Fascismo
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Enciclopedia del Novecento (1977)
di Renzo De Felice
Sommario: 1. Origini del fascismo italiano. 2.
Il regime fascista italiano. 3. La Repubblica Sociale Italiana. 4. Il
fenomeno fascista.
1. Origini del fascismo italiano
La prima guerra mondiale determinò trasformazioni e crisi decisive in
tutta l'Europa, che assunsero dimensioni e significati diversi a
seconda dei paesi, ma che ebbero somiglianze e caratteri comuni e che
investirono tutti i campi, quello economico come quello etico, quello
sociale come quello politico. Le origini del fascismo sono connesse in
modo inscindibile con le trasformazioni e le crisi che si verificarono
in Italia. In sede storica, se si perde il punto di riferimento della
prima guerra mondiale si perde anche la possibilità di comprendere
veramente il fascismo e di cogliere le ragioni, il significato della
sua affermazione. Con ciò non si vuol dire che nell'Italia prebellica,
nel suo sviluppo economico-sociale, nella pratica politica, in certi
atteggiamenti psicologici e culturali e persino in certe manifestazioni
pratiche (già nel 1908, in occasione delle agitazioni nel parmense, e
nel 1914, in occasione della ‛settimana rossa', si ebbero casi di
proteste per l'eassenteismo, dello Stato e persino di ‛autodifesa'
contro le violenze proletarie) non si possano scorgere ‛anticipazioni'
del fascismo; si vuole però sottolineare che a queste ‛anticipazioni'
non è assolutamente possibile dare quel valore di ‟semi fascisti
destinati a germogliare nel dopoguerra" che qualcuno ha loro dato.
Senza la guerra, infatti, nulla autorizza ad affermare che essi
sarebbero germogliati e, anzi, molti elementi inducono a ritenere il
contrario. Quanto poi alla guerra, più che mettere l'accento sul modo
con cui fu realizzato l'intervento italiano o sulla psicosi bellica da
essa determinata (che rispetto alle origini del fascismo furono
componenti, in definitiva, secondarie), bisogna insistere soprattutto
sulle sue conseguenze - interne e internazionali - a tutti i livelli,
quali esse si manifestarono nell'immediato dopoguerra, determinando,
accelerando o esasperando una serie di trasformazioni e di motivi di
crisi, in un paese come l'Italia che, se, per un verso, aveva dato
prova - proprio con la guerra - della vitalità del suo organismo
politico-nazionale, per un altro verso aveva mostrato quanto tale
organismo fosse rispondente ai valori etici, alle aspirazioni e agli
interessi di una sola parte della società nazionale (quella che si può
definire di estrazione risorgimentale), ma non corrispondesse a quelli
di tutta un'altra parte di essa (quella non solo quantitativamente più
importante, ma, ciò che più conta, che era stata mobilitata socialmente
e politicamente dalla guerra) che lo considerava, sia pure con diverse
motivazioni e prospettive non di rado tra loro antitetiche, arcaico,
ingiusto e - almeno sotto il profilo della partecipazione al potere -
antidemocratico.
Per comprendere la natura del fascismo e il motivo della sua
affermazione è necessario cercare di stabilire i vari aspetti della
crisi italiana del dopoguerra e soprattutto in che misura essi
influirono nel determinare quella situazione grazie alla quale in meno
di quattro anni il fascismo pervenne al potere.
Sul piano economico il dopoguerra fu caratterizzato da una grave crisi
determinata soprattutto dalla dura prova che l'economia italiana aveva
dovuto affrontare durante la guerra, dalle trasformazioni (non di rado
patologiche) che essa aveva subito in quegli stessi anni e dalle
difficoltà - in parte comuni anche agli altri paesi - alle quali doveva
ora far fronte: ridotta produzione agricola, che aveva ripercussioni
immediate e assai pesanti sulla bilancia commerciale e che, quando la
tendenza si capovolse, si trasformò in una crisi di sovraproduzione che
portò ad una crisi dei prezzi agricoli e, per riflesso, anche di quelli
industriali; forti immobilizzi in industrie (e sempre maggior fusione
tra interessi industriali e bancari) i cui impianti erano spesso
invecchiati e la cui riconversione esigeva grandi capitali; capacità
produttiva superiore alla domanda interna e difficilmente orientabile
verso l'estero; perdurare di un sistema di vincoli e regolamentazioni
statali che rendeva la gestione economica macchinosa e poco produttiva;
basso rendimento della mano d'opera; vastissima disoccupazione. Da qui
un periodo di gravi difficoltà economiche che ebbe rovinose conseguenze
specialmente per alcuni grandi complessi industriali e per alcune
grandi banche e a cui, soprattutto, corrispose un periodo di
eccezionale mobilitazione primaria che si tradusse in un enorme
rafforzamento dell'organizzazione di classe contadina e proletaria e in
un altrettanto enorme sviluppo della lotta di classe, che si manifestò
- specie nel 1919-1920 - con un gran numero di agitazioni (anche
violente), scioperi, occupazioni di terre e di fabbriche, ecc. e si
concretizzò in un forte aumento dei salari reali (specie operai) che
dall'indice 100 del 1913 salirono nel 1921 a 127 (limite non più
raggiunto sino al 1949). E ciò mentre gli stipendi crescevano molto più
lentamente e i redditi fissi subivano una flessione assai grave.
