può escludere che
queste mirassero anche a dare all'eliocentrismo la base meccanica
che in Copernico non aveva e che l'aristotelismo gli negava. Le
note cinematiche padovane non toccano l'astronomia, ma il primo
cenno del G. al principio di composizione dei moti (fatto al
gesuita A. Eudaemon Joannes entro il 1603) riguarda un grave
cadente dall'albero di una nave, caso proposto dal Clavio per
smentire il moto della terra e da G. Bruno con scopo opposto.
Le note (quasi mai datate, spesso sommarie o criptiche), si
pongono in gran parte tra 1602 e 1608. Dato che la cinematica del
G. è un momento fondante della scienza moderna, la cronologia ha
rilievo per la storia della meccanica come per questioni di fondo
(dinamica delle "rivoluzioni" scientifiche; logica e psicologia
dell'ideazione; interrelazione tra elementi pregiudiziali e
fattuali; differenze tra mondo fisico premoderno e moderno). Come
quella dei De motu antiquiora, essa è perciò sondata attraverso le
fasi della grafia, analisi di inchiostri e filigrane, ripetizione
degli esperimenti; e per suo tramite si tenta di dare risposte non
astratte o pregiudiziali a quesiti quale la misura in cui la
scienza galileiana fu matematico-astrattiva o sperimentale
("platonica" o "positivistica"). Tra 1602 e 1604, concentrata la
ricerca sul moto uniformemente accelerato, sostituita alla caduta
verticale quella su piani inclinati (espediente anche
concettualmente illuminante), abbandonate o ridefinite posizioni
precedenti, il G. pervenne a formulazioni solo in parte
soddisfacenti, esprimendo in modi diversi le relazioni rinvenute.
Tra 1604 e 1608-09 ottenne i risultati sulla caduta e sul moto dei
proiettili confluiti poi nei Discorsi.
Da circa il 1602 precisò anche le intuizioni giovanili sui
pendoli; non pare che realizzasse un apparato quale il
"pulsilogio" di Viviani (costruito dal Santorio verso il 1603),
che seguiva ovviamente dalle proprietà dei pendoli, forse
comunicate al collega. Ancora dal 1602, spinto da G.F. Sagredo e
dal De magnete di W. Gilbert, sperimentò calamite e metodi per
armarle (ne propose a Ferdinando de' Medici una che attraeva una
massa di ferro più che doppia). La dilatazione termica gli suggerì
un termoscopio (circa 1606-07), utilizzato in medicina da
Santorio; osservazioni sulla resistenza di materiali alla frattura
originarono le giornate I e II dei Discorsi, e riflessioni
sull'idrostatica archimedea, idee poi sviluppate a Firenze, e un
affinamento della bilancia idrostatica.
Ricordò poi gli anni veneti come i suoi più belli. Frequentò
persone di cultura aperta, con interessi scientifici, filosofici
e, in senso lato, politici. Paolo Sarpi è solo il nome più
rilevante; la corrispondenza con lui e le testimonianze - pur
significative - documentano insufficientemente la valenza
scientifica, e meno quella "ideologica", del loro rapporto. Il G.
evitò pronunciamenti sulle tesi del servita, e ogni tentativo di
attribuirgli convincimenti molto definiti è rischioso; i suoi
amici furono per lo più filosarpiani e antigesuiti, ma alcuni,
come P. Gualdo, furono vicini alla Compagnia. Soggiornò spesso a
Venezia e vi frequentò salotti colti come il cosiddetto ridotto
Morosini, ma anche occasioni mondane. Con giovani nobili, e
particolarmente con G.F. Sagredo, allievo e poi compagno di
discussioni e ricerche, il rapporto fu molto stretto. A Padova fu
ammesso nel 1599 nell'Accademia dei Ricovrati, e ne fu censore
alle stampe. Forse dallo stesso anno stabilì una relazione con la
veneziana Marina Gamba dalla quale, nell'agosto del 1600, ebbe una
figlia, Virginia. Tuttavia non la sposò e non convisse con lei,
nonostante la sua abitazione, quasi una azienda (pensionato, sede
di corsi privati, laboratorio per la costruzione di strumenti e la
copiatura di testi) richiedesse diverse persone di servizio e
potesse giovarsi di una guida femminile. Gli atti di battesimo di
Virginia e dei figli successivi (Livia e Vincenzio, nati nel 1601
e 1606) indicano solo il nome della madre, dicendoli nati "di
fornicatione" o da "padre incerto"; legittimò il figlio solo nel
1619, e mai le figlie, e quando lasciò il Veneto ruppe il rapporto
con la Gamba. Nell'aprile 1604 un Silvestro Pagnoni, vissuto
presso di lui (probabilmente come copista), lo denunciò
all'Inquisizione padovana per pratiche astrologiche e scarso zelo
religioso (il G. non avrebbe frequentato le chiese, né praticato i
sacramenti), ma anche per la relazione. L'assenza di un legame
formale non ne spiega la lunghezza, né spiega perché non ne avviò
una più solida. Forse incise il peso della famiglia d'origine, che
gl'impose un cumulo d'attività per sottrarsi al quale, fallito il
tentativo col duca di Mantova, ne avviò uno con i Medici. Dal
1605, in soggiorni estivi in Toscana, insegnò matematica al
principe Cosimo; gli dedicò la descrizione del compasso e nel 1608
gli regalò la calamita già offerta al padre, paragonandone la
virtù attrattiva a quella del principe. Ma, forse per l'ostilità
di Giovanni de' Medici, il tentativo si fece più convinto dal
1609-10, quando Cosimo divenne granduca (secondo di questo nome) e
lo zio lasciò Firenze; dato che la candidatura per l'Accademia
Delia mostra che nel marzo 1610 le prospettive del G. non erano
ancora definite, la svolta fu simultanea alle ricerche col
telescopio, con le quali in parte interagì. Le osservazioni tra
dicembre 1609 e febbraio 1610 (irregolarità dell'illuminazione
lunare a seguito di quella della superficie, satelliti di Giove,
aumento del numero di stelle visibili, risoluzione in stelle della
Via Lattea e di corpi nebulari) resero centrale il suo interesse
per l'astronomia di osservazione. La pubblicazione nel marzo
(Sidereus Nuncius magna, longeque admirabilia spectacula pandens,
Venezia 1610) mutò, con la sua fisionomia di ricercatore, la sua
immagine pubblica e la sua vita professionale e privata: la dedica
a Cosimo II, il nome di stelle o pianeti Medicei dato ai satelliti
di Giove e un viaggio a Firenze nell'aprile, per presentare
l'opera al granduca e fargli omaggio di un telescopio, prepararono
il rimpatrio e l'abbandono dell'insegnamento.
