Filosofia
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Enciclopedia online
Attività di pensiero che attinge ciò che è
costante e uniforme al di là del variare dei fenomeni, con
l’ambizione di definire le strutture permanenti della realtà
e di indicare norme universali di comportamento.
1. Definizioni
La f. può definirsi come una forma di sapere che, pur nella
grande varietà delle sue espressioni, presenta quali note
pressoché costanti due vocazioni: una all’universalità
e una alla prescrizione di una saggezza. La prima si manifesta in
due modi: la f. si pone come una forma di sapere perfetta, comunque
quale forma di sapere migliore possibile all’uomo, rispetto ad altre
inferiori, o almeno come la forma di sapere più generale e
comprensiva; oppure si pone come un sapere che trae altre forme di
sapere a suo oggetto, per studiarne le caratteristiche, gli ambiti
di validità, i significati impliciti. In entrambi i casi la
f. finisce per riguardare tutte le forme dell’attività umana,
che essa indaga criticamente all’interno degli ambiti individuati
dalle denominazioni correnti delle diverse discipline filosofiche:
logica, etica, metafisica, estetica, f. della storia, del diritto,
della religione, della natura, della scienza, e così via. La
vocazione alla prescrizione di una saggezza si configura come
indicazione di una condotta conforme ai risultati della ricerca
filosofica.
2. La ricerca del principio delle cose
Nelle più antiche manifestazioni della tradizione occidentale
la f. si presenta come una scienza, anzi la scienza per eccellenza,
e si occupa delle origini e della struttura delle cose. Nota comune
ai diversi filosofi è la ricerca del principio della
realtà, di un qualcosa che stia a fondamento della
molteplicità dei fenomeni e la renda intelligibile. Secondo
la testimonianza aristotelica, per la maggior parte dei primi
filosofi questo principio è di carattere materiale: in
Talete, per es., è l’acqua il principio comune delle cose.
Ma Anassimandro va oltre questa considerazione di un principio
materiale e ravvisa il ‘principio’ in una realtà non
determinabile, che chiama appunto l’illimitato e in cui vede la
causa della nascita e della dissoluzione degli esseri, il che
avviene secondo necessità. Si profila il motivo della
legalità cosmica, del significato unitario della varia
molteplicità dei fenomeni. Questo motivo torna in Eraclito
con la nozione di logos come legge dell’accadere e come regola dei
conflitti di opposti in cui consiste lo scorrere della vita. In
Eraclito troviamo anche la distinzione di un sapere volgare e di un
sapere autentico, il primo proprio dei più, il secondo
proprio del filosofo, cioè del sapiente che, oltre le
apparenze, conosce la vera natura delle cose. Con Parmenide di Elea,
si ha una netta distinzione, anzi contrapposizione, di verità
e opinione, correlativa di una valutazione della realtà, di
cui la sostanza autentica e veramente reale è l’essere,
ciò che è contrapposto al mutevole e instabile mondo
del divenire. Con ciò era posto il concetto di una
realtà superiore, transfenomenica, attingibile dalla ragione,
in antitesi al mondo dell’esperienza ordinaria, recepito dai sensi.
3. La f. come ‘scienza prima’
Verso la metà del 5° sec. a.C. l’interesse della ricerca
filosofica si sposta verso i problemi antropologici (conoscenza,
moralità). Protagonisti di questo nuovo indirizzo sono i
cosiddetti sofisti, ai quali si deve anche la critica di una serie
di nozioni tradizionali. La f. diventa critica della tradizione, nei
suoi aspetti religiosi, etici, giuridici, politici. Alla tradizione
con le sue certezze subentra la discussione (onde la
centralità della retorica, dell’arte del dire e del
persuadere), con forte accento relativistico. Ma perché la
discussione sia feconda bisogna avere un criterio, dare un
significato ai termini, definirli. Ed è questa l’esigenza
avanzata da Socrate, sofista anche lui in quanto fautore della
discussione e della critica, ma avversario dei sofisti e più
radicale di questi in quanto sostenitore di un discorso corretto e
coerente. Da qui il giudizio di Aristotele, secondo il quale Socrate
è l’inventore del ‘concetto’ o dell’‘universale’. In Platone
coesistono diverse caratterizzazioni, implicite o esplicite, della
filosofia. Nel Simposio troviamo l’accezione etimologica del termine
(‘amore della sapienza’, e ϕιλοσοϕεῖν nel senso di ‘investigare’ e
‘ricercare’). Del filosofo proteso esclusivamente all’indagine
scientifica e incurante di quanto concerne la vita pratica Platone
dà una tipica raffigurazione nel Teeteto. Il filosofo del
Teeteto è anche matematico e astronomo: egli scopre la
struttura stessa dell’essere. E nel Sofista il filosofo è
identificato con il dialettico, essendo la dialettica non soltanto
un metodo di ricerca o un’esercitazione spirituale, ma il nesso
oggettivo che regge i rapporti tra le idee.
Aristotele conferma la concezione platonica della f. come scienza
per eccellenza, superiore per profondità alle altre scienze.
Le scienze studiano gli oggetti nei loro caratteri necessari o
più costanti, la f. invece li studia nella loro essenza
più intima, in ciò che hanno di sostanziale e che li
fa essere quel che veramente sono. Dunque la f. stabilisce i
fondamenti delle altre scienze. In questo significato specifico
Aristotele chiama la f. scienza prima o f. prima o anche teologia, e
la pone accanto alle altre scienze da lui chiamate teoretiche, la
matematica e la fisica, ma in posizione di privilegio rispetto a
esse.
4. La f. come pratica di saggezza
Il motivo della f. come ricerca e pratica di saggezza si presenta
nella sua forma più specifica nelle scuole epicurea e stoica,
e si ritrova anche nei cinici, nei cirenaici e negli scettici. Il
nuovo accento che la f. acquista sta nell’assunto che la
verità è in funzione dell’io e che il raggiungimento
della felicità (e autosufficienza) individuale è lo
scopo più importante della vita. Queste f. sorgono in
concomitanza con la crisi della città antica ed esprimono la
tendenza del singolo a ritrarsi nella propria pace personale. La f.
non si riduce tuttavia con questo alla sola etica; gli epicurei ne
considerano premesse necessarie la fisica e la canonica (teoria
della conoscenza), e anche gli stoici pongono accanto all’etica una
logica e una fisica. Ma il fine rimane quello della
felicità-serenità del singolo.
Su queste forme di saggezza razionale finiranno presto per prevalere
saggezze tipicamente religiose, attinenti cioè non più
soltanto alla felicità, ma alla salvezza individuale. E la f.
acquista una coloritura religiosa e soteriologica: anzi la f. viene
identificandosi con la religione, in quanto la ricerca della
verità non si sente esaurita dall’indagine logico-razionale,
ma cerca di realizzarsi in una forma di conoscenza superiore
(γνῶσις) che attinga realtà ineffabili e divine. Una forte
ispirazione religiosa attraversa il neoplatonismo, che vorrà
presentarsi soprattutto come un ritorno a Platone: trascendenza del
divino, divisione di mondo sensibile e mondo intelligibile, ma
rapporto dinamico tra i due nel quadro di una più profonda
unità. Nei più tardi neoplatonici si verrà
anche, sempre più nettamente, accentuando l’assunzione della
mitologia pagana e di riti misterici, magici.
5. La f. cristiana
La f. cristiana è intessuta anch’essa di motivi religiosi e
teologici: non può infatti prescindere dalle cosiddette
‘verità rivelate’, e quindi dalla fede, e ha come suo vero
oggetto Dio, nel quale soltanto il mondo e l’io si comprendono, come
la creatura si comprende nel creatore, il finito nell’infinito. Di
qui diverse posizioni sui compiti e i limiti della f., ma sempre
all’interno del presupposto della sua simbiosi con i contenuti della
rivelazione. Agostino parla di un accordo di fede e ragione e di una
loro necessaria complementarità. La fede è il
presupposto dell’indagine razionale: bisogna prima credere per
intendere, anche l’indagine razionale, il conoscere, risponde a un
comando di Dio. In questa prospettiva lo stesso intelligere non
è un semplice esercizio logico-razionale, ma è ricerca
della verità resa possibile da un’assidua assistenza divina
che ‘illumina’ la mente dell’uomo. Di qui la mancanza di distinzione
tra f. e riflessione sui dati della fede: l’intelletto prosegue e
approfondisce la prima e fondamentale esperienza religiosa e tende
alla visione beatifica che sarà piena contemplazione della
verità (cioè di Dio).
Secondo questa linea si svolge la speculazione medievale prima della
riscoperta della f. aristotelica, che cambia radicalmente il quadro
della f. medievale. È a questo punto che si vengono a
definire una f. e una ragione naturale per loro natura estranee alla
tradizione e alla ragione cristiana, e nasce il problema dei loro
rapporti con la teologia, cioè con la speculazione cristiana.
Tommaso d’Aquino compirà lo sforzo più notevole e
coerente di accogliere la f. di Aristotele anche all’interno della
speculazione teologica, dopo aver distinto l’una dall’altra. La
ragione è autonoma e ha la capacità di ascendere dalla
realtà sensibile alle forme di realtà più
elevata, fino all’esistenza di Dio, che può dimostrare, come
può dimostrarne alcuni attributi. Al di là della
ragione stanno alcune verità indimostrabili come la
Trinità, la creazione nel tempo, l’incarnazione, il peccato
originale. Ma il fatto che stiano al di là della ragione non
significa che siano irrazionali: la ragione ha anzi la funzione di
preparare all’accettazione di queste verità, perché
esse non contrastano con la ragione, rispetto alla quale sono anzi
probabili (cioè non-contraddittorie).
6. Umanesimo e Rinascimento
Con l’Umanesimo e il Rinascimento la f. continua a essere una forma
di sapere totalizzante; muta però il suo accento,
perché comincia ad assumere quelle caratteristiche di
mondanità a cui generalmente si pensa quando si parla di
pensiero moderno. Si rivolge cioè essenzialmente al terreno,
all’individuale, allo storico, interessi ovviamente non assenti
nella f. e nella cultura medievale, ma nettamente soverchiati
dall’interesse per il trascendente. Né, d’altra parte, si
può dire che la f. dell’Umanesimo e del Rinascimento sia una
f. irreligiosa. Ma l’esigenza religiosa scaturisce dalla
dignità stessa dell’uomo, dalla sua eccellenza di fronte alle
altre creature, dalla sua centralità nell’universo, dal suo
esser fatto a immagine di Dio. Il nuovo atteggiamento si manifesta
nella riscoperta dei classici, nella polemica contro la logica
scolastica, nella polemica contro la disputa teologica. La
riscoperta dei classici non è una semplice riscoperta
filologica, ma è soprattutto loro ‘imitazione’ e insieme
creazione di un nuovo ideale di vita, ripreso da quei modelli.
La polemica contro la logica scolastica (e aristotelica) si
configura come polemica contro una disciplina astratta, nel senso di
artificiosa e inutile per la ricerca. La polemica contro la disputa
teologica è anche essa polemica contro problemi insussistenti
e gratuite escogitazioni mentali. A queste forme di ‘astrattezza’
vengono contrapposti da un lato tentativi di logiche diverse,
più vicine ai concreti processi della mente e alla conoscenza
psicologica dell’uomo, dall’altro la concreta esperienza religiosa
così com’è vissuta dal credente. Si viene affermando
per questa via il principio della tolleranza, desunto dal rilievo
dei caratteri comuni alle varie fedi e dall’inessenzialità
degli elementi differenziali e di contrasto.
7. La f. moderna
In Francesco Bacone troviamo, come in tutto il Rinascimento,
l’ideale del regnum hominis, del razionale dominio della natura,
scopo del sapere e dell’organizzazione anche pratica del sapere.
Bacone offre un’enciclopedia delle diverse forme di sapere, una
sistemazione organica delle diverse scienze. Abbiamo una f. intesa
come sapere razionale e comprendente varie discipline, e la f. nel
senso più stretto o f. prima, comprendente le nozioni
più generali, cioè gli assiomi validi per diverse
scienze.
La f. moderna dunque si sviluppa in stretta connessione con le
scienze, nei confronti delle quali il suo rapporto è duplice:
per un verso la f. vuole imitarne il rigore metodico e, sotto questo
profilo, farsi scienza essa stessa; per un altro verso pretende di
avere un suo specifico campo d’indagine che stabilisca i fondamenti
delle scienze. Della sua f. R. Descartes dice che è una f.
‘prima’, dedicata cioè alle nozioni più generali. Da
ciò l’immagine del sapere come di un albero, «di cui le
radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami
che sortono da questo tronco sono tutte le scienze».
T. Hobbes, B. Spinoza, G.W. Leibniz concepiscono la f. secondo un
analogo schema razionalistico, cioè come la scienza che
studia le ragioni ultime dei fenomeni, servendosi di un metodo
rigoroso, mutuato dalle matematiche. Ma mentre in Leibniz si ha un
recupero teologico, in Hobbes e Spinoza troviamo una netta
separazione di f. e teologia, perché la teologia concerne
nozioni non soggette all’analisi razionale e perché ha come
oggetto la fede, il cui scopo è l’obbedienza e la
pietà, e non la verità, che è l’unico scopo
della filosofia.
Con J. Locke la f. assume come suo compito essenziale l’esame della
validità e dei limiti del sapere, diventando così f.
critica. Prima di procedere alla costruzione di edifici metafisici
occorre analizzare la nostra facoltà di conoscere. Il
risultato dell’indagine è che l’esperienza è il
fondamento e l’origine di tutte le nostre conoscenze, e quindi la
base metodica della filosofia.
8. L’Illuminismo e Kant
La lezione di Locke fu una lezione di cautela critica, e in questo
senso la sua f. fu interpretata dall’Illuminismo. «Dopo tanto
sfortunato vagabondare – scrive Voltaire – stanco, estenuato e
vergognoso di aver cercato tante verità e trovato tante
chimere, ritornai, come il figliol prodigo al padre, a Locke; e mi
gettai nelle braccia di un uomo modesto, che non finge mai di sapere
quel che non sa, che non possiede, a dir vero, immense ricchezze, ma
i cui fondi sono sicuri, e che gode senza ostentazione dei
più solidi beni». Analogo elogio si può leggere
nel Discorso preliminare dell’Enciclopedia, scritto da d’Alembert:
si può dire che Locke – afferma d’Alembert –
«creò la metafisica, pressappoco come Newton aveva
creato la fisica». E questa metafisica è
«ciò che effettivamente deve essere, la fisica
sperimentale dell’anima». Metafisica dunque ‘ragionevole’,
ossia non più partecipe dello ‘spirito di sistema’ del
costruzionismo metafisico. Il sapere illuministico è rivolto
a fini pratici (anche questo un motivo baconiano), è un
sapere eminentemente ‘utile’. E la f. è considerata (e
vissuta) come un fattore essenziale di demistificazione, di
liberazione e di progresso.
La polemica contro le costruzioni metafisiche continua in I. Kant, e
in lui raggiunge la sua forma definitiva. Kant definisce dogmatiche
tutte le metafisiche che non presuppongano una critica della
facoltà di conoscere. Il torto di queste metafisiche è
stato quello di essersi avventurate nel campo del soprasensibile,
senza tener conto del fatto che nessuna conoscenza è
possibile senza l’intervento della sensibilità, che sola
può attestare la presenza dell’oggetto conosciuto. Di fronte
a tali costruzioni è inevitabile l’insorgere dello
scetticismo, il quale peraltro si limita a rilevare gli insuccessi
della ragione, ma senza una precedente critica di essa. Kant
fornisce questa critica, nella quale stabilisce i limiti di
validità delle operazioni della mente, oltre a descrivere la
struttura della mente stessa. Il risultato della critica è
che essa limita l’ambito della conoscenza scientifica e della
conoscenza in generale al mondo dei fenomeni, ma lascia aperto il
tradizionale (e ineliminabile perché connaturato all’uomo)
campo della metafisica a un diverso uso della ragione, quello
pratico. In questo campo l’uomo si incontra con i problemi della
libertà del volere, dell’immortalità dell’anima,
dell’esistenza di Dio, e li risolve positivamente in base alla
razionalità dei principi morali che regolano (‘devono’
regolare) le azioni. Non è una soluzione teoretica (una
conoscenza), impossibile dati i risultati della critica, ma una
soluzione pratica, una certezza pratica. Abbiamo così due
mondi, il mondo della natura con le sue leggi scientifiche e il
mondo della libertà con la sua fede razionale e il suo
accesso al soprasensibile. La conciliazione tra questi due mondi
è possibile attraverso l’uso della facoltà del
giudizio, che riflette sui fini che incontra nella natura e li pensa
secondo il principio di una causalità intenzionale che
agirebbe nella natura stessa. Il finalismo è però un
principio di esposizione e di comprensione, non di spiegazione: la
conciliazione dei due mondi, sensibile e soprasensibile, pur essendo
legittima e in certo modo necessaria all’uomo, resta pur sempre
ipotetica e problematica. Un mondo in armonia con l’azione morale
è concepibile mediante una forma di giudizio diversa da
quella dei giudizi scientifici: tale giudizio non coglie l’essenza
delle cose, ma ipotizza che sia sensata. Questa insistenza sul ‘come
se’ da parte di Kant è dovuta alla preoccupazione di non
conferire al valore uno statuto simile a quello del fatto e con
ciò cadere in una forma di determinismo e quindi di
compromettere l’autonomia della ragione e la libertà
dell’uomo.
9. L’idealismo tedesco
Riallacciandosi a Kant, J.G. Fichte pone il primato del valore sul
fatto, del dover essere sull’essere: il fondamento pratico è
posto alla base del filosofare e la libertà umana, e quindi
l’io come principio della f., è una fede.
Per G.W.F. Hegel il punto di vista dell’assoluto, ossia della
scienza, non si conquista immediatamente, ma presuppone il percorso
che la coscienza umana fa dalle forme più elementari alle
più complesse fino a raggiungere un grado di consapevolezza
che le consente di far scienza. Questa descrizione è oggetto
della Fenomenologia, che percorre una serie di esperienze,
attraverso le quali l’uomo conquista la consapevolezza della sua
libertà, ossia si libera dell’oggetto come di qualcosa di
estraneo e misterioso e si sente uomo di questo mondo e sente questo
mondo come suo. Giunto a questa consapevolezza egli ripensa il
cammino ed enuclea da esso i concetti maturati attraverso quelle
esperienze. La logica e le f. della natura e dello spirito sono
appunto il risultato di queste elaborazioni. Ed è questo che
dà luogo al sapere assoluto, un sapere cioè che ha in
sé soltanto la sua misura, e che è un sapere storico,
bene ancorato al tempo. Esso scopre che il cammino percorso
dall’umanità è un cammino sensato, che ha realizzato
la progressiva presa di coscienza della libertà umana ed
è perciò razionale. I concetti della f. sono
l’espressione di questa razionalità, che non è dunque
il risultato di un atto della mente, ma è razionalità
oggettiva, realizzata, che il pensiero rispecchia. Naturalmente
questo non significa che tutto ciò che esiste è
razionale: il razionale è ciò che nella realtà
è più significativo, è portatore di senso. E il
senso è appunto dato da quel processo onde l’uomo ha
acquistato coscienza della sua libertà. Da questo punto di
vista la f. hegeliana è una interpretazione del corso
storico. Fare f. è dunque comprendere ciò che è
stato: «la filosofia è il proprio tempo appreso col
pensiero».
10. F. e scienza nel positivismo
Per A. Comte la f. è in primo luogo riflessione sul sapere e
quindi analisi delle tendenze e delle tecniche delle varie scienze,
classificate secondo un ordine di decrescente generalità; non
solo, ma di esse sono qualche volta prescritti criteri da seguire,
come quelli che meglio rispondono alla loro logica interna,
cioè all’attuazione della loro ‘positività’.
Positività significa superamento delle due fasi antecedenti
dello sviluppo dell’intelletto (teologia, metafisica); una scienza
è positiva quando rinuncia radicalmente alla ricerca di
cause, e stabilisce leggi, cioè relazioni costanti tra
fenomeni, fa delle previsioni, è socialmente utile. In H.
Spencer la f. è la forma più generale del sapere,
unificatrice delle scienze e attinente alle nozioni dal più
esteso contenuto.
11. La reazione al positivismo
Per H. Bergson invece la f. non è una scienza
generalizzatrice, né una riflessione sulle scienze, ma
è un’operazione mentale che ci pone in un rapporto con le
cose diverso rispetto a quello in cui ci pongono le scienze. F. e
scienza non rivaleggiano nel cogliere la realtà, ma, semmai,
collaborano perché si riferiscono a due aspetti fondamentali
della realtà stessa. Alla scienza e alla metafisica – dice
Bergson – spettano oggetti differenti: «alla scienza la
materia e alla metafisica lo spirito». Ma scienza e metafisica
hanno in comune l’intuizione, che coglie la realtà nella sua
pienezza: infatti in ciò che hanno di essenziale, cioè
nelle loro autentiche scoperte, esse hanno proceduto per intuizione.
È l’atmosfera della reazione al positivismo, reazione che
rivendica alla f. una sua autonomia e ricerca un modo di
approssimarsi alla realtà che non sia quello generalizzante
della legge e del tipo. Anche per W. Windelband la f. ha un suo
ambito di autonomia in quanto scienza critica dei valori
universalmente validi.
In E. Husserl si riaffaccia l’idea della f. come scienza rigorosa:
le essenze, che secondo il suo metodo vengono intuite, non sono
fatti né astrazioni tratte dai fatti, ma hanno la
caratteristica della purezza, paragonabile alle nozioni matematiche.
Dunque forte accento antirelativistico, e tuttavia forte accento
antioggettivista: l’oggettivismo delle scienze ha qualcosa di
dogmatico se pretende di esaurire l’oggetto compreso. Prima
dell’oggettivazione c’è un processo fluido, c’è il
mondo della vita, che è il presupposto dell’oggettivazione.
12. Dall’esistenzialismo all’ermeneutica
Non meno e anzi più vigorosamente di Husserl, M. Heidegger
polemizza con il pensiero oggettivante e calcolatore. In Essere e
tempo egli mostra come le astrazioni concettuali presuppongono le
esperienze vissute, di cui quelle astrazioni sono i derivati non
più vivi. Anche la seconda fase della sua f. è
caratterizzata dalla polemica contro il pensiero oggettivante (la
metafisica e lo spirito scientifico). Al centro della sua
riflessione non è più quel particolare ente che
è l’uomo, bensì l’Essere. Ora tale Essere è ben
lungi dall’identificarsi con l’essere realissimo, perché
è fluidità e temporalizzazione, manifestazione e
nascondimento: è l’Essere possibile, le sue infinite
possibilità, che si sono manifestate, che non si sono
manifestate, o che potranno manifestarsi, ed è dunque per
eminenza non mai totalmente presente, non mai circoscrivibile. Il
possibile è perciò più alto del reale e lo
ricomprende. In entrambe le fasi del suo pensiero abbiamo dunque una
posizione rigorosamente finitista, onde l’uomo tende verso l’Essere,
o, inautenticamente, si allontana da lui, e un rigoroso
antirazionalismo: il pensiero discorsivo non ci avvicina ma ci
allontana dall’Essere, verso il quale semmai tendono i poeti, o
meglio alcuni poeti, e la sapienza riposta in certe parole
‘originarie’.
L’impostazione finitista è anche alla base della f.
ermeneutica (H.G. Gadamer), di evidente e confessata ispirazione
heideggeriana. Essa prima di comprendere riflette sulla
comprensione, sulle condizioni del comprendere, e trova che
comprendere è interpretare, è quindi condizionato
dalla situazione di chi interpreta. Ma se tutto è
interpretazione nulla è indiscutibile, tutto è
soggetto a revisione. L’intento della f. ermeneutica è,
ancora una volta, antioggettivista: essa nega le assolute
trasparenze. L’umile ascolto e non il superbo vedere è
l’appropriata metafora del pensare.
13. La f. come chiarificazione e analisi
L’antica idea della f. come analisi e come liberatrice da fattori di
confusione concettuale si ritrova nella filosofia analitica. Tale
idea viene per es. espressa da B. Russell quando afferma che solo
attraverso rigorosi metodi di analisi è possibile purificare
e trasformare, e con ciò rendere corrette e feconde, nozioni
altrimenti vaghe e approssimative e fonti di errori come intelletto,
materia, coscienza, conoscenza, esperienza, causalità,
volontà, tempo.
Da parte sua L. Wittgenstein afferma nel Tractatus: «fine
della filosofia è la chiarificazione logica del pensiero. La
filosofia non è dottrina, ma attività. Un’opera
filosofica consiste essenzialmente in elucidazioni. Frutto della
filosofia non sono delle proposizioni filosofiche, bensì il
chiarificarsi delle proposizioni». Nella seconda fase del suo
pensiero Wittgenstein parla di una pluralità di linguaggi,
correlativi di altrettante ‘forme di vita’, ossia contesti culturali
entro i quali quei linguaggi sono intelligibili (e con ciò
sembra affiorare una movenza hegeliana, oltre che ermeneutica).
R. Carnap osserva che i problemi metafisici sono pseudoproblemi e le
proposizioni correlative pseudoproposizioni; bisogna dunque operare
una purificazione che elimini dalla f. gli elementi non scientifici,
e con ciò la logica della scienza prenderà il posto
«di quell’inestricabile groviglio di problemi che è
noto sotto il nome di filosofia». A.J. Ayer dice egualmente
che il filosofo non deve ricercare principi primi, né
enunciare giudizi a priori intorno alla validità delle nostre
credenze empiriche, ma limitarsi a lavori di chiarificazione e di
analisi.
14. Il dibattito attuale
Un rinnovato modo di intendere l’attività conoscitiva
(scienza inclusa) in rapporto con la storia e con una dimensione
interpretativa alternativa ai tradizionali tentativi di fondazione
normativa ha interessato trasversalmente entrambe le aree
filosofiche in cui si è soliti ormai distinguere la
riflessione filosofica, quella analitica e quella continentale,
intendendo con la prima etichetta l’insieme della produzione
filosofica angloamericana, tradizionalmente caratterizzata da un
approccio linguistico ai temi filosofici, con la seconda la
produzione europea che, in larga misura, si riconosce nella f.
ermeneutica. Il riconoscimento dell’impossibilità di
mantenere ancora salda una concezione della verità come
acquisizione di un sapere oggettivo, indipendente da presupposizioni
culturali, dai contesti sociali e dai mutamenti storici ha segnato,
direttamente o indirettamente, gran parte del dibattito filosofico.
Si è assistito a una vasta convergenza, pur nel rispetto dei
diversi approcci ispirati alle diverse tradizioni filosofiche,
sull’impossibilità di conseguire, in ambito sia scientifico
sia etico o estetico, certezze definitive, immutabili e indipendenti
dalla storia. Ciò ha avuto ampie e profonde ripercussioni
sull’identità stessa della filosofia.
14.1 La prospettiva antifondazionista
Nell’ambito della f. della scienza, T.S. Kuhn è stato tra i
primi, negli anni 1960, a porre in evidenza il fallimento dei
criteri metodologici metastorici escogitati dall’epistemologia per
il conseguimento di un sapere oggettivo. Che questo radicale punto
di vista, il quale comprensibilmente ha alimentato il dibattito
epistemologico per più di un trentennio sconfinando inoltre
in aree anche distanti dalla f. della scienza, finisse per
ridimensionare non soltanto un’influente concezione epistemologica
(quella di K.R. Popper, basata proprio sull’idea della verità
quale fine ultimo delle teorie scientifiche), ma anche un modo di
intendere la stessa indagine filosofica, fu ben presto avvertito. Le
accuse di relativismo e irrazionalismo nei confronti di Kuhn e della
sua teoria dei paradigmi incommensurabili (ossia insiemi di metodi,
presupposizioni e ontologie validi in certe epoche e non in altre)
erano in effetti la manifestazione di un disagio nei confronti di un
approccio filosofico che finiva per negare i diritti alla
‘fondazione’, per secoli riconosciuti alla filosofia. Del resto, lo
stesso Popper, pur considerando la verità come scopo finale
(e forse mai raggiungibile) della ricerca scientifica, aveva
comunque insistito, soprattutto nell’ultima fase dalla sua
riflessione, sull’impossibilità di fornire un qualche tipo di
fondazione o giustificazione a garanzia della verità delle
asserzioni scientifiche e d’altro tipo; l’unico atteggiamento
possibile era per Popper non quello che mira a conseguire
improbabili giustificazioni delle nostre asserzioni e teorie, ma
quello della critica razionale, che cerca i punti deboli di tali
asserzioni e teorie per modificarle o sostituirle con altre
più plausibili, in un processo virtualmente infinito. Se da
ciò Popper traeva comunque una teoria della
razionalità, quanti, invece, si sono riconosciuti
nell’approccio kuhniano hanno accentuato piuttosto l’aspetto
caratteristicamente interpretativo della conoscenza e dei metodi
scientifici, conoscenza e metodi soggetti a mutamento storico non
meno di qualsiasi altro tipo di interpretazione, arrivando a
equiparare il compito del filosofo della scienza a quello di un
antropologo che studi il comportamento dei membri di un particolare
tipo di comunità, quelle scientifiche.
N. Goodman, uno dei più autorevoli esponenti della f.
statunitense sorta dalla commistione tra pragmatismo ed empirismo
logico, era pervenuto a elaborare una teoria generale dei sistemi
simbolici il cui compito non è quello di conferire a tali
sistemi (linguaggio, scienza, arte) improbabili fondazioni, ma di
enuclearne le peculiari caratteristiche di ‘costruzione’ (piuttosto
che di descrizione) del mondo, quest’ultimo non essendo un insieme
di dati, oggetti o fatti indipendenti dal modo in cui vengono
rappresentati. Il compito della f. consiste più precisamente
nell’individuare la varietà delle forme di costruzione
simbolica elaborate nei diversi ambiti in cui si esplica
l’attività umana, senza pretendere di poterle ricondurre a
un’unità o strutturarle secondo una gerarchia di
conformità a una realtà già data. Più
che di verità, Goodman preferisce parlare di correttezza e
c’è una correttezza delle asserzioni scientifiche come
c’è una correttezza delle raffigurazioni artistiche. Un ruolo
di rilievo viene da lui attribuito alla «tradizione in
evoluzione» entro cui giudichiamo, per es., i gradi di
realismo di una raffigurazione pittorica, l’accettabilità di
un’asserzione scientifica o la correttezza di una categorizzazione.
Quella di tradizione costituisce la nozione centrale anche
dell’ermeneutica. Che il soggetto conoscente sia sempre inserito in
una tradizione, che l’esperienza umana sia costitutivamente radicata
nel linguaggio da quella tramandato, attraverso cui soltanto
può aversi un accesso all’‘essere’, sono i temi filosofici
fondamentali dell’ermeneutica gadameriana. Il fatto che
l’ermeneutica consideri la conoscenza come una questione di
interpretazione mediata dal linguaggio e dalla tradizione a cui
l’interprete stesso appartiene, e che, in tale prospettiva, la
stessa verità non possa più essere pensata come il
risultato incontrovertibile dell’applicazione di metodi oggettivi,
ma sia essa stessa condizionata storicamente e quindi soggetta a
mutare e ad arricchirsi nel corso dell’evoluzione storica, tutto
ciò ha avuto, ancora una volta, l’esito di depotenziare un
concetto di f. come ricerca di principi trascendentali e di un
metodo come fondazione assoluta del sapere e della conoscenza. Di
qui alcune conseguenze che hanno in larga misura condotto
l’ermeneutica a incontrarsi con gli altri indirizzi che pure hanno
teorizzato l’impossibilità di individuare criteri assoluti,
metastorici, atti a garantire e giustificare la conoscenza. La
ricezione dell’ermeneutica è andata infatti ben oltre la
cultura accademica europea, e autori appartenenti all’area
analitica, prevalentemente influenzati dalla f. dell’ultimo
Wittgenstein (per es., S. Cavell, J. Margolis, H. Dreyfus, R.
Rorty), ne hanno variamente sottoscritto e sviluppato le istanze,
contribuendo a instaurare un dialogo tra le due aree che in tempi
passati sarebbe apparso impensabile.
14.2 La "fine" della filosofia
Se più di un orientamento ha decretato il ridimensionamento
della f. (o, quanto meno, delle sue ambizioni sistematiche), non
manca peraltro chi ne ha decretato addirittura la fine. È il
caso, per es., di Rorty, autore formatosi nella tradizione della f.
analitica, ma successivamente allontanatosene per proporre una
propria visione ‘antifilosofica’ in cui confluiscono motivi del
pragmatismo e della f. ermeneutica. Sostenitore di un radicale
antifondazionalismo epistemologico e di uno storicismo incline al
relativismo, Rorty si richiama all’ultimo Wittgenstein, a J. Dewey,
a Kuhn e all’ermeneutica di Heidegger e Gadamer per sottolineare la
contingenza e la caducità delle sistematizzazioni filosofiche
e il loro ridursi a mere ipostatizzazioni di pratiche sociali
storicamente mutevoli. La verità, di conseguenza, non
è altro che ciò che viene accettato da una
comunità sulla base di regole e criteri largamente
(ancorché provvisoriamente) condivisi. Nel contestare
l’immagine professionale e scientifica che della f. hanno
contribuito a dare le principali correnti del Novecento (il
neokantismo, la fenomenologia, il neopositivismo e la f. analitica),
Rorty ha auspicato il diffondersi di una ‘cultura postfilosofica’
volta non a fornire certezze o fondazioni, ma a mantenere viva la
‘conversazione’ sugli aspetti più vari della convivenza umana
e sui modi in cui gli esseri umani si sono autodescritti. Se
considerazioni del genere tendono ad avallare l’immagine di una
riflessione filosofica sempre meno sicura del suo ruolo, è
indubbio, d’altra parte, che le cosiddette tendenze postmoderne
(come vengono ormai di consueto definiti gli orientamenti
antifondazionalisti, relativisti e sociologizzanti) non esauriscono
il panorama filosofico contemporaneo.
Le più radicali forme di relativismo e scetticismo che
tendono a vedere nella razionalità umana e, talvolta, negli
stessi principi logici niente più che pratiche socialmente
apprese e storicamente circoscritte, sono state spesso duramente
attaccate, oltre che dal già citato Popper, da autori come D.
Davidson, H. Putnam e T. Nagel, i quali hanno in qualche modo
rivendicato per la f. il ruolo autonomo di individuare gli aspetti
oggettivi e universali, comuni agli esseri umani in quanto persone,
di un insieme di principi logici, argomentativi ed epistemici.
Inoltre, se sembra essersi esaurita la f. come indagine sui
fondamenti, non si può dire altrettanto della f. come
indagine sugli aspetti più problematici delle scienze. Ne
è esempio rilevante la perdurante attualità della
concezione di f. difesa da W.V. Quine: benché sia stato tra i
primi a guardare con sospetto l’idea di una ‘f. prima’ il cui
oggetto precipuo sia la teoria della conoscenza, Quine considerava
la f. in continuità con la scienza, una sorta di riflessione
critica sulla scienza che opera dall’interno, in quanto appartiene
al medesimo ‘schema concettuale’: suo scopo sarebbe soprattutto
rendere esplicito ciò che è implicito, portare alla
luce e risolvere paradossi, segnalare le entità
ontologicamente problematiche. Se, da un lato, una tale immagine
della f. non comporta alcun tipo di ricerca fondazionale, dall’altro
essa presenta sicuramente un aspetto ‘professionale’. F. sempre
più specializzate, con obiettivi locali e circoscritti, sono
attive nell’ambito della scienza cognitiva, nell’ambito delle
scienze fisiche e biologiche, nella metodologia delle scienze umane
e sociali, ciascuna analizzando i problemi sollevati dalle
rispettive discipline.
