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Dottrina
filosofica secondo la quale noi non conosciamo le cose 'come sono' (la
loro essenza o sostanza, le 'cose in sé'), ma le cose 'come ci
appaiono' (i fenomeni). G. Berkeley e D. Hume videro nei fenomeni la
realtà stessa, senza alcun residuo (f. ontologico). I. Kant fu invece
un fenomenista gnoseologico, in quanto affermò che possiamo conoscere
soltanto i fenomeni, ma ammise l'esistenza della 'cosa in sé' (cioè di
qualcosa che esiste indipendentemente dal soggetto che la conosce o
percepisce). Nel 20° sec. E. Mach ricondusse ogni concetto scientifico
alle sensazioni, mentre R. Carnap si propose di 'tradurre' tutte le
proposizioni su enti materiali e mentali in termini sensoriali.
Dizionario di Filosofia (2009)
Dottrina gnoseologica che limita ai fenomeni l’ambito della conoscenza
umana. È un atteggiamento che può farsi risalire ad alcune correnti
della filosofia greca: ai sofisti e, in particolare, agli scettici, i
quali, ammettendo il carattere veritiero delle percezioni sensibili,
sostenevano che non si potesse andare al di là di esse, non essendo
possibile affermare nulla di certo sulla natura in sé delle cose.
Ma gli sviluppi più significativi del f. si hanno con la filosofia
moderna, quando l’indagine sull’estensione e sui limiti della
conoscenza diventa uno dei temi centrali della riflessione filosofica,
sia nell’ambito dell’empirismo britannico sia nella formulazione del
trascendentalismo kantiano. Ricollegandosi allo scetticismo, Hume
esprime con chiarezza l’approccio fenomenistico della sua scienza
sperimentale della natura umana: «finché limitiamo le nostre
speculazioni alle apparenze degli oggetti ai nostri sensi, senz’entrare
in disquisizioni riguardo alla loro vera natura e al loro modo di
operare, siamo al sicuro da ogni difficoltà, e non possiamo mai
trovarci in imbarazzo su nessuna questione».
Alla filosofia, come la intendeva Hume, nulla sembrava più adatto di
«un moderato scetticismo» e di una «leale confessione d’ignoranza in
quei soggetti che sorpassano ogni capacità umana». Oltre si era mosso
Berkeley, il quale, estremizzando gli assunti dell’empirismo di Locke,
aveva sostenuto non solo che i fenomeni percepiti dal soggetto sono le
uniche cose conoscibili, ma che sono anche le uniche cose esistenti,
riducendosi la realtà al suo essere percepita. Per questo motivo,
quello di Berkeley è comunemente definito f. ontologico, in
contrapposizione al f.gnoseologico di Kant; sulla base della
distinzione tra fenomeno (ciò che appare ed è conoscibile) e noumeno
(la cosa in sé, soltanto pensabile), Kant esclude, infatti, la
conoscibilità di ciò che va al di là dei fenomeni, ma ne ammette
l’esistenza.
Ricollegandosi a suo modo a Kant, Spencer ribadisce il carattere
relativo della conoscenza umana e postula l’esistenza di un
‘inconoscibile’ come limite della stessa conoscenza fenomenica. Ma la
vocazione radicalmente fenomenistica del positivismo è rivendicata da
J.S. Mill con le parole stesse con cui Comte aveva definito la
filosofia positiva: «noi non abbiamo conoscenza che dei fenomeni; e la
nostra conoscenza dei fenomeni è relativa, non assoluta».
Nel ricostruire la genesi di questo atteggiamento, Mill risale alle
origini della filosofia scientifica, a Galilei, Bacone, Newton,
attribuendone poi a Hume la più compiuta elaborazione sul piano
filosofico. Allo stesso Mill si deve l’elaborazione di una forma
radicale di fenomenismo. Non insensibile alle istanze gnoseologiche
fatte valere a suo tempo dall’empirismo berkeleyano, Mill cerca di
risolvere il problema della permanenza degli oggetti in assenza di una
loro percezione mediante la dottrina della «possibilità permanente
delle sensazioni». Secondo questa dottrina, la concezione che ci
formiamo del mondo esterno comprende, oltre al numero limitato delle
sensazioni in atto in un particolare momento, una varietà illimitata di
sensazioni possibili: quelle che l’osservazione passata ci dice che
potremmo avere in circostanze note, ma anche altre che riteniamo
possibili in circostanze che non ci sono ancora note.
Tra Otto e Novecento una formulazione rigorosa di f. si ha con
l’empiriocriticismo di Mach. Le immagini del mondo su cui si costruisce
la conoscenza e la stessa nozione di ‘io conoscente’ si basano
unicamente sulle sensazioni: tutta la realtà è costituita di fenomeni
che, collegati in modi diversi, danno origine alle varie esperienze
fisiche e psichiche. L’idea di sostanze, materiali o psichiche, che
sottostanno ai fenomeni, producendoli, è pertanto niente più che una
costruzione illusoria del nostro intelletto: non sono i corpi a
generare le sensazioni, bensì sono i complessi di sensazioni a generare
i corpi, e la stessa distinzione tra apparenza e realtà diventa per
Mach un falso problema.