Il Nuncius ebbe ampia risonanza, anche per un'immediata ristampa a
Francoforte. Esponeva fenomeni di evidenza diversa: dati
percettivi come le nuove stelle, la composizione della Via Lattea,
i corpi attorno a Giove o le irregolarità dell'illuminazione
lunare furono accettati entro il 1611 da molti specialisti; altri
erano invece solo inferiti dai primi. Questo spiega alcune delle
resistenze, anche di competenti. Cremonini si sarebbe rifiutato di
usare il telescopio, mentre in una lettera al G. (Dissertatio cum
Nuncio sidereo nuper ad mortales misso a Galilaeo Galilaeo
mathematico Patavino, Praga 1610) stampata sei volte in due anni
G. Keplero, pur non disponendo di un telescopio, accettò buona
parte delle osservazioni, e poco dopo confermò l'esistenza dei
Medicei (Narratio de observatis a se quatuor Iovis satellitibus,
Francoforte 1610). A una Brevissima peregrinatio contra Nuncium
sidereum (Modena 1610) di Martin Horky, collaboratore di Magini,
replicarono un allievo del G., John Wodderborn (Quatuor
problematum contra Nuntium sidereum confutatio, Padova 1610) e
G.A. Roffeni (Epistola apologetica contra caecam peregrinationem
cuiusdam furiosi Martini, cognomine Horkii, Bologna 1611). Con il
G. si schierò anche T. Campanella.
Il 10 luglio 1610 il G. fu nominato, a vita, matematico primario
dello Studio di Pisa (senza obbligo d'insegnamento) e matematico e
filosofo granducale, con provvigione annua di 1000 scudi. Nello
stesso mese a Padova osservò Saturno "tricorporeo" (con
rigonfiamenti sul piano equatoriale), descritto in un anagramma
latino che nessuno sciolse. Il 7 settembre lasciò Padova, dove non
tornò più; assunto il nuovo incarico proseguì le osservazioni,
anche con amici e curiosi. A fine anno osservò in Venere fasi che
ne provavano l'orbita eliocentrica, lasciando sussistere i soli
sistemi di Copernico e Brahe. Egli però le considerò una prova del
primo, che iniziò a sostenere pubblicamente; la Dianoia
astronomica, optica, physica (Venezia 1611) di F. Sizzi lo
presentò come copernicano, e un saggio manoscritto del Delle
Colombe contro il moto della Terra (fine 1610 - inizio 1611)
riprese antiche obiezioni fisiche e gli asserti geocentrici della
Scrittura. Alla fine del marzo 1611 il G. visitò a Roma Clavio, e
presentò le proprie scoperte (incluse le macchie solari) a
studiosi e personalità, inclusi i cardinali Maffeo Barberini
(futuro Urbano VIII) e Roberto Bellarmino, al quale i matematici
del Collegio romano confermarono le osservazioni, se non sempre le
interpretazioni. Insieme, tuttavia, il S. Uffizio chiese
all'inquisitore di Padova se il G. era stato coinvolto nel
processo contro Cremonini (già indagato per tesi averroiste); la
risposta dovette essere negativa, ma l'episodio mostra il senso
che critiche alla cosmologia tradizionale potevano assumere. F.
Cesi, fondatore dell'Accademia dei Lincei, divenne suo sostenitore
e lo ammise nell'Accademia (25 aprile); i Lincei lo sostennero
sempre, tanto da sospendere un matematico del livello di L.
Valerio perché si era dissociato dalla scelta eliocentrica. In
maggio una conferenza nel Collegio romano (il Nuncius sidereus
Collegii Romani) sancì l'affidabilità del telescopio, e in giugno
il G. lasciò Roma certo d'aver radicato la nuova astronomia: era
stato ascoltato e nell'ultima edizione del commento a Sacrobosco
Clavio aveva ammesso che i nuovi fenomeni smentivano il sistema
planetario tradizionale. Ma il G. sottovalutò la profondità delle
resistenze; la natura "terrestre" della Luna e quella planetaria
della Terra non solo contrastavano con la vulgata aristotelica e
scritturale, ma richiamavano l'idea bruniana della molteplicità
dei mondi e delle umanità. Nel De phoenomenis in orbe Lunae
(Venezia 1612) G.C. Lagalla, professore di filosofia presente a
dimostrazioni romane del G., evidenziò il nesso pur escludendo che
il G. lo proponesse.
Tornato a Firenze lavorò sui periodi dei Medicei, per trarne
efemeridi da cui derivare misure di longitudine approssimate a 1/2
minuto di grado. Presentò il metodo ai Medici, che lo trasmisero a
Madrid; seguirono trattative durate fino al 1632, e cessate per
l'imprecisione delle misure su vascelli in movimento. Nell'estate
del 1612 dibatté con un professore a Pisa, V. di Grazia, sui pesi
relativi di acqua e ghiaccio e sul galleggiamento, che Grazia
spiegava aristotelicamente con la forma del corpo galleggiante, ed
egli in modo archimedeo. Grazia fu poi sostenuto dal Delle
Colombe; su richiesta di Cosimo II entro la primavera del 1612 il
G. terminò un Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua,
o che in quella si muovono (Firenze 1612).
L'opera ebbe repliche: un Discorso apologetico del Delle Colombe e
l'Operetta intorno al galleggiare dei corpi solidi di G. Coresio
(apparsi a Firenze nel 1612); le Considerazioni sopra il discorso
del sig. G. G. (Pisa 1612) di un "accademico incognito" (A.
d'Elci); uno scritto dello stesso titolo del Grazia (Firenze
1613). Una Risposta alle opposizioni di L. Delle Colombe e V. di
Grazia contro al trattato delle cose che stanno su l'acqua o che
in quella si muovono (ibid. 1615) apparve anonima con dedica del
benedettino B. Castelli (allievo del G. a Padova, lettore di
matematica a Pisa e suo collaboratore fino al 1623, quando passò a
Roma). Castelli aveva scritto la parte iniziale, il G. il resto.
Discorso e Risposta estendono l'idrostatica archimedea,
incompatibile con la fisica aristotelica. Il primo considera
soprattutto il galleggiamento; la seconda difende ipotesi di
struttura dei liquidi sottese alla trattazione. Insieme iniziano
l'idrostatica moderna; anche se l'analisi corpuscolare dello stato
liquido talora semplifica (negando tensione superficiale e
coesione; il calore è ritenuto materia), gli specialisti
accettarono presto i risultati.