Enciclopedia del Novecento (1977)
di Eugenio Garin
Sommario: 1. Considerazioni preliminari. 2. Filosofia speculativa e
filosofia scientifica. 3. Limiti e contraddizioni della filosofia
scientifica. 4. Il primo Novecento: la crisi del positivismo. 5.
Pragmatismo e idealismo. 6. Fra scienze della natura e scienze dello
‛spirito'. 7. La prima guerra mondiale e la filosofia come coscienza
della crisi della civiltà. 8. Fra le due guerre. a)
L'esistenzialismo. b) La fenomenologia. c) Contrasti e convergenze.
d) Gli ‛autori'. 9. Conclusioni e prospettive.
1. Considerazioni preliminari
Determinare con rigore il significato, i compiti, i campi di
indagine, o addirittura le probabilità di sopravvivenza della
filosofia in questo secolo, è particolarmente arduo, tanto
numerose sono state, da un lato, le dichiarazioni di una sua
presunta morte (o conclusione), e dall'altro le affermazioni di
crisi, di svolte, di rinnovamenti radicali, di revisioni nel senso
di ‛nuove visioni', di rivoluzioni. La filosofia - si dice -
può sopravvivere oggi a una condizione: che si guardi a lei
‟in un nuovo modo, con una nuova concezione della sua natura e dei
suoi scopi, nonché, quindi, con un nuovo apprezzamento dei
suoi metodi e dei suoi resultati" (N. Goodmann, La revisione della
filosofia, in La filosofia contemporanea in USA, Asti-Roma 1958, p.
95). La questione, ovviamente preliminare, non è nuova,
nè caratterizzante. In qualche modo la filosofia ha sempre
cominciato col mettere in discussione non soltanto tutto il sapere
umano, ma anche sé medesima. Sempre, almeno in qualche
misura, la filosofia è stata un discorso sulla filosofia.
Eppure, fra Ottocento e Novecento, i progressi delle varie scienze,
gli sviluppi delle tecniche, la prepotente affermazione delle
ideologie sembrarono togliere qualunque spazio autonomo alla
filosofia.
Assurta con le correnti positivistiche a modello del sapere la
scienza, si vennero a un tempo sviluppando in discipline
scientifiche per sé stanti vaste zone di ricerca,
tradizionalmente considerate parti integranti della filosofia. Si
resero così indipendenti la psicologia, la logica, le
‛scienze umane', le discipline concernenti l'agire. Alla fine
è sembrato che, ormai, nulla restasse della tematica classica
del filosofare, e che non convenisse più parlare se non di
costruzioni fantastiche da un lato (la metafisica da ricollegarsi
alla poesia e all'arte), e dall'altro di sforzi collettivi e
convergenti per l'unificazione del sapere al di là delle
specializzazioni, per una classificazione sistematica delle scienze,
per una nuova enciclopedia della scienza, per l'unità del
linguaggio scientifico. In tal modo all'idea della filosofia come
momento di sintesi, propria del vecchio positivismo ottocentesco, si
è sostituita la filosofia come programmatica unificazione,
attraverso strumenti metodologici, logici, linguistici. La filosofia
con la sua peculiare tematica, con i suoi massimi problemi - la
metafisica, insomma - è stata respinta come sopravvivenza
arcaica di posizioni superate, o, nella migliore delle ipotesi, come
creazione poetica di visioni d'insieme per eventuali utilizzazioni
retoriche o edificanti. Nel 1928, in Schemprobleme in der
Philosophie, R. Carnap metteva insieme magia, mito (teologia
inclusa) e metafisica, quali espressioni non artistiche,
bensì pseudoteoretiche di qualcosa che, tuttavia, non ha
alcun contenuto o valore teoretico.
Atteggiamenti del genere, però, non sono stati affatto
prerogativa delle correnti positivistiche e neopositivistiche. Essi
sono venuti serpeggiando ovunque nel Novecento, proponendo, in forme
e con scopi diversi, analoghe riduzioni o rifiuti della filosofia
tradizionalmente intesa, come scienza prima dei massimi problemi. Un
testimone non sospetto di tenerezze per il positivismo come
Benedetto Croce, scriveva nel 1909 a un amico che ‟i massimi
problemi non esistono", che ‟la filosofia è scienza, anzi la
sola scienza, e serve a farci intendere ‛il mondo di qua'
(così difficile a intendere)", e che il resto è
costituito di ‟sogni da infermi". Né può dimenticarsi
la sua ironica ‛postilla' intitolata il filosofo (‟La critica",
1930, XXVIII, pp. 238-240), in cui si dichiara che ‛il filosofo'
è morto come tale, perché la filosofia non è
qualcosa di separato, né sta ‟al di sopra e distaccata dalla
scienza e dalla vita, ma dentro di queste, strumento di scienza e di
vita". Di qui la definizione del Croce della filosofia come momento
astratto della storiografia (della cosiddetta storia dell'uomo e
della cosiddetta storia della natura)", ossia come ‟metodologia
della conoscenza dei fatti", o ‟metodologia della storiografia".
Ovviamente la storia di cui parlava Croce, come egli stesso
ricordava, non era la scienza a cui si riferivano i positivisti, ma
le era in qualche modo corrispondente se alla storia dell'uomo egli
poneva in parallelo la storia della natura. Il problema, quindi, nel
fondo era lo stesso, di ridurre la filosofia a metodologia, anche se
la formulazione più radicale fu quella che tendeva alla
risoluzione pura e semplice della filosofia nella scienza. Il
discorso sulla filosofia del Novecento, quindi, non può non
cominciare di lì, da quella ‛scienza', e dalla presentazione
che ne hanno fatto positivisti vecchi e nuovi. Si tratta di una
pregiudiziale che non è possibile eludere; la risposta
è preliminare e decisiva. Nè può essere cercata
se non all'interno delle posizioni dei fautori delle ‛nuove visioni
condotte in nome della scienza, anche se, alla fine, si
tratterà soprattutto di un trasferimento delle
difficoltà classiche sul significato della filosofia
all'interno di questa ‛scienza', che per avere assorbito la
filosofia si troverà ad ereditarne tutte le aporie. Non a
caso il dibattito filosofico del Novecento si è aperto
proprio sul valore della scienza, che il vecchio positivismo aveva
proposto insieme come modello e culmine di tutto il sapere.
Nè a torto H. O. Gadamer afferma che i fondamenti filosofici
del sec. XX vanno ricercati nella esasperazione del contrasto
scienza-filosofia giunto ormai alla domanda radicale ‟se ciò
che prima era filosofia abbia ancora un posto nell'insieme della
vita del presente" (v. Gadamer, 1960; tr. it., p. 121).
Comunque un discorso sulla filosofia di questo secolo non può
non partire dalla sua pretesa dissoluzione, per sottolineare proprio
il continuo riproporsi della esigenza della ‛filosofia', o
addirittura della ‛metafisica', sia attraverso le difficoltà
e gli equivoci in cui si sono avvolti i suoi negatori, sia mediante
la testimonianza e il riconoscimento di chi, della scienza esperto
cultore o aperto al suo significato, ha ribadito l'insopprimibile
funzione della filosofia nel senso classico.
2. Filosofia speculativa e filosofia scientifica
Nel maggio del 1928, presentando da Vienna il suo primo libro
importante, Der logische Aufbau der Welt, Carnap, che parlava non
solo per sé, ma anche a nome di quel gruppo di pensatori
‛viennesi' destinato ad avere poi non scarsa risonanza dovunque nel
mondo, disse subito del distacco della nuova filosofia scientifica
dalla filosofia tradizionale nei cui confronti non fu parco di
anatemi. A suo parere era finalmente cominciata una nuova era. ‟Il
nuovo modo di filosofare asseriva - si è formato a diretto
contatto col lavoro delle scienze specializzate, particolarmente
della matematica e della fisica. Ne viene che anche nel
comportamento fondamentale di chi lavora in campo filosofico si mira
a realizzare quello stesso comportamento rigoroso e consapevole
delle proprie responsabilità, che è proprio del
ricercatore scientifico; mentre il comportamento del filosofo di
vecchio tipo assomiglia di più a quello di uno che fa poesie"
(v. Carnap, 19612; tr. it., p. 79). Per Carnap, e per quello che
allora costituiva il gruppo di Vienna (a Vienna egli era andato nel
1926 persuaso da M. Schlick), il modello privilegiato di ‛sapere'
era quello delle scienze matematiche e fisiche; l'ipotesi di un
qualche diverso valore da attribuirsi alle tradizionali ‛concezioni
del mondo', molteplici e coesistenti, veniva senz'altro scartata.
‟Nella filosofia - continuava Carnap - abbiamo sperimentato lo
spettacolo, che deve avere effetto deprimente sulle persone che
hanno una sensibilità scientifica, di una moltitudine di
sistemi filosofici che, costruiti l'uno accanto all'altro, sono tra
loro inconciliabili" (ibid.). Il nuovo corso della filosofia doveva
coincidere con l'introduzione della ricerca collettiva anche nel
lavoro filosofico (‟se nel lavoro filosofico affideremo a ciascuno
un compito particolare, come avviene nella specializzazione
scientifica, allora crediamo di poter guardare tanto più
fiduciosamente al futuro"). Nè si trattava di un aspetto
secondario: era un modo affatto diverso di considerare la ricerca,
non più come sforzo di sintesi geniali attraverso invenzioni
individuali, ma opera collettiva destinata a integrarsi di continuo,
a correggersi, a progredire col contributo di molti. Ovvia, quindi,
la ‟esclusione del procedere speculativo e poetico", con la rigorosa
‟messa al bando dell'intera metafisica, giacché questa non
consente una giustificazione razionale delle sue tesi". Al
metafisico si contrappone il fisico: decisivo è che il fisico
non si appella all'irrazionale per la fondazione di una tesi,
bensì fornisce una fondazione puramente empirico-razionale.
La stessa cosa pretendiamo nel lavoro filosofico". Carnap, e con lui
il Circolo di Vienna, respingono ogni appello all'intuizione, o ai
‛bisogni dello spirito': ‟la fondazione deve avvenire dinanzi al
foro dell'intelletto; perché noi non ci possiamo permettere
di fare appello a una intuizione vissuta o ai ‛bisogni dello
spirito'. Anche noi abbiamo ‛bisogni dello spirito' nella filosofia;
ma si riferiscono alla chiarezza dei concetti, alla nitidezza dei
metodi, alla responsabilità delle tesi, al lavoro attraverso
la collaborazione nella quale l'individuo si inserisce
ordinatamente" (ibid., p. 80).
È evidente in Carnap l'impazienza dello scienziato contro gli
appelli all'intuizione: impazienza che ormai si estendeva in Europa
in un ambito molto largo se, circa un anno dopo, nel 1929, E.
Cassirer, nel terzo volume della Philosophie der symbolischen
Formen, affrontando il problema della Phänomenologie der
Erkenntnis, rimproverava a Bergson di privare di valore, col suo
rifarsi all'intuizione', non solo ogni processo scientifico, ma ogni
‛mediazione', ogni costruzione culturale, ogni elaborazione
razionale. D'altra parte il kantiano Cassirer, l'allievo di H. Cohen
e della Scuola di Marburgo, se apprezzava altamente Carnap e la sua
trattazione dello spazio (Der Raum. Ein Beitrag zur
Wissenschaftslehre, Berlin 1922), non solo ne respingeva ogni
tendenza a privilegiare il mondo della fisica e difendeva con forza
le ‛scienze dello spirito', ma riconduceva gli stessi equivoci di
Bergson proprio a un naturalismo non mai superato: ‟è infatti
un segno di naturalismo il fatto che ogni vera spontaneità,
ogni produttività e originalità venga riposta
nell'élan vital, mentre al lavoro dello spirito viene
attribuito un significato semplicemente negativo" (v. Cassirer,
1923-1931; tr. it., vol. III, 1, p. 51),
In Carnap, e nell'orientamento di cui si faceva portatore, proprio
la scienza fisica, e i suoi procedimenti, costituiscono non solo un
modello, ma anche l'indicazione di un limite invalicabile che la
filosofia non deve oltrepassare, se non vuole ricadere nei vecchi
modi poetici e mistici. Ma può davvero, entro quei limiti e
con quei metodi, assolvere ancora una qualsiasi funzione reale?
È importante che una risposta nettamente negativa a tale
domanda, e insieme una protesta vibrata, venissero proprio da
quell'ambito teorico in cui le posizioni di Carnap (e del Circolo di
Vienna) erano emerse traendone vigore. Carnap, lo confesserà
apertamente, si era rifatto oltre che a Frege, a Russell e a
Whitehead circa ‟il metodo e gli scopi della futura filosofia". Fra
gli autori e maestri che compaiono nel famoso manifesto dell'agosto
del 1929 (Wissenschaftliche Weltauffassung. Der Wiener Kreis,
siglato da H. Hahn, O. Neurath e, appunto, Carnap), figurano i nomi
di Russell e Whitehead. Orbene, la chiusa dell'ultima opera
importante di A.N. Whitehead, Modes of thought, del 1938, sembra una
risposta alla sfida carnapiana per una nuova filosofia
esclusivamente scientifica. Della filosofia Whitehead non esita a
parlare, tutto al contrario, in termini di avventura, di misticismo,
di poesia: ‟Se volete dire così, la filosofia è
mistica. Il misticismo, infatti, è visione diretta di
profondità non ancora espresse. Ma lo scopo della filosofia
è quello di razionalizzare il misticismo: non spiegandolo, ma
introducendo nuove caratterizzazioni verbali, razionalmente
coordinate. La filosofia è simile alla poesia [...]. In
ciascuna vi è il riferimento a una forma che va al di
là del diretto significato delle parole. La poesia si allea
al ‛metro', la filosofia allo schema matematico" (v. Whitehead,
1938; tr. it., p. 237).
Bertrand Russell, nella prefazione del 1940 a An inquiry into
meaning and truth, aveva dichiarato, del resto confermando un suo
atteggiamento costante: ‟io simpatizzo, per quanto riguarda il
metodo, con i positivisti logici più che con i rappresentanti
di qualsiasi scuola esistente". Né aveva mancato, nel corso
dell'opera, di sottolineare i suoi punti di incontro con Carnap.
Altrettanto netto il suo rifiuto dei ‛mistici' da Bergson a
Wittgenstein, che dichiarano inaccessibile il rapporto fra parole e
fatti, e poi si servono delle parole per spiegare in che consista
tale inaccessibilità. Senonché la simpatia per i nuovi
positivisti valeva solo per quanto riguarda il metodo, come
tentativo ed esigenza di rigore. Sul senso classico della filosofia
non ha dubbi. Nel 1956, in pagine fortemente polemiche pubblicate
sullo ‟Hibbert journal" a proposito di J. O. Urmson, Philosophical
analysis: its development between the two world wars, ma poi, non a
caso, raccolte in My philosophical development (London 1959, pp.
215-230), proprio Russell mise duramente a confronto il significato
antico del filosofare, da Talete in poi, con i più recenti
sviluppi della filosofia analitica: una dottrina, così
diceva, inventata per rendere non necessaria l'attività di
pensare seriamente. Sosteneva Russell: ‟I filosofi da Talete in poi
hanno cercato sempre di intendere il mondo. La maggior parte di loro
è stata eccessivamente ottimista circa il proprio successo in
questo tentativo. Eppure anche quando hanno fallito lo scopo, hanno
fornito materiale ai loro successori ed incentivo a nuovi
tentativi". A questa tradizione classica Russell contrappone la
nuova filosofia che gli sembra occuparsi ‟non del mondo e del nostro
rapporto col mondo, ma solamente dei vari modi in cui gli sciocchi
possono dire sciocchezze". Se questa dovesse essere la filosofia,
allora meglio non occuparsene. A suo parere la filosofia del XX
secolo non può continuare a vivere se non in stretto rapporto
con la ricerca concreta, con la scienza empirica, ma per alimentarne
un'indagine erede degna dei problemi classici. ‟Una filosofia che
voglia avere qualche valore deve essere costruita su un ampio e
solido fondamento di conoscenza non specificamente filosofica.
Questo è il terreno dal quale l'albero della filosofia trae
il proprio vigore. Una filosofia che non deriva il suo nutrimento da
questo suolo avvizzirà presto" (ibid., p. 230). Ma l'albero
della filosofia non va confuso col terreno dal quale trae vita: la
filosofia non è né la scienza né la storia.
In queste battute Bertrand Russell rivendicava, contro ogni
equivoco, almeno alcuni tratti di una filosofia sostanzialmente
fedele alla tradizione. In realtà egli intendeva soprattutto
rifiutare le conseguenze estreme di quella ‛filosofia analitica' che
per tanti aspetti aveva creduto di potersi rifare proprio a lui, e
della quale, agli inizi degli anni trenta, W. V. O. Quine aveva
precisato i compiti in questi termini: presentemente io sono
propenso a credere che questo sia ciò in cui l'analisi
filosofica consiste, che questa sia l'unica e intera funzione della
filosofia [...]: ricercare e anche dire ‛che cosa in realtà
significhi dire così e così' [...]". Russell, insomma,
alla fine, non avrebbe fatta senz'altro propria la netta dicotomia,
talora addirittura scolasticizzata, che il pensiero del sec. XX
sarebbe da spaccarsi in due atteggiamenti contrapposti: analitico
(da salvare) e speculativo (da ripudiare).
L'insistente richiamo a Russell, ossia al pensatore che ha
instancabilmente accompagnato la ricerca filosofica mondiale lungo i
primi settanta anni del secolo, e che è tra coloro che nel
Novecento hanno ‛fatto' più filosofia, non è né
accidentale né d'occasione. Opere e posizioni sue, infatti,
sembrano collocarsi, o almeno vengono invocate, alle origini di
talune, reali o presunte, rivoluzioni filosofiche del secolo.
Appunto insieme a Whitehead aveva pubblicato fra il 1910 e il 1913 i
Principia mathematica; nel 1922 era uscita la sua Introduction to
Ludwig Wittgenstein's ‛Tractatus logicophilosophicus'. Eppure,
proprio lui, negli anni cinquanta, di fronte alla nuova filosofia, o
almeno a certe sue formulazioni, ritiene di potersi richiamare con
perfetta coerenza alla tradizione da Talete in poi. Non a torto. Nel
1912, stendendo il popolare volume The problems of philosophy, dopo
avere caratterizzato la filosofia come una richiesta di conoscenze
certe, da raggiungersi ‟non leggermente né dogmaticamente, ma
attraverso un metodo critico", prende le distanze dalle scienze, e
fa l'elogio delle incertezze della filosofia (‟la incertezza della
filosofia è più apparente che reale: quelle domande
che permettono già definite risposte sono formulate dalle
scienze, mentre solo quelle alle quali nel presente non si
può dare una risposta definitiva costituiscono quel residuo
che forma la filosofia"). Né, con ciò, si deve credere
che dominio della filosofia resti solo una zona residua non ancora
conquistata dal sapere scientifico, ma destinata a scomparire prima
o poi, risolvendosi in altro. ‟Vi sono molte domande, e fra di esse
quelle che hanno il massimo valore per la nostra vita spirituale,
che [...] devono rimanere insolubili per l'intelletto umano, a meno
che le sue facoltà divengano di un ordine interamente diverso
da quello cui esse ora appartengono" (v. Russell, 1912; tr. it., p.
171). Nel 1914, in Our knowledge of the external world (pp.
236-237), Russell ribadisce: ‟la filosofia è uno studio
diverso da quello delle altre scienze: i suoi resultati non possono
venire confermati dalle altre scienze, né le altre scienze
possono contraddirli". Un critico si chiese ironicamente se il campo
della filosofia russelliana non fosse per caso la teoria degli
angeli. Al contrario, l'asserzione di Russell era, invece, molto
seria, e additava, fra gli altri, problemi di sempre, forse privi di
senso sul terreno scientifico, ma perennemente risorgenti su quello
umano: ‟ha l'universo un'unità di disegno o di fine? È
la conoscenza un aspetto permanente dell'universo, che dà a
sperare un indefinito progresso del sapere, o è un accidente
transitorio su un piccolo pianeta sul quale la vita dovrà un
giorno divenire impossibile? Il bene e il male sono importanti per
l'universo o solo per l'uomo? Tali le domande fatte dalla
filosofia", che Russell non esita a ripetere per proprio conto (v.
Russell, 1912; tr. it., pp. 171-172). E il suo richiamo è di
grande rilievo: è un segno rivelatore; dimostra la tensione
che traversa gli atteggiamenti del Novecento nei confronti della
filosofia, e che Whitehead polarizzava, sotto un certo profilo, nel
contrasto fra ‛scuola critica' e ‛scuola speculativa'. La chiarezza
semplificatrice di Russell attesta centrale, ma non pacificato, il
problema del rapporto fra le scienze molteplici e la tematica
classica della filosofia, sempre impegnata a definire innanzitutto
quel nodo, per giungere a definire se stessa e il suo campo.
3. Limiti e contraddizioni della filosofia scientifica
Di fatto, definire univocamente, ossia determinare rigorosamente nel
suo campo una disciplina che ha millenni di storia, è molto
arduo; la sua vera definizione sta, appunto, nella sua storia. Il
compito, però, si fa particolarmente difficile nei confronti
della filosofia, non solo diversa in epoche successive, ma
molteplice e divisa nel medesimo tempo. Hegel, come è noto,
tentò nelle sue Vorlesungen über die Geschichte der
Philosophie di pervenire a una determinazione esaustiva della
filosofia ritrovando nei vari momenti del suo sviluppo i concetti
costitutivi della sua struttura sistematica, facendo emergere dalla
cronologia la logica, e concludendo col proprio sistema la ricerca.
Ora, a parte la contraddizione di una realtà come processo
dialettico che si conclude (e proprio in Hegel), gli fu spesso
obiettato, e continua a esserlo a quanti riprendono in qualche modo
la sua impostazione, che non è affatto vero che in un
medesimo tempo, o in una medesima epoca, solo una filosofia emerga
egemone, affermandosi come la coscienza critica unica, ossia come e
‛la' filosofia di quell'epoca, di quel secolo. Alla
molteplicità delle filosofie nella successione si aggiunge, a
rendere più complessa ogni ‛definizione', la
molteplicità nella coesistenza. Talora, anzi, come nel mondo
attuale, quando scoppiano più aspre le contraddizioni
storiche, quando si fanno avanti popoli prima rimasti in disparte o
oppressi, quando più duri si fanno gli urti fra le classi, le
tensioni e i contrasti sembrano moltiplicarsi ed esasperarsi anche
fra le concezioni del mondo e della vita. Proprio al livello della
filosofia, anzi delle filosofie, le lotte si esprimono in antitesi
drammatiche che sembrano irriducibili. Nè riescono
persuasivi, o proficui, gli sforzi volti a obliterare le divergenze,
quasi fossero di superficie o irrilevanti. Nè, del resto,
sembrano avere avuto successo i tentativi in tal senso.
Con tendenza semplificatrice, nel 1946, Ch. Morris, nella ben nota
sua opera Signs, language and behaviour, scriveva: ‟Per trovare che
cosa sia la ‛filosofia', basta raccogliere un certo numero di
scritti riconosciuti generalmente come filosofici e determinare,
dallo studio dei loro segni caratteristici, la natura
dell'attività filosofica facendo riferimento alloro prodotto
linguistico" (v. Morris, 1946; tr. it., pp. 312-313).
Senonché era subito costretto ad ammettere che ‟questo studio
riesce particolarmente difficile, tanto per la varietà dei
documenti che dovrebbero venire accettati come filosofici, quanto
per le differenze di opinione a proposito della filosoficità
o meno di certe opere. Il termine ‛filosofia', infatti, non soltanto
è vago e molto generale, ma [...]è un termine con
significazione complessa e difficile da individuare". Ogni scelta di
significato ‟può venire sostenuta con riferimenti a
precedenti storici"; ogni scelta si giustifica sia attraverso una
tradizione che attraverso il privilegio accordato a un particolare
aspetto della ricerca e, in genere, dell'attività umana. ‟Le
discussioni sulla natura della filosofia - dice sempre Morris -
sono, per lo più, discussioni a proposito di una scelta fra
le varie significazioni del termine ‛filosofia'; scelte influenzate,
a loro volta, dal valutare un tipo di attività più
importante di un altro" (ibid.).
Il caso di Morris è, in certo modo, esemplare. Nel 1938, nel
suo Scientific empiricism, uscito all'inizio del primo volume della
International Encyclopedia of Unified Science di Chicago, Morris,
richiamandosi sul piano teorico da un lato a Peirce, dall'altro a
Russell, aveva sottolineato il valore della ‛teoria dei segni'. Il
saggio Foundations of the theory of signs (v., 1938, p. 59), sempre
nel primo volume dell'Encyclopedia di Chicago, si chiudeva sulla
‟identificazione della filosofia con la teoria dei segni e con la
unificazione della scienza, cioè con gli aspetti più
generali e sistematici della semiotica pura e descrittiva",
ravvisandosi proprio in questo il modo migliore per continuare,
oggi, la ‛vecchia tradizione che la filosofia debba mirare
all'intima comprensione delle forme caratteristiche
dell'attività umana e sforzarsi verso un sapere il più
generale e il più sistematico possibile". Ovvio richiamare in
proposito le tesi di Wittgenstein secondo cui ‟tutta la filosofia
è ‛critica del linguaggio' ‟, o l'asserzione di Carnap
nell'Introduction to semantics (v., 1942, p. 250), per cui ‟il
compito della filosofia è l'analisi semiotica: i problemi
della filosofia riguardano non la natura ultima dell'essere, ma la
struttura semiotica del linguaggio della scienza, inclusa in essa la
parte teoretica del linguaggio quotidiano".
Senonchè, prima ancora di insistere sulle tesi di un
Wittgenstein o di un Carnap, può essere utile, a confermare
certe ambiguità sulla natura stessa della concezione della
filosofia, ricordare che già G. E. Moore, spesso considerato
iniziatore e maestro degli analisti di Cambridge, ha dato voce
significativa a vedute contrastanti circa la natura e i compiti
della filosofia. Da un lato, infatti, scrisse una volta (nel 1911)
che la cosa più significativa e interessante che i filosofi
hanno cercato di fare" è stato di offrire ‟una descrizione
generale della ‛totalità' dell'Universo"; d'altro lato, nel
1906, aveva detto che ‟la filosofia consiste in larga parte nel
‛dare ragioni'; e il problema di quali siano le buone ragioni a
sostegno di una particolare conclusione e quali siano le cattive,
è problema su cui i filosofi si sono trovati in disaccordo
quanto su qualsiasi altra questione". Filosofia, dunque, sarebbe
‟dare ragioni', anzi ‟individuare le buone ragioni a sostegno di una
particolare conclusione": critica, perciò, e analisi. A tale
tesi, dopo il 1910, il Moore mostrò di rimanere fedele, anche
se poi non può dirsi che mostrasse mai con tutta chiarezza
che cosa dovesse intendersi per tanalisi filosofica'. Nel 1903,
nella introduzione ai Principia ethica, aveva assunto un
atteggiamento molto socratico: ‟Io ritengo che le difficoltà
e i dissensi di cui la storia dell'etica è piena come quella
di tutti gli altri campi della filosofia siano dovuti principalmente
a una causa molto semplice: al fatto, cioè, che spesso si
tenta di rispondere a una domanda senza prima chiarire precisamente
quale sia la domanda a cui si vuol dare risposta" (v. Moore,
Principia..., 1903; tr. it., p. 36). Non si tratta, cioè, di
dire sì o no, ma di sapere, ammesso che vi sia, il
significato dell'interrogativo medesimo: analisi', dice Moore, e
‛distinzione'. Contemporaneamente, fino alla fine della vita
(morì nel 1958) non rinnegò mai del tutto la tesi che
‟obiettivo dell'indagine filosofica" sia quello di ‟stabilire
verità molto generali sul mondo, e forse anche sulla
Realtà come totalità". La filosofia, insomma, non
rinuncia all'antica pretesa a ceuna descrizione generale della
totalità dell'Universo"; Moore, se mai, la complica con ‟del
senso comune", e con la proclamazione della ‟verità' della
‟visione del mondo propria del senso comune", su cui insiste con
forza.
Ancora una volta emerge una situazione caratteristica della
filosofia del Novecento. Da un lato un rifiuto esasperato da parte
dei pensatori più attenti al progresso delle scienze.
Sottolineano costoro, concordi, la necessità di una svolta
decisiva, una rivoluzione che rompa con una tradizione millenaria
del filosofare, ne rifiuti i massimi problemi e le pretese
sistemazioni metafisiche. ‟Cercare l'unità e il sistema a
spese della verità - diceva Moore - non è il compito
proprio della filosofia per quanto possa essere stata la pratica
universale dei filosofi" (ibid., p. 336). Ph. Frank, in Modern
science and its philosophy (v., 1949), contrappose con durezza alle
pretese ‛verità' della ‛filosofia delle scuole' le concezioni
di Mach e James, la nuova logica di Russell, la nuova fisica e tutte
le nuove teorie e dottrine del secolo. D'altro canto, e
contemporaneamente, proprio nell'ambito degli stessi pensatori che
si autodefiniscono rivoluzionari, o dei loro ispiratori e compagni,
riemergono, più o meno surrettiziamente, gli ‛eterni
problemi' dichiarati senza senso, ossia le richieste della superata
‛filosofia delle scuole', e talora addirittura in forme di
metafisica dogmatica, o di esiti irrazionalisti e mistici.
Così se Moore con la sua analisi vuol ricordare
l'interrogazione socratica, altre volte rievoca più o meno
volutamente istanze platoniche. Così Wittgenstein nel
Tractatus, finito nel 1918, e tanto importante non solo per gli
sviluppi del Circolo di Vienna ma per le vicende in genere del
pensiero novecentesco, sembrò confermare, secondo
l'espressione del Frank, che ‟i problemi della filosofia
tradizionale sono problemi meramente verbali". Per questo insisteva
sul fatto che ‟lo scopo della filosofia è la chiarificazione
logica dei pensieri", che ‟consiste essenzialmente in elucidazioni",
che ‟deve rendere i pensieri, che altrimenti sarebbero nebulosi e
confusi, chiari e nettamente delimitati" (Tractatus, 4.112).
Terapia, dunque, la filosofia, nella direzione del rigore; ma anche
qualcosa di diverso dal sapere scientifico. Wittgenstein, infatti,
sottolinea che ‟il termine ‛filosofia' deve significare qualcosa che
sta sopra o sotto, ma non accanto alle scienze naturali"; che ‟la
filosofia delimita l'ambito del disputabile nella scienza naturale";
che ‟deve porre dei limiti al pensabile, e con ciò
all'impensabile"; che ‟finirà col significare anche
l'indicibile" (ibid., 4.111-4.115). E se è vero che afferma
che ‟l'enigma non esiste" (ibid., 6.5), dice anche che ‟esiste in
effetti l'inesprimibile", e che ‟si mostra semplicemente: è
il mistico" (ibid., 6.522). E dice ancora: ‟Dio non si svela anche
‛nel' mondo"; così come afferma che ‟la logica non è
una teoria, ma un'immagine rispecchiata del mondo" (ibid., 6.13 e
6.432).
Di proposito i richiami sono tutti al Tractatus, che figura fra le
‛autorità' nel programma del 1929 del Circolo di Vienna. Per
questo si è lasciata da parte la rottura operata dalle
Philosophische Untersuchungen, né si è insistito sulla
‛mistica razionalistica' di cui parlerà O. Lukàcs nel
1954 in Die Zerstörung der Vernunft, o sul possibile parallelo
con Bergson tentato anche di recente. Per questo non si sono
sottolineati i legami con A. Schopenhauer, su cui si è
insistito da più parti con fondamento, e che documentano, fra
l'altro, la vasta e profonda influenza dovunque del pensiero
schopenhaueriano. Quel che importa è soprattutto sottolineare
il riemergere di temi e problemi del filosofare classico proprio in
un testo considerato capitale per la svolta (die Wende) della
ricerca filosofica del Novecento, e quindi per la battaglia contro
il ‛caos dei sistemi' e degli pseudoproblemi della metafisica
(Schlick), e per l'abbandono degli enunciati incontrollabili della
filosofia tradizionale (Carnap). D'altra parte, appunto Carnap in
Der logische Aufbau der Welt, pubblicato nel 1928, ma composto fra
il 1922 e il 1925, si richiamerà non solo all'affermazione di
Wittgenstein che ‟l'enigma non esiste", ma anche alla postilla che
‟qualora fossero risolti tutti i possibili problemi scientifici, le
nostre domande vitali resterebbero ancora come prima". E
soggiungeva, significativamente: ‟è fuor di dubbio che per
noi non esiste alcun ignorabimus" perché, come Wittgenstein
aveva già sottolineato, ‟se un problema può essere
posto, allora esso può anche essere risolto". Solo che ‟la
tesi superba che non esiste alcun problema che per principio sia
insolubile per la scienza si accompagna necessariamente all'umile
consapevolezza che, anche qualora si fosse data risposta a tutti i
problemi, non si sarebbero con ciò assolti i compiti che la
vita ci pone dinanzi". In altri termini: ‟gli ‛enigmi della vita'
non sono problemi" solo nel senso che non sono problemi
‛scientifici'. Se la metafisica viene esclusa come conoscenza
(scienza) di una pretesa sfera metaempirica, ‟ciò non
significa che al di fuori della scienza non ci sia nulla, e che essa
sia onnicomprensiva. Il campo globale della vita possiede ancora
altre dimensioni oltre quelle delle scienze" (v. Carnap, 19612; tr.
it., pp. 352-360). Proprio per questo, e non a torto, Neurath, che
nel primo fascicolo della Encyclopedia di Chicago non esiterà
a dire di Wittgenstein che ‟per molti aspetti rimane un metafisico",
anche nel riferimento di Carnap alla vita, al vissuto, agli
Elementarerlebnisse, vide e contestò il riemergere - acritico
- di una metafisica dell'inesprimibile, in cui in realtà
tornava ad affacciarsi quella ‛filosofia della vita' che traversa in
forme varie tanta parte della filosofia del Novecento.
Non è certo il caso di insistere sulle variazioni del
pensiero di Carnap dopo il 1931, e in particolare sul testo
pubblicato in quell'anno nel secondo volume della rivista
‟Erkenntniss" (diretta da lui e da H. Reichenbach, ‟im Auftrage der
Gesellschaft für empirische Philosophie, Berlin, und des
Vereins Ernst Mach in Wien"). Il saggio, dal titolo programmatico
Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache,
sosteneva la tesi secondo cui ‟la metafisica non sarebbe altro che
un surrogato, e per di più insufficiente, dell'arte", e ‟i
metafisici dei musicisti senza capacità musicale". Carnap,
anzi, mentre faceva l'elogio di Nietzsche, che meno d'ogni altro
avrebbe mescolato, e confuso, arte e scienza, coglieva l'occasione,
in un'aggiunta sulle bozze, per sottolineare ‟una energica ripulsa,
in nome della logica, della filosofia del nulla", ossia del pensiero
di Heidegger, che fra il 1927 e il 1929 aveva pubblicato Sein und
Zeit, Kant und das Problem der Metaphysik, Was ist Metaphysik? e Vom
Wesen des Grundes.