Sul piano sociale questa eccezionale mobilitazione pri- maria fu
caratterizzata da una fortissima politicizzazione e domanda di
partecipazione e di direzione politica a tutti i livelli della vita del
paese da parte dei settori della popolazione fino allora quasi
marginali o del tutto esclusi, delle quali beneficiarono (grazie anche
alla introduzione al posto del sistema elettorale uninominale di quello
proporzionale, che riduceva il peso dei notabili tradizionali e
favoriva i partiti di massa) soprattutto i partiti fuori del sistema
politico tradizionale, che si presentavano rispetto ad esso o
completamente eversivi (socialisti e comunisti) o duramente critici e
rinnovatori (popolari) ed erano espressione di valori e tradizioni che
nulla avevano in comune con quelli di estrazione risorgimentale ai
quali si rifaceva la classe dirigente. Un fatto altrettanto importante
e che spesso viene invece dimenticato o frainteso (quando lo si riduce
a mera manifestazione di settori ‛discendenti' in crisi di
proletarizzazione e di ‛spostati') fu poi costituito dal contemporaneo
verificarsi di un analogo fenomeno di mobilitazione secondaria. Anche
alla sua radice era una forte domanda di partecipazione e di direzione
politica, solo che a manifestarla non erano le masse popolari sino
allora marginali o del tutto escluse, ma settori non trascurabili già
integrati della media e soprattutto della piccola borghesia
(specialmente di recente formazione e in fase emergente) che si
sentivano minacciati (e al tempo stesso respinti) dalla crescita dei
ceti ad essi inferiori e, ancor più, che erano insoddisfatti sia per lo
scarsissimo peso politico che veniva loro lasciato dalla classe
politica tradizionale e dai suoi meccanismi di allargamento quasi
esclusivamente per cooptazione, sia per l'incapacità che questa aveva
dimostrato durante la guerra e ancor più dimostrava ora a tutelare il
loro status materiale e morale di fronte all'ascesa delle
masse popolari, sia per la sempre più evidente tendenza della classe
politica e delle forze tradizionali che essa rappresentava a scaricare
su di loro buona parte del prezzo che erano costrette a pagare alle
masse popolari. In questa situazione, la caratteristica più immediata
della crisi sociale del dopoguerra fu un moltiplicarsi e un accentuarsi
delle sfasature tra lo Stato e le sue istituzioni da un lato e la
sensibilità popolare e l'opinione pubblica da un altro lato e un
estendersi di esse anche ai rapporti tra lo Stato e le sue istituzioni,
specialmente quelle più periferiche e di recente creazione.
Sul piano morale e culturale, la crisi del dopoguerra è bene indicata,
per un verso, dalla sempre più diffusa reazione al positivismo e, per
un altro verso, dalla fortuna che incontrarono le tendenze
scettico-relativistiche, irrazionalistiche, attivistiche, elitistiche,
ecc. Due fenomeni sono però anche più importanti e significativi: la
forte ideologizzazione delle masse e, quindi, della lotta sociale e
politica, sino ad arrivare a forme di vera e propria mitizzazione delle
soluzioni prospettate (tipiche quella della Rivoluzione bolscevica e,
su tutt'altra sponda, quella della Nazione) e l'entrata in crisi dei
modelli culturali tradizionali e, quindi, della loro autorità. Da qui
una diffusa contestazione non solo dei valori tradizionali, ma anche e
soprattutto dell'assetto sociale che essi rappresentavano, che - sia
pure in forme diverse e contrastanti - accomunava la protesta
‛bolscevica' a quella di vasti settori della media e soprattutto
piccola borghesia. E per questi ultimi è da notare il loro progressivo
radicalizzarsi via via che fallivano o si mostravano intrinsecamente
inadeguati i tentativi di dar vita a nuove soluzioni alternative ma non
eversive rispetto al sistema (quale quella combattentistica e, in
definitiva, quella popolare). Contemporaneamente aumentavano la
sfiducia e lo scetticismo nell'efficacia e nella funzionalità della
democrazia parlamentare, sotto il profilo sia della sua capacità di far
fronte alle necessità politiche di un esecutivo efficiente sia di
realizzare un effettivo rinnovamento sociale, e con essi la propensione
verso soluzioni di tipo autoritario (i cui modelli ideologici e
psicologici non erano rintracciati solo a ‛destra', ma, spesso, nel
pensiero e nell'azione più squisitamente democratici del
rivoluzionarismo giacobino).