La corrispondenza con G.B. Baliani (in rapporto con il G. dal
1613) e altri documenta ricerche sperimentali (peso dell'aria e
altro). Ma proseguì le osservazioni astronomiche (nel novembre
1612 osservò quasi certamente Nettuno, senza riconoscerlo come
pianeta), pubblicate solo nel caso delle macchie solari, osservate
dal 1610 da Th. Harriot, J. Fabricius, il gesuita C. Scheiner e
dallo stesso G. (forse nell'estate). Quando Scheiner, in un
opuscolo (Tres epistolae de maculis solaribus, Augusta 1612)
pubblicato con lo pseudonimo "Apelles post tabulam latens",
presentò il fenomeno come nuovo, il G. rivendicò una priorità (ma
le osservazioni di Harriot e Fabricius erano indipendenti e forse
anteriori alle sue), e dissentì sull'interpretazione. Il gesuita
(del quale poi irriderà la Rosa Ursina, sintesi ventennale di dati
accurati sul fenomeno), limitava il significato rivoluzionario
delle macchie considerandole ammassi di materiali ruotanti attorno
al Sole, non prove di un dinamismo interno e della rotazione
dell'astro. In lettere pubblicate dai Lincei (Istoria e
dimostrazioni intorno alle Macchie Solari e loro accidenti,
comprese in tre lettere scritte all'illustrissimo signor Marco
Velseri, Roma 1613) il G. si espresse in termini che crearono in
Scheiner un risentimento durevole, approfondì la critica alla
fisica celeste aristotelica ed espresse un copernicanesimo deciso.
Poco dopo polemizzò con S. Mayr (maestro del Capra), che sostenne
di aver osservato i satelliti di Giove dal dicembre 1609 (Mundus
Iovialis anno MDCIX detectus ope perspicilli belgici, Norimberga
1614). Nessuna osservazione di Mayr è anteriore con certezza al
1610, ma le prime furono forse indipendenti, e sono in parte
originali.
Nel contempo il G. riorganizzò la propria vita privata. Tenne con
sé Vincenzio e monacò le figlie, aggirando la prescrizione di
quindici anni di età per l'ammissione al noviziato: nel 1614 le
collocò a titolo provvisorio nel monastero di S. Matteo in Arcetri
(sui colli fiorentini, dove poi fitterà "il Gioiello", sua
residenza dal 1633); Virginia divenne novizia nel 1616, col nome
di Maria Celeste, e Livia nel 1617, con quello di Arcangela.
L'affetto reciproco che emerge dalle lettere di Maria Celeste al
padre non rende meno problematico questo comportamento, che gli
usi del tempo non spiegano del tutto e che probabilmente influì su
Livia, indole aspra forse per reazione al proprio destino, e meno
vicina a lui. Anche Vincenzio, avviato agli studi (si laureò in
utroque a Pisa), pur non privo di doti fu personalità irrisolta, e
il suo rapporto col padre fu alterno.
Il tentativo di penetrare la psicologia intima del G. urta contro
il suo riserbo e la genericità delle testimonianze. Non si astenne
dal matrimonio per misoginia, ma non sembra aver posto la vita
sentimentale e domestica sul piano della professione e della
ricerca. La denuncia del Pagnoni parla di tensioni con la madre,
che avrebbe spesso ingiuriato, e nella Difesa contro il Capra si
legge che la perdita di un figlio, pur dolorosa, toglie qualcosa
che ognuno può "produrre e rigenerare", mentre la sottrazione di
un merito intellettuale è più acerba perché tocca ciò che non
viene dalla sorte. Ma non si può parlare di cinismo: ebbe un senso
robusto del vivere e il suo zelo religioso fu probabilmente tenue
(le accuse del Pagnoni appaiono credibili), ma non fu epicureo
conseguente o libertino dissimulato, e le sue critiche
all'aristotelismo scolastico non toccarono la fede religiosa di
base. Le aperture alla mondanità e alla corte esigono distinzioni:
uomo del suo tempo, usò i rapporti personali e il proprio ruolo;
rispettò (talora incensò) le gerarchie; curò le valenze economiche
della propria attività e fu diverso dal quasi isolato eroe del
pensiero cui talora è stato assimilato. Ma sviluppò forse un
giudizio disincantato sulla situazione storica e sui rapporti
umani: già prima del 1633 amò risiedere ad Arcetri, in rapporto
solo con amici selezionati.
A Firenze le obiezioni scritturali del Delle Colombe al
copernicanesimo (già proposte nel sec. XVI) mobilitarono i
tradizionalisti. Alcuni, forse ispirati dall'arcivescovo,
pensarono di far condannare l'eliocentrismo in prediche pubbliche;
i domenicani N. Lorini e T. Caccini lo dissero inconciliabile con
la Bibbia. A Castelli fu chiesto di non trattare nelle lezioni
delle idee di Copernico; nel dicembre 1613, interrogato sulla
questione dalla granduchessa madre Cristina di Lorena, ne scrisse
al maestro, che rispose con una lettera subito divenuta testo di
riferimento.
Il G. vi affrontò due nodi: il rapporto scienza-Rivelazione; i
passi biblici usati contro Copernico. Natura e Scrittura,
procedenti da Dio, devono concordare; ma in punti religiosamente
marginali la Scrittura ha usato metafore o si è adattata
"all'intendimento dell'universale", e l'univocità della tradizione
interpretativa su un passo non è decisiva. Queste tesi, cui
l'esegesi cattolica si accosterà molto dopo, contrastavano con
quella tradizionale, che dava senso letterale a ogni passo di
senso non palesemente figurato. La distinzione galileiana tra
asserti biblici di contenuto religioso, necessariamente veri, e
altri non tali contrastava con la tesi (sorretta dall'autorità di
Bellarmino) che la loro verità non è funzione del contenuto ma
della fonte, cioè Dio. Nel 1615 il G. ampliò la lettera a Castelli
in una a Cristina di Lorena; nessuna delle due fu pubblicata
allora (quella a Cristina lo sarà solo nel 1636), ma entrambe
circolarono ampiamente. Sebbene egli avesse voluto evitare che la
Scrittura fosse arma dei tradizionalisti e sottrarre il dibattito
a ipoteche di principio, il suo intervento in questioni esegetiche
fu per molti un'ingerenza e una minaccia alla tradizione. Maturò
così la possibilità che la tesi copernicana, pur divulgata da
settanta anni, divenisse oggetto di un pronunciamento della
Chiesa.
Nel dicembre 1614, predicando a Firenze, il Caccini accusò
galileiani e "matematici" di magia e irreligiosità. I suoi
superiori si scusarono con il G., ma nel febbraio 1615 il Lorini
inviò all'Inquisizione romana copia della lettera a Castelli e
denunciò la diffusione delle idee galileiane a Firenze. Per
cautela anche il G. mandò a Roma una copia della lettera,
leggermente diversa. Si è creduto che questa, sfumata in certe
espressioni, corrispondesse all'originale (che egli, richiestone,
non presentò), e la prima fosse un artefatto del Lorini o sommasse
le modifiche prodotte da trascrizioni; di recente è stato invece
sostenuto il contrario. Se la seconda evenienza fosse reale, il
testo esibito dal G. fu un costrutto difensivo.