Nel 1929, si è visto, Carnap con Hahn e Neurath aveva
sottoscritto l'opuscolo programmatico del Circolo di Vienna. Al
centro, con l'eredità di Mach, l'opera di Schlick che nel
1930, aprendo il primo volume di ‟Erkenntniss" celebrerà
appunto Die Wende der Philosophie, la svolta del filosofare, ossia
la liquidazione definitiva della filosofia nel senso tradizionale in
nome di una Wissenschaftliche Weltauffassung, e cioè di una
concezione scientifica del mondo che finalmente aveva avuto il
coraggio di ‟versare il vino nuovo in botti nuove".
Nel 1917, dopo che Einstein aveva pubblicato la sua teoria generale
della relatività, Schlick aveva preso posizione nei confronti
della nuova fisica con un saggio apprezzato dallo stesso Einstein:
Raum und Zeit in den gegenwärtigen Physik. Zür
Einführung in das Verständnis der Relativitätsund
Gravitationstheorie. L'ultimo capitolo, filosofico, mentre
caratterizza la funzione delle teorie scientifiche (‟ogni teoria
è composta da una trama di concetti e giudizi, ed è
corretta e vera se il sistema di giudizi indica il mondo dei fatti
univocamente"), definisce anche i compiti della filosofia: ‟rivelare
i fondamenti delle diverse scienze e armonizzarli fra loro". Il che
non era, nell'ambito delle discussioni fra Ottocento e Novecento,
una grande novità. La ‛svolta', invece, proclamata dallo
Schlick nel 1930 intendeva essere molto più radicale: oltre
il vino, anche le botti dovevano essere nuove, veramente tutte
nuove. Schlick comincia col tornare a ripetere l'antica accusa che
la filosofia, ogni volta, ricomincia da capo: ‟ogni nuovo sistema,
in fondo, comincia sempre di nuovo, ogni pensatore cerca un suo
proprio saldo fondamento e non ama mettersi sulle spalle dei suoi
predecessori". Dopo di che continua: ‟questa curiosa sorte della
filosofia è stata tanto spesso descritta e deplorata, che il
solo parlarne diventa banale, per cui scetticismo e rassegnazione,
tacitamente ammessi, sembrano il solo atteggiamento adeguato alla
situazione. Tutti i tentativi di porre fine al caos dei sistemi e di
cambiare il destino della filosofia non possono più -
così pare insegnarci un'esperienza di oltre duemila anni -
essere presi sul serio" (v. Schlick, 1930-1931, p. 5).
Eppure, nonostante la lunga serie di fallimenti, Schlick nel 1930
è sicuro che i tempi nuovi sono venuti: egli è certo
di trovarsi finalmente di fronte a ‟una riforma radicale", a ‟una
svolta realmente definitiva", a ‟una situazione senza precedenti".
La svolta, a suo parere, era stata avviata dalle ricerche logiche di
O. Frege e di Bertrand Russell, ma si era attuata attraverso la
valorizzazione radicale di certe tesi operata proprio da
Wittgenstein col Tractatus. ‟La filosofia non è una scienza"
- ecco il punto! ‟La filosofia [...) è quell'attività
mediante la quale si chiarisce e si determina il senso degli
enunciati. Con la filosofia le proposizioni vengono rese perspicue,
con le scienze esse vengono verificate. Le scienze trattano della
verità degli enunciati, la filosofia di ciò che gli
enunciati significano" (ibid., p. 8). Si tratta di una spietata
opera di potatura, ma di pseudoproblemi, della metafisica, dei
sistemi. ‟Dopo la grande svolta la filosofia mostra il suo carattere
conclusivo (...).In virtù di questo carattere si può
mettere termine alla contesa fra i sistemi" (ibid., p. 10). Di
fatto, si proclama la fine dell'era dei sistemi, dei massimi
problemi, delle questioni filosofiche a sé stanti. Frank
insisterà sull'abbandono totale - che allora si credette di
realizzare - dello stesso ‟concetto di verità della filosofia
delle scuole" (pur senza mai precisare rigorosamente la nozione di
‛filosofia delle scuole'). Neurath auspicava addirittura, sia pure
ironicamente, un ‟indice delle parole proibite", per evitare anche
l'uso dei termini ‛metafisici', nella convinzione, del resto comune
al gruppo di Vienna, che l'eliminazione della metafisica ‟non
avrebbe soltanto migliorato la logica", ma avrebbe anche privato
delle pretese basi teoriche ‛i gruppi totalitari', e il potere
oppressivo, svelandone i moventi, e così disarmandoli.
L'assassinio di Schlick, il 22 giugno 1936, assume in proposito un
significato quasi simbolico.
In qualche modo la ‛svolta' di Schlick sembrò riproporsi, nel
1956, nelle vesti della ‛rivoluzione' filosofica annunciata e
delineata da O. Ryle, The revolution in philosophy (un gruppo di
trasmissioni alla B.B.C. di vari pensatori, da A.J. Ayer a P.F.
Strawson, riunite in volume a Londra, appunto nel 1956, e presentate
da Ryle). Non casuali i richiami al Circolo di Vienna, a Moore,
Russell, Wittgenstein, tutti antenati illustri degli analisti di
Oxford: finalmente, per merito di questi ultimi, una filosofia
rigorosa perché ‛linguistica', è, insieme,
‛profilattica', ‛terapeutica'. Si avverava, insomma, la profezia di
Schlick: ‟vi sarà certamente qualche scontro di retroguardia,
e certamente molti persevereranno ancora per secoli nelle usate vie,
mentre studiosi di filosofia continueranno a discutere per parecchio
tempo di vecchi pseudoproblemi. Ma alla fine non si darà
più loro retta ed essi assomiglieranno a quegli attori che
insistono un bel pezzo a recitare prima di accorgersi che gli
spettatori si sono a poco a poco rivolti altrove. Non sarà
più necessario, allora, parlare di ‛questioni filosofiche',
perché si parlerà filosoficamente di ogni problema, e
questo vorrà dire: in modo sensato e chiaro" (v. Schlick,
1930-1931, p. 11).
Le cose, in realtà, erano molto più complicate, e la
pervicacia dei filosofi a volere ricominciare ogni volta da capo ha
probabilmente una motivazione più profonda di quanto non
sembrasse ai teorici della ‛svolta', anzi della ‛rivoluzione'. Oltre
quel da capo, che a sua volta è una radicale ripresa, urgono
sempre indistruttibili (eterne) esigenze, domande non eliminabili.
È abbastanza sintomatico che, non molto prima del saggio di
Schlick del 1930, nel 1929 fosse uscito, di Whitehead, Process and
reality. An essay in cosmology (e, nello stesso anno, The function
of reason), seguito, nel 1938, da Modes of thought. A.N. Whitehead
figurava, come il ‛mistico' Wittgenstein, fra le autorità del
manifesto del Circolo di Vienna. Fra il 1900 e il 1910 aveva
lavorato con Bertrand Russell ai Principia mathematica e, pur nel
variare delle sue posizioni, proclamò sempre la propria
fedeltà alla scienza. Solo che la sua visione della
filosofia, e la sua filosofia, furono ben altro che la semplice
ricerca, di cui parlava Schlick, di una espressione ‛sensata e
chiara' di singole asserzioni scientifiche. A parte la complessa
teoria degli oggetti eterni (‟gli oggetti eterni [eternal objects]
come sono presenti alla natura primordiale di Dio costituiscono il
mondo platonico delle idee"), resta per lui del tutto valida
l'esigenza di una filosofia speculativa. ‟La filosofia speculativa
(speculative philosophy) - osserva - è lo sforzo di comporre
un sistema coerente, logico, necessario, di idee generali, mediante
le quali ogni elemento della nostra esperienza possa essere
interpretato" (v. Whitehead, 1929; tr. it., p. 43). Uno dei fini
della filosofia è proprio ‟la sfida alle mezze verità
che costituiscono i principi scientifici. La sistemazione del sapere
non può essere fatta in compartimenti stagni" (ibid., p. 55).
Il metodo empiristico, il metodo baconiano, ‟seguito costantemente,
lascerebbe la scienza sempre al punto di prima. Quello che Bacone
dimenticò fu il gioco di un immaginazione libera, controllata
dalle esigenze della coerenza e della logica" (ibid., p. 46). Sfida,
avventura, rottura di frontiere: proprio questo è la
filosofia. ‟Il filosofo - leggiamo in Modes of thought - è
sempre all'assalto dei confini della finitezza". In Process and
reality aveva sottolineato con forza che compito della filosofia
è la riconquista della totalità (‟to recover the
totality obscured by the selection"). E ancora: ‟la filosofia
è il tentativo di rendere manifesta l'evidenza fondamentale
riguardo alla natura delle cose. Ogni tipo di intelligenza riposa
sul presupposto di questa evidenza [...J. La filosofia è la
critica delle astrazioni che governano i modi specialistici del
pensiero. Ne consegue che la filosofia, in qualunque senso proprio
del termine, non può essere provata, perché la prova
si basa sull'astrazione. La filosofia, o è autoevidente, o
non è filosofia". E finalmente: ‟La filosofia distrugge la
propria utilità quando indulge a brillanti tentativi di
spiegazione. In tal caso sconfina con un equipaggiamento sbagliato
nel campo delle scienze particolari [...].La funzione più
utile della filosofia è di promuovere la sistematizzazione
più generale del pensiero civilizzato" (ibid., p. 67).
Il discorso potrebbe continuare, riprendendo il problema
dell'influenza di Bergson su Whitehead, o il tema, talora proposto,
di un confronto con Husserl. Tuttavia quello che soprattutto
interessa è la rivendicazione della ‛metafisica', la difesa
aperta della ‛ fantastica', dell'invenzione di schemi generali
interpretativi: l'importanza riconosciuta alla ‟testimonianza della
poesia", e infine il compito primario affidato alla filosofia in
questo secolo, di riconciliare l'immagine del mondo derivata dalla
scienza e le affermazioni delle nostre esperienze estetiche ed
etiche" (in Science and the moderm world del 1925). In altri
termini, anche chi come Whitehead (o Russell) aveva le carte in
regola con la logica e la matematica, e si collocava fra i difensori
di un sapere ‛scientifico', continuava a porre nella filosofia,
oltre l'interrogazione socratica sui termini, la visione platonica
delle idee: oltre la domanda a Eutifrone su cosa significhi la
parola santo, l'affermazione che gli dei vogliono la santità
perché è in sé santa. Se il richiamo a Socrate
è stato ricorrente nelle ‛svolte' e nelle ‛rivoluzioni' di
certa filosofia ‛linguistica' del Novecento, Whitehead ha avuto il
coraggio di scrivere in Process and reality che ‛'la più
valida caratterizzazione generale della tradizione filosofica
europea è che essa consiste in una serie di glosse a Platone
(a series of footnotes to Plato)", e che in tale tradizione
platonica egli aspirava a iscriversi perché anch'egli pensava
che ‛le cose temporali emergono dalla loro partecipazione alle
eterne" (ibid., p. 114). In Modes of thought, polemizzando con la
filosofia analitica, dirà con efficacia: ‟L'errore del
dizionario perfetto (the fallacy of the perfect dictionary) divide i
filosofi in due scuole, la ‛scuola critica' che rifiuta la filosofia
speculativa e la ‛scuola speculativa' che la ammette. La scuola
critica si limita a un'analisi delle parole entro i confini del
dizionario. La scuola speculativa fa appello all'intuizione diretta,
e si sforza di indicare i significati mediante un ulteriore appello
alle situazioni che promuovono tali intuizioni specifiche. Essa
quindi amplia il dizionario. La divergenza fra le due scuole
è il contrasto fra sicurezza e avventura" (v. Whitehead,
1938; tr. it., pp. 235- 236).
Né a Whitehead sfuggiva quanto, proprio coloro che più
si danno da fare per esorcizzare la metafisica in nome della
scienza, più si lasciano sedurre da tentazioni metafisiche
non mediate. Come quando nel volume dell'Encyclopédie de la
Pléiade dedicato nel 1967, sotto la direzione di J. Piaget, a
Logique et connaissance scientifique, leggiamo che ‟le matematiche
non sono strumenti ma lo stesso pensiero creatore", e che
‟l'ambizione asintotica fondamentale di ogni scienza è la
creazione di una teoria quanto è possibile totale", cui
mirano e ‟la volontà segreta" e ‟lo spirito prometeico" dello
scienziato: ove chiaramente lo scienziato, al limite, si risolve nel
metafisico tradizionale.
Da quanto si è visto risulta chiaro che una caratteristica
comune al pensiero del Novecento è quella di mettere
radicalmente in discussione la filosofia. Non di rado essa viene
nettamente rifiutata ('la morte della filosofia') nelle sue forme
classiche, nei suoi massimi problemi, nelle formulazioni medesime
raggiunte lungo l'Ottocento nel grande dialogo fra idealismo e
positivismo. Il rifiuto emerge, ovviamente in forme diverse, sia fra
idealisti che fra positivisti, gli uni e gli altri ugualmente
polemici nei confronti della ‛metafisica', a beneficio là
delle scienze storiche, qua delle scienze matematiche e fisiche. Le
scienze particolari, nella tendenza a svincolarsi completamente
dalla filosofia, sembrano toglierle gli ultimi spazi disponibili per
un accesso privilegiato alla realtà: dopo le scienze
naturali, si rendono via via autonome la psicologia, la logica, le
‛scienze umane' in genere. Sembrano scomparire gli ultimi feudi per
tradizione filosofici: l'anima, la mente, la prassi. Viene a un
tempo respinta, o messa fortemente in crisi, non solo l'idea di una
visione totale della realtà, ma ogni possibilità di
sintesi globale dell'esperienza umana, a cui si rifiuta un tessuto
comune obiettivamente accertabile.
Senonché, proprio all'interno delle posizioni più
radicalmente negatrici, riemergono, imposte dalle esigenze dello
stesso divenire scientifico, istanze ‛metafisiche' fra le più
tradizionali. Anche se in forma nuova ritornano domande antiche.
Questioni di metodo, di linguaggio, di unità del sapere, di
significato, ripropongono vecchi temi. Per usare l'immagine di
Frank, nelle botti nuove - o che sembrano nuove - torna il vecchio
vino. In altri termini la discussione, generalizzata e centrale, su
scienza e filosofia, e sulla scientificità della filosofia,
proprio allorché propone, nelle sue punte estreme, le formule
radicali di crisi e morte della filosofia, di svolte e rivoluzioni,
risuscita l'urgenza delle concezioni generali, delle visioni
d'insieme, e soprattutto dell'analisi dei fondamenti, svelando i
limiti di una scienza che, dimentica del proprio particolarizzarsi,
trascuri la necessità di una reintegrazione nel tutto
dell'esperienza umana, o pretenda di imporre l'egemonia di una parte
surrettiziamente presentata come totalità.
È fatale che in una disamina del genere l'accento batta sulle
prese di posizione neoempiristiche e neopositivistiche,
poiché proprio lì si è cercato più
nettamente di sostituire la ‛filosofia tradizionale' con un modo
filosofico - o che tale voleva essere - di fare scienza. Filosofia,
infatti, secondo Schlick, niente altro dovrebbe essere se non una
maniera di parlare ‟in modo sensato e chiaro" di ogni questione. Va
tuttavia sottolineato che i temi della ‛svolta', della rimessa in
discussione radicale, dei fondamenti, sono comuni a tutta la
riflessione del Novecento, idealistica non meno che positivistica.
La scienza, e il rapporto con essa, sono il banco di prova per
tutti, dopo il doppio fallimento, del positivismo con la sua
riduzione del filosofare al modello scientifico, e dell'idealismo
con la sua reazione antiscientista, fattasi svalutazione della
scienza in genere attraverso una riduzione della scienza a mera
tecnica. Da un lato si affronta la discussione circa la
possibilità stessa della filosofia, del suo significato, del
suo compito; dall'altro, mentre si accentua la diaspora di
discipline considerate per eccellenza filosofiche, si vanno
trasformando profondamente le strutture e i concetti chiave di
quelle scienze nel cui confronto la filosofia moderna era venuta
costituendosi, almeno in alcuni dei suoi capitoli più
importanti. Matematica e fisica si rinnovano: si modificano le
nozioni di legge, di ipotesi, di verità, di tempo, di spazio,
di causa, di necessità; ‛scienze della natura' e ‛scienze
dello spirito', per usare una terminologia diffusa fra Ottocento e
Novecento, propongono complessi problemi di rapporti e di sintesi.
Da Darwin a Freud, o a Einstein, l'immagine della realtà e
della sua conoscenza da parte dell'uomo mutano. La funzione delle
concezioni generali svela la sua importanza decisiva per lo stesso
progresso dell'indagine scientifica, ma sembra imporre insieme un
nuovo rigore nella determinazione del senso della filosofia. Per
questo, osserverà Husserl nel famoso articolo uscito nel
primo volume della rivista ‟Logos" (1910-1911), la filosofia che
deve dare alle scienze particolari ‟una nuova dimensione, e con
ciò un'ultima perfezione", dovrà per la prima volta
costituirsi essa stessa, attraverso una critica radicale, ‟come
scienza rigorosa (als strenge Wissenschaft)"
‟Logos", anzi, fra la vigilia della prima guerra mondiale e la
preparazione della seconda, appare in proposito l'espressione quasi
emblematica dell'atteggiamento di un fronte molto ampio. Fra
redattori e collaboratori andò dagli storicisti ai filosofi
della vita, da Rickert a Cassirer, da Croce a Lukàcs, da
Simmel a Spengler, ma ospitò anche un Reichenbach.
Rappresentò, insomma, l'inquieta ricerca di un nuovo senso
del filosofare, dall'emergere della fenomenologia husserliana alla
costruzione di una filosofia della cultura in Cassirer, ove ‛campo'
della filosofia è la riflessione sul ‛mondo intellettuale'
che si costituisce come risposta e interpretazione nei confronti
delle sollecitazioni del mondo delle cose, ‟al posto del mondo delle
cose": filosofia delle forme simboliche. La filosofia della cultura
- scriverà Cassirer nel 1942 in un passo rivelatore degli
studi Zur Logik der Kulturwissenschaften - ‟ci insegna a
interpretare i simboli in modo da decifrare il loro significato
latente, rendendo di nuovo visibile la vita da cui originariamente
scaturirono". Ov'è appena necessario sottolineare quella
dialettica vita-forme che è stata il tema dominante di una
fascia larghissima della filosofia del secolo.
Comunque, lungo una gamma assai vasta di posizioni diverse, il
motivo di una crisi radicale e di un rinnovamento, di una morte e di
una resurrezione, sembra caratterizzare l'indagine filosofica del
Novecento: dalla revisione pragmatista del concetto di
‛verità' alla tematica marxista di una filosofia che ha ormai
il compito di cambiare il mondo. In tale prospettiva, appunto, si
colloca la stessa citata definizione del Croce, della filosofia come
momento metodologico astratto della storiografia, ove, subito, il
riemergere di strutture categoriali immutabili rispetto alla
fluidità dellaVita restaura, attraverso il privilegio del
mondo dello spirito, una sorta di metafisica idealistica.
Così anche il pensiero del Croce, ossia la posizione di
maggior peso nel pensiero italiano del secolo, reca testimonianza di
una comune tensione: fra una filosofia che sembra destinata a morire
nelle sue forme tradizionali, e un riaffermarsi dovunque della
filosofia proprio nei suoi atteggiamenti classici, fino alle
restaurazioni metafisiche, irrazionalistiche e mistiche, spesso
all'interno dei più intransigenti rifiuti ‛scientifici'.
Nel 1944, con molta chiarezza, in apertura di An essay on man,
Cassirer osservò come i padri del nuovo sapere (e
indicò Nietzsche, Freud e Marx), pur richiamandosi di
continuo al concreto, avessero troppo spesso stiracchiato i fatti
sul letto di Procuste di teorie precostituite. Sottolineava a un
tempo l'estrema dispersione di vedute e di indagini, e, proprio a
proposito della conoscenza dell'uomo, notava come in tanta
polverizzazione di ‛scienze umane' si dissolvesse una qualsiasi
nozione unitaria (v. Cassirer, 1944; tr. it., pp. 74-75). Nel 1928
M. Scheler aveva già osservato come in nessuna epoca della
storia come nella presente l'uomo sia apparso a se stesso
così enigmatico". Infatti, ‟nonostante il loro innegabile
valore, le scienze sempre più specializzate che si occupano
dell'uomo, anziché chiarirla, ci nascondono sempre di
più la sua vera essenza". I vari piani di riflessione e di
indagine ‟non hanno nessuna convergenza. Talché, pur avendo
una antropologia scientifica, una antropologia filosofica e una
antropologia teologica affatto incuranti l'una dell'altra, noi
manchiamo di una idea unitaria dell'uomo" (v. Scheler, 19626; tr.
it., pp. 157-158). Non a caso alla ‛morte' della filosofia in senso
tradizionale verrà quasi simmetricamente a corrispondere il
tema della ‛morte dell'uomo'. Già Nietzsche, del resto, aveva
osservato che col dissolversi, nel pensiero contemporaneo,
dell'ontologia classica, nella crisi della nozione metafisica
dell'Essere, non poteva non congiungersi alla morte di Dio la morte
dell'uomo (o, almeno, di un'immagine dell'uomo). Così non
è stato difficile concludere oggi che ‟l'uomo è
un'invenzione di data recente, la cui fine, forse, è
prossima" (v. Foucault, 1966, p. 398).
Per dare un senso a tanto radicali negazioni è tuttavia
necessario risalire ancora una volta alla crisi stessa della
filosofia e della sua funzione; come diceva Cassirer, bisogna
ritrovare un filo d'Arianna oltre le dispersioni che in questo
secolo l'hanno frantumata facendo smarrire al sapere ogni
unità: quell'unità che, almeno come ideale regolativo
in senso kantiano, ne è stata sempre il fondamento e l'anima.
Ma il filo d'Arianna per ricostruire una immagine non mistificata
delle tensioni filosofiche del Novecento non può essere
trovato al di fuori della storia del complesso dibattito proprio
intorno alla natura e al compito della filosofia nei confronti delle
varie scienze e discipline specifiche.
4. Il primo Novecento: la crisi del positivismo
Visto dunque che il filo d'Arianna per una determinazione della
tematica filosofica di questo secolo corre attraverso il suo
configurarsi specifico, ossia attraverso la sua storia, non
può essere elusa una questione pregiudiziale: se cioè
il discorso debba seguire lo sviluppo degli orientamenti generali,
ossia, in ultima analisi, degli ‛ismi' (positivismo vecchio e nuovo,
pragmatismo, idealismo, esistenzialismo, marxismo); oppure se debba
articolarsi in base ai caratteri nazionali (filosofia italiana,
inglese, francese, tedesca, nordamericana e così via); o se
non sia, piuttosto, il caso di rintracciare nella loro genesi i
termini di un dibattito per ritmarlo in momenti, o periodi, scanditi
nel tempo. Poiché i vari indirizzi, o ‛ismi', saranno
analizzati in singoli articoli speciali, restano due
possibilità: a) le classificazioni nazionali; b) la
periodizzazione secondo eventi decisivi. Sulla plausibilità
delle storie nazionali, vecchia è la disputa, e poco
fruttuosa se posta in termini generici e astratti. È certo,
d'altra parte, che in questo secolo la circolazione delle idee
è stata rapida e fitta, con simmetrie e consonanze a volte
impressionanti. Gli stessi casi drammatici che hanno punteggiato
un'epoca così travagliata hanno anche contribuito ad
accelerare gli scambi fra aree culturali lontane. Rivolgimenti,
dittature, persecuzioni politiche, guerre e, con l'avvento di Hitler
e del nazismo, l'intolleranza razziale, attraverso la diaspora e il
trapianto dell'‛intelligenza' di interi paesi europei, hanno
affrettato contatti e trasformazioni, che non è solo retorica
paragonare all'esodo dei bizantini per la caduta di Costantinopoli.
D'altra parte, per fare solo qualche esempio, l'incontro di un
Cassirer con la cultura americana degli anni quaranta reagì
sulla stessa filosofia delle forme simboliche nelle sue estreme
formulazioni, così come l'insediamento a Londra dell'Istituto
Warburg indusse a nuove inflessioni un'eredità diversamente
orientata. Né la penetrazione di Husserl in Italia, fra le
due guerre, e dopo, può intendersi al di fuori di precise
situazioni politiche. Accettata così una prospettiva in cui
il moto e lo sviluppo del pensiero filosofico si articolino secondo
i grandi eventi del secolo, non può non balzare subito in
primo piano anche un altro aspetto tipico dell'epoca: la ricorrente
questione circa il nesso fra concezioni del mondo e impegno
politico. Già ai tempi della prima guerra mondiale, di fronte
al pugnace pacifismo di Bertrand Russell, e all'avversione profonda
alla guerra di Benedetto Croce, si poté assistere alla
sfrenata propaganda nazionalista di non pochi cultori di discipline
filosofiche, pronti a sacrificare ogni scienza all'‛ideologia',
anticipando i più vistosi tradimenti dei clercs di fronte ai
vari fascismi. Non a caso, a un certo punto, proprio il problema
degli intellettuali e della loro funzione si fece centrale,
traducendo in termini concreti il rapporto fra teoria e prassi.
Anche da questo, comunque, risulta non arbitraria né fuori
luogo la scansione del moto delle idee secondo i grandi eventi: la
prima guerra mondiale; l'inquieto periodo fra le due guerre col nodo
della grande depression, di cui giustamente faceva caso sul terreno
filosofico J. Laird (v., 1936, p. 7); la seconda guerra mondiale e
il dopoguerra fino alla fine degli anni sessanta. Si tratta,
è chiaro, di momenti anche culturalmente ben caratterizzati,
con cesure evidenti, con sintomatiche simmetrie nei vari campi del
sapere. Discutibile, se mai, il terminus a quo: far coincidere con
esattezza il giro dei secoli con le vicende della filosofia non
è agevole, né si ha l'impressione che proprio all'alba
del 1900 gli uomini ‛cambiassero idea', laddove, al contrario,
l'ultimo decennio dell'Ottocento ha fatto parlare di una vera e
propria rivoluzione intellettuale neoromantica (É. Durkheim
parlò di ‟rinascente misticismo"), destinata a dominare il
panorama filosofico almeno per un venticinquennio, fino alla prima
guerra mondiale (v. Hughes, 1958; tr. it., p. 41). Sono gli anni in
cui comincia a diffondersi, anche se frainteso e deformato, lo
scomodo messaggio di Nietzsche; mentre la rivolta contro l'immagine
del mondo presentata dalla scienza si accentua sempre di più
e l'universo disegnato dagli scienziati sembra assumere una maschera
terrificante: ove, per altro, e ‛scienza' sta spesso a significare
quella filosofia scientifica che il positivismo aveva diffuso quale
verità per sempre acquisita, suscettibile bensì di
accrescimento quantitativo - excelsior! - ma non di crisi radicale.
Come diceva Nietzsche, era la grande illusione che ‟la verità
è qui, e che è stata messa fine all'ignoranza e
all'errore". Illusione, va ancora sottolineato, piuttosto filosofica
che scientifica, del positivismo e della sua metafisica. Le scienze,
infatti, mentre per un verso facevano progressi eccezionali, per un
altro verso attraversavano un momento di grande disorientamento
teorico: una crisi che, deformata e fraintesa, sarà sfruttata
largamente dalle reazioni idealistiche al positivismo.
Comunque, a caratterizzare l'inquieta atmosfera e ‛fine di secolo',
vale la pena di riferire, documento di uno stato d'animo diffuso, un
testo contenuto nel discorso pronunciato da W. James il 26 agosto
1898 all'Università di California su Philosophical conception
and practical results: ‟Tutti voi conoscete - disse allora - la
descrizione dell'ultimo prevedibile stato del morto universo, quale
ce l'ha dato la scienza evoluzionista". Selezione naturale,
automatismo della mente, l'universo in estinzione per l'aumento
dell'entropia: ecco l'ombra paurosa che sembra stendersi sulla
realtà. ‟Che struggimento pensare che nell'immenso alternarsi
delle stagioni cosmiche, benché appaiano ancora delle rive
ingioiellate, e fluttuino ancora arcipelaghi di nuvole che indugiano
a lungo prima di dissolversi, proprio come indugia il nostro mondo,
per la nostra gioia, tuttavia, quando questi prodotti transitori
sono stati, nulla, assolutamente nulla, rimane a rappresentare
quelle particolari qualità, quegli elementi preziosi dei
quali essi sono stati adorni. Sono morti e passati, passati del
tutto dalla sfera e stanza propria dell'essere. Senza un'eco, senza
una memoria, senza un'influenza" (v. James, 1907, p. 105). È
una pagina caratteristica: tradotta da Giovanni Papini, l'autore la
modificò e la riprese per includerla nel 1907 nel volume
Pragmatism. A new namefor some old ways of thinking. Popular
lectures on philosophy, per la cui versione francese Bergson in
persona scriverà una nota prefazione nel 1911, l'anno
medesimo in cui E. Boutroux raccoglieva in volume i suoi articoli
sul pensatore americano. Sono gli anni della moda e degli equivoci
trionfanti: al disorientamento e alle crisi delle scienze, al rigore
della ragione e a un sapere che non consola, né vuole
consolare, James contrappone ‟lo straordinario potere tonico e
consolatore" della fede, della volontà di credere, degli
ideali, dei valori intramontabili.
Appunto le fragili e fortunate conferenze riunite in Pragmatism,
fatte di una retorica appassionata, attestano una filosofia che si
trasforma in propaganda, fra religione e politica culturale. La
seconda lecture, What pragmatism means, è addirittura una
specie di manifesto-appello per la costituzione di un fronte unico,
avviato sul terreno logico da Peirce, esteso nei paesi di lingua
inglese da F.C.S. Schiller, reclamizzato in Italia da Papini, per
una filosofia mediatrice e conciliatrice (I called pragmatism a
mediator and reconciler), che non irrigidisca il reale, ma liberi
l'umanità dall'oppressione dello ‛scientismo'.
‟L'arbitrarietà umana ha cacciato la necessità divina
dalla logica scientifica. Se vi ricordo i nomi di Sigwart, Mach,
Ostwald, Pearson, Poincaré, Duhem, Milhaud, Heymans, quanti
di voi si occupano di ricerche identificheranno facilmente
l'orientamento di cui parlo e vi aggiungeranno altri nomi" (v.
James, 1907; tr. it., p. 57). Ove non è difficile scorgere
l'indiscriminata unione di posizioni eterogenee della cosiddetta
‛critica della scienza', soprattutto in funzione polemica nei
confronti del determinismo positivistico e dello scientismo. Si
tratta di uno dei motivi comuni, caratteristici del venticinquennio
anteriore alla prima guerra mondiale: mentre le scienze fanno i
conti con l'insufficienza di strumenti concettuali incapaci di
adeguarsi alle nuove ipotesi e alle nuove indagini, ma in un
processo di crescita e di rinnovamento, l'idealismo in lotta con il
posivitismo si vale di quelle difficoltà per negare ogni
valore teorico del sapere scientifico, invece di limitarsi a
confutare le ingenue pretese metafisiche surrettiziamente presentate
dai positivisti come ‛scientifiche' anch'esse. E sul grande
equivoco, alimentato dalla moda del pragmatismo di James, della
interpretazione ‛economica' della scienza, si gettano un po' tutti i
filosofi, da Benedetto Croce a Henri Bergson, ma con risonanze
sottili e lontane, destinate a giungere almeno fino alla vigilia
della seconda guerra mondiale, e all'accusa rivolta da Husserl nella
sua ultima grande opera, Die Krisis der europädischen
Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, a tutta
la scienza moderna, di avere ‟significato l'allontanamento da quei
problemi che sono decisivi per una umanità autentica [...], i
problemi del senso o del non-senso dell'esistenza umana nel suo
complesso".
Non a caso Bergson in Francia collocava il valore della battaglia di
James in una riscossa dell'uomo da una visione delle cose che lo
schiacciava con la propria indifferente necessità. ‟Agli
occhi di James - sottolineava - l'uomo conta", e deve essere
liberato dall'orrore di concezioni che rendono insignificante non
solo l'individuo, ma l'umanità, la storia, l'intera
realtà. Perfino la bizzarra infatuazione, espressa da James
in A pluralistic universe (uscito a Londra nel 1909), per lo
Zend-Avesta di G.Th. Fechner, e per la sua tesi di un'anima della
terra, sembra giustificarsi agli occhi di Bergson come una
più energica sottolineatura del bisogno di una realtà
viva e vicina all'uomo. Nè c'è dubbio che James seppe
dare voce eloquente al senso diffuso ovunque, che con la fine del
secolo tramontava anche una concezione del mondo. Tuttavia
l'originalità, e quindi la risonanza del pensatore americano,
vanno ritrovate nella sua messa in discussione del concetto stesso
di verità, e quindi del concetto di realtà. Di fronte
a un mondo in cui sembrava scomparire ogni senso dell'opera umana,
James si chiede quale ne sia il fondamento, che validità mai
abbia quel sapere la ‛scienza' - con cui si pretende di giustificare
rigorosamente quella raffigurazione sconsolata delle cose. Di qui
una filosofia come analisi della scienza, discussione dei suoi
fondamenti, dei suoi procedimenti, dell'ambito della sua
validità - e se i suoi resultati consentano una
libertà di azione per l'uomo, e una speranza. Attraverso un
diverso concetto di verità si profila una diversa funzione
della filosofia, un diverso rapporto fra conoscere e fare: la
filosofia è qualcosa di altro, e di più, che una
teoria: è presa di posizione etica, progetto operativo,
volontà costruttiva. ‟Le teorie diventano strumenti"
operativi, non definitive soluzioni di enigmi; e questo
perché la realtà è fluida, unitaria, vivente:
è slancio creatore. ‟O mio caro Bergson - scrive James il 13
giugno 1907, dopo avere letto l'Évolution créatrice
uscita in quell'anno - voi siete un mago": un mago che realizza
un'era nuova del filosofare. E Bergson, a sua volta: ‟la
realtà scorre; noi scorriamo con essa e chiamiamo vera ogni
affermazione che, guidandoci nel fluire della realtà, ci
permetta su di essa una presa, e ci collochi nelle condizioni
migliori per agire". Sono entrati consapevolmente in discussione i
concetti di verità, di scienza, di praxis; ma è
soprattutto la filosofia medesima che muta senso. ‟Noi definiamo in
genere il vero mediante la sua conformità con ciò che
già esiste; James lo definisce attraverso la sua relazione
con quello che ancora non esiste. Il vero, secondo William James,
non copia qualcosa che è stato, o che è: annunzia
quello che sarà, o, meglio, prepara la nostra azione su
quello che sarà. La filosofia ha una tendenza naturale a
volere che la verità guardi all'indietro; per James guarda in
avanti" (v. Bergson, 1963, p. 1446). In realtà questa
filosofia non si esaurisce nel guardare il processo del tutto;
è solidale con esso; ne è il consapevole orientamento,
se non addirittura la forza motrice.