Sul piano politico, infine, la sintesi di tutte queste crisi,
aggiungendosi e operando da moltiplicatore di quella già da tempo
latente che si usava riassumere nella scissione tra ‛paese reale' e
‛paese legale', acquistò dimensioni via via più drammatiche e che si
possono ricondurre attorno a tre poli: 1) a livello parlamentare, un
‛anarchico regime d'assemblea' incapace di esercitare il potere e di
esprimere sia effettive maggioranze sia opposizioni coeretiti al
sistema e capaci di costituire un'alternativa; 2) a livello
governativo, una serie di ministeri senza prestigio e senza capacità di
effettiva iniziativa legislativa e, al tempo stesso, di far rispettare
ed eseguire dai loro stessi organi periferici le proprie disposizioni e
di dar loro la certezza di non essere lasciati scoperti o addirittura
puniti per averle eseguite; 3) a livello del sistema, una instabilità
cronica, forse più soggettiva che oggettiva, dato che in effetti le
forze dichiaratamente antisistema erano messe fuori giuoco dalla
diversità degli interessi che rappresentavano e dalla loro stessa
‛incapacità di trovare una conciliazione di essi che non fosse quella
di un massimalismo tanto minaccioso ed esaltante nella forma quanto
vuoto e autoritario nella sostanza (il che spiega perché, quando entrò
in crisi, lo scoraggiamento e le tendenze centrifughe furono cosi
forti) e dato che il sistema in realtà - nonostante la sua indubbia
crisi - era ancora sufficientemente robusto, poteva fare affidamento su
alcune istituzioni più tradizionali e omogenee (come le forze armate e
la magistratura) e potenzialmente aveva la possibilità di
autorinnovarsi attraverso la propria democratizzazione e un
allargamento della partecipazione ai settori più moderati delle masse
sino allora marginali o escluse è insufficientemente integrate.
In questo contesto soltanto è possibile comprendere veramente le
origini del fascismo e la sua affermazione. Sorti a Milano il 23 marzo
1919 su una base (e un gruppo dirigente) che si riconnetteva
sostanzialmente ad alcune prospettive minoritarie del sovversivismo
irregolare prebellico, quali erano maturate tra la crisi determinata
dal fallimento della ‛settimana rossa' e la sua proiezione
nell'‛interventismo rivoluzionario', i Fasci di Combattimento rimasero
sino alla fine del 1920 e ai primi del 1921 un fenomeno
quantitativamente e politicamente irrilevante, partecipe di tutta una
serie di caratteri ambigui e contraddittori, di ‛destra' e di
‛sinistra', non diverso in ultima analisi da altri espressi in quel
medesimo tempo dal malessere e dal confuso rivoluzionarismo della ex
sinistra interventista e di certo ex combattentismo (con la differenza,
rispetto a questi, di avere a capo un politico abile e spregiudicato
come Mussolini).
A cavallo del 1920-1921 il fascismo prese però
improvvisamente quota quantitativamente e politicamente e, pur dovendo
fare i conti con la gravissima crisi interna determinata dal ‛patto di
pacificazione', in due anni pervenne al potere. Sino allora il fascismo
era stato un fenomeno non solo irrilevante, ma squisitamente urbano. In
contrasto con questa sua fisionomia, il decollo lo ebbe nelle grandi
zone agricole, nella pianura padana, in Toscana e in Puglia. Il
successo nei centri urbani non immediatamente determinati
economicamente e socialmente dal contado agricolo venne
successivamente, così come l'espansione (del resto limitata) fuori
dalle regioni suddette.
Per comprendere questa dinamica bisogna considerare vari fattori, in
parte concomitanti, in parte determinatisi in successione di tempo.
Innanzitutto il clima politico-sociale del momento. Storici e sociologi
sono oggi pressoché concordi nell'affermare che alla fine del 1920 la
tensione e la mobilitazione delle masse popolari e con esse la
combattività e la capacità egemonica dei ‛bolscevichi' cominciavano a
scemare, sicché - aggiungono i secondi - lo scatenarsi del fascismo
avrebbe in pratica interrotto un processo di integrazione analogo a
quello che si ebbe in altri paesi. In questa prospettiva la reazione
fascista, oltre che ‛inutile' e ‛dannosa', sarebbe stata in pratica
nulla più che una sorta di ‛vendetta' contro coloro che per due anni
avevano fatto vivere la borghesia italiana nell'incubo della
rivoluzione, l'avevano vilipesa e ferita moralmente e materialmente.