Il S. Uffizio ravvisò nella lettera solo locuzioni improprie, e le
accuse di Caccini e altri su temi filosofici e teologici nonché
sui rapporti del G. con Sarpi caddero. In marzo il carmelitano
P.A. Foscarini pubblicò a Napoli una Lettera sopra l'opinione de'
pittagorici e del Copernico della mobilità della Terra e stabilità
del Sole, che diceva conciliabili Scrittura e eliocentrismo. Dato
anche che P. Dini, un amico prelato di Curia, non vedeva pericoli
e recepiva alcune sue proposte esegetiche, il G. mutò strategia:
impostò una risposta a una lettera del Bellarmino a Foscarini;
stese la lettera a Cristina di Lorena e una a Dini su aspetti
della cosmogonia della Genesi. Andò poi a Roma, dove tra dicembre
1615 e febbraio 1616 incontrò esponenti curiali e diffuse note
(restano le cosiddette Considerazioni circa l'opinione
copernicana, un discorso Del flusso e reflusso del mare al card.
A. Orsini, indicante nelle maree il prodotto di rotazione e
rivoluzione terrestri, e una lettera del 20 febbraio che nega che
la natura "terrestre" della Luna implichi che essa e i pianeti
siano abitati). Dibatté col Caccini e F. Ingoli, autore di un De
situ et quiete terrae circolato manoscritto (che ebbe una risposta
da Keplero, e poi dal Galilei). Gli amici ritennero vincente la
sua dialettica; ma, radicalizzando il dibattito, egli forse
contribuì a provocare un pronunciamento. Dal novembre il S.
Uffizio esaminava l'eliocentrismo, sintetizzato in due
proposizioni: "che il sole sii centro del mondo, et per
consequenza immobile di moto locale"; "che la terra non è centro
del mondo, né immobile, ma si move secondo sé tutta, etiam di moto
diurno". Nel febbraio 1616 la prima fu giudicata "stulta et
absurda in philosophia, et formaliter haeretica", e la seconda
pure "stulta et absurda", e "in Fide erronea". Furono quindi
proibite, e Paolo V (25 febbraio) ordinò a Bellarmino di
informarne il G. al quale, se avesse rifiutato di conformarsi, il
commissario del S. Uffizio doveva intimare un precetto, la cui
trasgressione l'avrebbe incriminato. L'incontro con Bellarmino (26
febbraio) è un evento dibattuto. In una dichiarazione volta a
smentire voci su una condanna e abiura del G. il cardinale asserì
d'averlo solo informato della decisione del S. Uffizio, e nel 1633
il matematico ripeté questa versione. Ma, secondo un documento
allegato agli atti e una nota a un verbale del S. Uffizio, il
commissario, forzando il proprio mandato (il G. non aveva
obiettato), davanti a notaio e testimoni gli intimò di non
"tenere, docere aut defendere, verbo aut scriptis"
l'eliocentrismo. La registrazione di questo precetto, base
giuridica del processo del 1633, è anonima, e ha originato
contestazioni e sospetti di falsificazione. Seguì una svolta,
decisa forse da Paolo V per riguardo a Cosimo II: il S. Uffizio
trasferì il caso alla congregazione dell'Indice, che il 1° marzo
definì l'eliocentrismo "pernicies catholicae veritatis" (non
eresia). Il decreto, promulgato il 5 marzo, non menziona il G. e -
come nella natura della congregazione - riguarda scritti e non
persone: il De revolutionibus orbium coelestium di Copernico, il
commento al Libro di Giobbe di D. de Zuñiga (che dava una lettura
eliocentrica di luoghi biblici) e la Lettera del Foscarini.
Quest'ultima fu proibita in via definitiva. Per Copernico fu
adottato un canone epistemologico di origine classica e ripreso
dalla scolastica, modificando in senso "ipotetico" i passi che
presentavano il moto della Terra come realtà naturale e
consentendo l'uso del libro a scopi predittivi o di calcolo. La
correzione fu affidata all'Ingoli, la cui bozza (1618) fu
approvata dai matematici del Collegio romano e pubblicata nel
1620. Forse questa soluzione mediò tra un orientamento rigorista e
uno più duttile (Urbano VIII, che da cardinale era stato
coinvolto, disse poi a Campanella di essersi opposto). Favorevoli
a una condanna decisa furono Paolo V, alcuni cardinali e i
domenicani del S. Uffizio; la tesi mediana fu forse del gesuita
Bellarmino che, morto Clavio, consultò il successore C.
Grienberger. Forse il procedimento fu anche un episodio delle
relazioni difficili tra i due Ordini dottrinali, e più che esserne
gli artefici i matematici gesuiti potrebbero esservi stati
coinvolti, mediando tra lo scolasticismo e la spinta dello
sviluppo scientifico. La vicenda, eretta a simbolo delle tensioni
tra fede (o dogma) e scienza (o "libero pensiero"), è stata
ricostruita soprattutto in tre aspetti: ragioni d'una decisione
che poi danneggiò la Chiesa; modalità della sentenza; motivi che
mutarono sede e destinatari del procedimento. Per circostanze
complesse diversi documenti (come per il processo del 1632-33)
sono perduti, e ogni spiegazione deve riferirsi alle categorie
intellettuali dei protagonisti, senza attribuire alla teoria
respinta l'evidenza poi raggiunta. Il ricorso ai matematici del
Collegio romano esclude che la condanna nascesse da mera
incompetenza. Un geocentrismo puro era ormai insostenibile, ma il
sistema di Brahe era di un ordine di esattezza analogo a quello di
Copernico; le prime due leggi di Keplero non erano ancora
considerate, neanche dal Galilei. Questi o altri fatti, però,
spiegano la mancata adozione del sistema copernicano, non la sua
condanna; questa fu dovuta all'incapacità di discostarsi dal senso
comune prescientifico e dal senso letterale dei luoghi biblici, e
alle aporie connesse al moto della terra nella meccanica non
inerziale ancora accettata. La supposta impossibilità fisica di un
sistema che, astronomicamente, non sembrava dimostrato vero ma non
era dimostrato falso, spiega perché la condanna non sembrò
compromettente per il futuro.
Il G. fu a Roma fino a giugno; Paolo V lo tranquillizzò, ebbe
solidarietà dai Lincei e da Bellarmino la dichiarazione anzidetta.
Campanella fece circolare una Apologia pro Galilaeo (pubblicata
poi a Francoforte). Le reazioni a Firenze non sono note; gli
avversari, forse paghi d'una condanna impersonale, sospesero gli
attacchi. Ebbe vicini Castelli, allievi e amici (non il più
stretto, F. Salviati, morto nel 1614, ma N. e A. Arrighetti, F.