Si trattava non, come fu detto, della ‟reazione idealistica contro
la scienza", bensì della messa in crisi di un modo di
concepire la vita e il mondo: della rivolta contro una ideologia, un
costume e una mentalità, ossia contro quel ‛positivismo' che
aveva preteso di presentarsi come la filosofia scientifica, fondata
sulla scienza, anzi essa medesima scienza, capace di oltrepassare
ogni conflitto, di sanare ogni lacerazione, di vincere ogni
superstizione, in un progresso verso il meglio, ordinato e
necessario. Col suo tono predicatorio M.P.F. Littré aveva
sentenziato: ‟la philosophie positive [...] là est la
philosophie suprème", mentre J. E. Renan aveva messo in
formula le sorti immancabili della società umana: ‟il moto
del mondo è la resultante del parallelogramma di due forze:
il liberalismo da una parte, il socialismo dall'altra". La
supremazia della scienza, la sua assoluta verità, il suo
dominio su tutta la realtà, oltreché naturale, umana e
sociale, i suoi trionfi, si univano alla certezza dell'evoluzione
(nel suo significato pregnante di processo necessario verso il
meglio), e, alla fine, alla tesi degli ‛intellettuali' (i savi, i
competenti, i tecnici)-guide.
Senonché proprio perché entrava in crisi, con una
intera società, tutta una cultura, la polemica
antipositivistica, che a livello filosofico troviamo argomentata
consapevolmente, si manifestò su un fronte larghissimo,
coinvolgendo, fra equivoci d'ogni sorta, in una lotta sola,
scienziati e filosofi, letterati e politici, anche se, forse, due
furono i poli intorno a cui si concentrò più
drammatica: da un lato, ovviamente, la scienza nel suo valore e nei
suoi rapporti con la filosofia, ossia con le concezioni generali del
mondo e della vita; dall'altro, la società e i valori nel
loro variare storico, e la funzione degli intellettuali soprattutto
in un'epoca di crisi. Il primo punto fu, ovviamente, il più
evidente anche sul piano teoretico, e il più importante:
lì si decideva, infatti, della filosofia e della sua
funzione, della sua sopravvivenza, ma anche del posto della scienza
e del suo significato nel mondo moderno. D'altra parte si radicava
lì, nella disamina della interpretazione positivistica della
scienza, anche la più profonda discussione politica, a
livello non solo teorico. Non a caso la rivolta di Antonio Labriola
contro Spencer in nome di Marx coincide, anche cronologicamente, con
le discussioni circa scienza e metafisica, e la Bernstein-Debatte si
collega alla disputa intorno alla inevitabile legge naturale che,
attraverso la fatale crisi economica, e l'inevitabile crollo
catastrofico (Zusammeizbruch) dell'attuale società
capitalistica, aprirebbe la via al socialismo. Non a caso, a un
certo punto, sembrano incrociarsi le vie di Benedetto Croce, Georges
Sorel, Bergson e James, e più tardi sarà lanciata
contro Antonio Gramsci l'accusa di bergsonismo (e ai nostri giorni
di idealismo). G. Simmei, anche per il materialismo storico,
parlerà di una ‟metafisica segreta in cui continua a vivere
il movimento autonomo dell'idea". Ma se un ritmo segreto, necessario
e unitario, domina la totalità del reale, che senso ha
parlare dell'uomo, della libertà, dei valori, dell'arte,
della storia e, infine, della rivoluzione?
Senonché anche gli equivoci, anzi tutti gli equivoci,
andarono ad annidarsi proprio nella discussione sulla scienza,
allorché la crisi profonda interna alla scienza, e polemica
contro le deformazioni dogmatiche (positivistiche) della ricerca
scientifica, fu a sua volta deformata dalla ‛reazione idealistica'
che credette di poterla interpretare ‛contro' ogni possibile valore
conoscitivo della scienza, ripetendo, simmetrica, ma rovesciata,
l'operazione positivistica. La mistificazione idealistica (la
scienza - dirà Croce - è degli pseudoconcetti, opposti
ai concetti che sono della filosofia; la scienza - ribadiva Bergson
- è incapace di cogliere l'interno della realtà, il
profondo, che solo la metafisica intuisce; la scienza si riduce a
elaborare tecniche, strumenti utilitari) si lasciò sfuggire
il significato profondo del travaglio degli scienziati a cui non
bastavano più gli strumenti logici e le costruzioni teoriche
tradizionali: a cui non servivano più i quadri e le sintesi
della filosofia. Come il vecchio positivismo si era limitato ad
assolutizzare indebitamente, magari fraintendendo, certe ipotesi
(per esempio l'evoluzione darwiniana), così il nuovo
idealismo strumentalizza, spesso senza capirlo, il riconoscimento,
da parte degli scienziati, dell'insufficienza di certi concetti
(meccanismo, necessità meccanica, causalità
necessaria, misure assolute), senza affrontare, sul versante della
filosofia, la vasta problematica proposta dalle indagini storiche di
un Mach o, fra il 1905 e il 1915, da un Einstein, nel passaggio
dalla relatività ristretta alla relatività generale.
Newton poté valersi, in partenza, delle tesi dei platonici di
Cambridge, per trovare, poi, da un lato Hume, e dall'altro Kant.
Einstein andò sì oltre Galileo e Newton, ma non ha
ancora suscitato il suo Kant. Partì da Mach, ma per urtarsi
ben presto proprio con la sua diffidenza speculativa. ‟Mach non si
rendeva conto - dirà poi amaramente - che il carattere
speculativo si trova ugualmente nella meccanica di Newton, e in ogni
teoria di cui il pensiero è capace".
Einstein, invece, si rende conto di quanto pesi l'appuntamento
mancato fra scienza e filosofia. Scrive nel 1921: ‟La struttura del
sistema è opera di ragione"; e ancora: ‟la natura è la
realizzazione delle idee matematiche più semplici che si
possano immaginare". Forse in nessuno come in Einstein può
leggersi chiaro il dramma del doppio equivoco: prima del fallito
matrimonio positivistico fra scienza e filosofia; e poi dell'assurdo
divorzio idealistico. Partito da Hume e Mach, e dall'empirismo,
disturbato da Kant e dal neokantismo, si tormentò fino alla
morte dietro il miraggio di una formula matematica unificatrice
della realtà intera. ‟Io sono convinto che si possono
scoprire, mediante costruzioni puramente matematiche, i concetti, le
leggi, i loro nessi, capaci di dare la chiave dei fenomeni naturali"
(v. Holton, 1967, pp. 116-119). La necessità di una legge
matematica universale, e una causalità rigorosa, sono per lui
articoli di fede; di N. Bohr scriverà nel 1924: ‟l'idea che
un elettrone esposto a una radiazione possa scegliere liberamente
l'istante e la direzione in cui spiccare il salto è per me
intollerabile. Se così fosse, preferirei fare il ciabattino,
e magari il biscazziere, anziché il fisico" (v. Einstein e
Born, 1969; tr. it., p. 98). E a M. Born, nel 1944: ‟Le nostre
prospettive scientifiche sono ormai agli antipodi fra loro. Tu
ritieni che Dio giochi a dadi col mondo; io credo invece che tutto
ubbidisca a una legge, in un mondo di realtà obiettive che
cerco di cogliere per via furiosamente speculativa. Lo credo
fermamente" (ibid., p. 176).
Il dramma di Einstein, ma non solo di Einstein, è proprio
qui: nella contraddizione fra quel ‛credere' e quella ‛furiosa'
speculazione, ossia nell'incapacità della scienza di rendere
criticamente conto a pieno del proprio operare, e nella
incapacità della filosofia di offrirle adeguati strumenti
interpretativi, indicandole, a un tempo, il senso di una ricerca e
il posto nell'attività dell'uomo. Dopo l'illusione del
positivismo ottocentesco, la filosofia, ripudiando la scienza, aveva
aperto le porte all'irrazionale, al misticismo e alla retorica, di
fronte a una scienza che cercava invano di chiarire razionalmente i
propri fondamenti, i propri strumenti, il proprio significato, e che
invocava un'unità del sapere tanto irraggiungibile quanto
indispensabile. Le guerre mondiali, che non senza profonda
verità Benedetto Croce chiamerà guerre di religione,
sembrarono dimostrare, proprio attraverso le capacità
distruttive delle scienze, le contraddizioni di una umanità
che aveva smarrito ogni senso del conoscere e dell'agire, e infranto
ogni tavola di valori.
5. Pragmatismo e idealismo
Purtroppo fin dalle origini la retorica idealistica, non senza la
collaborazione dei positivisti, aveva considerato come una
‛bancarotta della scienza' la feconda presa di coscienza di una
crisi che investiva metodi, procedimenti logici, sistemazioni
classiche. Era un balzo in avanti che voleva un'accurata analisi
logico-metodologica accompagnata da una chiarificazione storica che
snidasse, nel cuore stesso della scienza moderna, i residui di una
vecchia metafisica, e sostituisse nello stesso tempo gli strumenti
concettuali non più adeguati alle nuove problematiche. Alla
filosofia si imponeva, con una rigorosa storicizzazione del sapere
scientifico, una più adeguata riflessione sul complesso
dell'attività umana, un'analisi strutturale dei singoli campi
che non smarrisse il senso dell'unità. Non era certo opera da
poco: ma proprio in quegli anni fatali mutava la fisica di Galileo e
di Newton, si discutevano i fondamenti della matematica, si
rivoluzionava la psicologia attraverso una sorta di discesa agli
inferi della personalità. Bertrand Russell scriverà
nel 1944: ‟l'anno più importante della mia vita intellettuale
fu il 1900, e l'avvenimento più importante di quell'anno fu
la mia andata al Congresso Internazionale di Filosofia a Parigi. Fin
da quando avevo cominciato con Euclide [...], ero rimasto perplesso
a proposito dei fondamenti della matematica. Quando, più
tardi, cominciai a studiare filosofia, trovai ugualmente
insoddisfacenti Kant e gli empiristi. La sintesi a priori non mi
piaceva, eppure l'aritmetica non mi sembrava consistere di
generalizzazioni empiricbe. A Parigi, nel 1900, mi colpì il
fatto che, in tutte le discussioni, Peano e i suoi allievi avevano
una precisione che altri non possedevano" (v. Schilpp, 19633, vol.
I, p. 12). Russell, e a lui doveva unirsi Whitehead, coglieva bene
insufficienze antiche ed esigenze nuove: ‟estendere la regione della
precisione matematica verso terre abbandonate alla vaghezza
filosofica".
D'altro canto, da tempo, si veniva mettendo in luce il carattere
sempre ‛storico', e cioè legato a una situazione, delle
teorie scientifiche. E. Mach, il padre spirituale del neoempirismo e
del Wiener Kreis, già nel 1872 aveva scritto che ‟le teorie
sono come le foglie che cadono secche" quando non servono più
a far respirare l'organismo del sapere. Nel 1883, allorché
pubblicò per la prima volta la sua opera storica, che era un
grande contributo teorico, Die Mechanik in ihrer Entwicklung
historisch-kritisch dargestellt, non fece che attuare un programma
formulato più di dieci anni prima: ‛e lasciamoci condurre per
mano dalla storia; la storia ha fatto tutto, la storia può
cambiare tutto". L'analisi storica svelava nel meccanicismo
l'emergere di una metafisica: anzi una metafisica simmetrica alle
vecchie teorie animistiche (che non a caso Fechner aveva ripreso
destando l'ammirazione di James, mentre quel gran logico che era
Peirce si rifaceva alla filosofia della natura di Schelling e a
James confessava: ‟se tu volessi definire la mia filosofia uno
schellingismo modificato alla luce della fisica moderna, non me ne
avrei a male"). Nella Meccanica Mach scioglieva un inno agli
illuministi che ‟credettero di essere arrivati vicini alla meta di
poter spiegare sul fondamento della fisica meccanica l'intera
natura". Soggiungeva, però, subito: ‟ora che un secolo
è trascorso, siamo divenuti più cauti. La concezione
del mondo degli enciclopedisti ci appare una mitologia meccanica in
contrasto con la mitologia animistica delle religioni antiche". E
con forza: ‟sono entrambe estensioni indebite e fantasiose di una
conoscenza parziale" (v. Mach, 1883; tr. it., p. 455).
Il nome di Mach, di nuovo, non si è fatto a caso, anche se la
sua opera appartiene quasi tutta alla fine dell'Ottocento: del 1886
sono infatti i Beiträge zur Analyse der Empfindungen, prima
edizione dell'Analyse der Empfindungen und das Verhältnis des
Physischen zum Psychischen, uscita per la prima volta con questo
titolo (e con notevoli aggiunte) a Jena nel 1900. Solo Erkenntnis
und Irrtum. Skizzen zur Psychologie der Forschung vedrà la
luce nel 1905. E tuttavia, in quello che è il nodo centrale
della filosofia del Novecento, Mach è quasi un incrocio di
strade, un punto di riferimento obbligato, anche per la chiarezza
eccezionale con cui propose lo scopo della propria indagine critica:
‟separare dalle scienze della natura un'antica filosofia invecchiata
[...] dogmi inutili, che creano pseudo-problemi dannosi e oziosi
[...] guardarsi dalla filosofia e dalle sistemazioni premature".
James sarà pieno di ammirazione per lui ed egli stesso si
richiama a James. Quanto al rapporto con Einstein, il discorso
è ben lungo. Un déplorable philosophe", dirà
nel 1922 Einstein a E. Meyerson, a Parigi; ma era pur stata la
Storia della meccanica a ‛scrollare la sua fede'. Nel 1909 si
firmava Ihr Sie verehrender Schüler! E nel 1913, pubblicando
l'Entwurf einer verallgemeinerten Relativitätstheorie und einer
Theorie der Gravitation, scriverà: ‛'il prossimo anno in
occasione dell'eclissi solare si potrà vedere se i raggi
luminosi vengono curvati in vicinanza del sole, se sarà
provata secondo la mia opinione l'ipotesi che sta a fondamento della
equivalenza tra accelerazione del sistema di riferimento da una
parte e campo gravitazionale dall'altra. Se sì, le sue
geniali ricerche sui fondamenti della meccanica - malgrado
l'ingiustificata critica di Planck - troveranno una splendida
conferma" (v. D'Elia, 1971, p. 243). Nel 1922 Bergson, in
Durée et simultaneité, parlava di influenza decisiva
di Mach ‟stonco della meccanica su Einstein" (v. Bergson, 1972, p.
90). Contemporaneamente, nel volume di ‟Logos" del 1921-1922,
Reichenbach facendo il punto sulle discussioni intorno alla
relatività (Die gegenwärtige Stand der
Relativitätsdiskussion) non esitava a chiamare la teoria di
Einstein il compimento del programma ai Mach (die Durdiführung
des Machschen Programms). Nel 1908 Lenin in Materialismo ed
empiriocriticismo accuserà di idealismo i ‛machisti' russi
quali Bogdanov e A.V. Lunačarskij coinvolgendo Mach in un discorso
che solo in parte lo concerneva, e dandone una veduta parziale e
discutibile. Frank, che ha il merito di riprendere un penetrante
avvicinamento di Mach a Nietzsche, sottolineerà con forza,
negli anni quaranta, la dipendenza da Mach non solo del Circolo di
Vienna, ma di tutto il movimento della scienza unificata, e di non
pochi dei temi essenziali della filosofia del Novecento.
Di fatto in Mach il mutamento del concetto stesso di ‛verità'
si era legato alla crisi del significato della ‛scienza', alla
discussione del valore delle teorie - in Mach come, in anni non
distanti, in Peirce e poi, appunto, in aspetti spettacolari, anche
se meno sottilmente mediati, in James e, per altro verso, in
Bergson. Alle origini, nello sfondo, le teorie dell'evoluzione e
Darwin, ma anche la scoperta che la realtà diviene, si fa,
muta nel tempo: che il tempo e l'essere sono indisgiungibili. Era il
rifiuto, non certo della scienza, ma - come diceva nel testo
già citato Nietzsche - dell'idea che ‟la verità
è qui", definitiva, fuori del tempo, e che è stato
messo fine all'ignoranza e all'errore": che, insomma, si può
possedere una verità immutabile, per sempre. Nietzsche,
concludendo Aurora, si ribellava: ‟Altri uccelli voleranno oltre!
[...] stormi di uccelli più possenti di quanto siamo noi
[...] in quella direzione dove tutto è ancora mare, mare,
mare!". E si domanda: ‟un giorno si dirà forse di noi che,
volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere
un'India, ma che fu il nostro destino naufragare nell'infinito?".
Per Mach la scienza non è, alla fine, che una ‟collezione di
strumenti", ossia una raccolta di asserzioni circa le connessioni
fra percezioni sensibili; e le teorie non sono che mezzi economici
per esprimerle, le impalcature per tirar su il fabbricato, le foglie
che cadono secche quando non servono più a fare respirare
l'organismo. ‟Le leggi della natura - così nella conclusione
di Erkenntnis und Irrtum - sono un prodotto del bisogno psicologico
che noi proviamo di ritrovare la nostra strada nella natura, di non
rimanere estranei e confusi dinanzi ai fenomeni". Ma è
soprattutto in alcune delle Populärwissenschaftliche
Vorlesungen (raccolte prima in versione americana, Chicago 1895),
che certe concezioni raggiungono la formulazione più netta:
così ‟la fisica è l'esperienza ordinata
economicamente"; così il nesso preciso col darwinismo, tanto
importante per capire i pragmatisti americani. Le idee non sono
tutta la vita; esse sono una splendida e fugace fioritura che
illumina la via della volontà. Ma esse sono anche il
più efficace reagente che operi nella nostra evoluzione
organica. E la trasformazione che sentiamo avvenire in noi come
effetto di esse, non può essere contestata da nessuna teoria,
né è necessario che essa sia dimostrata, perché
ne abbiamo la certezza diretta. Così la trasformazione
intellettuale da noi considerata ci appare come una parte della
universale evoluzione della vita, dell'adattamento a un campo di
operazioni sempre più vaste" (v. Mach, 1896; tr. it., p.
183).
Non si insisterà mai abbastanza su questo atteggiamento
comune alla cultura fra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento,
di discussione della scienza, nello sforzo di distinguere in essa
una metafisica naturalistica, contro cui concentrare la polemica
antipositivistica, e specialmente antispenceriana. In una lettera
autobiografica a James, del 9 maggio 1908, Bergson traccia un
itinerario che fu di molti, e che è quasi esemplare: ‟fino ad
allora [1881-1883] ero rimasto tutto preso dalle teorie meccaniciste
a cui ero stato indotto molto presto dalla lettura di Herbert
Spencer, il filosofo a cui aderivo quasi senza riserve. La mia
intenzione era di consacrarmi a quella che allora si chiamava ‛la
filosofia delle scienze' ed è a tale scopo che avevo
intrapreso, fino dall'uscita dalla Scuola Normale, l'esame di alcune
nozioni scientifiche fondamentali. Fu l'analisi della nozione di
tempo quale s'incontra in meccanica e in fisica, che
rivoluzionò tutte le mie idee. Mi accorsi, con grande
stupore, che il tempo scientifico non dura, [...] e che la scienza
positiva consiste essenzialmente nella eliminazione della durata. Fu
questo il punto di partenza di una serie di riflessioni che mi
portarono, passo passo, a rifiutare tutto quello che avevo accettato
fino allora, e a cambiare completamente punto di vista" (v. Bergson,
1972, pp. 765-766). Nasceva l'Essai sur les données
immédiates de la conscience del 1889, che tanta eco doveva
avere nella cultura mondiale, per sé e per gli sviluppi
successivi.
Il 27 giugno 1907, sempre a James, a proposito del volume
Pragmatism, uscito allora, dichiara di sottoscrivere in pieno la
tesi che ‟la realtà è sempre in divenire, e attinge
parte delle sue strutture dal futuro". Soggiunge dubbioso:
‛arriverò anche io ad affermare con voi che truth is mutable,
che la verità è mutevole? Io credo alla mutevolezza
della realtà piuttosto che a quella della verità"
(ibid., p. 727). Restava però affascinato da quella filosofia
souple et flessible, destinata a sostituire l'intellettualismo; lo
colpiva la forza del pragmatismo come ‛manismo', come pluralismo,
come apertura a ogni possibilità: imperfezione e
temporalità, scelta e libertà, colpa e redenzione,
farsi e divenire. Anche se poi lo spaventava, in James,
quuell'accenttuaazione del plurale, del personale, dell'individuale;
e arretrava davanti alla perentoria, e insidiosa, dichiarazione che
‟il pensiero vero è utile", che ‟il possesso della
verità, ben lungi dall'essere un fine per sé, è
solo un mezzo preliminare per altre soddisfazioni vitali", che da
‟ogni parola si deve cavar fuori il suo valore pratico in contanti",
che ‟la verità delle nostre idee significa la loro
capacità di operare", che ‟le teorie diventano strumenti e
non già risposte a enigmi". Anche Peirce aveva insistito
sulla ‟varietà infinita del mondo", sulla
‛'multiformità della natura", sul suo ‟volto di una vivente
spontaneità". Senonché egli andrà sviluppando
il suo pragmaticism in tutt'altra prospettiva dal pragmatism di
James (‟finché il mondo non si concluda in un sistema
assolutamente perfetto, razionale e simmetrico, nel quale la mente
si cristallizzi, in un futuro infinitamente lontano"). Proprio a
James, di fronte alla sua fede, alla sua retorica, al suo entusiasmo
pratico, esortandolo a ‟pensare con più esattezza", scriveva
quasi angosciosamente: ‟che cosa è l'utilità se
è limitata a una sola persona accidentale? La verità
è pubblica (truth is public)". Per suo conto Bergson, ma con
preoccupazione non diversa, sognava una sorta di armonia, e
immaginava il filosofo al posto del Dio orologiaio di leibniziana
memoria: ‟se noi potessimo regolare la nostra facoltà
d'intuizione sulla mobilità del reale, il regolare non
sarebbe forse cosa stabile, e la verità (che non può
essere altro che questa regolarità) non parteciperebbe forse
di tale stabilità?" (ibid., p. 727).
Già fra le due guerre, e poi sempre di più, la
reazione a un certo tipo di ‛distruzione della ragione', e in
particolare al bergsonismo, che ne fu una delle espressioni
più fortunate, si è fatta diffusa e dura. Fra l'ultimo
decennio dell'Ottocento e gli anni venti si trattò,
più che di una posizione definita, di un'atmosfera, di una
prospettiva generale, in cui si mossero insieme poeti e critici,
scienziati e politici. Come è stato detto dal maggior
biografo di James, R.B. Perry, che ‟il movimento noto come
pragmatismo è, in larga misura, il resultato del
fraintendimento di Peirce da parte di James", così si
potrebbe anche dire che il bergsonismo fu per molti anni il luogo
geometrico di tutti gli equivoci dell'irrazionalismo europeo (ancora
nel 1936, nella sua Recenti philosophy, Laird si chiedeva se Bergson
dovesse considerarsi ‟il più grande dei pragmatisti, o niente
affatto pragmatista"). Sarebbero, almeno in parte, dei giudizi
antistorici e ingiusti. Nel 1929, l'allora ignoto F. Arouet, ossia
il giovane G. Politzer, dopo avere civettato nel 1926, insieme a H.
Lefebvre, con Schelling, opponendo al provinciale bergsonismo le
grand style (della metafisica romantica), concluderà il suo
celebre pamphlet Fin d'une parade philosophique: le bergsonisme,
sulla battuta: ‛'la sua filosofia [...] che chiamano eterna non
è stata che un episodio di vent'anni nella tattica della
borghesia". Che era una frase a effetto, ma nè giusta,
nè esatta. Antonio Gramsci, nel ‟Gndo del Popolo" del 19
ottobre 1918, sottolineava gli attacchi a Bergson proprio da parte
dell'Action Française, e l'alleanza dell'estrema destra
nazionalista e cattolica che stroncava Bergson in nome del
positivismo di Comte e di Taine, solido baluardo della
conservazione. Sempre Gramsci, su ‟L'ordine nuovo" del 2 gennaio
1921, si difenderà dall'accusa di bergsonismo lanciata contro
gli ‛ordinovisti' rivoluzionari dai ‛riformisti' fedeli al
positivismo. Certo non è facile comprendere alla luce degli
eventi successivi le valutazioni, gli schieramenti, le alleanze, le
effettive incidenze, che caratterizzarono la situazione culturale
fra la fine del secolo XIX e la prima guerra mondiale. Ma come
sarebbe un grave errore disegnare il peso reale di Ch.S. Peirce in
quegli anni valendosi degli otto volumi dei Collected papers usciti
fra il 1931 e il 1958, così sarebbe oltre che antistorico
poco utile proiettare sulle convergenze, magari superficiali, ma
operanti nella reazione antipositivistica del principio del secolo,
le resultanze delle successive vicende. Il bergsonismo fu, allora,
l'espressione più seducente, ed efficace, non tanto di un
sistema di idee quanto di un clima culturale; fu, per
l'antipositivismo, quello che per il positivismo era stata in un
certo momento la sintesi spenceriana.
Nel 1965 Piaget ha ricordato la sua iniziazione alla filosofia nel
secondo decennio del secolo, proprio attraverso Bergson (e James):
‟scoprii una filosofia che rispondeva esattamente alla mia struttura
intellettuale di allora [...] fu un momento di entusiasmo assai
vicino alla gioia estatica [...] trovai così l'unità
interiore, nel senso di un immanentismo che mi ha soddisfatto a
lungo" (v. Piaget, 1965; tr. it., pp. 16-18). Naturalmente nel
‛colpo di fulmine' del giovane studioso dovette avere la sua parte
quella che Whitehead chiamava l'admirable phraseology, ossia la
splendida retorica bergsoniana; ma agiva soprattutto il battere
sulla Vita, sul processo, sulla positività del processo,
sullo slancio vitale che rompe ogni schema e ogni rigidezza di
forme, sulla temporalità come perennità vivente. Lo
stesso Bergson suggerì a H. W. Carr, come sottotitolo per la
monografia del 1911 sul proprio pensiero, ‟la filosofia del
cambiamento" (e fu proprio attraverso Carr, fra l'altro traduttore
dell'Atto puro di Gentile, che il bergsonismo incise su Process and
reality di Whitehead).
Più sottilmente di James, Bergson stesso si rendeva conto
degli echi profondi e vari di quella scoperta di tutto lo spessore
di una temporalità ‛autentica' così diversa da quella
‛misura' degli eventi di cui parlavano i fisici. Nel 1915, scrivendo
al noto storico e filosofo danese H. Höffding, insisteva nello
spiegargli che il nucleo centrale del proprio pensiero era sì
l'intuizione della durata', ma con l'accento posto sulla
durée (‟la teoria della intuizione, su cui voi insistete
molto più che su quella della durata, non si è
sviluppata ai miei occhi che molto dopo: ne deriva e non può
comprendersi senza"). Nella medesima lettera Bergson metteva in
evidenza con grande lucidità alcuni termini: durée,
histoire, intuition, e poi vita, e infine refutation empirique,
definitive, de la philosophie mécanistique (v. Bergson, 1972,
pp. 1148-1149). Nè Bergson, nè James, aperti alla
scienza, con preoccupazioni scientifiche serie, avevano alcuna
intenzione di combattere la scienza (e tanto meno l'avevano Peirce,
Mach, Poincaré o Duhem). Di Bergson, Carr avvertiva nel 1911:
‟La sua filosofia non è affatto un tentativo di svalutare la
scienza o di gettare il dubbio sul metodo scientifico". Si trattava,
al contrario, di rafforzare il valore della scienza, mostrandone ‟il
posto esatto e la funzione", ma anche definendone i limiti, ossia
scoprendo gli equivoci di una serie di pretese ‛metafisiche', che,
fra l'altro, rischiavano di ritorcersi contro la scienza stessa e i
suoi metodi. Nel 1953 G. Boas poneva, quasi al termine del suo libro
Dominant themes of modern philosophy. A history, un capitolo molto
importante, dal titolo suggestivo: ‟l'accettazione del tempo". In
realtà un tratto comune a molte delle posizioni che
sembrarono fare blocco contro il vecchio positivismo fu proprio la
riconquista del senso autentico del tempo, ossia la difesa di un
essere che cresce su se stesso, di una evoluzione non meccanica ma
creatrice, di un mondo umano di azioni, di valori, di cultura
(Spirito, Geist), di istituzioni, di tessuti storici, di quanto,
insomma, viene costruendosi attraverso una libera praxis.
D'altra parte è pur vero che il vasto movimento, di cui James
si fece banditore e profeta col suo pragmatismo, inteso come rifiuto
di ‛'una verità indipendente, che noi ci limiteremmo a
scoprire, non più malleabile ai bisogni dell'uomo,
inflessibile", che ‛'significherebbe soltanto la morte dell'albero
della vita", si trasformò fatalmente, da critica interna al
positivismo e alla scienza, in avvio a nuovi idealismi,
spiritualismi e misticismi. Al principio del determinismo
naturalistico si oppose quello della sconfinata libertà
creatrice dello Spirito; al pessimismo ‛fine di secolo' si
sostituì un ottimismo fra attivistico e provvidenzialistico.
Mediatore e conciliatore, il pragmatismo, nella sua accezione
più larga, accentuò, della reazione antipositivistica,
le componenti irrazionalistiche, volontaristiche e idealistiche,
lasciando cadere, o mistificando, il significato più profondo
dell'analisi che con penetrazione senza pari Nietzsche era venuto
facendo di una crisi che investiva società e cultura,
mostrando di avere individuato l'equivoco fra mutamento e progresso
(e fra scienza e filosofia), circolante in tutte le teorie
dell'evoluzione. Scriveva nei frammenti del 1887- 1888: ‟tutta la
nostra cultura europea si muove già da gran tempo con una
tensione torturante che cresce di decennio in decennio come se si
avviasse verso una catastrofe: inquieta, violenta, precipitosa; come
un fiume che vuole sfociare, che non si rammenta più, che ha
paura di rammentare [...). L'umanità non presenta uno
sviluppo verso il meglio, o verso ciò che è più
forte e superiore [...]. Non c'è nessuna necessità che
sviluppo significhi elevazione, potenziamento, rafforzamento". Anzi,
‟se un giorno sarà possibile tracciare attraverso la storia
linee isocrone di civiltà, allora il concetto moderno di
progresso risulterà bellamente rovesciato". Infine, il senso
tragico di un tramonto: ‟La concezione del mondo [...] è
singolarmente fosca e spiacevole [...]. Manca la contrapposizione
tra un mondo vero e uno apparente: c'è solo un mondo, ed
è falso, crudele, contraddittorio, corruttore, senza senso
[...]. Un mondo così fatto è il vero mondo [...]. Noi
abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa realtà,
questa verità, cioè per vivere [...]. La metafisica,
la morale, la scienza [...] vengono prese in considerazione solo
come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si crede nella
vita" (v. Nietzsche, 1970; tr. it., pp. 392 ss.). Ove i motivi della
pragmatistica ‟volontà di credere" sono vicini, ma anche
così lontani, e, soprattutto, senza maschera. (V. anche
pragmatismo e idealismo).
6. Fra scienze della natura e scienze dello ‛spirito'
Se, dunque, fino alla fine della prima guerra mondiale la filosofia
del Novecento può considerarsi come una discussione serrata,
più ancora che del positivismo, della concezione
positivistica della scienza, sarebbe tuttavia grave prevaricazione
ridurre le varie posizioni sotto il segno di un idealismo monocorde.
Accomunare, come a volte suol farsi, l'approfondimento critico della
conoscenza scientifica e dei suoi fondamenti quale si è
presentato nelle celebri opere di H. Poincaré (La valeur de
la science, 1905; La science et l'hypothèse, 1907; Science et
méthode, 1909), con gli sviluppi dell'inquieta ricerca che un
E. Le Roy prolungò fin quasi agli anni cinquanta, non
è né lecito né utile. Significherebbe
accogliere come valida in sede storica un'operazione ideologica, che
di proposito mise sullo stesso piano raffinate indagini
epistemologiche, maturate all'interno della crisi del positivismo, e
torbidi esiti irrazionalistici. Il costituirsi reale di un ‛fronte
unico' che andò dagli scienziati ai pensatori cattolici
intesi a chiarire il significato del dogma, non deve porre in ombra
l'equivoco di alleanze di cui il tempo ha fatto giustizia. È
vero che R. Berthèlot nel 1911 riunì sotto la
denominazione significativa di ‟romantisme utilitaire", un
‟mouvement pragmatiste" che da Nietzsche, attraverso
Poincaré, raggiungeva James e i modernisti avendo ai margini
Blondel e Laberthonnière. Senonché le generiche
etichette di pragmatismo, idealismo, filosofia della vita,
irrazionalismo, poco hanno giovato a far comprendere una situazione.
Non senza motivo Sorel, nella premessa (del 1917) al suo volume De
l'utilité du pragmatisme, non solo opponeva nettamente la
rivolta di James alle ‛formule confuse' di Giovanni Papini, ma
considerava impresa ‟complicata e tenebrosa" Ogni sistemazione del
pragmatismo.
Nel 1968 J. Habermas, in Erkenntnis und Interesse, ha messo invece
opportunamente a fuoco la simmetria - nella discussione intorno a
scienza e positivismo - di Peirce e di Dilthey: due pensatori, giova
sottolinearlo, la cui incidenza è stata crescente dagli anni
trenta a Oggi, laddove, entrambi, nel primo Novecento furono
fraintesi e rimasero quasi nell'ombra. Secondo Habermas, e non a
torto, solo chi approfondisca la vicenda di Peirce e di Dilthey
potrà comprendere anche i nodi veramente centrali della
polemica successiva intorno alla scienza, alla sua logica, alla
differenziazione di campi fra scienze della natura e scienze dello
spirito (scienze storiche), alle sue conseguenze. Non a caso
entrambi i pensatori venivano dal positivismo (Peirce definiva il
pragmatismo un prepositivismo); entrambi sentivano il fascino di
Hegel e lo espressero quasi contemporaneamente. Nel 1905 Peirce si
dichiarava ‛alleato stretto' della logica hegeliana; nel 1905
Dilthey pubblicava la famosa memoria Hegel's Jugendjahre destinata a
segnare un'epoca nella lettura di Hegel. Entrambi, ai tempi della
reazione antipositivistica, furono coinvolti in atteggiamenti a loro
fondamentalmente estranei: l'uno col pragmatismo di James, l'altro
con la filosofia della vita. In realtà, pur operando su
versanti diversi, compirono entrambi una feconda operazione nei
confronti di Ogni istanza positivistica.