Che nello squadrismo ci sia stato anche questo stato d'animo è fuori
dubbio; è però difficile affermare che esso ne sia stata la molla. Alla
fine del 1920 il declino del ‛bolscevismo' era assai meno percepibile
di quanto non lo sia oggi per noi. Il fallimento dell'occupazione delle
fabbriche, a parte la paura suscitata, non faceva pensare che la prova
di forza non potesse essere ritentata. Quanto alla demobilitazione
delle masse, essa era appena agli inizi e fenomeni come quello degli
Arditi del popolo facevano sì che quasi non fosse avvertita. Il nodo
decisivo della questione è per noi un altro. La molla del fascismo, a
livello della lotta di classe, non fu tanto la paura di una rivoluzione
‛bolscevica', quanto il fatto che la classe lavoratrice, le sue
organizzazioni sindacali ed economiche, i suoi partiti erano pur sempre
in grado di sconvolgere quelle che, a torto o a ragione, erano
considerate le regole economiche del mercato e di imporre limitazioni
del diritto di proprietà e della libertà di contratto ritenute non solo
illegittime ma insostenibili.
Né il discorso può essere limitato a
livello della lotta di classe pura e semplice. Se lo squadrismo poté
operare ed estendersi ciò non fu dovuto infatti solo all'essersi fatto
difensore degli interessi economici lesi dal movimento dei lavoratori
e, specie nelle zone agricole, di essersi messo addirittura al soldo di
tali interessi. Oltre agli interessi materiali, per due anni erano
stati lesi anche molti interessi e valori morali, che invano si era
sperato fossero tutelati dallo Stato. Il primo entroterra (il secondo e
più vasto sarebbe derivato dalla sempre più diffusa stanchezza e dal
desiderio di ‛ordine' e di ‛pace' interni) al fascismo venne da coloro
che - mettendo in primo piano questi interessi e valori - videro in
esso una forza sostitutiva di quella dello Stato ‛assente' e in grado
di porre fine a questo tipo di violenze. Senza questo consenso, in
parte pieno in parte critico (le botte fasciste ‛mal date' ma ‛ben
ricevute'), il fascismo sarebbe rimasto squadrismo, non avrebbe
raccolto tante simpatie, connivenze, aiuti, avrebbe fatto meno
proseliti, in una parola, non sarebbe diventato un fatto politico,
sostanzialmente capace di non perdere la propria autonomia, di non
ridursi a mera guardia bianca di determinati interessi materiali, che,
in quanto tali, erano sentiti meno vivamente dai non diretti
interessati e non di rado non erano indenni da critiche anche a livello
borghese.
Un altro fattore da considerare è la particolare violenza che la lotta
di classe aveva avuto nelle zone agricole nelle quali il fascismo si
affermò rispetto a quella che si era svolta nei centri operai. Per un
verso, resa più dura dai danni maggiori che produceva e dalle minori
riserve dei proprietari, da certe sue forme iugulatorie e dalle
difficoltà dell'agricoltura, essa toccava, coinvolgeva una parte molto
maggiore della popolazione che non nei centri industriali, specie
laddove il ferreo sistema delle leghe era riuscito a monopolizzare o a
condizionare gran parte delle attività direttamente o indirettamente
collegate con l'agricoltura, e una sua attenuazione avrebbe significato
poco se non si fosse accompagnata ad una eliminazione di alcune delle
conquiste non immediatamente economiche ottenute dai lavoratori e ad un
allentamento del sistema leghistico. Per un altro verso, essa, dati i
suoi caratteri particolari, aveva coinvolto le varie componenti della
società agraria in misure e forme diverse, che possono essere così
riassunte: mentre i proprietari, i datori di lavoro avevano subito
pressoché tutti un danno comune, tra i lavoratori i benefici (specie
dove le leghe erano più forti) erano stati invece diversi a seconda
delle categorie e ciò, almeno potenzialmente, costituiva un elemento di
forza per gli uni e di debolezza per gli altri, in quanto,
all'occasione, poteva sprigionare (come sprigionò sotto i colpi dello
squadrismo) una serie di tendenze centrifughe.
Questa diversità spiega perché il fascismo decollò in campagna e non in
città, perché ebbe l'unanime appoggio e il sostegno economico degli
agrari e della borghesia legata all'agricoltura, mentre il mondo
industriale (non solo più moderno e politicamente più lungimirante di
quello agrario, ma meno profondamente ferito dallo scontro di classe
del ‛biennio rosso', economicamente e giuridicamente più in grado di
riprendere l'espansione e con molte minori possibilità di puntare alla
divisione del fronte di classe) fu verso di esso assai più cauto,
sicché i casi di collegamento organico furono relativamente scarsi,
limitati assai spesso alle industrie (soprattutto minori) in gravi
difficoltà economiche, e, ciò che più conta, la dirigenza industriale
sino alla ‛marcia su Roma' non puntò mai sulla carta di un governo
fascista e anche dopo non ne sposò completamente la politica.