Pandolfini, M. Guiducci). Dopo il 1610 non ebbe veri allievi,
perché a Pisa fu solo docente onorario e non sembra tenesse corsi
privati; ma contribuì a formare molti (N. Aggiunti, B. Cavalieri,
F. Rinuccini, F. Michelini, D. Peri, C. Noferi, C. Settimi, O.
Ricasoli Rucellai, A. Nardi, V. Renieri, V. Viviani). Tacendo
sulla teoria riprese le osservazioni, le ricerche fisiche e il
progetto sulla longitudine; sviluppò il microscopio, costruito nel
1614. Ma nel 1618 l'apparizione successiva di più comete portò
un'altra polemica. Dopo l'analisi di Brahe su quella del 1577 la
teoria di questi oggetti era cruciale; quando O. Grassi, docente
nel Collegio romano, sostenne con considerazioni parallattiche che
le comete non erano corpi "sublunari", secondo la tesi
aristotelica, ma astrali (De tribus cometis anni MDCXVIII, Roma
1619) il G. ispirò una critica di M. Guiducci (Discorso delle
comete, Firenze 1619). Le ragioni non sono chiare: Grassi non
aveva parlato di lui; l'uso della parallasse - valido basilarmente
anche per le comete - demarcava la nuova astronomia dalla
cosmologia aristotelica, e mostrava che i matematici gesuiti,
malgrado il decreto su Copernico e le resistenze interne,
intendevano sostenerla. Guiducci-Galileo, facendo leva su alcuni
errori, contestò l'applicazione del metodo alle comete (spingendo
Keplero a replicare), e ne ripropose in nuova versione l'origine
terrestre. Dato che su altri punti le posizioni del G. furono più
avanzate di quelle di Grassi, gli studi hanno sminuito la statura
del gesuita, non indagando i motivi dell'attacco. Forse il G.
imputò ai matematici del Collegio romano il mancato sostegno nel
1616, mentre essi ritenevano di avere svolto un ruolo di
moderazione. Inoltre il metodo della parallasse era legato a
Brahe, verso il quale era tendenzialmente critico. Alcuni hanno
ipotizzato che la tesi neoaristotelica sulle comete fu solo un
espediente per evidenziare errori dell'avversario; ma l'ipotesi -
dubbia - rafforza l'estraneità del G. al processo formativo della
teoria corretta. Secondo altri egli mutò poi posizione, ma gli
indizi in tal senso sono tenui.
Grassi imitò il G. facendo rispondere un allievo fittizio, Lotario
Sarsi Sigensano, anagramma di Oratio Grassi savonese (Libra
astronomica ac philosophica qua Galilaei Galilaei opiniones de
Cometis a Mario Guiduccio expositae examinantur, Perugia 1619); il
G., edotto dell'identità tra allievo e maestro, poté colpire il
secondo dileggiando il primo. Dopo scritti del Guiducci (Lettera
al m. r. p. Tarquinio Galluzzi nella quale si giustifica dalle
imputazioni dategli da Lotario Sarsi, Firenze 1620) e G.B.
Stelluti (Scandaglio sopra la Libra astronomica e filosofica di
Lotario Sarsi, Terni 1622), il G. fu forse incoraggiato a
rispondere da un poemetto elogiativo (Laudatio perniciosa)
indirizzatogli da M. Barberini, ormai cardinale di primo piano.
Inviò la replica ai Lincei nell'ottobre 1622; l'elezione a papa
del Barberini, divenuto Urbano VIII, fu un viatico per la stampa,
con un titolo ispirato a quello di Grassi (Il Saggiatore, nel
quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose
contenute nella Libra astronomica e filosofica di Lotario Sarsi,
Roma 1623). Il Discorso di Guiducci criticava le misure
parallattiche sulle comete con ragioni ottiche, e la Libra era
scesa su questo terreno. Il Saggiatore vi rimase, con
considerazioni gnoseologiche (distinzione tra qualità reali e
apparenti dei corpi, le une puramente meccaniche, le altre effetto
delle prime sull'apparato percettivo), epistemologiche (matematica
come lingua della natura), di teoria della materia (natura
corpuscolare di luce e calore). Queste idee risalivano in parte
all'atomismo classico, e alcune erano già nella Risposta al Delle
Colombe e al Grazia. Ma la brillantezza di stile e la fusione tra
specialismo e tesi generali dettero al Saggiatore un grande
potenziale critico, e l'abilità dialettica, l'ironia e alcuni
errori dell'avversario permisero al G. di eroderne la credibilità,
pur se gli argomenti di Grassi non erano banali quanto apparvero
(una sua Ratio ponderum librae et simbellae, pubblicata a Parigi
nel 1626, non mutò la situazione; il G. la postillò per una
replica, alla quale poi rinunciò). Il Saggiatore è un testo chiave
per la "filosofia" galileiana. Alcuni aspetti di questa
evolvettero (come, tra 1612 e 1638, la teoria della materia); e la
frammentarietà delle formulazioni, la loro lontananza temporale,
talora la vaghezza o apparente contraddittorietà hanno portato a
interpretazioni anche incompatibili. Ha prevalso a lungo un G.
"antifilosofo", distruttore di lessico e dottrine verbalistici col
rigore dell'analisi e la franca aderenza ai dati naturali, il cui
humus sarebbero state le matematiche applicate ellenistiche
(soprattutto la statica archimedea). Il nesso di alcune sue idee
con filosofie naturali, come quella atomistica, non parve una
prova in contrario perché in esse potevano esservi incidentalmente
concezioni valide. In seguito l'approfondimento dei contesti e
della storia precedente di temi e discipline, e altre concezioni
storiografiche e epistemologiche, hanno portato a tesi
"continuiste" che individuano l'humus in correnti e dottrine della
tradizione, indicate però variamente (occamismo franco-inglese;
"platonismo matematico"; epistemologia dell'averroismo padovano;
filoni dell'epistemologia tomista). Non esiste dunque
un'interpretazione comune, anche se molti nessi sono stabiliti.
L'estensione del tema scientifico ad altri di filosofia generale,
motivo di fortuna del Saggiatore, ravvivò i sospetti sull'autore.
Una segnalazione anonima al S. Uffizio rilevò che teoria
corpuscolare e interpretazione meccanica delle qualità
distruggevano la metafisica della sostanza, base
dell'interpretazione usuale della transustanziazione eucaristica
(quest'accusa alle concezioni corpuscolari, dopo quelle consuete
di epicureismo e ateismo, investì poi anche quelle dichiaratamente
cristiane di Descartes e Gassendi). La segnalazione fu lasciata
cadere (Urbano VIII aveva molto apprezzato il Saggiatore), ma
l'episodio conferma un clima.