Habermas ha messo in evidenza come il positivismo ottocentesco,
‟dogmatizzando la fede della scienza in se stessa", si preoccupasse
soprattutto di ‟difendere la ricerca [scientifica] contro una
autoriflessione gnoseologica", ossia contro ogni teoria della
scienza. ‟Di filosofico", insomma, nella filosofia positiva rimaneva
soltanto ‟il momento necessario all'immunizzazione delle scienze
dalla filosofia". In altri termini, il positivismo si costituiva
come antifilosofia, che nello sforzo di sostituire alla filosofia
una scienza purificata da ogni elemento mitico la mitizzava tutta,
trasformandola surrettiziamente in una metafisica acritica,
attraverso la deformazione, o la indebita estensione, di nozioni
nate con altro valore. Nel parallelo istituito da Habermas, sia
Peirce che Dilthey rispondono al positivismo, il primo avviando una
logica della ricerca in genere, il secondo affrontando una
riflessione sulle ‛scienze dello spirito' in quanto distinte dalle
‛scienze della natura', e definendo a un tempo il campo della
filosofia come ‛filosofia della filosofia', ossia come teoria
critica del filosofare. Proprio nel saggio famoso del 1905 What
pragmatism is (‟The monist", 1905, XV, pp. 161-181) Peirce venne
denunciando con molta ironia l'equivoco in cui si dibatteva ormai
senza via d'uscita il pragmatismo alla James, per i fraintendimenti
e le deformazioni del rapporto teoria-pratica, che non poteva
ridursi affatto - come James pretendeva - al ‟valore pratico in
contanti" di una proposizione. Per questo, appunto, Peirce si era
indotto a ‟dare il bacio dell'addio a un figlio" nato e ‟per
più alto destino", e annunciava la nascita del pragmaticism,
‟parola abbastanza brutta per stare al sicuro dai rapitori di
bambini". Nello stesso tempo ribadiva il significato ‛logico'
rigoroso della sua posizione riprendendo i termini dall'articolo
programmatico del 1878 How to make our ideas clear (‟Popular science
monthly", 1878, XII, pp. 286-302), che aveva fissato le linee
orientative della sua concezione: ‛'Il pensiero è un filo di
melodia che percorre il succedersi delle nostre sensazioni [...]. La
nostra idea di qualche cosa è l'idea dei suoi effetti
sensibili". Dirà anche, con maggior precisione: ‟considerate
quali effetti, che concepibilmente possano avere una portata
pratica, voi pensate che abbia l'oggetto del vostro concetto. Il
concetto di quegli effetti è il tutto del vostro concetto
dell'oggetto". Previsione e verifica pratica (‟i metodi di
osservazione delle varie scienze") costituiscono il nerbo di un
sapere valido, al cui confronto ‛'quasi tutte le proposizioni della
metafisica ontologica" si rivelano ‛'un borbottio senza
significato". Dirà nel 1927 P. W. Bridgman, in The logic of
modern physics, che ‟per concetto noi non intendiamo altro che un
gruppo di operazioni; il concetto è sinonimo del
corrispondente gruppo di operazioni".
Nel 1907 James, tentando di volgarizzare una volta di più la
posizione di Peirce, ne offrirà un'immagine banalizzata
insieme e fuorviante, ma purtroppo destinata al successo: ‟da ogni
parola dovete estrarre il suo valore in contanti"; una teoria,
infatti, non è nè un rispecchiamento della
realtà, nè una soluzione di problemi, ma ‟il programma
di un'ulteriore attività e, più particolarmente,
un'indicazione dei modi in cui le realtà esistenti possono
essere cambiate". L'accento di James, e più ancora quello dei
pragmatisti europei, batte sulla conoscenza come progetto, come
programma, in un processo che cambia la realtà, attraverso
una ‛volontà di credere' che consentirebbe, essa sola, di
mutare le cose. Di qui, anche, quella confusionaria ‟interpretazione
will-to-belier-istica" del marxismo di cui parlava Papini, e alla
quale si riferiva Mussolini quando metteva insieme (ma non era il
solo fra i socialisti del tempo a farlo) Nietzsche, Sorrel e James,
sottolineando che soprattutto da James aveva imparato la fede
nell'azione, e sottintendendo una convergenza di
Idées-forces, Wille zur Macht, Will to believe, in
un'atmosfera largamente diffusa ed esattamente tradotta dal
linguaggio del tempo.
Peirce si muoveva su un ben diverso terreno, fecondato
dall'eredità di temi darwiniani: veniva elaborando un
concetto di ‛verità', di ‛teoria', e una logica della ricerca
scientifica, capaci di adeguarsi a una visione dell'universo come
processo dinamico, flusso, evoluzione, in qualche modo sulla linea
lungo la quale si collocheranno l'Evolution créatrice di
Bergson e Process and reality di Whitehead. Si trattava per altro,
giova insisterci, di una teoria della scienza, di una logica, non
della fede che le montagne si muovono purché si voglia, e che
quindi basti credere per far muovere le montagne (come immaginava H.
Wildon Carr, esegeta di Bergson e traduttore di Gentile, in The
problem of truth, London 1913, p. 55).
Simmetrico al tipo di riflessione di Peirce sui procedimenti
attraverso i quali si costruiscono le teorie scientifiche è,
appunto, secondo Habermas, lo sforzo di Dilthey nella direzione
delle scienze dello spirito, che si erano venute affermando accanto
alle scienze della natura. ‟Tali discipline - scriveva Dilthey sono
la storia, l'economia politica, le scienze del diritto e dello
Stato, la scienza della religione, lo studio della letteratura e
della poesia, dell'arte figurativa e della musica, delle intuizioni
del mondo e dei sistemi filosofici, e infine la psicologia. Tutte
queste scienze si riferiscono al medesimo grande fatto: il genere
umano" (v. Dilthey, Der Aufbau..., 1914-1931; tr. it., p. 145).
Orbene, mentre Mach aveva dato voce alle istanze positivistiche
più radicali proclamando che ‟non si deve creare alcuna nuova
filosofia", ma contentarsi di ‟aderire all'attuale tendenza delle
scienze positive a collegarsi vicendevolmente", Diithey (come a suo
modo Peirce), di là dalla metodologia e dalla scienza
unificata, mira alla logica dei procedimenti attraverso cui si
costituiscono le scienze e le stesse teorie scientifiche. Mediante
l'autoriflessione delle scienze, sia dello spirito che della natura,
punta alla loro fondazione trascendentale. Precisando la sua
polemica antipositivistica nell'ambito della psicologia, Dilthey ne
rifiuta la riduzione a scienza naturale (‟noi spieghiamo la natura e
comprendiamo la vita psichica"), proprio per l'eterogeneità
dei processi di apprendimento. Tenta così di individuare la
funzione della filosofia nella fondazione delle scienze dello
spirito o della cultura, distinte dalle scienze della natura
(Geisteswissenschaften, Kulturwissenschaften e Naturwissenschaften).
Nelle scienze dello spirito, infatti, osserva Dilthey, ‟la
connessione vissuta è l'elemento primario, la distinzione dei
singoli membri è l'elemento successivo. Ciò determina
una grande diversità nei metodi mediante cui studiare la vita
psichica, la storia e la società, rispetto a quelli con i
quali si è prodotta la conoscenza della natura" (ibid., p.
147).
Fu dopo il 1905 che giunse a compiuta maturazione la visione del
Dilthey della filosofia come fondazione delle scienze e filosofia
della filosofia. Nella psicologia si era manifestata in pieno ai
suoi occhi l'insufficienza del modello naturalistico, nonché
l'impossibilità di assolutizzarlo. Fondamento delle scienze
dello spirito è, invece, la presenza immediata alla
coscienza, l'Erleben. ‟Nell'Erleben l'esser-interno, e il contenuto
che colgo internamente, costituiscono una cosa sola". Di qui la
possibilità di un tipo specifico di conoscenza, che tuttavia
non si esaurisce nell'esperienza interna del singolo, ma si integra
con la comprensione degli altri, attraverso il rivivere e il
riprodurre (Verstehen, Nacherleben, Nachbilden). È questo il
mondo umano, il mondo della vita, il mondo storico: ‟io guardo al
mondo umano [...].La vita è la connessione dei rapporti
reciproci fra le persone". La vita, in altri termini, non è
per Dilthey, o almeno non vuol essere, un principio metafisico: ‟la
vita consiste nell'azione reciproca delle unità viventi".
Vita (Leben), storia; rivivere, penetrare col pensiero; ‟l'uomo
essere storico"; ‟lo spirito-sovrano dinanzi alle ragnatele del
pensiero dogmatico": ecco alcuni termini con cui Dilthey cerca di
caratterizzare il divenire interiore, il suo strutturarsi nel mondo
spirituale (die geistige Welt), il problema e il processo della sua
comprensione. Contemporaneamente anche il compito della filosofia si
definisce come riflessione sulla riflessione umana ‛legata sempre a
un presente e a una situazione" storica. Campo ‟incontestabilmente
suo" quello della fondazione, giustificazione, connessione delle
scienze.
Nel 1907 Dilthey scrive: ‟Quando le scienze particolari hanno
ripartito tra di sé il campo della realtà data e
ognuna ha trattato di un settore di essa, si costituisce proprio in
questo modo un nuovo campo, formato da queste scienze stesse. Lo
sguardo si volge dal reale al sapere intorno a esso, trovando qui un
campo che sta al di là delle scienze particolari. Dopo essere
entrato nell'orizzonte della riflessione umana, tale campo è
stato sempre riconosciuto come dominio proprio della filosofia:
teoria delle teorie, logica, teoria della conoscenza. Se si
comprende questo campo nella sua piena estensione, diventa propria
della filosofia tutta la dottrina della fondazione del sapere, nel
campo della conoscenza della realtà, della determinazione dei
valori, della posizione degli scopi e delle regole. Suo oggetto
diventa così tutto il complesso del sapere, e nel suo ambito
rientrano i rapporti reciproci delle scienze particolari, e il loro
ordine interno" (v. Dilthey e altri, 1907; tr. it. in: Critica della
ragione storica, a cura di P. Rossi, Torino 1954, p. 410). Suo
compito lo studio delle Weltanschauungen nella loro struttura (‟le
Weltanschauungen non sono prodotti del pensiero"), nei loro tipi,
nei loro svolgimenti (‟Ognuna di queste ‛intuizioni del mondo'
racchiude [...]un legame tra conoscenza del mondo, valutazione della
vita e principi dell'agire: la loro forza consiste nel fatto che
esse danno alla personalità, nelle sue diverse funzioni,
un'unità interna. Ognuna di esse ha una forza di attrazione e
una possibilità di sviluppo nella capacità di
penetrare con il pensiero la vita plurisignificante"; ibid., p.
471).
Nel 1904, in Italia, Benedetto Croce, impegnato anch'egli nella
discussione del positivismo, scriverà che la filosofia come
sistema non è altro che la classificazione delle scienze, in
quanto costituzione di un organismo categoriale. ‟La filosofia
classifica se stessa e tutto il sapere" dice Croce, dando a quel
classificare anche il significato di ‛fondare'. ‟Filosofia -
soggiunge infatti - è indagine della realtà ultima e
cioè dell'attività spirituale, e poiché lo
spirito fa l'arte, la storia, la psicologia, la fisica, la zoologia,
l'economia, la logica e tutte le scienze e discipline, la filosofia
intende, e colloca quindi al loro posto, ciascuna di queste scienze
e discipline [...]. Che cosa è collocare al posto dovuto, se
non intendere i nessi e la genesi?" (‟La critica", 1904, 11, pp.
309-313). Croce, per altro, insisteva sui processi mentali
attraverso cui le scienze si costituiscono, sullo ‛spirito' che le
elabora e le struttura. La filosofia si poneva come momento di
consapevolezza critica, appunto, di tale processo e delle sue forme
trascendentali: come ‛filosofia dello spirito'. Nello stesso tempo
il Croce, parlando di Geisteswissenschaften, sembrava riferirsi,
oltre che a Dilthey, a H. Rickert e alla sua opera Die Grenzen der
naturwissenschaftlichen Bildung, nonché a Simmel, ma con
diversa inflessione. Croce, infatti, oltre la distinzione fra
scienze della natura e scienze dello spirito, tendeva alla negazione
di ogni valore teoretico alle scienze della natura e alla loro
sussunzione, a un puro livello tecnico, alle scienze dello spirito.
G. Vailati, d'altra parte, dialogando appunto di questo col Croce, e
rifacendosi al Peirce, rifiutava in partenza la separazione fra
scienze della natura e scienze dello spirito, fra natura e cultura.
Egli confessava di non riuscire a vedere ‟un contrasto fondamentale
di metodi e di intenti tra le scienze che si occupano dell'uomo e
delle sue qualità intellettuali e morali e le scienze che si
occupano delle rimanenti parti della ‛natura'" (v. Vailati, 1911, p.
437). Il nodo era centrale: svelava il contrasto profondo fra le
possibilità di una nuova ‛logica' e di una nuova
‛epistemologia', da un lato, e, dall'altro, gli esiti idealistici
del pragmatismo, e della distinzione fra Geisteswissenschaften e
Naturwissenschaften, con la negazione finale (del Croce, del Bergson
e di non pochi altri) del valore teoretico delle scienze sia
matematiche che naturali, in una sorta di capovolgimento puro e
semplice del vecchio positivismo.
Croce parlava come Dilthey di Vita e di Spirito (Leben e Geist), e
sembrava incontrarsi da un lato con Bergson e dall'altro con Simmel,
così come James si era incontrato con Bergson, e Bergson con
Simmel. Di contro Peirce come Vailati, mentre erano convinti
dell'insufficienza del concetto positivistico della scienza, mentre
ne svelavano il sottofondo ‛metafisico', portavano il discorso sul
metodo e la logica della ricerca, sui suoi scopi, e su questo
terreno, comune a tutta l'indagine razionale umana, non trovavano
motivi di divisione e di eterogeneità di campi. La ‛logica',
le ricerche sul linguaggio, venivano a presentarsi come terreno
unitario di riflessione critica, come filosofia. James, invece, e
soprattutto Bergson, a un certo momento Croce, più assai di
Dilthey, e specialmente di Simmel (almeno del ‛primo' Simmel),
partendo dalla distinzione fra ‛scienze descrittive' e
‛esplicative', di ‛fatti' e di ‛leggi', ‛idiografiche' e
‛nomotetiche', della ‛natura' e dello ‛spirito', si indussero a
trasformare la distinzione in subordinazione - quando non
addirittura in riduzione - della natura allo spirito, della
cognizione descrittiva ed estrinseca, spazializzata e fisicista,
alla visione diretta e intuitiva, interiore ed esaustiva
(intuizione-metafisica, dirà Bergson). Anche Croce, infatti,
giungerà a definire la filosofia come ‛logica', anzi come
‛metodologia', ma di una storia che aveva in precedenza assorbito e
vanificato le scienze.
Nessuno, tuttavià, più efficacemente e con maggiore
risonanza di Bergson, è riuscito a esprimere l'antinomia fra
divenire concreto, durata reale, ed estrinsecazione obiettivata e
reificante, alienante, in cui il vitale, lo spirituale, il libero,
l'interiore, si solidifica, si spazializza, si estrania dalla fonte,
si irrigidisce nella pietrificazione della materia, si fissa nella
necessità, si cristallizza nelle strutture. Di colpo tutte le
scienze sono viste come una schematizzazione in uniformità
formali. Nello stesso tempo si celebra la Vita, che acquista un
senso di entità metafisica, di realtà fondamentale:
che si coglie mediante l'intuizione nell'interiorità.
E, tuttavia, se è innegabile un complesso di affinità
profonde in questo schieramento filosofico, che ha traversato la
cultura di questo secolo fino ai nostri giorni, anche le differenze
sono molte, e poco giovano le etichette, indiscriminatamente
attribuite, di ‛idealismo', o di ‛filosofia della vita'. Senza
dubbio gli avvicinamenti sono facili, spesso ovvi, sostenuti, come
nel caso di James e Bergson, o, almeno in parte, di Simmel e
Bergson, dagli stessi protagonisti. A Peirce fu lo stesso James che
si proclamò vicino; sulle affinità fra Dilthey e
Bergson ha battuto con forza non sempre persuasiva Scheler.
Lukàcs, nel 1954, in Die Zerstörung der Vernunft,
concluderà senz'altro per una convergenza fondamentale, al di
là di ogni specificazione di scuole o sfumatura di
orientamenti: ‟la filosofia della vita nell'età
dell'imperialismo". Scrive Lukàcs con esattezza: ‟non fu una
scuola, o anche soltanto un indirizzo chiaramente delimitato, [...]
ma piuttosto una tendenza generale che si diffonde o almeno fa
sentire il proprio sviluppo in tutte le scuole". Particolarmente
efficace è Lukàcs nell'indicare l'ampiezza del
fenomeno, ben oltre i confini della filosofia in senso stretto: ‟se
si vuole determinare in modo completo il campo a cui si estende
l'influsso dei filosofi della vita" bisogna prendere in
considerazione le scienze sociali, la psicologia, la storiografia,
le storie della letteratura e dell'arte, e tutta ‟la libera
pubblicistica" che più ‟agisce su vasti ambienti". D'altra
parte la tendenza a una caratterizzazione estesa quanto generica
(‟la filosofia della vita è una conseguenza generale
dell'imperialismo") rischia poi di lasciarsi sfuggire qualunque
utile determinazione, riunendo in un solo blocco posizioni molto
lontane. Che è quello che è accaduto quando, dai
tratti comuni, in verità negativi e polemici, si è
passati a precisazioni positive. Allora i termini ricorrenti di
filosofia della vita, irrazionalismo, idealismo, reazione
idealistica contro la scienza, sono venuti sfumando nel retorico e
nel vagamente letterario, dove tutto può farsi rientrare,
dagli sfoghi oratori di F. Brunetière, nel discorso di
Besançon del 1896 su La renaissance de l'idéalisme, al
fortunato panorama di A. Aliotta del 1912, di cui almeno il titolo
fu noto a Lenin che ne rimase colpito.
Esiste del resto un documento singolare di quanto si è detto
fin qui, che consente una sorta di prova sperimentale circa il senso
del dibattito sulla filosofia nel Novecento: anzi, che presenta in
atto l'evolversi di un fronte comune, e il rompersi e differenziarsi
progressivo di quello schieramento unitario che mise in crisi le
impostazioni ottocentesche tese tra positivismo e neokantismo. Vuol
dirsi ancora della già ricordata rivista ‟Logos", che
cominciò le sue pubblicazioni in Germania nel 1910, redattori
R. Kroner, G. Mehlis e A. Ruge, con edizioni parallele (solo in
parte attuate) russe e italiane, e che nei primi volumi vide insieme
uniti Boutroux (la collaborazione di Bergson fu solo annunciata),
Croce, Husseri, Simmel, Rickert, nonché proprio Georg von
Lucacs (come allora si firmava). Boutroux dissertava di scienza e
filosofia, Croce ‟über die sogennanten Werturteile", mentre
Husserl discuteva Dilthey, subito all'inizio, nel famoso saggio
Philosophie als strenge Wissenschaft. Lukács intanto con la
sua Metaphysik der Tragödie si muoveva sul terreno da cui
uscirà il volume di saggi Die Seele und die Formen, con gli
echi, oltre che di Dilthey, di S. George e di R. Kassner (per non
parlare di Kierkegaard). La storia interna ed esterna di ‟Logos",
scandita fra guerra, dopoguerra e nazismo (vi collaborerà
perfino il razzista italiano J. Evola), è esemplare per
cogliere un momento cruciale della vicenda filosofica del secolo,
col suo stato maggiore (di origine neokantiana) che includerà
con P. Natorp e Husserl tutti gli esponenti dello storicismo e della
filosofia della vita. Accanto alla fitta collaborazione di Simmel,
di cui si pubblicano anche importanti scritti postumi, si fa notare
un volume dedicato all'opera di Spengler (il vol. IX, 1920- 1921).
Per non dire della collaborazione di Reichenbach (1921-1922), di
Cassirer, di Gadamer, di K. Mannheim che ampiamente recensirà
Die Theorie des Romans di Lukàcs (vol. IX, 1920-1921, pp.
298-302).
Tutto il singolare e torbido intreccio di motivi che si è
venuto snodando sotto il segno della rivolta contro lo scientismo e
il determinismo del- la vecchia filosofia positiva, all'insegna
dello Spirito, dei Valori, della Vita e della Storia - metafisica
contro metafisica - è stato eccezionalmente documentato dai
volumi di ‟Logos", con le vicende e le debolezze, i tradimenti e le
viltà degli uomini, fra la prima e la seconda guerra
mondiale. Emblematicamente la rivista, nel 1910, si apriva con un
saggio programmatico di Rickert, Vom Begriff der Philosophie
(‟Logos" 1910, I, pp. 1-34), dove erano presenti tutti i temi
dibattuti da Dilthey a Windelband, dei valori e della realtà
(Werth und Wirklichkeit), delle scienze della natura e della storia,
delle leggi e dei fatti, dell'esteriorità e
dell'interiorità, della psicologia e delle scienze della
natura. Affermazione dei ‛valori' e della ‛volontà' da un
lato, determinazione, dall'altro, dei ‟limiti della
concettualizzazione naturalistica", si collegano al dibattito sulle
‛scienze dello spirito' quale era stato portato avanti da Dilthey
(v. Colletti, 1969, pp. 326-327), con tutti i suoi agganci con
idealismi e filosofie dei valori (Windelband). Anche se non va
dimenticato che il problema di una logica speciale delle scienze
morali era stato suggerito proprio da J. Stuart Mill, la cui
denominazione moral sciences, del famoso libro sesto di A. system of
logic, resa in tedesco da J. Schiel con Geisteswissenschaften (‟von
der Logik der Geiswissenschaften oder moralischen Wissenschaften"),
doveva avere tanta fortuna. Mill, è noto, non intendeva
affatto distinguere una sfera del Geist con una logica sua propria.
Gadamer ha ben sottolineato come egli, al contrario, si proponesse
di ‟dimostrare che il metodo induttivo, che si trova alla base di
ogni scienza empirica, è anche l'unico valido nel dominio
delle scienze morali" (v. Gadamer, 1963, p. 15). Non a caso aveva
scelto a proprio motto un testo dell'Esquisse di Condorcet: ‟per
quale ragione questo principio di poter prevedere in base a leggi
generali e necessarie i fenomeni sarebbe meno valido per lo sviluppo
delle facoltà intellettuali e morali dell'uomo che per le
altre operazioni della natura?" In questo, invece, fu concorde la
polemica sul positivismo: nel respingere ogni unificazione
riduttrice a ‛regno della natura' del ‛regno dei fini' di kantiana
memoria, ossia di libertà a necessità, di
finalità a causalità, di valori a fatti. E ciò
contro ogni tentativo di risolvere immediatamente il ‛morale' nel
‛materiale' sotto il segno di una generica scienza il cui statuto,
ben lungi dall'essere criticamente fondato, sembrava poggiare sui
presupposti di una metafisica naturalistica, surrettiziamente
introdotta. Come osservava Husserl nl famoso saggio su Philosophie
als strenge Wissenschaft (in ‟Logos", 1910-1911, 1, pp. 294-295)
‟caratteristica di ogni forma di naturalismo estremo e conseguente,
dal materialismo popolare alle forme più recenti dei monismo
sensualistico e dell'energetismo, è da un lato ‛la
naturalizzazione della coscienza', ivi compresa quella di tutti i
dati intenzionali - immanenti alla coscienza; dall'altro, ‛la
naturalizzazione delle idee', e per conseguenza di ogni ideale e
norma assoluta". Di contro, il vero punto di unione del fronte
filosofico del Novecento si concreta nell'unità di
un'esigenza: e cioè che una nuova filosofia apra un discorso
critico, di fondazione, sulla struttura e sui procedimenti del
sapere e dell'agire dell'uomo, sulla ‛natura' e sulla ‛cultura',
sulle discipline scientifiche e su quelle ‛storiche'. Di qui un
diffuso ritorno a Kant, una ripresa e una estensione della sua
tematica, anche là dove le autorità apertamente
invocate sono diverse. Su questo, ma in realtà solo su
questo, si ebbe una convergenza larghissima nel dibattito filosofico
del secolo. Per il resto, invece, converrà distinguere con
molta cura.
A cominciare dall'idealismo, che, se trovò il suo spazio
nell'antitesi fra scienze della natura e scienze storiche, si
manifestò soprattutto nella tendenza a privilegiare il mondo
della cultura, come regno dell'uomo, visto nel suo divenire storico,
nel quale tende a risolversi anche il mondo naturale attraverso una
nuova critica della ragione (storicismo). Si trattava di un
orientamento generale, molto lontano dai sistemi ottocenteschi, che
avevano trovato un terreno particolarmente fecondo in Inghilterra,
dove avevano raggiunto con Bradiey la più alta espressione in
quell'autentico capolavoro metafisico che è Appearence and
reality (1893, 1897). Orbene, gran parte della produzione
anglosassone del primo Novecento reagisce proprio contro Bradley, a
cominciare da Moore (la cui Refutation of idealism è del
1903) per giungere al Russell di Our knowledge of the external world
del 1914. ‟I due cofondatori del movimento analitico reagirono in
modo più violento - è stato detto giustamente - solo
perché entrambi erano stati ammiratori e, più o meno,
seguaci di Bradley" (v. Urmson, 1956, p. 17). ‟L'acqua del Reno ha
invaso il Tamigi", aveva osservato con preoccupazione Hobhouse; e
contro il monismo metafisico, contro l'hegelismo, aveva scagliato le
sue pagine polemiche più violente James. Nel 1909, in A
pluralistic universe (le ‛Hibbert lectures' tenute a Manchester on
the present situation in philosophy) aveva parlato dell'Assoluto
come del ‛'gran distruttore della sola vita nella quale ci sentiamo
a nostro agio". La rivendicazione del pluralismo percorre anche le
pagine di chi conserva inflessioni idealistiche o spiritualistiche.
La ribellione è in particolare contro Hegel, contro il
sistema di ‛metafisica' e di ‛logica', contro la ‛filosofia della
storia', contro la quale combatterà costantemente un
pensatore come Benedetto Croce, che amerà dirsi, almeno in
certa misura, hegeliano. E se in Inghilterra B. Bosanquet nei 1902
chiamava il capolavoro di Bradley il ‟vangelo fra tutti i libri
moderni di filosofia (gospei among all modern philosophical books)",
contro Appearance and reality si appunteranno gli strali di tutti,
da un idealista come J. Royce all'umanista F.C.S. Schiller. Per
James si trattava di un ‟mostro metafisico", proprio perché
dopo avere svelato la contraddittorietà dei finito e dei
relativo a tutti i livelli, e attraverso le aporie dell'esperienza
in ogni sua forma, rinviava all'Altro, all'Assoluto. Per James il
senso della vita è proprio nel limitato, nel finito, nel
molteplice, nella pluralità, nell'apertura, nella
libertà.
A guardare bene, il Novecento non comincia solo con una rivolta
contro il positivismo, lo scientismo, il determinismo, ma contro
ogni sistematica che costringa il divenire entro le barriere di una
logica e voglia ritmare il processo del reale secondo una dialettica
necessitante, in una storia universale prestabilita. In questo senso
Hegel - un certo Hegel - diventa un nemico non minore di Comte, o di
Spencer; e l'idealismo si pone come simmetrico al positivismo. Del
resto, anche in Inghilterra la fioritura dell'idealismo è
ottocentesca, con Bradley, T.H. Green (i Prolegomena to ethics sono
del 1883), con J. ed E. Caird. Nel 1936 Laird, nel suo profilo
Recent philosophy, osservava non senza fondamento che pragmatismo,
fenomenologia, nuovo realismo, storicismo, e in genere tutti gli
indirizzi filosofici caratteristici del Novecento ‟svolsero
posizioni alternative in gran parte in opposizione all'idealismo"
(v. Laird, 1936, p. 48). Se di idealismo si parlerà ancora
molto, sarà sotto forma di ‛storicismo assoluto', o di
‛attualismo', come in Gentile, che verrà esasperando
l'affermazione del puro farsi spirituale, dell'atto puro', con
accenti fichtiani. Oppure si tratterà di atteggiamenti
razionalistici, di filosofie della cultura, di ‛umanismi', di
incarnazioni varie della filosofia della vita. L'impazienza per la
rigidezza di strutture ‛logiche', o di ‛leggi storiche', non
è minore della ribellione contro il determinismo
naturalistico e scientistico. Lo Hegel a cui Dilthey inviterà
nel 1905 - e che trionferà fra le due guerre e dopo la
seconda guerra mondiale - è quello delle opere giovanili,
‛romantico e mistico'; sarà quello della tensione ‛tragica'
piuttosto che della riconciliazione pacificatrice - lo Hegel di J.
Wahl che dopo avere analizzato nel 1920 Les philosophies pluralistes
d'Angleterre et d'Amérique, intitolerà
programmaticamente, nel 1932, Vers le concret un'opera in cui si
sofferma su James e Whitehead. In altri termini, l'idealismo che
rinasce nel Novecento è un idealismo di tipo nuovo - o almeno
vuole esserlo: aperto e costruttore, filosofia della prassi e della
libertà, non contemplazione del sistema compiuto della
verità ma costruzione del mondo e del sapere. Così
come la polemica sulla scienza e sulla ragione si sforza, oltre le
immancabili ambiguità, di porsi, piuttosto che come apologia
dell'irrazionale, come apertura verso un nuovo razionalismo, come
fondazione di una nuova immagine della scienza, al di là del
conflitto fra necessità e libertà, fra cultura e
natura, fra scienze della natura e scienze storiche. Nel 1914, con
voluto paradosso, Ch. Péguy affermava che ‟il bergsonismo non
è mai stato nè per l'irrazionalismo, nè per
l'antirazionalismo. È stato per un nuovo razionalismo".
Nell'Éloge de la philosophie, M. Merleau-Ponty (v., 1953; tr.
it., p. 18) ha osservato: ‟si dice: Bergson ha rivalutato
l'intuizione contro l'intelligenza e la dialettica, lo spirito
contro la materia, la vita contro la meccanicità". Ebbene,
ormai ‟sarebbe l'ora di cercare in Bergson qualcosa di diverso da
un'antitesi". Di là dal critico, indiscutibile, di Taine e di
Spencer, deve cogliersi, nelle pagine più rischiose e
profonde, lo sforzo verso un nuovo concetto della verità, e
un modo nuovo di intendere la scienza e la filosofia (‟questo
scambio tra il passato e il presente, la materia e lo spirito, il
silenzio e la parola, il mondo e noi, questa metamorfosi dell'uno
nell'altro [...]la filosofia [che] non può essere il dialogo
solitario del filosofo con la verità, il giudizio portato
dall'alto sul mondo, sulla vita e sulla storia [...]").
È un discorso, questo, che potrebbe (e dovrebbe) farsi per
non poche posizioni filosofiche del Novecento. Di là dalla
polemica sulla scienza, sul rapporto fra scienze della natura e
scienze dello spirito, è entrato in crisi un modo di
concepire la filosofia, la scienza, la cultura in genere: antiche
armonie appaiono infrante. Mentre esplodono le grandi guerre
mondiali, mentre nuove indagini e nuove tecniche incidono a fondo
nel rapporto fra uomo e natura, e nel modo stesso di considerare
l'uomo, non può non trasformarsi radicalmente la coscienza
critica che l'uomo ha del proprio operare e della propria
condizione. Non può non mutare dalle fondamenta il concetto
della filosofia, della sua funzione, dei suoi metodi. Ed è
proprio l'urto fra pretese egemoniche delle scienze della natura e
dello ‛spirito', mentre si affinano le indagini logiche e
metodologiche, che viene avviando una nuova critica della ragione
per una nuova immagine della filosofia.
7. La prima guerra mondiale e la filosofia come coscienza della
crisi della civiltà
Quasi profeticamente, E. Zeller aveva scritto una volta: ‟lo stato
attuale della filosofia dimostra che essa è arrivata a una di
quelle svolte che, nel caso favorevole, conducono ad una
trasformazione su nuove basi, nel caso sfavorevole alla decadenza e
alla dissoluzione". La guerra del 1914-1918 e la Rivoluzione
d'ottobre svelarono il travaglio di un'umanità divisa, e ne
espressero i termini in forma drammatica. Dimostrarono che la crisi
che aveva lacerato la coscienza filosofica contemporanea aveva
radici profonde, e non filosofiche. D'altra parte i filosofi di
professione, da Benedetto Croce a Wilhelm Wundt, da Henri Bergson a
Giovanni Gentile, per fare solo qualche esempio, se variamente
discussero la catastrofe (Die Weltkatastrophe und die deutsche
Philosophie è il titolo dello scritto del 1920 del quasi
novantenne Wundt), non affrontarono la questione reale del
significato di quello strazio dell'umanità, e delle sue
ragioni. Benedetto Croce insorse contro le ideologie che non
rispettavano la validità universale della cultura e
dividevano secondo le linee del conflitto anche le filosofie,
armandole le une contro le altre. La pacatezza del suo dire
traduceva un'immagine classica del filosofare: conoscenza di un
piano trascendentale di forme; volontà di valori che hanno
per sé l'eterno (per usare una sua espressione). Altri,
estendendo il conflitto alle culture, si prodigavano nel dimostrare
gli stretti legami fra idealismo classico tedesco e imperialismo
germanico. Particolarmente significative in proposito talune voci
provenienti dagli Stati Uniti d'America, e che anticiparono un
genere letterario destinato a molta fortuna al tempo della seconda
guerra mondiale. Nel 1915 J. Dewey pubblicava alcune sue conferenze
dal titolo German philosophy and politics, di chiara inflessione
propagandistica, ma in cui tentava di dimostrare in chiave
pragmatista lo stretto legame fra concezioni del mondo e caratteri
nazionali o situazioni reali. ‟Io non credo che vi siano ‛pure' idee
o ragione ‛pura' - esclamava. Ogni pensiero, ogni atteggiamento
traducono spinte emozionali e interessi, e tendono a effetti
concreti. Di qui anche la distinzione fra una tradizione
sperimentalistica, aperta, libera e progressiva, e un orientamento
sistematico, aprioristico e assolutistico: fra uno slancio
costruttivo, teso verso una sempre nuova progettazione del futuro, e
una preoccupazione del primigenio, delle origini, del passato, della
storia. Di qui le tesi contrastanti che si sfidano per una verifica,
e che sostituiscono per sempre l'idea di una verità assoluta
unica, data a priori. ‟In una filosofia sperimentale della vita la
questione del passato, dei precedenti, delle origini, è del
tutto subordinata alla previsione, alla guida e al controllo fra
possibilità future" (v. Dewey, 1915, p. 127).
Si affrontano due concezioni del mondo, ma anche due visioni della
storia e due politiche: un'America ‟troppo giovane" per una
‟filosofia a priori", e con una storia tutta ancora da scrivere, nel
futuro (our history is too obviously future); una Germania
‛idealistica', che ha trascritto nella Ragione a priori la Divina
Provvidenza, e che nelle origini - o nel profondo - trova iscritto
il proprio destino di cieco fanatismo e di aggressione. Nel 1916 G.
Santayana, nel suo Egotism in German philosophy (che un anno dopo
sarebbe uscito in francese, presentato da É. Boutroux, col
titolo L'erreur de la philosophie allemande), saldava la
‟perversità della Germania" all'egotism della sua tradizione
filosofica, e pur chiamando direttamente in causa come responsabili
diretti della guerra i grandi pensatori da Kant a Hegel e a
Nietzsche, osservava che l'egotism, ‟ossia la soggettività
del pensiero e la caparbietà nella morale, sono l'anima della
filosofia germanica". Comunque è preciso il nesso fra
comportamento politico e filosofia, fra guerre dei popoli e
conflitti di idee: gli ‛orientamenti spirituali' si collocano fra i
caratteri nazionali, e le concezioni del mondo si radicano nei
temperamenti. ‟È cosa orribile una falsa religione, e tanto
più orribile quanto più profonde nell'animo umano ne
sono le radici" (v. Santayana, 1916, p. 7).