L'ultimo importante fattore da considerare è quello della composizione
dei Fasci, quale venne a delinearsi con il 1920-1921. Ingrossando le
fila, il fascismo si aperse indubbiamente un po' a tutti i ceti
sociali, non escluso un certo numero di operai e, ancor più, di
lavoratori dei campi (anche se proporzionalmente questi erano in
minoranza e se, in parte, erano reclutati nelle zone dove lo squadrismo
aveva vinto e dove i passaggi al fascismo un po' erano sinceri, un po'
strumentali); il suo nerbo, sia quantitativamente sia in particolare
per quel che concerneva i quadri e gli elementi più attivi
politicamente e militarmente, si caratterizzò però subito chiaramente
in senso piccolo borghese, dando a tutto il movimento e al successivo
partito il carattere di un fenomeno che aveva degli aspetti di classe
(il che spiega la sua scarsa penetrazione nelle regioni più
tradizionali, nelle quali la piccola borghesia non era di tipo moderno
e, quindi, era più integrata). Un carattere, questo, che il PNF avrebbe
conservato a lungo (almeno sino all'epurazione turatiana della seconda
metà degli anni venti) e che gli diede la possibilità, per un verso, di
costituire il più importante punto di riferimento e di attrazione per
quei settori della piccola borghesia che - come si è detto - aspiravano
ad una propria maggior partecipazione e direzione della vita sociale e
politica nazionale, non riconoscevano più alla classe dirigente
tradizionale e a quella politica in specie né la capacità né la
legittimità di governare e, sia pur confusamente, contestavano anche
l'assetto sociale che essa rappresentava e, per un altro verso, di
salvare la propria autonomia politica rispetto alle altre forze
politiche con le quali venne a contatto, anche quando, sgombrato il
campo dal ‛bolscevismo', queste avrebbero voluto cooptarlo nel sistema
e stemperarlo progressivamente in esso sino a ridurlo ad una sua
componente, non diversa sostanzialmente da tante altre.
Oltre che per la sua caratterizzazione sociale, il fascismo non si
esaurì nello squadrismo anche per l'abilità e il tempismo politici di
Mussolini. Nell'estate del 1922, dopo il fallimento dello ‛sciopero
legalitario', a livello sociale il fascismo aveva vinto. A livello
parlamentare la sua forza era però irrilevante e molti sintomi
lasciavano prevedere che il suo consenso politico più che ad allargarsi
avrebbe teso a restringersi, dato che - nel clima sempre più accentuato
di generale demobilitazione e di stanchezza che caratterizzava il
momento - l'irrequietezza e le violenze della sua base rischiavano di
farne agli occhi della borghesia il vero perturbatore della pace
sociale e, quindi, di favorire una collaborazione di tipo tradizionale
tra i partiti liberaldemocratici, il partito popolare e le forze
riformiste, ormai in procinto di staccarsi dai massimalisti. E ciò
proprio nel momento in cui il fascismo aveva il problema di dare
concreta soddisfazione alle masse che erano affluite nelle sue file,
per evitare che, deluse, si allontanassero da esso, ma era ancora
guardato dalla maggioranza della classe dirigente tradizionale come un
elemento importante del quadro politico e sociale, contro il quale non
era possibile governare. Un elemento che, volenti o nolenti, era
opportuno integrare nel sistema, per rinsanguare questo e, al tempo
stesso, costituzionalizzare quello, privandolo così della sua carica
antisistema. Integrare nel sistema, si badi bene, non cedergli il
potere e neppure dargli un peso troppo rilevante nel governo.
Questa
nel 1922 fu la logica e la prospettiva di tutte le operazioni politiche
che in quei mesi vennero imbastite: un governo Giolitti o Salandra o
Orlando o Facta o persino Nitti con la partecipazione dei fascisti, non
un governo Mussolini. E questa fu anche la prospettiva lungo la quale
si mossero le grandi forze economiche. L'abilità di Mussolini fu
duplice: capire che ‛in quel momento' egli poteva ancora: 1) giocare
sulla componente eversiva e sull'entusiasmo per i successi sin lì
conseguiti dal fascismo per una ‛dimostrazione di forza' che, se fosse
veramente arrivata agli estremi, si sarebbe certamente conclusa in un
clamoroso insuccesso, ma che, se mantenuta nei limiti di una minaccia,
avrebbe fatto precipitare la situazione a suo vantaggio; 2) mettere le
varie componenti della classe politica le une contro le altre e far
leva sulle non ancora completamente sopite paure di una ripresa della
guerra civile dalla quale sarebbero potute uscire rivitalizzate le
sinistre e indebolito il sistema. Da qui la ‛marcia su Roma', un bluff
sul piano militare, un successo sul piano politico, poiché persino
di fronte ad essa larga parte della classe dirigente e in primo luogo
il sovrano (che, dopo l'esperienza fiumana, doveva temere più di ogni
altra cosa di mettere a repentaglio l'unità dell'esercito) continuarono
a non capire la vera natura del fascismo e ad illudersi che, una volta
arrivato al potere - sia pure in prima persona - esso si sarebbe alla
fine costituzionalizzato.