Nell'aprile del 1624 il G. andò a Roma, per omaggiare l'amico
asceso al vertice della Cattolicità ma anche per tornare sul
decreto del 1616. Urbano VIII lo ricevette più volte e gli prodigò
favori (spontanei o richiesti): concesse al figlio una pensione
ecclesiastica (avendo Vincenzio - cui si attribuiscono idee
anticlericali - rifiutato la tonsura necessaria per ottenerla, il
padre la fece poi assegnare a un nipote), e due al G. (per le
quali ricevette la tonsura nel 1631). Sull'eliocentrismo, però,
ribadì che era ammesso solo come schema ipotetico, osservando (ma
l'episodio potrebbe risalire al 1616) che Dio poteva produrre il
moto apparente degli astri con un numero indefinito di loro
disposizioni, cosicché il fatto che una teoria gli si accorda non
prova che descriva la realtà fisica. Ma il G. lavorò a che la
situazione mutasse; dopo aver presentato ai Lincei un microscopio
composto (ne inviò altri in Italia e all'estero), usato da F.
Stelluti per osservazioni pubblicate nel 1630, nel giugno a
Firenze stese una risposta al saggio di Ingoli del 1616, e riprese
lo scritto al cardinale Orsini sulle maree per farne un'analisi
generale del moto terrestre. L'idea risaliva a prima del 1597, e
nel 1610 aveva accennato a un De systemate universi. Vi lavorò a
lungo, con pause in cui riprese ricerche precedenti (longitudine,
armatura delle calamite, idee sulla struttura del continuo emerse
a Padova ed esposte poi nei Discorsi), studiò il regime del fiume
Bisenzio, partecipò a magistrature cittadine (nel 1628 entrò nel
Consiglio dei duecento), affrontò problemi di salute e privati
(seguì la carriera del figlio, e nel 1629 difese lo stipendio
percepito come docente onorario a Pisa che gli era stato
contestato). Curò inoltre la successione di N. Aggiunti al
Castelli, chiamato a insegnare a Roma, e s'interessò alle
Dimostrazioni geometriche della misura dell'acque correnti (Roma
1628) del benedettino, testo fondante dell'idraulica fluviale. Nel
1630, terminato il proprio lavoro, pensò di chiedere l'imprimatur
a Roma, forse fidando su Cesi. Dopo contatti di Castelli col
maestro del Sacro Palazzo, il domenicano N. Riccardi, e col
cardinale Francesco Barberini, andò a Roma (maggio-giugno 1630),
contando sull'appoggio del granduca Ferdinando II. Ma il permesso
di stampa tardò; il manoscritto fu letto da un confratello di
Riccardi, R. Visconti, che chiese ritocchi che furono accolti. In
agosto, morto Cesi, il G. pensò di stampare a Genova (ne trattò
col Baliani), poi a Firenze. Quando chiese l'imprimatur definitivo
Riccardi prima disse di voler rivedere il testo, poi che inizio e
fine dovevano essere rivisti a Roma, mentre il resto poteva
esserlo a Firenze, dove un domenicano scelto dal G., G. Stefani,
l'approvò. Ma Riccardi controllò ancora il tutto e poi, sentito il
papa, pose condizioni: che il titolo non alludesse alle maree; che
l'opera si astenesse da questioni scritturali; che presentasse le
idee copernicane nel modo "ipotetico" prescritto nel 1616. Inoltre
il proemio doveva dichiarare l'intento di mostrare che il decreto
del 1616 non era imputabile a ignoranza scientifica, e la chiusa
doveva presentare l'argomento di Urbano VIII sulla ipoteticità di
ogni schema astronomico. La stampa dal Dialogo di Galileo Galilei…
Dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due
massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano; proponendo
indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per
l'una, quanto per l'altra parte (in Fiorenza, per G.B. Landini)
iniziò nel giugno 1631, col solo permesso dell'Inquisizione di
Firenze, e terminò nel febbraio 1632.
Il Dialogo è estraneo ai generi allora usuali della letteratura
scientifica. Non rientra in una disciplina, impiegando
considerazioni astronomiche, meccaniche, matematiche,
cosmologiche, epistemologiche, logico-semantiche. Non è un
trattato; non ha ordine deduttivo, perché ha digressioni e
circonvoluzioni del discorso comune; avvia la fisica matematica
moderna, ma il formalismo - pur nei modi del tempo - vi ha poca
parte. I temi hanno spesso matrici remote; l'originalità - a parte
singole tesi o risultati - è soprattutto di scopo e modi. Forma
dialogica e uso del volgare erano già nella letteratura matematica
del Cinquecento; l'identificazione dei parlanti con posizioni
dottrinali era consueta (anche negli scritti di Vincenzio Galilei,
che anticipano moduli usati dal figlio). Ma nessuno aveva unito in
pari grado stile, forza dialettica e livello di analisi, o era
riuscito a far apparire persone reali delle figure con ruoli
prefissati. Salviati e Sagredo (morto anch'egli, nel 1620) sono
più che il portavoce dell'autore e un arbitro: la mordacità
brillante del primo e la finezza spassionata del secondo sono
tratti autentici. Il nome del terzo interlocutore, Simplicio,
evoca un commentatore di Aristotele e lo stereotipo
dell'accademico libresco; non si può escludere che il G. pensasse
a una persona, ma l'identificazione con Cremonini o altri non
trova supporto. La conversazione, nel palazzo veneziano dei
Sagredo, tocca quattro aspetti in altrettante "giornate": critica
della cosmologia aristotelica; fenomeni del moto terrestre;
questioni astronomiche e correlati meccanici e ottici; la
spiegazione delle maree già proposta all'Orsini. Alla
caratterizzazione della fisica tradizionale (intreccio di
causalità e finalità, circolarità esplicativa, reificazione di
qualità percettive, distinzioni linguistiche e dati psicologici),
segue l'enunciazione di ciò che sarà detto relatività galileiana e
di risultati cinematici degli anni padovani, dimostrati poi nei
Discorsi. Il tutto apre la strada alla teoria delle maree, per il
G. decisiva perché implicante la realtà dei moti della Terra.
Originata dal rifiuto dell'attrazione lunare, che come per le
"virtù" e le "qualità" aristoteliche egli riteneva una
reificazione, essa fu un brillante errore indotto da purismo
epistemologico. Il G. non si valse dei lavori di Keplero, che
possedeva e che mostravano la netta superiorità
dell'eliocentrismo. In questo influirono le loro forti differenze
di "stile" scientifico; ma va aggiunto che non fu raro in lui il
silenzio su proposte nuove di altri, inclusa la Geometria di B.
Cavalieri, allievo di Castelli e in parte suo, che invano gli
chiese un parere sul proprio metodo. Così i conservatori poterono
ritenere che il decreto del 1616 fosse ancora in linea con lo
stato delle conoscenze, e concentrarono l'esame sulla congruenza
dell'opera con esso. Nel proemio v'era la dichiarazione chiesta
dal Riccardi, ma il seguito accreditava palesemente
l'eliocentrismo: Salviati prevaleva sempre su Simplicio, difensore
del geocentrismo puro, non del più sofisticato sistema di Brahe.
Presentare le maree come prova dei moti della Terra contraddiceva
l'argomento di Urbano VIII, per giunta fatto esporre da Simplicio
(il che parve derisorio) e commentato da Salviati in termini tanto
compunti da suonare ironici.