Il tema delle guerre del Novecento come ‛guerre di religione',
contrasti di civiltà e di visioni del mondo, destinato a
diventare sempre più diffuso (e a dominare al tempo della
seconda guerra mondiale), sembrava sottolineare con forza la fine
della filosofia classica. Se le concezioni della realtà si
saldano così strettamente col divenire dei popoli e con la
loro natura, da misurarsi nei conflitti armati e da verificare
nell'azione i loro contenuti, che senso avrà mai parlare di
una cultura come luogo d'incontro di tutto il genere umano, o della
filosofia come piano ideale eterno e universale? Fino dal 1917, in
un'opera sintomatica destinata a una risonanza enorme, Der Untergang
des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, O.
Spengler si era proposto il problema di ‟una struttura metafisica
dell'umanità storica (eine sozusagen metaphysiche Struktur
der historichen Menschheit)", ossia di una logica della storia, ma
per escludere ogni pluralismo di concezioni del mondo coesistenti:
non ‟una filosofia possibile accanto ad altre, ma sempre ‛la'
filosofia di un'epoca, in qualche modo naturale, oscuramente
presentita da tutti (von allen dunkel vorgefühlte Philosophie
der Zeit)". Anzi, piuttosto che la filosofia di un'epoca, una
filosofia necessaria che fa un'epoca; che non dipende da una guerra,
ma dalla cui visione la guerra scaturisce: una filosofia del
destino, una filosofia tedesca (eine Philosophie des Schicksals,
eine deutsche Philosophie). Dalla saldatura fra temporalità e
consapevolezza, fra filosofia e storia; dalla crisi e dal conflitto
delle visioni totali della realtà, Spengler trae la sua
filosofia della storia, la sua concezione delle vicende delle
culture, la convinzione di una crisi e di un nuovo avvento. Ancora
una volta la lacerazione dell'umanità rivelava crudamente la
lontananza di una immagine della filosofia come pacificata e
universale contemplazione delle idee, e poneva di fronte al plurale
e allo storico, alle teorie che si misurano sul terreno del
divenire, che combattono, che trionfano o cadono.
Se gli anni fino al 1914 rappresentano la tumultuosa battaglia
intorno alle ultime grandi sistemazioni unitarie ottocentesche del
positivismo e dell'idealismo, e il pullulare degli epigoni, il
periodo dalla prima alla seconda guerra mondiale sembra
caratterizzato proprio dalla progressiva presa di coscienza della
crisi di un modo di concepire la filosofia (e i suoi rapporti con la
scienza, la storia e la politica). Da un lato ci si rende conto
sempre meglio della portata del pensiero critico esploso sul cadere
dell'Ottocento, dall'altro ci si interroga proprio sui conflitti,
sulle rivoluzioni, sul reale concreto, sul divenire storico, sul
tramonto dei valori e delle forme, sul relativizzarsi di tutti i
parametri, e sembra che, veramente, non solo sfugga ogni ancoraggio
ontologico, ma sfumi la stessa possibilità di una nuova
critica della ragione. Il polverizzarsi delle scienze, delle
culture, delle norme di vita; il dissolversi nel tempo di tutte le
strutture, sembra rendere assurda ogni pretesa unificante e
sistematica, mentre il destino della filosofia sembra ridurla a una
riflessione dolorosa sull'esistenza, o a una disperata
consapevolezza della mutevole insignificanza del tutto. Storicismo,
irrazionalismo, vitalismo: tanti nomi per un solo fenomeno.
‛Diversità, varietà, cambiamento, evoluzione [...]. Si
dovette rinunciare a una forma d'interpretazione del mondo che
cercasse di determinare l'essere e di spiegare il divenire in poche
proposizioni generali. Da tutte le parti affluì nello spirito
umano una grande quantità di nuovi dati che non si lasciarono
più padroneggiare [...]. Alla fine, quasi a ogni gruppo di
dati sembrò corrispondere una particolare scienza e tutte
queste scienze rimasero ancora scarsamente collegate fra loro" (v.
Cassirer, 1906-1957; tr. it., vol. IV, p. 491).
Non è senza significato che nel 1918, in un panorama del
pensiero contemporaneo che faceva il punto sulla situazione allo
scoppio della guerra (non vi si citano opere posteriori al 1915), G.
Gronau (Die Philosophie der Gegenwart. Eine Einführung in die
philosophischen Hauptströmungen unserer Zeit, Langesalza 1919)
articolasse il proprio libro su questi temi: Mach, la teoria del
‛come se' di Vaihinger, il pragmatismo di James e di F. C. S.
Schiller, il bergsonismo, l'idealismo di Eucken, lo ‛storicismo' di
Rickert. A parte R. Eucken, e la sua letteraria celebrazione della
Vita che ascende in affermazioni sempre più alte ‛ la vita si
estende, si fa più ricca [...], quando sottraendoci
all'angusto carcere della coscienza immediata [...] prendiamo
contatto con l'universo"); a parte l'originale inserzione
pragmatistica operata da Vaihinger nel neocriticismo di Lange con la
tesi che, nel caotico flusso del sentire, concetti e ideali sono
solo ‛finzioni' più o meno utili, il Gronau individuava bene
le linee di tendenza della situazione: machismo, pragmatismo,
bergsonismo, filosofia della vita, filosofia dello spirito,
storicismo. In una diffusa atmosfera irrazionalistica, si
manifestava dovunque, con l'inquietudine di un'epoca, con l'angoscia
della guerra e della catastrofe, un dubbio radicale circa le
possibilità del pensiero, della filosofia tradizionalmente
intesa. Non a caso le fortunate effusioni retoriche di Eucken
(premio Nobel per la letteratura) conquistarono per un paio di
decenni il mondo: e ‟un aspro dissidio dilacera la realtà",
ma ‛ in mezzo alle presenti tempeste e miserie, aspettiamo il
ritorno della vita alle sue più profonde sorgenti".
La crisi investiva, oltre le teorie, il senso stesso della cultura e
dei suoi istituti, la posizione dell'uomo nel mondo. La letteratura
sull'argomento, destinata a crescere nei decenni successivi, fu,
già intorno allo scoppio della guerra del 1914,
particolarmente folta. Fra le cose più significative, la
prolusione rettoriale di Basilea di K. Joël, pronunciata il 14
novembre 1913. Intitolata Die philosophische Krisis der Gegenwart,
l'autore la ripubblicò subito dopo la guerra, con al centro
l'interrogativo martellante circa il compito e il valore della
filosofia: visione sintetica del mondo o analisi dello spirito?
assolutismo della ragione o relativismo della vita? razionalismo di
una filosofia ‛scolastica' o irrazionalismo di una filosofia
‛mondana'? E, ancora, tutta una serie di dicotomie: teoria e prassi,
pensiero e vita, spirito e mondo, sotto il segno dell'interrogativo
messo innanzi da Rickert nel 1910, all'inizio di ‟Logos", su quale
mai sia il valore della cultura. Joël, ben noto come storico
del pensiero antico, era stato allievo di Dilthey; collaboratore di
‛'Logos", interverrà nel dibattito su Spengler (vol. IX,
1920-1921, pp. 135- 170). Sentì fortemente la tensione
Erleben-Erkennen, per giungere a interpretare il pensiero come
‛funzione organica'. Amò rintracciare le convergenze, a suo
parere numerose e profonde, fra Husserl e Bergson; ma soprattutto
sentì l'appello dell'irrazionalismo della filosofia della
vita, nei cui quadri interpretò anche la crisi.
Fu tuttavia l'amico suo G. Simmel, che meglio d'ogni altro dette
voce, allora, al dramma della cultura, conducendo a fondo l'analisi
della condizione della filosofia e dei suoi compiti. Nei due testi
che videro la luce nel 1918, l'anno della sua morte,
Lebensanschauung. Vier metaphysische Kapitel, e Der Konflikt der
modernen Kultur. Ein Vortrag, si può misurare l'importanza
della sua conclusione, ma anche la differenza da Bergson di quello
che fu detto il Bergson tedesco, in cui la dialettica Vita-Forme si
fa dramma storico e strumento interpretativo della catastrofe del
mondo. Lebensanschauung è certo, come ha scritto il suo
maggiore studioso italiano, A. Banfi, ‟una delle opere più
vive e profonde della filosofia europea contemporanea", proprio
perché è riuscita a esprimere in modo esemplare
l'atteggiamento comune a un fronte larghissimo del sapere
occidentale in questo secolo: l'esaltazione della realtà
vivente, che verifica e consuma le ‛forme', contro l'immagine
‛scolastica' che ‟la conoscenza filosofica consista nella
contemplazione passiva di una realtà eterna e immutabile" (v.
Lichtheim, 1972; tr. it., p. 91). Flusso continuo e illimitato, la
vita è, a un tempo, individualità limitata e
limitante: perenne fluire e forma concreta, ascesa verso ciò
che è ‛più che vita' e urto con ciò che ha
espresso da sé e si è obiettivato. In questa scissione
è il dramma della vita, ed è il dramma della
realtà. ‟La vita pone davanti a se stessa una alterità
obiettiva che è la sua stessa creatura, e ne dimostra
l'autonomia lasciandosi determinare da quella nel suo significato,
nelle sue conseguenze, nelle norme. La vita progredendo si capovolge
in una obiettività che trascende il soggetto che l'ha
prodotta e non ne è affatto un semplice travestimento. Al
contrario si tratta di due stati di fatto, di stadi dell'evoluzione
della vita nel suo aspetto di vita spirituale". La vicinanza con
Bergson è chiara, anche se in realtà Simmel
andrà accentuando, più che la dialettica del
‛superamento', il momento ‛tragico' della scissione e del conflitto
di sé con sé. ‟In un processo relativistico,
dall'accadimento subiettivo psicologico si distacca una struttura
indipendente obiettiva, una verità, una norma, qualcosa,
insomma, di assoluto, finché a sua volta essa pure viene
riconosciuta subiettiva poiché le si è sovrapposta una
obiettività maggiore e così via all'infinito". I testi
di Simmel sono esemplari: collocati in quel momento drammatico della
storia europea, ne riassumono in guise tipiche il motivo dominante.
‟La vita spirituale non può esprimersi che in forme: parole,
azioni, contenuti insomma in cui l'energia spirituale si attua di
volta in volta. Queste forme nell'attimo stesso che nascono hanno un
significato loro proprio, una loro solidità. Esse si
oppongono pertanto alla vita che le ha prodotte e che in quanto
fluire eterno le supera non solo in quanto forme concrete e
particolari, ma in quanto forme. Questo contrasto essenziale esclude
in via assoluta che la vita possa adeguarsi a una forma [...]. La
vita esige la forma, ma esige più che la forma. La
contraddizione della vita è appunto questo esprimersi solo
nella forma, ma di non potere esaurirsi nella forma. Essa spezza
fatalmente ogni forma" (y. Simmel, Lebensanschauung..., 1918; tr.
it., pp. 32-33). Di più: oltre la forma, noi ‟sentiamo
vitalmente l'ineffabile, l'indefinibile".
Il raggio di circolazione di una tematica del genere è di
un'estensione impressionante: è la Vita celebrata dal Croce,
tesa fra il mistero che la fascia e la forza che la fa ascendere,
ora esaltante nel progresso de claritate in claritatem e ora cupa
ombra di peccato, irrequietezza senza posa, forza indomita ‟cruda e
verde, selvatica e intatta da ogni educazione ulteriore" (v. Croce,
1952, p. 35). Croce, nel 1949, scriverà: ‟terribile forza
questa per sé affatto amorale della vitalità". Nel
1918 Simmel aveva sottolineato tutta la tragicità
dell'esistenza: ‟qui si contiene l'aspetto tragico della cultura e
dello spirito: il fatto che la vita urta e si spezza a volte con
violenza contro quelle strutture che essa stessa ha prodotto e che
ora le si oppongono rigide e obiettive. E questa la conferma
dolorosa che si tratta di vera obiettività e non di una
semplice interpretazione psicologica di essa" (v. Simmel,
Lebensanschauung..., 1918, pp. 111-112). Di Bergson, dell'arco di
una ricerca che dallo slancio vitale, e dal suo impietrarsi, giunge
fino alle meditazioni del 1932 sulle ‛due sorgenti' della morale e
della religione, non è neppure il caso di parlare. Come non
è il caso di analizzare le trascrizioni ‛idealistiche' di
Giovanni Gentile e del suo attualismo, col suo battere sul
‟progresso e incremento della vita dello spirito che trionfa sempre
più sicuramente", con la sua insistenza sulla dialettica fra
pensiero astratto e pensiero concreto, col suo ‛misticismo', con
quella che Croce polemicamente amò chiamare, utilizzando una
battuta crudele di un critico acerbo, la ‟teologia del futurismo".
Ma lo stesso Lukàcs, in Geschichte und Klassenbewusstsein che
nel 1923 raccolse e rielaborò testi che risalgono in parte al
1918, aveva ben presente ‟l'acuto e interessante" Simmel. I filosofi
borghesi, osservava, ‟non intendono affatto negare od occultare il
fenomeno della reificazione". Fin dal 1907, riflettendo su Novalis,
Lukàcs aveva bene individuato la crisi della ‟orgogliosa
speranza del razionalismo". Nel 1909, attraverso Kierkegaard aveva
ritrovato ‟il valore esistenziale della forma, il valore delle forme
come creazione, esaltazione di vita" (v. Lukàcs, 1911; tr.
it., p. 69). Dilthey e Simmel, ai suoi occhi, mantengono il loro
significato storico proprio per avere individuato, con la dialettica
vita-forma, il nesso reificazione-alienazione. ‛Il mondo reificato
[...]. Che tutto ciò sia accompagnato da una trasfigurazione,
o dalla rassegnazione e dalla disperazione, oppure che si cerchi una
via che conduca alla ‛vita' attraverso l'esperienza
mistico-irrazionale, non cambia nulla nell'essenza della situazione"
(v. Lukàcs, 1923; tr. it., p. 143). Era la situazione che
Simmel aveva analizzato nel 1918, in Der Konflikt der modernen
Kultur, ove la dialettica vita-forma, la storia come continuo
superamento di forme, sono colte nel punto della cruciale ribellione
della Vita contro la Forma; contro ogni forma. ‟Noi parliamo di
civiltà [Kultur] quando il moto creatore della vita ha
espresso certe formazioni in cui esso trova la propria
estrinsecazione e le guise della sua realizzazione, e che dal canto
loro sussumono a sé il flusso della vita dandogli contenuto,
forma, sfera d'azione, ordine. Tali le costituzioni sociali e le
opere d'arte, le religioni e le conoscenze scientifiche, i sistemi
di tecnica e le leggi civili". Senonché questi ‟prodotti del
processo vitale", già al loro nascere hanno una loro
fissità; ‟rivelano - nota Simmel - una logica e una legge, un
senso e una forza di resistenza che sono loro propri e che stanno in
una certa separazione e indipendenza rispetto alla dinamica psichica
che li formò". Di qui il loro ‟divenire rigidamente estranei,
anzi opposti alla vita" da cui emersero (v. Simmel, Der Konflikt...,
1918; tr. it., pp. 25-27); di qui ‟il malessere della civiltà
(die Tragödie der Kultur)", come Simmel dice.
I temi della estraniazione-reificazione e della obiettività
rigida delle strutture si connettono. L'obiettivarsi di forme
economiche, con tutta la trama dei rapporti che fondano, è
preso da Simmel in considerazione come uno degli aspetti
dell'emergere della civiltà, destinata a complicarsi in
sistemi che entrano in conflitto con la vita. E il conflitto
è destinato a culminare, alla fine, non più nella
opposizione fra la Vita e un particolare sistema per l'attuazione di
un nuovo sistema, ma nell'antinomia radicale fra la Vita e la Forma
in quanto tale: ‟non più lotta di una forma oggi riempita
dalla vita contro la vecchia forma divenuta priva di vita, ma lotta
della vita contro la forma in generale, contro il principio della
forma". Il conflitto mondiale sembra a Simmel il segno del malessere
estremo: ‛più vita' (Mehr-Leben) e ‛più che vita'
(Mehr-als-Leben) sembrano precipitare in una catastrofe
nullificante. Non a caso Schopenhauer e Nietzsche sono tra gli
autori di Simmel (e non solo di Simmel). Incombe una distruzione,
non solo di un'epoca, ma del mondo; si rovesciano nel nulla la
razionalità e lo spirito. Alla fede di tanta parte delle
filosofie dell'atto e della vita, Simmel sembra già
contrapporre i temi degli esiti, da un lato di Spengler, dall'altro
di Heidegger.
Nel 1918 Spengler finisce il primo volume della sua maggiore opera,
Der Untergang des Abendlandes (il secondo volume è del 1922).
Spengler, dall'identificazione goethiana fra ‛natura vivente' e
‛mondo come storia', giunge a ‟carattenzzare lo sviluppo storico
come un ‛divenire biologico' retto da una logica organica, che
è l'espressione di una necessità infallibile a cui le
forme della vita non possono mai sottrarsi" (v. Rossi, 19712, p.
369). I temi di Nietzsche (eterno ritorno, amor fati) si incontrano
con gli esiti della filosofia della vita di Simmel. La grande crisi
della Germania si traduce in una visione sconsolata delle vicende
umane mentre cade la convinzione del progresso storico e la
sicurezza della sopravvivenza della cultura. Le civiltà
declinano e muoiono. La curva dello storicismo, attraverso la
‛tragedia della cultura' di Simmel, approda alla visione ‛tragica'
di Heidegger, all'idea che la ‛filosofia' della tradizione
occidentale è stata fino a oggi un grande sviamento. ‟Il
mondo - scriverà Lukàcs - non è più il
palcoscenico ricco di vicende sul quale l'io, in abiti sempre nuovi
e cambiando a suo piacere le quinte, possa recitare le sue proprie
tragedie e commedie interiori. Esso è diventato un cumulo di
rovine [...]. Non vi è più nulla di solido, nessun
punto di appoggio. E nel deserto sta l'io solo in angoscia e
tormento" (v. Lukàcs, 1954; tr. it., pp. 496- 497). Fra
storicismo e relativismo, i valori e la cultura si erano avviati a
una sorta di autodistruzione. ‛'La critica diltheyana della ragione
e della metafisica tradizionale" aveva già contribuito a
mandarli in pezzi. Simmel aveva battuto sulla tragedia della Vita
che si annulla. ‟Proprio l'appassionata vitalità - aveva
annotato - può condurre all'autodistruzione. Essa sgorga,
infatti, dalla profondità ultima di tutto l'essere e riporta
ad esso [...). Forse l'essenza del tragico è definibile in
questo modo: un destino è orientato distruttivamente contro
la volontà di vivere, la natura, il senso e il valore di
un'esistenza, ma nello stesso tempo si avverte che questo destino
scaturisce dalle profondità e necessità proprie di
questa esistenza".
Con Heidegger, da Sein und Zeit (v., 1927) alla lettera sullo
Humanismus (v., 1947), assistiamo alla sistematica dichiarazione
della fine della filosofia, almeno di quella filosofia che
già ‟con Platone e Aristotele cominciò a subordinarsi
a una interpretazione tecnica del pensiero". In questo senso, come
ricorderà Löwith, Heidegger poteva dare ragione a Hegel,
perché aveva riconosciuto la fine della filosofia. In
realtà era ‟giunto a fine solo qualcosa che aveva avuto
inizio coi Greci", quando, abbandonato il filosofare poetando dei
presocratici, il pensiero andò ‟decadendo nella scienza", e
cominciò la ‟mala ventura" dell'Essere, che disertò da
allora il pensiero e la parola. Da Platone a Nietzsche nella lunga
epoca dell'oblio dell'Essere, l'uomo è venuto meno al suo
compito di estatico ‟pastore dell'essere"; ha trionfato il pensiero
scientifico nella lenta agonia della metafisica. ‟La filosofia,
infatti, e la metafisica non sono affatto scienze e non possono
diventarlo" (v. Heidegger, 1953; tr. it., p. 53). La fine di
un'epoca e la fine di un mondo, la crisi che sconvolge il mondo sono
la fine di una metafisica. Con Kierkegaard Heidegger ripete:
‟l'epoca delle distinzioni è finita". Löwith ha
commentato molto chiaramente: ‟Le distinzioni che Heidegger si
lascia dietro di sé sono le differenze tradizionali tra
discipline filosofiche come la fisica, l'etica, la logica. Anche la
distinzione tra pensiero e azione sarebbe irrilevante; il pensiero
stesso è già un agire, e quel che sia l'etica si
può apprender meglio da Sofocle o da tre parole di Eraclito
piuttosto che dalle lezioni di Aristotele [...]. ‛Finita' è
l'epoca delle distinzioni, perché ora, in questo momento
storico, dopo che si è chiusa un'età del mondo, si
tratta una volta ancora dell'essente nella sua totalità,
della propria esistenza e dell'intero Essere stesso [...]" (v.
Löwith, 1960; tr. it., p. 9). La crisi del mondo è una
crisi ‛metafisica'; la fine di un'età è la conclusione
di una filosofia ‛scolastica' che ha smarrito la strada. Il ritorno
e la ripresa, nel 1933, saranno per Heidegger, insieme, ‟il ritorno
alle origini greche del pensiero occidentale e la guida carismatica
di Hitler". D'altra parte anche l'ultimo Husserl ha in comune con
Heidegger la polemica contro la scienza moderna e la tecnica. Anche
per Husserl la crisi affonda le sue radici in uno sviamento
filosofico, nello scientismo, nell'obiettività delle scienze,
nella perdita del senso dell'umanità europea presente alla
nascita della filosofia greca. ‟Le vere battaglie spirituali
dell'umanità europea sono lotte tra filosofie, cioè
tra le filosofie scettiche - o meglio tra le non-filosofie, che
hanno mantenuto il nome ma che hanno perduto la coscienza dei loro
compiti - e le vere filosofie" (v. Husserl, 1954; tr. it., p. 44).
La filosofia moderna e la scienza moderna, da Cartesio e da Galileo
in poi, in una visione ‛obiettivante', ‛alienante', hanno perso il
mondo della vita. La catastrofe dell'umanità, che coincide
con la catastrofe della filosofia e col fallimento di tutta la
scienza moderna, indica in una nuova filosofia l'unica salvezza
possibile dell'umanità. ‟Portare la ragione latente
all'auto-comprensione, alla comprensione delle proprie
possibilità, e perciò rendere evidente la
possibilità, la vera possibilità, di una metafisica":
ecco il compito dell'umanità che vuol raggiungere la propria
autenticità. ‟La filosofia, la scienza, non sarebbero allora
che il movimento storico della ragione universale, ‛innata' come
tale nell'umanità" (ibid., pp. 44-45). La scienza di Galileo,
e tutta la tecnica che ne è derivata, tutto il pensiero
europeo che ha fatto capo alla rivoluzione scientifica, hanno
postulato una natura in sé, con le sue leggi, in una propria
obiettività, dimenticando, invece, l'esperienza originaria,
la Lebenswelt. Di qui ‟un allontanamento da quei problemi che sono
decisivi per un'umanità autentica", e che sono ‟i problemi
del senso e del non-senso dell'esistenza umana nel suo complesso".
La scienza, la filosofia moderna, nata in connessione con la
scienza, hanno smarrito l'uomo e il senso dell'uomo e della vita;
‟le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto". Di
più: ‟il positivismo decapita per così dire la
filosofia". Husserl nel 1935 andrà oltre e respingerà
l'antico sogno di una filosofia come scienza rigorosa:
‟contestazione della filosofia scientifica [...]. La filosofia come
scienza, come una scienza seria, rigorosa, anzi apodittica - il
sogno è finito" (ibid., p. 535). La conclusione della famosa
conferenza al Kulturbund di Vienna del maggio 1935 è
emblematica: ‟la crisi dell'esistenza europea ha solo due sbocchi:
il tramonto dell'Europa, nell'estraniazione rispetto al senso
razionale della propria vita, la caduta nell'ostilità allo
spirito e nella barbarie, oppure la rinascita dell'Europa dallo
spirito della filosofia, attraverso un eroismo della ragione capace
di superare definitivamente il naturalismo [e l'obiettivismo]"
(ibid., p. 358). Non troppo lontano, l'ultimo Heidegger, dopo il
secondo conflitto mondiale, ha battuto con forza sul progressivo
offuscamento del mondo occidentale, sulla dimenticanza dell'Essere a
favore degli enti, sul predominio della tecnica e sull'asservimento
dell'uomo, sulla catastrofe del mondo che paga un oblio dell'Essere
da parte del pensiero durato venticinque secoli. In Vom Wesen der
Wahrheit, uscito nel 1943, Heidegger si compiaceva del gioco che gli
era offerto dal termine ‛errare' (Irren). ‟L'irrequietezza che fugge
il mistero per rifugiarsi nella realtà corrente, e spinge
l'uomo da un oggetto quotidiano all'altro, facendogli mancare sempre
più il mistero, è l'errare (Irren)". Così
‟l'uomo erra (der Mensch irrt)". Tutto il suo operare storico,
reale, è un ‛aberrare', un perdersi, dinanzi a cui non resta
che una negazione radicale. L'avvicinamento a queste posizioni delle
tesi finali degli Adorno e dei Marcuse è stato facile:
condanna indiscriminata della scienza e della tecnica; il ‛male'
collocato, non in una determinata organizzazione della
società", ma ‟nell'industria, nella tecnica, nella scienza"
(L. Colletti, Ideologia e società, Bari 1969, p. 183).
È difficile non tracciare un sottile nesso fra queste
conclusioni della ‛filosofia' d'oggi con la ‛reazione idealistica
contro la scienza'; così come non è difficile
inseguire assonanze da Bergson alla Dialettica dell'illuminismo di
Horkheimer e Adorno, non senza toccare la Krisis di Husserl. Con una
differenza di tono, tuttavia: in Heidegger, e in quanti ne hanno
subito l'influenza, la crisi nasce da una necessaria degenerazione
della ‛ragione'; per Husserl, invece, si tratta di uno smarrimento
che ha sì radici lontane, ma che deve risolversi
razionalmente. Per questo Husserl invoca un ‟eroismo della ragione",
mentre Heidegger attraverso la ‟distruzione della ragione" vagheggia
un ‛affidamento' alla ‛parusia' dell'Essere (P. Chiodi,
Esistenzialismo e fenomenologia, Milano 1963, p. 75). Comunque, e
questo importa sottolineare, il dibattito continua sotto il segno
medesimo sotto il quale si era aperto all'inizio del secolo: crisi
di un'immagine della filosofia in una crisi della civiltà;
necessità di un rinnovamento radicale.
8. Fra le due guerre
a) L'esistenzialismo
Fra il 1919 e il 1922 vede la luce l'opera di Spengler Der Untergang
des Abendlandes; nel 1918 E. Bloch pubblica la prima edizione di
Geist der Utopie che ne era, a suo modo, una confutazione. Anche per
Bloch la civiltà europea era in crisi e al tramonto, ma si
trattava di una civiltà in dissoluzione: non l'uomo, ma una
forma di umanità era entrata in contraddizione con una
società e un modo di produzione. Bloch più tardi, alla
fine del 1955, in un testo letto all'Accademia delle Scienze di
Berlino, Differenzierungen im Begriff Fortschritt, preciserà
che il concetto stesso di progresso è ‟relativamente non
valido" a livello sovrastrutturale. ‟Il concetto di progresso - si
legge nel testo del 1955 - non sopporta ‛cicli culturali' nei quali
il tempo è inchiodato allo spazio in modo reazionario, ma ha
bisogno, in luogo di unilinearità, di un multiversum ampio,
elastico, pienamente dinamico, un continuo e spesso intrecciato
contrappunto delle voci della storia". Il ‛fine' e il ‛senso' della
storia e del mondo sono qualcosa di ‟non ancora manifesto, un
humanum concreto e utopistico insieme", collocato ‟nella più
lontana immanenza, ma non precluso all'anticipazione scientifica di
una reale possibilità dell'uomo e della storia". E il tempo,
il tempo della storia, non è una misura indifferente,
lineare, neutra; è un tempo variamente ritmato (‟vi è
un tempo tranquillo nella forma della fuga, un tempo teso e pieno
d'ansietà nella suonata"). Attraverso un rovesciamento del
nichilismo, al di là della tragedia dell'Europa, Bloch
approderà col suo marxismo a una filosofia della speranza,
rifiutando di identificare la fine di una egemonia culturale
(l'Europa, l'Occidente...) con la fine della cultura (‟le culture
viventi extraeuropee sono da prospettarsi secondo un concetto
storico-filosofico senza violenza europeizzante e anche senza
tentativi di livellamento"). Così anche la crisi, o la fine,
di un modo di filosofare, di una filosofia, non significa la fine
della filosofia (v. Bloch, 1967, p. 37-38).
Il secolo si era aperto sul rifiuto delle grandi sistemazioni
ottocentesche e aveva successivamente sottoposto ad analisi critica
ogni filosofia che supponesse un nesso organico, non solo fra
filosofia e scienza della natura, ma fra filosofia e conoscenza
razionale della ‛verità': scienza. Aveva reclamato una
più rigorosa messa a fuoco dei fondamenti, ricercandoli
più spesso nella direzione delle scienze della cultura, come
riflessione sullo stesso sapere e operare: logica e psicologia,
teoria del metodo, divenire della conoscenza. Di qui la distinzione
fra scienze della natura e della cultura, con le pretese egemoniche,
dichiarate o sottintese, della ‛storia', della ‛conoscenza storica',
della filosofia della cultura e dello ‛spirito', delle ‛forme
simboliche' come dirà Cassirer. La filosofia, nel suo
travagliato rapporto con le varie discipline, aveva appunto creduto
di trovare in tal modo un suo spazio riservato e privilegiato.
Senonché, proprio fra le due guerre, sembrano entrare in
crisi anche le nuove pretese egemoniche, soprattutto là dove
avevano cercato di fondare concezioni della realtà esaustive,
anche se non rigidamente sistematiche. Così sulle precedenti
rovine del positivismo e dell'idealismo andranno via via
ammucchiandosi quelle dei nuovi spiritualismi e idealismi,
dichiarati o sottintesi. Emblematica appare, in tale prospettiva,
proprio la parabola dello ‛storicismo'. Definitosi, particolarmente
in Germania, come ‟analisi metodologica delle scienze
storico-sociali cui fa riscontro l'analisi della struttura del mondo
umano inteso come il complesso dei campi di ricerca di queste
discipline", lo storicismo era approdato al ‟riconoscimento della
storicità come dimensione fondamentale dell'esistenza umana e
dei rapporti fra gli uomini" (v. Rossi, 1966, p. 458). Il
relativismo dei valori che sembrava derivarne (si pensi all'opera di
K. Heussi, Die Krisis des Historismus, Tübingen 1932),
l'irrazionalismo, e gli incontri-scontri con la filosofia della
vita, la fenomenologia, l'esistenzialismo, senza dire delle istanze
incalzanti di un nuovo positivismo, contribuirono a risolverne le
tematiche valide in terreni diversi, mentre si svuotavano di senso
le distinzioni su cui gli ‛storicisti' avevano imperniato la propria
indagine: scienze dello spirito e scienze della natura, scienze
idiografiche e scienze nomotetiche, spiegazione e comprensione,
storiografia e sociologia. Contemporaneamente, il pragmatismo per un
verso, e per l'altro la filosofia della prassi (come Antonio
Labriola e Antonio Gramsci caratterizzarono il marxismo come
filosofia) contribuirono non poco a trasformare i modi di concepire
la verità, la filosofia e la storia. La nota saliente della
meditazione filosofica fra le due guerre è forse proprio da
ricercarsi nella dissoluzione delle costruzioni sistematiche,
accademiche. Il pullulare di fermenti dei primi due decenni del
secolo esplode, attraverso l'analisi della ‛crisi' e della
‛tragedia', piuttosto nella ricerca che nell'organizzazione: nel
pensiero-problema piuttosto che nel pensiero-sistema, per usare la
dicotomia di N. Hartmann.
Di fronte al moltiplicarsi dei campi autonomi di indagine, di fronte
al complicarsi delle strutture di ogni piano di esperienza, di
fronte al ‛multiverso' che si sostituisce all'‛universo', sembra
sempre più difficile pensare alla possibilità di
concepire la filosofia come conoscenza sistematica razionale e
adeguata di procedimenti sintetici unificanti il tutto, o di una
dimensione comune del reale. La verità, il reale,
l'esperienza, il mondo, l'uomo, svelano, non solo una
pluralità sconcertante di ‛campi', ma un divenire continuo,
un processo a sua volta non unilineare, nè su un solo piano.
Polemizzando con le affermazioni fatte da Hartmann nella sua
Philosophie der Natur. Abriss der speziellen Kategorienlehre (Berlin
1950), Bloch ha insistito proprio sulla necessità di
rifiutare l'idea di un tempo indifferente nei confronti di
ciò che avviene, ossia l'idea di un ‟tempo stesso" visto
quale ‟contenente neutro astratto". E ha invocato una struttura
temporale ‛elastica' analoga allo spazio di B. Riemann (‟simile a un
liquido [...], a una posizione e a un orientamento mobili"): un
‟divenire dalle molte vie", una scienza mediata del futuro"; non
‟una già compiuta ontologia del finora esistente", ma
‟quell'ontologia che scopre il futuro stesso anche nel passato e in
tutta la natura".
La ricerca filosofica fra gli anni venti e trenta è tutta
traversata da questa tensione tra dispersione ed esigenza di nuovi
punti di riferimento, al di fuori di tutte le consuete, e consunte,
sistemazioni. Gli ‛ismi' tradizionali cadono uno dopo l'altro: dopo
il positivismo l'idealismo, dopo il materialismo lo spiritualismo.
Nello stesso tempo svelano i loro limiti le discipline che avevano
avanzato la propria candidatura per raccogliere l'eredità
della funzione unificante della filosofia: logica, storia,
epistemologia. La fortuna eccezionale dell'esistenzialismo - un
termine che abbracciò esperienze diversissime - fu dovuta al
suo essere un orientamento generale della cultura prima ancora che
un complesso di tesi specifiche: specchio fedele di una situazione
caratterizzata da inquietudini piuttosto che da certezze, da
negazioni piuttosto che da costruzioni (‟come la massima parte delle
dottrine - sentenziò una volta perentoriamente O. Gurvitch -
la filosofia dell'esistenza ha ragione nella misura in cui nega, e
torto in ciò che afferma"). Non a caso si concretò
spesso nella ripresa polemica di autori già messi in
disparte, o in una lettura affatto nuova e aperta di classici
già sistemati in interpretazioni concluse. Senza dubbio la
Kierkegaard-Renaissance aveva in Germania radici lontane.