Oggi questa incomprensione e questa illusione possono apparire assurde.
Obiettivamente, bisogna però constatare che allora pochissimi si
sottrassero a questo duplice atteggiamento (e non solo a livello della
classe dirigente tradizionale) e domandarsi, quindi, quale fu il vero
fondamento di esso. Se - come riconobbe Togliatti nel 1935 nelle sue Lezioni
sul fascismo (p. 20) - ‟è un grave errore il credere che il
fascismo sia partito dal 1920, oppure dalla marcia su Roma, con un
piano prestabilito, fissato in precedenza, di regime di dittatura,
quale questo regime si è poi organizzato", è logico domandarsi se i
destini del fascismo e dell'Italia più che il 28 ottobre 1922 non
furono decisi successivamente, nello scontro tra la componente
potenzialmente costituzionalizzabile del fascismo e quella più legata
ad una prospettiva eversivo-piccolo borghese. È evidente, infatti, che
in questo caso l'atteggiamento della classe dirigente del 1922, se non
diventa scusabile, appare però più comprensibile.
2. Il regime fascista italiano
Il ventennio fascista fu un fatto unitario e rispose ad una logica
precisa. In esso si debbono però distinguere almeno quattro fasi
successive che è necessario individuare nei loro aspetti caratteristici
se si vuole, appunto, coglierne la logica complessiva e non ridursi ad
una interpretazione che - identificando praticamente la conclusione con
la premessa - finisce per rendere impossibile la comprensione dei suoi
nessi con la realtà italiana e delle sue particolarità rispetto agli
altri fascismi. Queste quattro fasi corrispondono ai periodi 1922-1925,
1925-1929, 1929-1936 e 1936-1943.
La prima fase, dalla ‛marcia su Roma' al discorso di Mussolini del 3
gennaio 1925, vide la stabilizzazione del potere fascista e fu
caratterizzata dal costituirsi di un determinato tipo di rapporti tra
il fascismo e la classe dirigente e le istituzioni tradizionali: lo
stesso che, sostanzialmente, diede al successivo regime i suoi
caratteri peculiari, anche se, allora come poi, nessuna delle
componenti del regime li considerò definitivi.
L'andata al potere di Mussolini nell'ottobre 1922 fu il frutto di un
compromesso tra fascismo e classe dirigente tradizionale: da qui, tra
l'altro, il carattere di coalizione che sino al 1925 ebbe il governo
Mussolini e, soprattutto, la cura gelosa che la seconda (attraverso la
corona) mise nell'impedire al fascismo di mettere le mani sulle
istituzioni più solide e che essa considerava necessarie a
controbilanciare il potere politico che il fascismo si era assicurato
(soprattutto le forze armate). Questo compromesso fu ribadito e
rafforzato ai primi del 1925, quando gran parte della classe dirigente
tradizionale preferì (dopo la crisi determinata dal delitto Matteotti)
continuare a sostenere Mussolini pur di evitare il pericolo di un
‛salto nel buio' e di una prova di forza da essa ritenuta troppo
rischiosa e tale da provocare una serie di imprevedibili reazioni a
catena. Per la classe dirigente tradizionale, via via sempre più
identificabile con i cosiddetti ‛fiancheggiatori', sia esterni sia
interni, del fascismo, questo praticamente avrebbe dovuto innovare ben
poco nel sistema: doveva soprattutto rafforzarlo e ridinamizzarlo, non
sovvertirlo. Per i più la soluzione ideale sarebbe stata quella che il
fascismo - in cambio di un allargamento della base del sistema e
dell'inserimento della sua élite a livello dirigente -
attuasse un rafforzamento dell'esecutivo e un depotenziamento delle
forme di democrazia realizzate negli ultimi anni (in altri termini una
specie di attuazione ammodernata del sonniniano ‟ritorno allo
Statuto").