Nell'estate del 1632 Urbano VIII affidò il Dialogo a una
commissione, come reagendo a una scorrettezza (al modo in cui era
stato formulato il suo argomento, o al fatto che il G. aveva
chiesto l'imprimatur senza accennare al precetto). La commissione
concluse che l'opera infrangeva il decreto del 1616, e il papa
attivò il S. Uffizio e convocò a Roma l'autore; il G. chiese di
essere interrogato a Firenze per motivi di salute ma dovette
obbedire. A Roma, dal febbraio 1633, poté abitare nell'ambasciata
medicea purché evitasse rapporti esterni; interrogato il 12 aprile
disse di non ricordare se il 26 febbr. 1616 gli era stato intimato
un precetto, ma non l'escluse. Detenuto nel palazzo del S.
Uffizio, il 30 aprile ammise di aver rappresentato l'eliocentrismo
come superiore (per "vana ambizione e compiacimento di apparire
arguto"), ma ripeté di non aver memoria del precetto; il 21
giugno, sotto minaccia di tortura, lo ribadì. Il giorno seguente,
in S. Maria sopra Minerva, abiurò e ascoltò la sentenza di
carcerazione "ad arbitrio nostro" e proibizione assoluta del
Dialogo. Abiura e sentenza furono inviate in diverse città
italiane per esservi pubblicate e lette a filosofi e matematici; a
Firenze questo avvenne il 12 luglio, presenti amici e allievi del
Galilei. L'inquisitore locale fu ammonito per aver approvato
l'opera.
Tra il processo del 1633 e la vicenda del 1615-16 vi sono
differenze importanti. Fu personale e non dottrinale, e non
riguardò tesi ma questioni di fatto: se l'opera infrangeva un
decreto; se l'autore aveva contravvenuto a una diffida legalmente
impegnativa. Pur negando l'intenzione il G. rispose
affermativamente alla prima (nel probabile convincimento che un
diniego avrebbe aggravato la situazione); quanto alla seconda, la
sua scelta di non negare l'imposizione del precetto - quando
nessun testimone sopravviveva - significa almeno quanto le
irregolarità di registrazione. Una volta escluso che la
concessione dell'imprimatur rendesse illegittimo un successivo
accertamento di congruità tra intenti e precetto, lo spazio di
difesa era ristretto, e l'esito quasi inevitabile. La sentenza fu
firmata da sette dei dieci cardinali del S. Uffizio, ma non v'è
prova che questo non fosse casuale. Concernendo la mera conformità
al pronunciamento di un'autorità essa ebbe destino diverso da
quello del decreto del 1616, divenuto quasi inoperante nel 1757,
quando Benedetto XIV lo escluse dalle edizioni venture
dell'Indice; il Dialogo vi figurò fino a Ottocento inoltrato.
L'applicazione della condanna fu mite, forse anche per riguardo ai
Medici (si è parlato di inesperienza e pavidità del giovane
Ferdinando II, ma è dubbio che un atteggiamento più energico
sarebbe stato efficace). Il 23 giugno la sede di detenzione fu
spostata nell'ambasciata toscana, e il 30 nel palazzo senese di un
amico del G., l'arcivescovo Ascanio Piccolomini. L'ambiente
favorevole di Siena lo restituì al lavoro. Da idee precedenti
sviluppò risultati sulla resistenza dei materiali che espose in
seguito nei Discorsi, prima della parte cinematica, sulla quale
pure lavorò. Nel contempo postillò un libro dell'aristotelico A.
Rocco (Esercitationi filosofiche… le quali versano in considerare
le posizioni et obietioni che si contengono nel dialogo del sig.
G. G. linceo, contro la dottrina d'Aristotile, Venezia 1633). F.
Micanzio, il biografo di Sarpi rimasto referente veneto del G.,
comunicò le postille al Rocco, avviando un dialogo indiretto e
incoraggiando l'amico a farne uno scritto organico, che non stese
mai; esse costituiscono comunque un'integrazione al Dialogo. Il G.
postillò anche un libro di J.B. Morin (Famosi et antiqui
problematis de Telluris motu, vel quiete, hactenus optata solutio,
Parigi 1631), e giudicò oralmente con l'usuale mordacia uno di S.
Chiaramonti (Difesa… al suo Antiticone, e libro delle tre nuove
stelle, dall'oppositioni dell'autore de' due massimi sistemi
tolemaico e copernicano, Firenze 1633). Nel dicembre 1633 ottenne
di risiedere ad Arcetri, dove poté ricevere visite autorizzate,
incluse quelle di Morin, Hobbes (nel tardo 1635) e Milton (forse
nel settembre del 1638). Nell'ottobre 1635 incontrò un antico
allievo di Padova, F. de Noailles, che come ambasciatore francese
a Roma aveva cercato di far attenuare la sua condanna; a lui
dedicherà i Discorsi. Castelli poté visitarlo solo nel 1638. Una
sua richiesta di andare saltuariamente a Firenze per cure,
respinta nel 1634, fu accolta solo nel 1638, dopo che aveva
perduto la vista. Prima e dopo il 1633 la sua vita privata a
Arcetri fu semplice; curava personalmente i propri vigneti, e le
attività quotidiane hanno un'eco nelle lettere della figlia.
Già nei mesi di Siena la notizia che lavorava all'opera sul moto
destò aspettative; tra 1634 e 1636 furono pubblicate la traduzione
francese di M. Mersenne delle Mecaniche (circolate fuori d'Italia
da circa il 1615) e traduzioni latine di M. Bernegger del Dialogo
e della lettera a Cristina di Lorena. Il primo fu molto letto (nel
1634 da P. de Carcavy, I. Beeckman, Descartes). Tornando alla
meccanica, principale campo d'indagine fino al 1609, il G. non
volle solo evitare la perdita di risultati fondamentali e
evidenziare, nella sconfitta, meriti e priorità. La nuova
cinematica poteva rimuovere le pregiudiziali sul moto terrestre,
ma la giornata II del Dialogo non la presentava così
analiticamente da istituire un nesso con l'astronomia. Quindi egli
perseguì una strategia indiretta, astenendosi dalla meccanica
celeste. La stesura progredì nonostante crescenti disturbi fisici
e una grave crisi per la morte di Maria Celeste (aprile 1634). Dal
1630 aveva ripreso le note sul moto uniformemente accelerato,
delineando la futura giornata terza dell'opera, sviluppata a
Siena. Nel 1634 decise di premetterne una sulla struttura della
materia e del continuo e una sulla resistenza dei solidi alla
frattura (anch'essa sviluppo di riflessioni precedenti). Vi lavorò
nella prima metà del 1635; entro febbraio inviò al Micanzio una
bozza della futura giornata I dei Discorsi, ma l'amico lo avvisò
che per lui c'era un divieto "de omnibus editis ed edendis".