Lukàcs si era fermato a lungo sul suo ‟Socrate sentimentale"
già nel 1909, in un testo ben noto, incluso nel volume Die
Seele und die Formen (che è del 1911). Ma l'inizio della
grande diffusione è posteriore, dopo la guerra. Il
Römerbrief di K. Barth è del 1919; dello stesso anno
è la Psychologie der Weltanschauungen di Jaspers. Alla fine
del 1953, proprio K. Jaspers, nella sua autobiografia, colloca
appunto nella miseria dell'immediato dopoguerra quella che egli non
esita a chiamare ‟la prima opera di ciò che poi fu la moderna
filosofia dell'esistenza". E nel definire il proprio lavoro enumera
i temi di tutto un orientamento: ‟L'interessamento all'uomo, la
tendenza del pensatore a occuparsi di se stesso, una tentata
probità radicale erano determinanti. Quasi tutti i problemi
fondamentali, apparsi poi in piena consapevolezza e largo sviluppo,
ci sono già: quello del mondo come si presenta all'uomo;
quello delle condizioni dell'uomo e delle sue situazioni-limite alle
quali non può sottrarsi (morte; sofferenza, caso, colpa,
lotta); quello del tempo e della pluridimensionalità del suo
significato; quello del moto della libertà nel produrre se
stessa; quello dell'esistenza, del nichilismo [...], dell'amore,
della manifestazione del reale e del vero, della via del misticismo,
della via dell'idea [...]" (v. Jaspers, 1957; tr. it., p. 45).
Guardando alla Francia, D. de Rougemont indicava, per il ritorno a
Kierkegaard e al tema ‛esistenziale', ‟le date stesse della crisi:
1930-1935", ricongiungendo la ripresa del pensiero kierkegaardiano a
Nietzsche, alla teologia di Barth, alla filosofia di Heidegger.
D'altra parte, proprio in Francia, la nuova lettura di Kierkegaard e
di Nietzsche si collegò con la fortuna del giovane Hegel, che
fu anche una riscoperta della Fenomenologia di Hegel, destinata ad
avere una risonanza vastissima, fino a oggi. Negli stessi anni si
accendeva il nuovo dibattito su Marx, sul giovane Marx, con tutto
quello che importava. Il libro di K. Löwith Von Hegel bis
Nietzsche, finito nella primavera del 1939, mette bene a fuoco le
cadenze di quelle letture e indica quali sono stati i punti di
riferimento ‛classici', fino a oggi, di un certo discorso
filosofico: appunto Kierkegaard e Nietzsche, Hegel e Marx, il senso
della loro opera e del loro rapporto. Né era un caso che
l'accento tornasse a battere sui temi medesimi che avevano
caratterizzato l'avvio del secolo - e sotto certi rispetti la ‛moda'
esistenzialistica intorno alla seconda guerra mondiale può
ricordare l'ondata di ‛irrazionalismo' del primo Novecento, dagli
equivoci del pragmatismo alla cosiddetta rinascita idealistica. La
filosofia che non riesce più a trovare un terreno suo
proprio, e che si vede sfuggire non solo la psicologia come la
logica, ma anche la riflessione critica sia sui fondamenti del
sapere che sul linguaggio, si estenua in una meditazione
sull'esistenza di quell'ente finito che è l'uomo, sconfinando
ora nell'attività artistica e ora nell'esperienza religiosa.
Atteggiamento piuttosto che filosofia determinata, l'esistenzialismo
è espressione caratterizzante della situazione della
filosofia del Novecento: del suo disagio di fronte al rischio di
perdere ogni autonomia, là perché assorbita dalle
scienze o ridotta a ideologia, qua perché risolta in
costruzioni fantastiche o in meditazioni edificanti. Dirà
Sartre: ‟sotto qualsiasi forma la si consideri, questa ombra della
scienza, questa eminenza grigia dell'umanità, non è
che un'astrazione ipostatizzata" (v. Sartre, 1960, p. 15). E, di
contro, Jaspers: ‟una filosofia doveva essere una cosa ben diversa
dalla scienza. Doveva soddisfare un'esigenza di verità che la
scienza non conosce, fondarsi su una responsabilità che
è estranea alla scienza, dare qualcosa che a ogni scienza
rimane irraggiungibile" (v. Jaspers, 1957; tr. it., p. 53).
Fra il 1946 e il 1947, mentre Wahl si lamentava che
l'esistenzialismo alimentasse periodici per giovinette come
‟Mademoiselle", e Sartre ammetteva con riluttanza che
esistenzialisti venivano detti, non meno di lui e di Heidegger,
Jaspers e G. Marcel, Lukàcs considerava l'indirizzo dilagante
come l'espressione tipica della crisi del capitalismo. ‟Il niente
è un mito: è il mito della società
capitalistica condannata a morte dalla storia" (v. Lukàcs,
Existentialisme..., 1948, p. 96). Non sfuggiva a Lukàcs come
nell'esistenzialismo riemergessero, e venissero convergendo, i temi
tipici della ‛crisi' del secolo: dalla lettura di Hegel avviata da
Dilthey ai motivi della filosofia della vita (‟l'ideologia dominante
[...] durante tutto il periodo dell'imperialismo"), dalla ‛critica
della scienza' alla rinuncia alla conoscenza razionale dell'uomo.
L'esistenzialismo, osservava, non nega la scienza in generale;
riconosce anzi il valore pratico della conoscenza scientifica;
‟contesta però a tutte le scienze l'accesso a una conoscenza
essenziale a proposito del solo problema che importa: la relazione
fra la persona umana e la vita". Secondo Jaspers l'esistenzialismo
sarebbe perduto nel momento stesso in cui pretendesse di nuovo di
sapere che cosa è l'uomo, di conoscere l'essenza dell'uomo.
L'uomo, infatti, è esistenza, non essenza. Nel ‛manifesto'
del 1946, L'existentialisme est un humanisme, Sartre
insisterà nel dire che ‟l'uomo come lo concepisce
l'esistenzialista non è definibile, perché in origine
non è. Sarà dopo, e sarà quale si sarà
fatto. Non c'è una natura umana [...].L'uomo è, non
quale si concepisce, ma quale si vuole: come si concepisce dopo
l'esistenza, come si vuole dopo questo slancio verso l'esistenza:
l'uomo non è altro che quel che si fa" (v. Sartre, 1946, p.
22). È difficile non pensare alla descrizione dell'Es che
fece Freud nelle lezioni del 1932: ‟un caos, un calderone di
eccitamenti ribollenti [...] non ha un'organizzazione, non produce
una volontà collettiva, ma solo lo sforzo per procurare
soddisfacimenti ai bisogni pulsionali [...]. Le leggi del pensiero
logico non valgono per i processi dell'Es, soprattutto non il
principio di contraddizione [...)" (v. Freud, 1932; tr. it., pp.
479-480).
Clima culturale, costume, piuttosto che corpo dottrinale,
l'esistenzialismo corrispose alla problematicità e
all'incertezza che prolungarono oltre la tragedia della seconda
guerra mondiale l'atmosfera inquieta del periodo fra le due guerre.
Lukàcs ravvisò nelle analisi di Heidegger la
‟struttura feticizzata della psicologia borghese" e il ‟pessimismo
nichilista e senza sbocco dell'intelligenza borghese fra le due
guerre". Altri ha parlato di ‟un movimento di resistenza culturale
di tendenza anarchica, nichilista e individualista". È un
fatto che fra gli anni venti e cinquanta l'esistenzialismo fu una
sorta di esperienza comune attraverso la quale passarono pensatori
che partivano da posizioni lontane, a volte opposte, sì che
esistenzialisti si dissero - o furono detti - teisti e atei,
umanisti e antiumanisti, razionalisti e irrazionalisti (Barth e
Berdjaev; Heidegger e Jaspers; Marcel, con la ‟philosophie de
l'esprit" di Lavelle e Le Senne, e Sartre). In Italia N. Abbagnano
prescriveva all'esistenzialismo di ‟tagliare i ponti con lo
spiritualismo, con l'idealismo e con ogni forma di intimismo", per
evolversi ‟verso un empirismo radicale" (v. Abbagnano, 1956, p. 36).
E tuttavia, più che di una identificazione - come qualcuno ha
sostenuto - con la pura e semplice filosofia, converrà
parlare di una presa di coscienza, da parte dei ‛filosofi', di una
situazione comune, ossia dei limiti e dell'orizzonte di ogni
possibile umana riflessione sulla realtà e sulla vita: limiti
imposti dalla condizione ‛esistenziale' dell'ente finito ‛uomo' che
riflette e tende alla realtà, e che è l'unica via
d'accesso alla realtà. In tal senso furono tratti comuni a
tutta la tematica esistenzialistica il rifiuto dell'identificazione
di realtà e razionalità, l'accentuazione della
finitezza dell'umano, la centralità dell'esistenza come modo
d'essere dell'ente uomo, la trascendenza dell'essere a cui
l'esistenza si rapporta. Contemporaneamente, attraverso
l'esistenzialismo è emersa con chiarezza la
‛paradossalità' della filosofia nel mondo d'oggi. Privata di
ogni ‛privilegio' (di metodo, di accesso al reale, di oggetto e
campo di indagine), dissolta in una temperie culturale e in uno
stile, la filosofia degli esistenzialisti si espresse, assai
più che nei trattati, nella letteratura: nei romanzi e nei
drammi, nei diari e nelle meditazioni religiose. Di fatto, proprio
perché momento di problematizzazione radicale e di presa di
coscienza di una ‛crisi', l'esistenzialismo, come non fu una
filosofia, così si è rivelato un passaggio oltre il
quale sono riemerse le posizioni preesistenzialistiche, anche se con
tinte diverse: metafisiche ontologiche, spiritualismi radicali, non
meno che empirismi radicali. Attraverso la tragedia della seconda
guerra mondiale, e la riflessione particolarmente drammatica cui
dettero luogo le nuove tecniche di distruzione totale, l'uomo fu
costretto a rimettere tutto in discussione: la propria esistenza, il
mondo, la storia, la ‛ragione', i ‛valori'. In certo modo
l'esistenzialismo come riflessione filosofica fu, di tutto questo,
il livello massimo di consapevolezza e lo sforzo di più
organica teorizzazione. Anche per questo nessun ‛filosofo' riconobbe
di essere semplicemente esistenzialista; non Heidegger, che volle
rivendicare (ansprechen) l'Essere sull uomo, ma neppure Sartre, che
cercò di connettere sempre con altro il proprio
esistenzialismo (esistenzialismo e umanismo; esistenzialismo e
marxismo). Per converso, dell'esistenzialismo furono considerati
indiscutibili padri e maestri teologi, poeti e romanzieri: da Barth
a Kafka. Proprio per questo, con le sue ambiguità, i suoi
equivoci, la sua retorica, la sistematica deformazione dei testi,
l'esistenzialismo ha avuto una funzione rivelatrice nei confronti di
tutta la filosofia del Novecento: ne ha rivelato con crudezza le
contraddizioni, le velleità, i limiti; ne ha scoperto la
sostanza fatta di esigenze non realizzate e non chiarite; ha
ricordato soprattutto le istanze umane e morali che giustificano,
esse sole, il filosofare. (V. anche esistenzialismo).
b) La fenomenologia
Se, nel secondo dopoguerra, dall'esistenzialismo al tramonto
dovevano svilupparsi posizioni diverse, che vanno dalla filosofia
dell'essere di Heidegger al marxismo di Sartre, o all'empirismo
metodologico di Abbagnano, per non dire delle varie riprese
metafisiche variamente colorate di toni religiosi, la fenomenologia
husserliana, che aveva accompagnato tutti i dibattiti del secolo e
che aveva alimentato le stesse filosofie dell'esistenza alle quali
aveva offerto ispirazioni e strumenti di metodo, era destinata a una
vigorosa ripresa negli anni cinquanta. La pubblicazione degli
inediti, e una più organica e adeguata conoscenza delle opere
maggiori già edite (almeno parzialmente), mentre hanno
richiamato una nuova attenzione sul travaglio di Husserl, hanno
dissipato non pochi equivoci circa il suo complesso rapporto con
Heidegger e le filosofie dell'esistenza, mentre hanno mostrato la
fecondità delle sue proposte. Interlocutore costante del
discorso filosofico del Novecento, Husserl, pur con tutte le
difficoltà e ambiguità, ha contribuito a far vedere
più a fondo i compiti e le possibilità della filosofia
in un'età di crisi.
Fino dall'inizio del secolo (i Prolegomeni a una logica pura, vol. I
delle Ricerche logiche, sono del 1900) Husserl aveva affermato la
filosofia come scienza, anzi - dirà nel 1911 - come scienza
rigorosa, ma ben distinta dalle scienze particolari cosi nei suoi
procedimenti come nei suoi oggetti. Partendo proprio da
un'attenzione polarizzata sulla ‛psicologia' e sulla ‛logica', si
era reso presto conto degli equivoci di filosofie che sembravano
privilegiarle. In un testo molto chiaro di Formale und
transzendentale Logik (1929), che reca il sottotitolo assai
significativo di Versuch emer Kritik der logischen Vernunft, Husserl
colloca la filosofia e la sua funzione nella ‟fondazione
assolutamente radicale della scienza" (quell'ideale medesimo che
Cartesio aveva invano perseguito, come Husserl sottolineò
nelle Cartesianische Meditationen).
Per rimanere alle discipline che riguardano l'uomo, e il pensiero
dell'uomo, e alle quali più si era volta l'attenzione dei
filosofi dell'Ottocento (come quelle che più immediatamente
sembravano coinvolgere la ‛filosofia'), a parte la psicologia
‛empirica', la stessa logica, secondo Husserl, aveva ‟deviato
completamente dal suo senso e dal suo compito inalienabile",
lasciandosi ‟guidare dalle scienze di fatto e in particolare dalle
tanto ammirate scienze della natura". Le scienze moderne in genere
si sono rese autonome e senza essere in grado di soddisfare
pienamente lo spirito dell'autolegittimazione critica, hanno creato
metodi altamente differenziati, la cui fecondità era certa
sul terreno pratico, ma le cui operazioni non potevano vantare la
piena chiarezza razionale". In altri termini, nella progressiva
autonomia delle scienze dalla filosofia sono venuti a mancare i
fondamenti e l'unità del sapere: ‟il radicarsi di principio"
e ‟la unificazione a partire da tali radici". Con ciò ‟la
scienza moderna ha lasciato cadere l'ideale di un autentico sapere"
e, nello stesso tempo, ‟sul piano della prassi, ha perduto il
radicalismo di un sapere responsabile di sé". È venuta
quindi a mancare una filosofia come dottrina della scienza, mentre
la logica da teoria pura si trasformava in una scienza speciale. Di
qui la necessità di oltrepassare il livello della
‟soggettività naturale umana" per instaurare una logica
realmente filosofica sul piano della ‟soggettività
trascendentale". Ora ‟una logica realmente filosofica, una teoria
della scienza che conduca a un'esplicitazione da tutti i lati della
possibilità essenziale della vera scienza, e che
perciò possa guidare la vera scienza nel suo farsi,
può nascere solo all'interno di una fenomenologia
trascendentale" (v. Husserl, 1929; tr. it., p. 7). Husserl, con
questo, faceva il massimo sforzo per raccogliere l'eredità
più valida del pensiero ottocentesco e della sua crisi,
ritrovando uno spazio alla filosofia nei confronti della scienza
(come dottrina della scienza), attraverso la teoria pura e
universale delle dottrine logiche (logica trascendentale), nella
scienza della soggettività trascendentale costruita con un
metodo specifico (fenomenologia). ‟La fondazione originaria di tutte
le scienze e della ontologia formale [...] conferisce unità a
tutte le scienze in quanto ramificazioni dell'operazione costitutiva
che si effettua a partire dall'unica soggettività
trascendentale. In altre parole, v'è solo una filosofia,
v'è una sola reale ed autentica scienza; e in essa le scienze
particolari autentiche sono per l'appunto solo delle parti non
autonome".
D'altra parte ‟l'intera fenomenologia non è niente di
più che la presa di coscienza scientifica della
soggettività trascendentale", mentre ‟ogni critica della
conoscenza logica, [...] la critica della conoscenza in tutti i tipi
di scienze, in quanto operazione fenomenologica, è
autoesplicitazione della soggettività che diviene cosciente
delle sue funzioni trascendentali" (ibid., pp. 33-336). La
fenomenologia si presenta come un metodo nuovo, fondante da un lato
‟la presa di coscienza scientifica della soggettività
trascendentale" (‟una disciplina psicologica a priori"), e
dall'altro ‟una filosofia universale che può fornire un
organon per la revisione metodica di tutte le scienze". Di qui i
termini accesi con cui Husserl presentò, nell'articolo per
l'Encyclopaedia Britannica, la nuova disciplina: ‟L'antica
concezione della filosofia come scienza universale, la filosofia in
senso platonico, la filosofia in senso cartesiano che
abbraccerà tutta la conoscenza, viene ancora una volta
giustamente reinsediata al posto che le spetta" (v. Lichtheim, 1972;
tr. it., p. 304). E nell'ultima opera, la Krisis: ‟La grande
novità è costituita dalla concezione di quest'idea di
una totalità infinita dell'essere, e di una scienza razionale
che lo domina razionalmente. Questo mondo infinito, questo mondo di
idealità, è concepito in modo tale che i suoi oggetti
non possono essere attinti singolarmente, imperfettamente e come
casualmente dalla nostra conoscenza: esso può essere
raggiunto soltanto da un metodo razionale, sistematicamente unitario
- nel procedere infinito, infine, di ogni oggetto verso il suo pieno
essere-in-sé" (v. Husserl, 1954; tr. it., p. 52).
Non è il caso di discutere qui del metodo fenomenologico, di
quello che veramente fu, di come si svolse, e dei rapporti fra le
Ideen e la Logica. Qui importa sottolineare la risposta che Husserl
volle dare alla richiesta di una filosofia che fosse davvero ‛la'
filosofia, e non una tra molte filosofie (‟noi non possiamo
continuare seriamente nel nostro precedente ifiosofare, se esso ci
dà a sperare filosofie, ma non una filosofia"). La risposta
venne attraverso la fenomenologia: ‟la fenomenologia pura è
una scienza nuova, lontana dal modo naturale di pensare, e pertanto
nascente solo ai nostri giorni. Cercandone qui la via, e definendone
la posizione rispetto alle altre scienze, noi la indichiamo quale
scienza fondamentale della filosofia" (v. Husserl, 1950-1952; tr.
it., p. 7). Il rigore razionale, di scienza, anzi di scienza dei
fondamenti della scienza, con cui Husserl presenta l'opera sua, ha
fatto spesso parlare di una sorta di simmetria - anche se in una
opposizione di fondo - fra Husserl (e la fenomenologia) e Carnap (e
l'empirismo logico). Anche qui - è stato scritto -
‟astoricismo, stretto teoreticismo, ideale del sapere come scienza
rigorosa" (v. Preti, 1966, p. 15). Altri (E. Paci) ha condotto oltre
il parallelo Husserl-Carnap pur non dimenticandone la lontananza), e
ha menzionato accanto alle esigenze di rigore logico, di costituire
una scienza dei fondamenti, una certa possibile presenza delle
prospettive fenomenologiche nel primo libro importante di Carnap,
Der logische Aufbau der Welt, che esce a Berlino nel 1928 mentre la
Logik husserliana esce a Halle nel 1929.
E tuttavia non va dimenticata, in Husserl, la presenza di toni tutti
diversi, a cominciare dall'approccio alla fenomenologia visto come
una sorta di conversione religiosa, per finire con l'idealismo delle
Meditazioni cartesiane, attraverso quella complicata mistione di
razionalismo e Lebensphilosophie che caratterizza tutta la sua
attività. Sulla fenomenologia come atteggiamento sui generis,
‟lontano dal modo naturale di pensare", è singolare quanto
dice lo stesso Husserl in una pagina della Krisis, che è
stata qualche volta giustamente sottolineata: l'atteggiamento
fenomenologico può paragonarsi, rispetto a quello ‛naturale',
alla conversione religiosa: si tratta cioè di vedere le
stesse cose, ma in una prospettiva radicalmente diversa. Quanto poi
al ‟curioso intreccio di razionalismo e filosofia della vita", su
cui ha insistito M.K. Kuypers (in Husserl. Cahiers de Royaumont,
Philosophie III, Paris 1959, p. 77), basta soffermarsi
sull'affermazione di Formale und transzendentale Logik: ‟procedendo
così, si possiede sempre di nuovo la verità vivente a
partire dalla forma vivente della vita assoluta e
dell'autoconsapevolezza che su di essa è rivolta, nel senso
costante della responsabilità di sé [...]. In altre
parole, si possiede la verità in una intenzionalità
vivente". Né è il caso di affrontare tutta la tematica
del ‛mondo della vita (Lebenswelt)'.
D'altra parte è proprio la complessità, e la
ricchezza, della ‛fenomenologia', che spiega la sua fortuna, e la
molteplicità d.ei suoi sviluppi, nel dialogo serrato con
l'‛eretico' Heidegger - eretico scomunicato, ma che, dopo avere
pubblicato Sein und Zeit, nel 1927, nel periodico di Husserl, ancora
sembrava destinato a collaborare con lui e a proseguirne
l'insegnamento. Heidegger e Scheler, gli scolari infedeli, secondo
il maestro non hanno fatto che ricadere nello psicologismo e
nell'antropologia. Nella Postilla alle ‛Idee', del 1930, Husserl
è molto duro: mi si rivolgono, dice, ‟obiezioni di
intellettualismo, di unilaterale astrattezza del mio procedimento
metodico, di incapacità di raggiungere, per principio, la
soggettività pratica e attiva e i problemi della cosiddetta
esistenza, oltre che i problemi metafisici. Tutte queste obiezioni
si basano [...] sul fatto che non si riesce a intravvedere la
novità del principio della ‛riduzione fenomenologica', e
perciò l'ascesa dalla soggettività mondana (dell'uomo)
alla ‛soggettività trascendentale'; che si rimane impigliati
in un'antropologia, sia essa empirica o a priori, la quale secondo
la mia dottrina, non raggiunge neppure lo specifico terreno
filosofico e che comporta, se considerata filosofia, una caduta
nell'‛antropologismo trascendentale', nello ‛spicologismo'.
In quelle pagine così tese, nell'urto con l'altro
protagonista del pensiero contemporaneo, Heidegger, Husserl ha il
merito di presentare, col suo concetto della filosofia, la
situazione del nostro tempo nel dibattito sulla filosofia. ‟Noi
abbiamo sempre avuto e abbiamo tuttora parecchi e sempre nuovi
‛sistemi' e ‛orientamenti' filosofici, ma non quella filosofia ‛una'
che sta alla base, in quanto idea, di tutte le filosofie. Una
filosofia che si accinge a realizzarsi non fa parte dello stesso
genere di una scienza relativamente incompiuta che vada migliorando
attraverso il suo naturale progresso. Il suo senso, il senso della
filosofia, implica un radicalismo della fondazione, la riduzione a
un'assenza assoluta di presupposti, un metodo fondamentale
attraverso il quale il filosofo che comincia si garantisce un
terreno assoluto, che deve venir compreso in piena evidenza come il
presupposto assoluto [...]". La filosofia ha da essere perciò
scienza rigorosa, ma proprio per questo lontanissima dalle scienze.
‟La filosofia è per me, nella sua idea, scienza universale e
‛rigorosa' nel senso più radicale. Come tale essa è
una scienza che posa su una fondazione ultima o, che è lo
stesso, su un'ultima responsabilità e garanzia di se stessa,
una scienza dunque in cui nessuna ovvietà predicativa o
ante-predicativa può fungere da inindagato terreno
conoscitivo". Viceversa ‟tutte le scienze sono travagliate da
problemi riguardanti i loro fondamenti, da paradossi, e [...]
cercano di rimediarvi attraverso una teoria della conoscenza
successiva alle ricerche e ritardataria. Proprio per questo le
scienze positive sono afilosofiche, non sono scienze ultime,
assolute, scienze che possano essere legittimate sulla base di
fondamenti conoscitivi ultimi. Una filosofia che abbia fondamenti
problematici, che comporti paradossi derivanti dall'oscurità
dei concetti fondamentali, non è una filosofia, è in
contraddizione col senso stesso di filosofia". Di più: a una
filosofia come scienza rigorosa è estraneo del tutto anche
‟chi ritiene di potersi richiamare al fecondo pathos dell'esperienza
in senso usuale o ai ‛sicuri risultati' delle scienze esatte oppure
della psicologia sperimentale o fisiologica, o a una logica e a una
matematica comunque riformate", laddove ‟una fenomenologia
trascendentale [...] abbraccia effettivamente l'orizzonte universale
dei problemi della filosofia e [...] dispone, per indagarlo, di un
metodo preciso; [...] quindi comprende nel proprio campo tutte le
domande che l'uomo concreto può porre, e quindi anche le
questioni metafisiche, in quanto abbiano un senso plausibile" (v.
Husserl, 1950-1952; tr. it., pp. 915-936).
Per contro Heidegger, sul cadere del 1946, nel Brief über den
‛Humanismus', ricostruendo il proprio itinerario ed insistendo sulla
svolta del suo pensiero dopo Sein und Zeit, si trova a battere
sull'oblio dell'Essere, sulla perdita della patria come destino del
mondo, come segno dell'abbandono dell'Essere. Di qui la
necessità di tenere conto del tempo, e dell'alienazione, in
senso hegeliano-marxista: di qui l'importanza della
storicità. ‟La perdita di patria diventa un destino del
mondo. Per questo è necessario pensare questo destino sul
piano della storia dell'Essere. Così quello che Marx,
partendo da Hegel, ha riconosciuto, in un senso importante e
essenziale, come alienazione dell'uomo, affonda le proprie radici
nella mancanza di patria dell'uomo moderno. Questa mancanza di
patria si manifesta, a partire dal destino dell'essere, sotto le
specie della metafisica, che la accentua nel tempo stesso in cui la
occulta come mancanza di patria. Perciò Marx, attraverso
l'esperienza dell'alienazione, raggiunge una dimensione essenziale
della storia, in modo che la concezione marxista della storia
è superiore a ogni altra ‛istoria'. Per contro, poiché
nè Husserl, nè per quanto io ne so finora Sartre,
hanno riconosciuto che la storicità ha la sua
essenzialità nell'Essere, non possono raggiungere quella
dimensione entro la quale sola diventa possibile un dialogo
fruttuoso col marxismo" (v. Heidegger, 1947, p. 87). Ove Heidegger -
e il testo fu sottolineato da Lukàcs (v., 1954; tr. it., p.
844) - sembra respingere la ‛svolta' idealistica di Husserl in nome
del tempo e della storia, anche se nel medesimo anno, nel 1946, nel
saggio Der Spruch des Anaximander, chiarisce che ‟l'oblio
dell'essere è l'oblio della differenza fra l'essere e l'ente.
Ma l'oblio di questa differenza non è affatto la conseguenza
di una negligenza del pensiero. L'oblio dell'essere rientra
nell'essenza dell'essere stesso velata in se stessa". L'essere,
mentre si rivela nell'ente, si nasconde in quanto tale, dando
così luogo alle varie epoche storiche. La storia viene dal
destino (Geschichte da Geschick); la struttura-destino è
contemporaneamente verità e tempo.
Di nuovo, non è il caso di affrontare nè Heidegger,
nè il suo complesso itinerario, o quello, così
diverso, ma assai vario, di Scheler. Importa sottolineare nei
conflitti interni alla scuola di Husserl, e nei loro sviluppi,
l'esplodere delle tensioni che la fenomenologia aveva creduto di
comporre e che, viceversa, attraverso l'esistenzialismo,
riaffiorarono con estrema violenza: strutture e storicità;
umanismo e ontologia; mondo umano e mondo della natura; scienze e
filosofia. La postilla alle Ideen di Husserl era un inno alla
filosofia come scienza rigorosa; la conclusione al Brief di
Heidegger è una capitolazione simmetrica: ‟il pensiero futuro
non sarà più filosofia, perché penserà
in modo più originale. Il pensiero avvenire [...]
ridiscenderà nella povertà della sua essenza
provvisoria [...]. Il linguaggio sarà il linguaggio
dell'Essere, come le nuvole sono le nuvole del cielo. Il pensiero
traccerà [...] nel linguaggio delle tracce senza rilievo, dei
solchi ancor meno appariscenti di quelli che il contadino traccia a
passo lento nel campo" (v. Heidegger, 1947, p. 154). Non a torto
Löwith collocava questa escatologia di Husserl sotto il segno
di Spengler più ancora che sotto quello di Nietzsche. E
tuttavia il dialogo Husserl-Heidegger, e le vicende degli allievi e
degli epigoni sono dei documenti rivelatori del destino della
filosofia in questo secolo: della dicotomia sempre risorgente oltre
ogni tentativo di rinnovamento e di unificazione: scienze della
natura e della storia, strutture intemporali e divenire, esistente
ed Essere. L'indagine ravvicinata che H. Spiegelberg ha consegnato
nel 1960 ai due ampi volumi in cui segue The phenomenological
movement (v. Spiegelberg, 1960), svela tutte le antinomie interne a
una corrente feconda quanto tormentata e molteplice, ove non solo lo
stesso pensatore assume successivamente le parti opposte, ma dove,
nel medesimo momento, è suscettibile di letture contrastanti.
Così, osserva Löwith, non è certo un caso ‟che il
pensiero essenziale-evenienziale di Heidegger patisca una duplice
opposta interpretazione: da un lato, come conseguenza estrema dello
storicismo, in quanto pensiero immerso senza metro nella
storicità, e in un senso storiograficamente determinabile;
dall'altro invece, come pensiero astorico in quanto si dissocia da
ogni ‛rappresentare' meramente storiografico e pensa la storia
evenienziale come ventura dell'Essere" (v. Löwith, 1960; tr.
it., p. 79). Comunque, e questo importa, se cambiano i nomi e gli
atteggiamenti, la discussione centrale sull'idea di filosofia - come
avrebbe detto Husserl - non sembra spostarsi dalle posizioni
delineatesi all'inizio del secolo. (V. anche fenomenologia).
c) Contrasti e convergenze
Nella Autobiografia filosofica, che è del settembre 1953,
Jaspers, mettendo in evidenza le costanti della propria ricerca
riconobbe il suo debito nei confronti di Husserl per il metodo
fenomenologico, non per ‟la visione dell'essere". Sua preoccupazione
di sempre il valore della scienza, ma anche la dipendenza dalla
filosofia del senso della scienza. Sua convinzione fermissima
l'umanità' del filosofare (‟non c'è alcun oggetto
della filosofia che si possa scindere dall'uomo"). Organico il nesso
fra filosofia e discipline umane: psicologia, logica, sociologia.
Più di un decennio prima, nel 1941, nel saggio Über
meine Philosophie, aveva ugualmente riconosciuto il peso della
scienza e l'importanza dell'uomo: nel mondo - aveva scritto -
soltanto l'uomo è la realtà che mi è veramente
accessibile. Soltanto qui c'è presenza, prossimità,
pienezza, vita. Soltanto nell'uomo, e mediante l'uomo, tutto quello
che per noi è possibile diventa reale. Trascurare e
abbandonare l'essere umano sarebbe per noi come sommergerci nel
nulla" (v. Jaspers, 1941, p. 17). Le scienze, senza dubbio, hanno
assunto nel mondo moderno un peso decisivo; sembrano costituire, con
le tecniche, ‟la base di ogni condizione effettiva della vita
umana". Eppure esse sono soltanto ‟uno strumento della filosofia.
Non bisogna accostar loro e assimilare la filosofia come se fosse
anch'essa una scienza. La filosofia, infatti, sebbene legata alle
scienze, e non mai senza di esse, rimane qualcosa di affatto
differente. La filosofia è il pensiero nel quale io mi rendo
intimo all'Essere stesso attraverso l'agire interiore, è il
pensiero nel quale io divento me stesso" (ibid., p. 23). Umanismo da
un lato, rapporto scienza-filosofia dall'altro: Jaspers, fra la
seconda guerra mondiale e il dopoguerra, dopo essere stato alla
scuola di Husserl e di Weber, dopo avere urtato nelle critiche di
Rickert, individuava bene i temi centrali della riflessione
filosofica nel travaglio morale delle grandi catastrofi e delle
responsabilità collettive. Jaspers sentiva come compito del
filosofo anche una pensosa riflessione su colpe e dolori nella
tragedia del mondo, e sentiva ugualmente come dovere
dell'intellettuale prendere posizione. E alle tesi dei marxisti
circa la ‛partiticità' della scienza viene fatto di pensare,
leggendo il giudizio su Jaspers che Heidegger consegnò a una
lettera del 23 novembre 1945 a J. Beaufret: scrittore dotato
certamente di efficacia sugli studenti universitari, Jaspers, agli
occhi di Heidegger, ha il torto di collocare la filosofia in un
interrogarsi ‛sull'essere dell'ente' e non, come lui, ‛sulla
Verità dell'Essere'. Perciò l'avvicinamento
Jaspers-Heidegger gli sembra le malentendu par exellence del secolo.
Heidegger si era schierato dall'altra parte: la ‟nuova esperienza
con l'Essere" del dopoguerra, con le profonde risonanze che ha avuto
fino ad oggi, è pregna di significato. Non a caso la sua
‛metafisica' costituisce la premessa non dichiarata di tante odierne
rivolte contro umanismo, storicità e dialettica. Nella
diaspora dei fenomenologi e dei neokantiani, la linea heideggeriana
ha mostrato un orientamento molto chiaro. Jaspers confessa: ‟alcuni
decenni fa ho parlato di filosofia dell'esistenza [...]. Oggi vorrei
chiamare la filosofia piuttosto filosofia della ragione, sembrando
urgente sottolineare questa antichissima essenza della filosofia"
(Jaspers, cit. in Lukàcs, 1954; tr. it., p. 838). Di contro
Heidegger: ‟il pensiero comincia soltanto quando abbiamo
sperimentato che la ragione, esaltata da secoli, è la
più ostinata avversaria del pensiero
Così, fra l'altro, Heidegger aveva polemizzato con Cassirer
che, fra il 1923 e il 1929, con la sua ‟filosofia delle forme
simboliche" aveva voluto costruire una filosofia della cultura senza
concessioni ‛mistiche' di sorta. Se alle radici, infatti, c'era
anche la simmeliana ‛filosofia della vita', il suo scopo era la
determinazione di un sistema razionale delle strutture formali
attraverso cui si costituisce il mondo della cultura o dello
‛spirito': ossia, più semplicemente, il mondo. ‟La vita
emerge dalla sfera della mera esistenza data da natura: essa non
rimane nè un elemento di questa esistenza, nè un
processo meramente biologico, ma si trasforma e si perfeziona
divenendo forma dello ‛spirito'. Quindi in realtà la
negazione delle forme simboliche, anziché afferrare il
contenuto della vita, distruggerebbe invece la forma spirituale alla
quale questo contenuto si dimostra per noi legato necessariamente.
Se si percorre invece il cammino inverso, se non si persegue
l'ideale di una passiva contemplazione delle realtà
spirituali, ma ci si trasferisce al centro delle loro
attività, se esse vengono intese, non come inerte
contemplazione di un ente, ma come funzioni di energie formatrici,
si potranno alla fine in questa stessa attività formatrice,
per quanto diverse e varie le forme possano essere, ricavare certi
tratti fondamentali comuni e tipici dell'attività formatrice
stessa" (v. Cassirer, 1923-1931; tr. it., vol. I, p. 59). Attraverso
la molteplicità delle forme in cui si articola la cultura
è possibile cogliere il nesso organico fra unità del
produrre e varietà dei prodotti. Linguaggio, mito, scienza:
ecco le forme simboliche attraverso le quali si struttura
l'esperienza umana. La stessa conoscenza scientifica della natura
‟conferma e attua nel suo proprio campo un'universale legge di
struttura dello spirito" (ibid., vol. III, 2, p. 270). Lo studio del
linguaggio, del mito, della scienza, ci apre la strada alla
comprensione di quel mondo della cultura (o dello spirito) che
è la realtà nel suo organico presentarsi come
esperienza umana. Questo l'oggetto, questo il campo della filosofia.