Questa prospettiva era però inaccettabile per il fascismo,
almeno per la gran parte del vecchio fascismo (quello che era affluito
nei Fasci prima dell'andata al potere), che non solo aspirava ad una
partecipazione più ampia, ma si poneva, rispetto alla classe dirigente
tradizionale e soprattutto a quella politica, in posizione alternativa
e anche socialmente contestava molti aspetti del sistema di cui, a modo
suo, avrebbe voluto una democratizzazione a proprio vantaggio. Da qui,
per tutta questa prima fase, una sorda contrapposizione tra
‛intransigenti' (che volevano la ‛seconda ondata') e ‛fiancheggiatori'
(che volevano la ‛normalizzazione'), che creò molte difficoltà a
Mussolini, rese difficile la realizzazione dei suoi propositi di un
progressivo svuotamento dei vecchi centri di potere e dei partiti
tradizionali borghesi e del partito popolare (e, possibilmente, del
socialismo riformista) e di un parallelo travaso di essi nel partito
fascista, gli alienò la fiducia e le simpatie di buona parte della
classe dirigente tradizionale, ma finì per salvarlo politicamente, dato
che in occasione della crisi Matteotti il vecchio intransigentismo fu
la sola forza reale che gli rimase fedele e - rendendo così difficile e
pericoloso per le forze liberal-democratiche assumerne la successione -
indusse gran parte della classe dirigente tradizionale a preferire di
continuare sulla strada del compromesso realizzato due anni prima. Tra
il ‛salto nel buio', che in una misura o in un'altra avrebbe
inevitabilmente compromesso le loro posizioni morali, politiche ed
economiche, e Mussolini, i ‛fiancheggiatori' - preoccupati soprattutto
di salvaguardare queste loro posizioni e, quindi, le strutture portanti
del sistema tradizionale del quale erano espressione e che ormai non
erano più in grado di difendere da soli contro l'attacco che veniva
loro mosso dagli altri settori della società italiana - scelsero
Mussolini, cercando di ripetere su un altro piano l'operazione che era
loro fallita tra la ‛marcia su Roma' e il delitto Matteotti: allora
avevano cercato di rivitalizzarsi con un fascismo che invano avevano
sperato di costituzionalizzare e di assorbire nel sistema; ora
cercarono almeno di salvare le strutture essenziali di questo sistema,
sperando di fagocitare in esso Mussolini e una parte del fascismo, in
cambio della rinuncia alla gestione immediatamente politica del potere.
Da qui prese le mosse la seconda fase, che andò dal discorso di
Mussolini del 3 gennaio alla Conciliazione e al ‛plebiscito' del 1929,
durante la quale il regime fascista venne progressivamente prendendo
corpo a tutti i livelli. Momenti essenziali della costruzione del
regime furono lo scioglimento di tutti i partiti e organizzazioni non
fascisti, le ‛leggi eccezionali', la ‛costituzionalizzazione' del Gran
Consiglio del Fascismo, l'introduzione del sistema elettorale a
collegio unico nazionale e a lista unica, i provvedimenti in materia
sindacale e, infine, la conclusione dei Trattati del Laterano con la S.
Sede. Altrettanto essenziali furono però anche la liquidazione politica
del partito fascista, lo ‛sbloccamento' della Confederazione nazionale
dei sindacati fascisti e la politica di ‛quota novanta'. Solo se si
tiene conto di tutti questi elementi è infatti possibile capire
veramente il carattere che in questi anni assunse il regime, la parte
che in esso ebbero le sue varie componenti e la funzione di Mussolini.
Se si guarda ai caratteri più evidenti di questo nuovo assetto e alla
conclusione dell'esperienza fascista nel 1943, si potrebbe concludere
che se nella forma il fascismo fascistizzò i ‛fiancheggiatori', nella
sostanza questi riuscirono a derivoluzionarizzare il fascismo, a
renderlo in buona parte un loro strumento e a farlo rientrare in larga
misura nell'alveo della tradizione conservatrice. Nel ‛regime fascista'
che andò progressivamente prendendo forma la sostanza fu così il
‛regime', che in effetti rimase - anche nelle ipocrisie e nei
formalismi pseudocostituzionali - il vecchio regime tradizionale, sia
pure in camicia nera e con tutta una serie di trasformazioni in senso
autoritario (ma di un autoritarismo ancora sostanzialmente ‛classico',
nel quale gli innesti demagogico-sociali più tipicamente moderni non
sarebbero stati per il momento sufficienti a caratterizzarlo come un
vero totalitarismo); mentre il fascismo non fu in buona parte che la
forma, una forma oppressiva, avvilente, spesso pesante anche per i
‛fiancheggiatori', ma che solo tardi e sempre in misura relativamente
modesta sarebbe riuscito ad incidere sulla sostanza. Sicché in pratica
chi dal rinnovato e rafforzato compromesso (che avrebbe raggiunto la
sua massima estensione con la Conciliazione e nella fase successiva)
finì per trarre i maggiori vantaggi furono i ‛fiancheggiatori', la
vecchia classe dirigente e i ceti sociali che la esprimevano (entrati
in massa nel partito fascista), mentre per il fascismo l'operazione si
ridusse in gran parte alla gestione per la sua élite dell'equilibrio
di una serie di interessi conservatori (quelli contro i quali
all'inizio si era appuntata la rivolta piccolo-borghese del fascismo
rivoluzionario). Una gestione, certo, dorata sotto tutti i punti di
vista, ma estremamente precaria, sia per la spinta che veniva dal
basso, dai ceti sociali esclusi dalla gestione del potere e condannati
a pagare le spese della conservazione del vecchio sistema, sia per la
difficoltà - subito chiara a tutti - di dare al fascismo una ragione e
una sostanza di sopravvivenza al di là della vita fisica di Mussolini
(l'unico uomo politico espresso dal fascismo in grado di giustificare e
di gestire il compromesso e di assicurare, col suo prestigio personale,
l'accettazione di esso da parte delle masse), sia - infine - per la
instabilità dell'equilibrio stesso affidato alla gestione del fascismo.