Perciò, completata in maggio la giornata II, inviò entrambe a G.
Pieroni, un ingegnere offertosi di far stampare l'opera in
Germania. Nella seconda metà del 1635 perfezionò la giornata III,
e nel 1636 la IV sulla traiettoria dei proiettili. Poiché Pieroni
incontrava difficoltà il G. si abboccò a Arcetri con L. Elzevier,
esponente dei noti editori-stampatori; gli affidò la stampa,
convenendo che l'opera avrebbe incluso anche una quinta giornata
sulla teoria delle proporzioni. Pensò poi a una sesta sulla forza
della percossa (altro tema avviato a Padova) e a un'appendice con
i teoremi giovanili sui centri di gravità. Ma, anche per il
peggiorare della salute e della vista, entro il maggio 1637 poté
fornire solo il testo delle giornate I-IV e dell'appendice, e
l'opera fu stampata con queste parti. Non avendo avuto un titolo,
gli Elzevier ne scelsero uno che al G. parve dimesso: Discorsi e
dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti
alla mecanica et i movementi locali… Con una appendice del centro
di gravità d'alcuni solidi (in Leida, appresso gli Elsevirii,
1638). Il libro entrò in commercio nell'estate e l'autore, per la
cecità sopravvenuta, non poté più esaminarlo.
I Discorsi conservano struttura, interlocutori e andamento
digressivo del Dialogo. La maggiore tecnicità li rende meno
brillanti e agevoli, anche perché le giornate III e IV consistono
quasi solo di estratti di uno scritto latino degli anni di Padova,
in tre parti: De motu aequabili, De motu naturaliter accelerato,
De motu proiectorum. Se influirono meno sulle idee moderne circa
natura e scopi del sapere, sono però scientificamente il lavoro
maggiore del Galilei. La dizione "nuove scienze" li qualifica non
come aggiunta a qualcosa già esistente, ma come fondazione di due
discipline. Entro certi limiti questo è corretto, ma per ragioni
diverse nelle due parti dell'opera. Le prime due giornate, oltre a
digressioni sul continuo matematico, struttura della materia,
pendoli e acustica, danno la prima trattazione generale della
resistenza dei corpi alla frattura, con un salto teorico che (come
il Della misura delle acque correnti di Castelli in idraulica)
mutò anche figure professionali. Ma la novità in cinematica
(giornate III e IV) investì la partizione stessa dell'oggetto di
studio. Fino ad allora la sola parte matematizzata della meccanica
era la statica; il moto era studiato dai filosofi naturali in
forme e con lessico non quantitativi. L'estensione dei metodi
della prima area alla seconda, solo avviata nei De motu
antiquiora, configurò i fatti statici come limiti di quelli
cinetici. Una nuova meccanica, fisica e matematica, concretò la
visione della realtà naturale della quale il Dialogo aveva fornito
le coordinate. Sviluppi di tale portata non sono opera di singoli,
ma il ruolo del G. fu decisivo, e se certi suoi fondamenti non
vanno modernizzati (pensò a una inerzia circolare) essi non
compromisero i suoi risultati in cinematica. Questi non sono solo
un piccolo numero di "scoperte" (nel moto uniformemente accelerato
gli spazi percorsi in porzioni uguali e successive di tempo stanno
tra loro come la successione 1, 3, 5, 7, 9, …; gli spazi percorsi
in 1, 2, 3, 4, … porzioni corrispondono alla prima potenza del
loro numero; un proiettile descrive sempre una parabola,
determinata dalla velocità e dall'angolo di lancio) e in risultati
derivati. Vi ebbero infatti un ruolo essenziale anche principî e
postulati intermedi, che permisero poi a Torricelli di
generalizzare l'impianto della disciplina.
In un'ultima esplosione di energie il G. avviò o riprese progetti
e osservazioni (nel 1637 descrisse la titubazione lunare) finché
disturbi alla vista iniziati nel 1632 lo portarono alla cecità
totale (1638). Nel 1636 propose il metodo per la longitudine agli
Stati generali d'Olanda. Lavorò alla giornata VI sulla percossa e
alle Operazioni astronomiche, su strumenti e metodi per migliorare
le osservazioni; cercò di provare il principio di uguaglianza dei
momenti di sfere discendenti lungo piani inclinati di uguale
altezza. Scrisse note sui movimenti degli animali (densità media
degli organismi in rapporto al mezzo ambiente; resistenza delle
strutture ossee; nessi tra forme delle specie, loro dimensioni,
tipo di locomozione che impiegano e densità del mezzo).
Nell'isolamento della cecità la corrispondenza lo distrasse e
stimolò. Nel giugno 1637 replicò a P. de Fermat sulla caduta dei
gravi; dal tardo 1638 discusse il De motu naturali gravium
solidorum (Genova 1638) del Baliani, che per vie diverse giungeva
a parte dei suoi risultati; nel 1640, in un saggio al principe
Leopoldo de' Medici sul Litheosphorus (Udine 1640) di F. Liceti,
relativo alla "pietra di Bologna" (una barite luminescente cui
s'era interessato almeno dal 1611), precisò idee sulla natura
della luce manifestate fin dal 1615 al Dini e altre sulla luce
cinerea della luna (fu incluso nel De Lunae subobscura luce di
Liceti, ibid. 1642). Nel tardo 1641 dettò a Evangelista Torricelli
parte della giornata V dei Discorsi, sulla teoria delle
proporzioni.
Per il suo stato gli occorsero collaboratori. Dopo il sacerdote
fiorentino Marco Ambrogetti dal 1639 il G. si valse del
diciassettenne Vincenzio Viviani, già promettente matematico, che
con Vincenzio Galilei testimonierà su un tentativo del 1641 di
applicare il pendolo agli orologi (che, sviluppato a Firenze negli
anni successivi, fonderà una rivendicazione di priorità nei
confronti di C. Huygens). Nell'ottobre del 1641 chiamò presso di
sé Torricelli, del quale Castelli gli aveva inviato risultati. La
collaborazione fu però brevissima, perché dal novembre 1641 le sue
condizioni si aggravarono.
Il G. morì ad Arcetri l'8 genn. 1642.
La modesta cerimonia funebre avvenne il giorno seguente nella
chiesa fiorentina di S. Croce. L'intento dei Medici e di Viviani
di erigergli un monumento sepolcrale nella stessa chiesa restò
irrealizzabile per quasi un secolo. Nel 1674 lo scolopio G.
Pierozzi ornò la sepoltura provvisoria nella cappella dei Ss.
Cosma e Damiano, attigua alla chiesa, con una commossa epigrafe
latina; solo nel 1734 il S. Uffizio autorizzò la costruzione di
una tomba monumentale in S. Croce, dov'erano quelle del padre e di
Michelangelo Buonarroti; le spoglie vi furono traslate nel 1737.