Su tutt'altro versante, in prospettive e termini diversi e opposti,
gli eredi di Mach e i rinnovatori del positivismo cercavano di
costruire una filosofia capace di rispondere alle stesse esigenze di
razionalità e di scientificità, anche se, con gli
occhi volti al mondo fisico e alle scienze matematìche e
naturali, lasciavano nell'ombra, o relegavano fuori dalla filosofia,
gran parte dell'‛umano'. Simile, tuttavia, l'attenzione concentrata
sulla conoscenza scientifica e sulle scienze in generale; analoga
l'urgenza di unificazione del sapere e la ricerca di un tessuto
comune in cui ritrovare una base unitaria oltre la varietà
delle specificazioni; parallela la tendenza a polarizzare
l'attenzione sul ‛linguaggio' quale concreta e obiettiva
estrinsecazione del sapere. Nel 1934, in Logische Syntax der
Sprache, Carnap asserirà che compito della filosofia è
quello di costituirsi in metascienza, ossia in analisi logica dei
concetti e delle proposizioni delle scienze. ‟La filosofia deve
esser costituita dalla logica delle scienze - cioè,
dall'analisi logica dei concetti e delle proposizioni delle scienze,
dato che la logica della scienza non è altro che la sintassi
logica del linguaggio della scienza" (v. Carnap, 19372; tr. it., p.
16). Attraverso una condanna in blocco della filosofia in senso
tradizionale si viene realizzando una sorta di rovesciamento quasi
simmetrico delle posizioni che la svalutazione delle scienze aveva
determinato nell'ambito di certo ‛storicismo' per esempio, in
Italia, con Croce). ‟L'analisi logica dei problemi filosofici mostra
che questi sono di tipi assai diversi [...]. Per quanto concerne le
questioni oggettive, i cui oggetti non sono compresi nelle scienze
elaborate rigorosamente, da un esame critico è risultato
trattarsi di pseudoproblemi. Le fittizie proposizioni della
metafisica, della filosofia dei valori, dell'etica [...] sono
pseudoproposizioni: esse non hanno alcun contenuto logico, non
essendo altro che espressioni di sentimenti che tendono a loro volta
a suscitare sentimenti e volizioni in coloro che le ascoltano". Non
meno destituita di fondamento la pretesa che ‛le questioni
filosofiche" riguardino bensì ‟gli stessi oggetti investigati
dalle singole scienze", ma in quanto considerati ‟da un punto di
vista differente, cioè dal punto di vista puramente
filosofico". La filosofia in realtà si muove fra due
illusioni: del ‟presunto punto di vista specificamente filosofico",
della ‟presunta sfera di oggetti specificamente filosofici". Quando
la filosofia sia ‟purificata da tutti gli elementi non scientifici,
non rimane altro che la logica della scienza [...]. La logica della
scienza prende il posto di quell'inestricabile groviglio di problemi
che è noto sotto il nome di filosofia" (ibid., pp. 377-378).
Non è il caso di seguire qui le teorie carnapiane sui
‛linguaggi scientifici, sulla sintassi logica (‟per sintassi logica
di un linguaggio intendiamo la teoria delle forme linguistiche di
quel linguaggio, lo stabilimento sistematico delle regole formali
che lo governano e lo sviluppo delle conseguenze derivabili da
quelle regole" (ibid., p. 23), sui linguaggi come ‛calcoli'
(‟sistemi di convenzioni o regole [...] inerenti ad elementi - i
cosiddetti ‛simboli' - sulla natura e sulle relazioni dei quali non
si assume altro che sono distribuiti in varie classi"). E neppure
è da soffermarsi sul principio di tolleranza: ‟In logica non
vi sono morali. Ognuno è libero di costruire la propria
logica, cioè la propria forma di linguaggio, nel modo che
vuole. Tutto quello che si esige da lui, se egli intende dar ragione
del proprio metodo, è che lo stabilisca chiaramente e
suggerisca regole sintattiche invece di argomenti filosofici"
(ibid., p. 89). Le cose ovviamente dovevano complicarsi non poco sia
nella considerazione ‛semantica', sia nel procedere concreto del
lavoro, nel quale dovevano venir fuori divergenze e
difficoltà, fino al rischio di distruggere, con la
‛metafisica', anche la scienza. D'altra parte la riduzione della
filosofia a ‛studio del linguaggio della scienza', e del metodo
filosofico alla costruzione di linguaggi-modello artificiali, non
era senza conseguenze gravi per la sopravvivenza stessa di
un'attività di stimolo e di ricerca in qualche modo
corrispondente a quella che nei secoli aveva ricevuto il nome di
filosofia. Confessava K. R. Popper : ‟io non riesco a scorgere alcun
merito nella proposta arbitraria di definire la parola ‛filosofia'
in modo da impedire agli studiosi di filosofia di tentar di recare,
in quanto filosofi, il loro contributo al progresso della nostra
conoscenza del mondo" (v. Popper, 1968; tr. it., pp. 26-27).
Di fatto lo sforzo maggiore del nuovo positivismo era quello di
risolvere senza residui la ‛filosofia' nella scienza. ‟Scienza e
filosofia - scriveva Morris nel 1938 - entro l'orientamento generale
dell'empirismo scientifico abbandonano ogni pretesa al possesso di
metodi e argomenti distinti e uniscono i loro sforzi in un compito
comune: la costruzione, l'analisi e l'affermazione di una scienza
unificata". L'ideale della Einheitwissenschaft intendeva contrastare
la distinzione fra scienze della cultura e scienze della natura,
eliminando ogni separazione di oggetto e di metodo fra scienza e
filosofia. ‟La scienza si integra da sé - diceva Neurath - e
non ha bisogno di aspirare alla sintesi sulla base di una
super-scienza che dovrebbe porre leggi alle attività
scientifiche particolari. La tendenza storica per l'unità
della scienza è diretta verso una scienza unificata
classificata in scienze particolari, e non verso la giustapposizione
speculativa di una filosofia autonoma e di un gruppo di discipline
scientifiche" (v. Neurath e altri, 1958, pp. 43-44).
L'enciclopedismo, tuttavia, restava ai suoi occhi soprattutto un
atteggiamento, un ‛programma', opposto alla chiusura del sistema.
Voleva esprimere ‟un certo scetticismo non solo nei confronti delle
speculazioni metafisiche, ma anche di fronte ad affermazioni
azzardate nel campo dell'empirismo". Non a caso Dewey e Russell,
negli scritti inclusi nel primo volume della International
Encyclopedia of Unified Science, lanciavano una serie di appelli non
privi di toni moralistico-edificanti. Per Dewey ‟l'atteggiamento e
il metodo scientifico" erano il ‟metodo dell'intelligenza libera ed
efficace", dai valori universali, impegnata in una cooperazione
attiva, mentre Russell batteva sull'unità di un metodo
illuminato dalla logica moderna, e sul compito dell'Encyclopedia di
‟diffondere la coscienza di tale unità". Tale il tono del
Congresso del 1935 alla Sorbona. Nel concreto, però, Morris,
alla convergenza di empirismo, razionalismo e pragmatismo, collocava
una metascienza, ossia una ricerca scientifica sulla scienza
condotta attraverso uno studio del linguaggio scientifico fondato
sul presupposto generale di una teoria dei segni.
Senonché dallo svolgimento del ‛programma' neopositivista
dovevano emergere divergenze profonde sul modo di intendere il
tessuto linguistico su cui si appuntava l'indagine: linguaggio
comune, oppure linguaggi formalizzati, artificiali e simbolici? Se
il Wittgenstein del Tractatus, in connessione con Russell, era stato
fra gli ispiratori del fronte comune del nuovo empirismo logico, la
svolta delle Philosophische Untersuchungen (lungamente elaborate
fino al 1949, e uscite postume nel 1953) contribuì non solo a
una netta scissione, ma anche a mettere in evidenza elementi prima
apparsi convergenti. Le influenze di Russell e di Moore vennero a
separarsi dopo la collaborazione nella polemica antidealistica. Dopo
un avvio unitario logica ed empirismo si staccarono, e la filosofia
analitica del linguaggio ordinario (la Oxford philosophy) prese vie
sempre più lontane, fino all'aspra censura di Russell,
mentre, d'altra parte, le istanze classiche del filosofare
risuscitavano tutte, anche se in termini mutati. E se Russelì
nel 1956 aveva richiamato i filosofi ai problemi ‛classici', nel
1966 Ayer, nelle pagine su Metaphysics and common sense fece due
osservazioni molto significative:1) compito del filosofo non
è solo quello di ‟avvolgerci in enigmi logici, semantici o
epistemologici" (i ‛giuochi linguistici' del secondo Wittgenstein),
ma anche quello di ‟cambiare o rendere più acuta la nostra
visione del mondo"; 2) niente, perciò, in filosofia,
può essere ‟assolutamente sacrosanto: neppure il senso comune
Nelle Philosophische Untersuchungen Wittgenstein aveva insistito sul
fatto che ‟la filosofia è una battaglia contro l'incantamento
del nostro intelletto", per la distruzione degli ‟edifici di
cartapesta", condotta sul terreno del ‟nostro linguaggio",
parlandone ‟come parliamo dei pezzi degli scacchi quando enunciamo
le regole del giuoco, e non come quando descriviamo le loro
proprietà fisiche" (Philosophische... I, 108-109). Terapia
radicale, la filosofia: i suoi risultati sono ‟la scoperta di un
qualche schietto non-senso e di bernoccoli che l'intelletto si
è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio"
(Philosophische... I, 119). Suo scopo finale, la chiarezza, una
chiarezza completa: ‟ma questo vuol dire soltanto che i problemi
filosofici devono svanire completamente". Ove il discorso sembra
ricongiungersi con quello conclusivo del Tractatus: ‟una volta che
tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i
nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati. Certo allora
non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la
risposta" (Tractatus, 6.52). Conclusione emblematica,
‟nell'oscurità del tempo presente" (secondo le parole, di
Wittgenstein, del 1945), di uno dei padri del filosofare rigoroso,
scientifico, di questo secolo. Non a caso i suoi autori, piuttosto
che filosofi in senso stretto, furono scrittori al margine, ‟fra
filosofia, religione, poesia: sant'Agostino, Schopenhauer,
Kierkegaard, Dostoevskij, Tolstoj e Otto Weininger" (G. H.von
Wright, Ludwig Wittgenstein, in N. Malcolm, L. Wittgenstein, Oxford
1958; tr. it., Milano 1960, p. 27). Verrebbe fatto quasi di dire che
gli esiti della ‛rivoluzione filosofica' sono stati due: mistico,
l'uno; di recupero, sia pur critico, di una continuità col
passato, l'altro.
d) Gli ‛autori'
Non ultimo degli aspetti caratterizzanti il dibattito filosofico
contemporaneo, il richiamo a certi ‛autori'; non ultimi fra gli
‛ismi' il kantismo, l'hegelismo, il marxismo. Le rinascite, ora di
Kant e ora di Hegel, hanno punteggiato il discorso teorico, spesso
dominandolo. Già gli ultimi decenni dell'Ottocento, col
ritorno a Kant, avevano messo in evidenza non solo la funzione
egemonica di un classico, ma il complesso significato di un richiamo
storico. Il neokantismo aveva sottolineato, nei suoi vari indirizzi,
ora il privilegio della gnoseologia e della epistemologia, e ora
invece la tematica dei valori: in ogni caso aveva messo in primo
piano un modo di concepire la filosofia e il suo compito. Il
Novecento non solo si è posto via via sotto il segno di molti
altri autori, ma li ha ancor più variamente interpretati,
anche se, in ultima analisi, i massimi interlocutori del dialogo
sono rimasti Kant e Hegel. Le varie ‛rinascite hegeliane' si sono
alternate a ‛rinascite kantiane', anch'esse diverse fra loro.
D'altra parte la lettura stessa di Marx, col suo peso crescente sul
terreno della discussione teorica, dopo essersi connessa
nell'Ottocento a Kant, nel Novecento si è indisgiungibilmente
collegata al rapporto, proclamato o negato, con Hegel. Ovviamente la
questione ha un aspetto di interesse più strettamente
storiografico; ma ha una sua rilevanza soprattutto teorica. A quel
modo che Whitehead definì una volta tutto il pensiero
occidentale una glossa perpetua a Platone, è lecito sostenere
che tutto il dibattito contemporaneo è una interpretazione di
Hegel e una risposta alla sua sfida, allorchè pose il proprio
sistema come la conclusione della filosofia occidentale. ‟Non
c'è oggi pensiero teoretico di una qualche portata, capace di
soddisfare all'esperienza della coscienza (e invero non della sola
coscienza, ma del corporeo dell'uomo), il quale non si sia nutrito
di filosofia hegeliana". Così Th.W. Adorno nel 1956 (v.
Adorno, 1963; tr. it., p. 10). D'altra parte, e nel medesimo testo,
Adorno polemizzava con Benedetto Croce che agli inizi del secolo
aveva voluto separare lo Hegel vivo da quello morto, proprio mentre
Dilthey avviava lo studio della genesi del pensiero hegeliano, di
Hegel giovane ‛romantico e mistico'. In realtà in Hegel, e
attraverso Hegel, si sono scontrate non tanto o non solo
interpretazioni storiche, quanto concezioni della realtà e
della filosofia: logica o fenomenologia, scissione ‛tragica' o
processo dialettico capace di risolvere le contraddizioni? La
rinascita di Kierkegaard, fra le tante del secolo, sembrò
affermarsi proprio contro Hegel e la rinascita di Hegel. Ma di quale
Hegel? In Francia Wahl, nel 1929, batteva sul tema della hegeliana
coscienza infelice, e nel 1938, raccogliendo nelle Études
kierkegaardiennes una serie di studi di risonanza europea,
sottolineò le opposizioni ma anche le ‛relazioni profonde e
complesse', e, perché no?, forse ‛le parentele', proprio fra
Hegel e Kierkegaard (v. Wahl, 1938, p. 159). Ancora: Hegel
conservatore, reazionario, teorico degli stati totalitari, oppure
rivoluzionario? Nel 1923 K. Korsch poneva a motto del suo Marxismus
und Philosophie una frase di Lenin, del 1922, sulla necessità
di ‟organizzare uno studio sistematico della dialettica hegeliana".
Nello stesso anno usciva Geschichte und Klassenbewusstsein di
Luka'cs, che presentava un Marx avverso sì alla ‟mitologia
reazionaria del concetto", ma capace di far tesoro dell'aspetto
più avanzato del metodo hegeliano, ‟la dialettica come
conoscenza della realta", ossia della ‟tendenza storica che si
nasconde nella filosofia di Hegel", per cui ‟tutti i fenomeni della
società e dell'uomo associato si trasformano radicalmente in
problemi storici", e si indica insieme ‟concretamente il so- strato
reale dello sviluppo storico" (v. Lukàcs, 1923; tr. it., p.
23). Qualche anno prima Antonio Gramsci, ancora pieno della
rinascita hegeliana avvenuta in Italia, salutava la Rivoluzione di
ottobre come una rivoluzione contro il capitale, ossia come la
celebrazione della libera iniziativa umana contro ogni
interpretazione deterministica e scientista dell'opera di Marx.
L'umanesimo e lo storicismo di Marx sembrano affermarsi di pari
passo con la ripresa di Hegel giovane e della Fenomenologia: con una
rilettura della Scienza della logica alla luce di una più
profonda analisi della genesi e della struttura della Fenomenologia.
Il nuovo Hegel sembra così venire incontro a talune istanze
dell'esistenzialismo, mentre i manoscritti del giovane Marx
contribuiscono a dar forza alle interpretazioni umanistiche e
storicistiche del marxismo: e tutto questo non senza rilevanza
politica. Il nodo Hegel-Marx, con tutto quello che importa, dagli
anni trenta, ma soprattutto dagli anni quaranta in poi, fu centrale
per la concezione della filosofia e del suo significato. Nel 1948 J.
Hyppolite si proponeva apertamente di ‟tentare di pensare la sintesi
marxista a partire dalla filosofia hegeliana", suscitando da destra
le vivaci reazioni del ‛liberale' Croce, e da sinistra le condanne
ufficiali dei ‛filosofi comunisti' francesi. Croce nel 1949
lamentava che Hegel fosse ‟stato gettato tra le braccia di colui a
cui piacque dirsi suo figlio, Carlo Marx", in una operazione che non
gli pareva essere ‟nè filosofia nè vita di pensiero",
ma ‟nuda e cruda politica" (v. Croce, 1952, p. 71). I comunisti
francesi, simmetricamente, nel novembre del 1950, sentenziarono:
‟questo Grande Ritorno a Hegel non è che un disperato ricorso
contro Marx, nella forma specifica che il revisionismo prende nella
crisi finale dell'imperialismo: un revisionismo di carattere
fascista" (Le retour à Hegel, dernier mot du revisionisme
universitaire, in ‟La nouvelle critique", 1950, Il, p. 54).
Tuttavia nè condanne di partiti, nè anatemi di
filosofi, hanno diminuito il peso di Hegel, la sua presenza
decisiva: da qualunque parte si guardi alla filosofia contemporanea,
Hegel, il macigno Hegel, sta sempre in mezzo [...]. Tutte le strade
conducono a Hegel; o, che è lo stesso, tutte le strade
partono da Hegel" (N. Bobbio, Da Hobbes a Marx, Napoli 1965, p.
227). Oggi come ieri: la Scuola di Francoforte da un lato e L.
Althusser dall'altro si muovono nel circolo della discussione
Hegel-Marx che, per dirla con Bloch, non appartiene al passato, ma
al presente e al futuro della filosofia: ‟la via da Hegel a Marx
[...] deve essere sempre profondamente ripercorsa [...] altrimenti
al marxismo, al marxismo vivo, non si giunge mai" (v. Bloch, 1967,
pp. 52-61).
D'altra parte, neppure si è attenuata la presenza di Kant. Le
varie rinascite hegeliane, se hanno avuto ragione del ‛ritorno a
Kant' ottocentesco, non hanno mai messo fuori giuoco Kant. Di
‛Kant-Renaissance' si è parlato anzi sempre più spesso
di fronte al trionfo dell'esistenzialismo, nè c'è
bisogno di insistere sul Kant und das Problem der Metaphysik di
Heidegger, del 1929, ‟sviluppatosi in concomitanza con una prima
elaborazione della seconda parte di Essere e tempo". Kant
significava per Heidegger la fondazione della metafisica, anzi ‟il
primo tentativo dichiarato di una fondazione della metafisica"; e
questo contro l'immagine dei neokantiani, e di Cassirer, di un Kant
impegnato in una teoria della conoscenza e della scienza. Lo scontro
Cassirer-Heidegger ai corsi di Davos, nel 1929, è
emblematico: si scontrano due concezioni della funzione della
filosofia, e due filosofie: razionalistica, antropologica,
umanistica, storica, l'una; ontologica e metafisica, l'altra. Per
Heidegger la lettura di Kant ha riscontro in quella di Nietzsche:
‟la filosofia di Nietzsche è la conclusione della metafisica
occidentale". Tuttavia se Nietzsche, col suo nichilismo, è
un'altra presenza costante e rivelatrice, probabilmente i due poli
di una tensione fondamentale, le due ‛figure' centrali del dialogo
filosofico, rimangono Kant e Hegel. ‟Perfino Husserl cadde in certo
modo nelle braccia del neokantismo" - lamentava Heidegger, ma
proprio per rivendicare il significato metafisico di Kant. E nel
1966 Foucault ha sentenziato: ‟siamo tutti dei neokantiani". A
proposito del metodo strutturale di Cl. Lévi-Strauss, nel
1963, P. Ricoeur ha parlato di un ‟kantismo senza soggetto
trascendentale", mentre altri (Lefebvre nel 1966) discorreranno di
‛nuovo eleatismo'. Invariabili e autonome, le strutture tendono a
diventare entità metafisiche, noumeniche, sottese alle
parvenze fenomeniche ed empiriche; il logico si separa dallo storico
e gli si oppone, contrapponendo all'empirico la ‛vera essenza' dei
meccanismi nascosti e necessari. Di contro, la dialettica e la
storia sottolineano il conflitto, la forza del negativo, il processo
reale, e non un movimento apparente fatto di ‛immobilità che
si susseguono'. In forme nuove sembra riemergere lo scientismo,
l'ideologia della scienza, simmetrica, non alla storia, ma
all'ideologia storicistica. Marx stesso, sui cui testi si
appunterà sempre di più l'attenzione dei filosofi dopo
la seconda guerra mondiale, sarà oggetto di due letture
diverse, anzi opposte: storicistica e scientistica.
Sembra così, a volte, che un cerchio si chiuda, che il
discorso torni al punto di partenza: che il conflitto medesimo
apertosi agli inizi del secolo sul positivismo come ideologia
scientista, mutati nomi e termini (e talora addirittura senza troppo
mutarli), riemerga incalzante: che, dopo tante crisi, la filosofia
torni a proporre esigenze antiche quanto la riflessione dell'uomo
sulla sua condizione nella realtà - che il bisogno
‛metafisico' tanto esorcizzato riappaia col non consunto avallo dei
‛classici'.
9. Conclusioni e prospettive
Giusto a metà del secolo, il fenomenologo americano allievo
di Husserl M. Farber organizzò in due grossi volumi un
confronto-bilancio della filosofia contemporanea in Francia e negli
Stati Uniti. A. Lalande, nell'esprimere le riflessioni di un
filosofo francese, ironizzò sulla strabocchevole
quantità di ‛ismi' cari agli Americani, ivi compresi ‟i
tredici pragmatismi" su cui aveva scherzato A. Lovejoy. In compenso
R. McKeon si soffermò sull'amore dei Francesi per le
combinazioni (non sintesi!) fra realismo ed esistenzialismo,
fenomenologia e marxismo, e così via. In tutti uguale il
motivo di una molteplicità confusa di dottrine. Del Congresso
Internazionale di Amsterdam dell'agosto 1948 fu detto che il suo
variopinto mosaico dimostrava come il problema fondamentale della
filosofia fosse ... la filosofia, per l'ambiguità del suo
oggetto, del suo metodo, del suo rapporto con le scienze,
addirittura del tipo di attività che implica. In un suo
profilo dell'Europaische Philosophie der Gegenwart, dettato subito
alla fine della guerra, J.M. Bochen'ski, ben noto studioso di
logica, tentò una classificazione degna di ricordo: a)
filosofie della materia (da Russelì ai marxisti sovietici);
b) filosofie dell'idea (da Croce a Brunschvicg e ai kantiani delle
Scuole di Marburgo e di Baden); c) filosofie della vita (da Bergson
ai pragmatisti americani e agli storicisti tedeschi); d) filosofie
dell'essenza (da Hussell a Scheler); e) filosofie dell'esistenza (da
Heidegger a Sartre, da Marcel a Jaspers); f) filosofie dell'essere
(da Hartmann a Whitehead e ai tomisti). E tuttavia Bochen'ski
notava, e sottolineava, nella pluralità delle correnti, una
sorta di ‛ trazione', e la possibilità di individuare
incontri e simmetrie, quasiché dalla considerazione delle
molte filosofie fosse possibile far emergere una filosofia, ossia i
caratteri comuni di ogni discorso filosofico.
Non troppo diversamente uno dei protagonisti della filosofia inglese
contemporanea, A.J. Ayer, nella prolusione oxoniense del 1960 su
Philosophy and language, ebbe à ricordare che ‟i filosofi,
non solo discordano sulla verità di teorie particolari, o
sulle risposte a problemi specifici, ma sul carattere e sulle
finalità della loro attività complessiva". Continuava
osservando come basti scorrere il catalogo di un libraio per
accorgersi dell'equivocità di un termine sotto cui possono
trovar posto insieme un trattato di logica formale come una
romantica disquisizione sul destino dell'uomo. Fortunatamente,
secondo Ayer, la ‟rivoluzione filosofica" del Novecento - ossia
l'avvento della filosofia linguistica anglosassone - aveva
determinato, almeno nei paesi di lingua inglese, ma non solo in
quelli, una svolta salutare. Ormai i filosofi hanno un' opinione
più raffinata dei loro propri procedimenti", e sono diventati
‟più chiaramente consapevoli di ciò che stanno
cercando di fare", avendo ‟coperto che la filosofia è, in un
certo senso particolare, una ricerca sul linguaggio". Soprattutto
essi avrebbero scoperto, secondo Ayer, che quello della filosofia
sarebbe ‟un soggetto di secondo ordine", ossia di altro livello: i
filosofi, infatti, non intendono ‟descrivere, o persino spiegare il
mondo, tanto meno cambiarlo. Si preoccupano soltanto del modo in cui
noi parliamo del mondo". La filosofia, insomma, altro non sarebbe se
non ‟un discorso sul discorso" (v. Ayer, 1963; tr. it., p. 13).
Ovviamente Ayer sapeva benissimo, non solo che esistono tuttora
molti individui che si dicono filosofi e che intendono, come tali,
cambiare il mondo, ma anche che il suo discorso, per un verso, era
antico almeno quanto Socrate, e, per un altro, suscettibile di
svariate interpretazioni, e perfino di riduzioni idealistiche,
storicistiche (e ‛attualiste'). Per questo, dopo avere cercato di
precisare le varie tappe e forme della filosofia linguistica da
Moore all'ultimo Wittgenstein, egli giunse a riconoscere l'esistenza
anche di una filosofia analitica (Wittgenstein, Ryle), che studia il
linguaggio entro i limiti in cui è inseparabile dai fatti che
descrive (la macchina fotografica esaminata non nei suoi meccanismi
ma per le fotografie). Concludendo, sottolineava soprattutto il
valore della ‟presa di coscienza del ruolo attivo svolto dal
linguaggio nella costituzione dei fatti". Se, secondo l'affermazione
di Wittgenstein all'inizio del Tractatus, ‟il mondo è tutto
ciò che accade", e ciò che può accadere
‟dipende dal nostro sistema concettuale", proprio in questa
direzione, con tutti i problemi che ne derivano, la filosofia
analitica, secondo Ayer, può salvarsi ‟dallo scolasticismo
che ha minacciato di travolgerla" (ibid., p. 42).
Non solo, dunque, Russell e Moore, attraverso la rivoluzione,
avevano riaffermato i compiti classici della filosofia; anche Ayer
ne ritrovava la tematica tradizionale, collocando la rivoluzione in
un metodo e in uno stile. D'altra parte è stato anche
osservato che il modo di intendere, e di fare filosofia, proprio dei
filosofi analitici anglosassoni, se, per un verso, si è
differenziato all'interno in movimenti fra loro in contrasto, per un
altro verso è venuto a collocarsi in qualche relazione con
molti orientamenti contemporanei, che nel linguaggio hanno cercato,
come dice ‛damer, un carattere comune dell'esperienza umana del
mondo, ossia ‟un mezzo in cui io e mondo si congiungono, o meglio si
presentano nella loro originaria congenerità" (v. Gadamer,
1960; tr. it., p. 541). Sempre Gadamer, in cui confluiscono
tematiche heideggeriane ed eredità diltheyane, afferma: ‟ogni
parola prorompe come dal centro di una totalità e ha rapporto
con una totalità in virtù della quale soltanto essa
è parola. Ogni parola fa risuonare la totalità della
lingua a cui appartiene, e fa apparire la totalità della
visione del mondo che di tale lingua è la base" (ibid., p.
523).
Non a caso, nel suo Traktat über kritische Vernunft, un seguace
di Popper, H. Albert, ha classificato, nel 1969, il pensiero
contemporaneo in tre ambiti ‟relativamente chiusi, anche
geograficamente delimitabili con facilità": 1) indirizzi
analitici (positivistici) nel mondo anglosassone (ossia una
filosofia obiettiva e neutrale, scientifica e in connessione con le
scienze); 2) esistenzialismi, con procedimenti ermeneutici,
nell'Europa occidentale; 3) pensiero marxistico (dialettico), nei
paesi socialisti (consapevolmente politico e impegnato). All'Albert
non sfuggiva l'estrema semplificazione del suo quadro, nel quale per
vie varie faceva poi rientrare sia il ritorno a Hegel che Heidegger,
o la ripresa di Husserl; in realtà egli voleva mostrare che
atteggiamenti fondamentali, e diversi, di fronte alla filosofia,
sono venuti strettamente intrecciandosi fra loro nei decenni
successivi alla fine della guerra. Qua parentele dell'ultimo
Wittgenstein con posizioni di matrice heideggeriana; là
agganci del marxismo con eredità esistenzialistiche e
fenomenologiche. I vari ritorni, a Hegel, a Nietzsche, a Husserl; le
nuove letture di Marx e di Freud; le riprese di Dilthey, e tutto un
giuoco di sottili combinazioni rivelano all'analisi dell'Albert,
accanto a molti equivoci, uno scambio fitto di temi, e una
convergenza di interessi, anche se non celano l'antinomia non
risolta fra critica e metafisica, fra conoscenza e impegno, fra
ragione e fede. Comunque, più che l'urto fra il ‛razionalismo
critico' di Popper (e il suo presunto ‛positivismo') e la
‛dialettica' della Scuola di Francoforte (o l'ermeneutica di
Gadamer), importa la riduzione del dibattito filosofico d'oggi a una
dicotomia, o a una serie di dicotomie, riassumenti e riproponenti i
conflitti di quasi un secolo intero: scienza e storia, teoria e
prassi, razionalità e esistenza.
In questa luce appunto prende particolare rilievo il contrasto assai
vivo fra strutturalismo e storicismo, che ha coinvolto all'interno
lo stesso marxismo nel conflitto delle interpretazioni. Polarizzata
tanta parte della ricerca filosofica contemporanea sul linguaggio,
sul discorso, anche se in prospettiva e con motivazioni di fondo
molto lontane fra loro, non solo il linguaggio è stato il
campo privilegiato dell'indagine, ma la linguistica è
sembrata suscettibile di offrire modelli di metodo scientifico
rigoroso. Proprio la linguistica strutturale del Saussure (maturata,
non converrà dimenticarlo, nel clima dominante fra la fine
dell'Ottocento e il primo Novecento) attraverso i concetti della
lingua come sistema regolato da ‟leggi generali" e che si trasforma
al di fuori delle iniziative dei soggetti parlanti, ha spinto
Lévi-Strauss a teorizzare forme di vita sociale come ‟sistemi
di condotta ciascuno dei quali è una proiezione delle leggi
universali che reggono l'attività inconscia dello spirito,
sul piano del pensiero cosciente e socializzato" (v.
Lévi-Strauss, 1958; tr. it., pp. 73-74). Reinterpretando
Freud, ha sostenuto essere ‟necessario e sufficiente raggiungere la
struttura inconscia che sta alla base di ogni istituzione e di ogni
usanza per ottenere un principio di interpretazione valido per altre
istituzioni e altre usanze" (ibid., pp. 33-34). In altri termini, si
viene affermando una sorta di ontologia fondamentale con una
unità spirituale ‛oggettiva': per usare le espressioni di
Foucault, messe in evidenza da A. Schmidt, ‟un pensiero anonimo, una
conoscenza senza soggetto, un teorico senza identità, un
sistema che viene prima di tutti i sistemi, prima di ogni esistenza
umana, prima di ogni pensiero umano" (v. Schmidt, 1969; tr. it., p.
57). Così pure sono state richiamate le connessioni con Kant,
e la vicinanza alla filosofia delle forme simboliche di Cassirer;
Lefebvre ha insistito sul carattere demiurgico assunto dal
linguaggio: ‟il linguaggio come sistema definisce la società
come sistema, e anche le forme del pensiero; possiede perciò
una sorta di funzione trascendentale".
Comunque è chiaro lo sforzo di un pensiero che si muove verso
la scienza e l'obiettività, che vuole seguire un metodo
rigoroso e ‛scientifico', che vuole eliminare l'umano, il
soggettivo, lo storico. Ancora una volta compare l'esigenza
dominante gran parte della riflessione novecentesca, col rischio,
ancor esso rinnovato, di riassumere surrettiziamente non solo i
problemi tradizionali della filosofia, ma presupposti metafisici
d'ogni genere: e le tematiche di un Wittgenstein e dell'ultimo
Heidegger sono lì a dimostrarlo. Tutto questo in omaggio, non
alla scienza, ma a quella che non impropriamente è stata
chiamata l'ideologia strutturalista (Strukturalismus als Ideologie).
Il che non toglie che ‟la logica non dialettica delle configurazioni
interne, delle forme costituite, dei sistemi chiusi e dei
funzionamenti stabili" possa svilupparsi con utilità ‟in
ambiti scientifici in cui si può senza assurdità fare
astraziòne da tutto ciò che, nel seno stesso della
struttura, preannuncia i cambiamenti inevitabili a certi punti
nodali", sempre che, poi, ci si preoccupi di ritrovare il processo e
la storia. Ha osservato L. Sève: che [...] ci si preoccupi
sempre di più di fusione tra metodi strutturalista e
dialettico, di strutturalismo genetico[Piaget], di teoria
strutturale della diacronia, è [...] l'indice del bisogno
irresistibile che prova la scienza di sorpassare i limiti del
pensiero non dialettico" (v. Godeliere Sève, 1970, pp.
91-94).
Struttura e processo, forme e vita, scienza e storia, teoria e
prassi, conoscere il mondo e cambiarlo: ritornano i temi di tutte le
antinomie in una tensione che non li esclude se non nella misura in
cui li connette. E tornano i nomi dei classici: Kant e Hegel, Marx,
Husserl e Heidegger. Nel lungo discorso critico intorno alle
scienze, in cui la filosofia del Novecento si è impegnata,
è venuta sempre più chiaramente in luce la funzione
diversa delle scienze e della filosofia, e l'impossibilità di
risolvere i due termini l'uno nell'altro, o di negare l'uno o
l'altro. Si è venuta altresì svelando l'illusione di
campi, o oggetti, o strumenti privilegiati, proprietà
riservata della filosofia. Anche quelle discipline che fino a ieri
sembravano più organicamente collegate con la filosofia, e
discipline filosofiche in senso particolare, si sono venute rendendo
del tutto autonome. Contemporaneamente è risultato che, come
la filosofia non può considerarsi una scienza accanto alle
altre, così non è neppure la scienza per eccellenza.
In modi differenti si è invece venuta facendo sempre
più chiara l'idea che la filosofia costituisca piuttosto un
momento o livello diverso della riflessione e del discorso: un
discorso sul discorso, hanno detto alcuni; una storicizzazione
integrale, hanno detto altri. È certo che, proprio
rimettendosi in discussione, e aprendo il discorso su se stessa,
sulla sua vicenda storica, sulla trasformazione dei suoi concetti, e
sulla sua funzione nell'ambito della vicenda umana, la filosofia
è venuta riconoscendo il significato nuovo dei suoi problemi
antichi e della sua presenza nel tempo: dei suoi limiti, ma anche
delle sue possibilità, e non solo critiche ma costruttive,
teoria e prassi. La filosofia come discorso sulla filosofia,
indisgiungibilmente storico e teorico, è stato uno degli
aspetti caratteristici del pensiero del Novecento.