In una società in transizione, quale - nonostante i ritardi e gli
ostacoli frapposti dalle vecchie strutture e dai vecchi interessi - era
pur sempre l'Italia, questo equilibrio non poteva non diventare via via
sempre più difficile e non rivelare in sé contraddizioni e scontri di
interessi sempre più difficili a sanarsi col sistema del compromesso o,
addirittura, del mero rinvio; specie se fosse venuto meno il
superficiale cemento che teneva insieme tutto il laborioso ma vieppiù
debole edificio del ‛regime fascista': il mito-abitudine del capo e la
fiducia (alla quale contribuiva largamente l'ancora viva tradizione
patriottica risorgimentale) nella capacità del ‛duce' a conseguire la
‛grandezza' dell'Italia. Sicché tutto l'equilibrio era destinato a
rompersi alla prima crisi di questa ‛grandezza' e a liberare tutte le
forze centrifughe più o meno latenti, sopite o compresse. E ciò sarebbe
avvenuto, appunto, il 25 luglio 1943, quando, di fronte alla sconfitta
militare, il ‛regime fascista' crollò d'un colpo e con esso il fascismo
e se qualcosa sopravvisse furono, da un lato, con la Repubblica Sociale
Italiana, il vecchio fascismo rivoluzionario e intransigente che si
illuse di poter tornare alla ribalta riallacciandosi al programma
sociale del 1919 e che cercò di vendicarsi dei suoi nemici
‛fiancheggiatori' e, da un altro lato, buona parte del vecchio regime
che, toltasi la camicia nera, cercò, e in parte riuscì, a scaricare le
proprie pesanti responsabilità sul fascismo, presentandosi nelle vesti
di una delle sue numerose vittime.
Una visione così superficiale e fattuale sarebbe però parziale. Alcuni
elementi della realtà del regime già nella seconda fase e soprattutto
il loro accentuarsi durante la terza (dal ‛plebiscito' del 1929 alla
conclusione della vicenda etiopica nell'estate 1936) dimostrano infatti
che, nonostante tutto, il compromesso e gli equilibri su di esso
stabilitisi andarono (specie con gli anni trenta) via via incrinandosi
e squilibrandosi a favore del fascismo. Sino ad autorizzare una duplice
ipotesi: 1) che, senza il fatto esterno e determinante della seconda
guerra mondiale, il regime fascista non sarebbe crollato; 2) che la sua
evoluzione sarebbe stata in senso populistico e che ciò avrebbe portato
ad un lento esautoramento della vecchia classe dirigente a vantaggio
della nuova élite fascista e ad un assetto sociale
caratterizzato dalla prevalenza - pur nel quadro di un'economia
privatistica - dell'iniziativa dello Stato su quella dei privati e,
quindi, al formarsi di una nuova classe dirigente sempre meno simile
alla precedente, anche se assai diversa da quella che il fascismo
avrebbe voluto creare.
La liquidazione politica del PNF e la sua trasformazione (con la
seconda metà degli anni venti) da un partito nel senso proprio del
termine in una grande organizzazione di inquadramento, controllo e
guida (direttamente o attraverso le altre organizzazioni ‛di categoria'
da esso dipendenti) delle masse fu dettata a Mussolini dalla necessità
di farla finita con il vecchio fascismo e con la sua cronica
irrequietezza e di dare soddisfazione ai ‛fiancheggiatori' e a tutti
coloro che volevano da lui soprattutto ordine e disciplina. Egli era
mosso però anche da un'altra logica, quella di avere a propria
disposizione uno strumento che gli permettesse di permeare dello Stato
(a cui il PNF fu rigidamente sottoposto e trasformato in un canale di
trasmissione a senso unico della sua politica e della sua concezione)
tutta la società, di organizzare il consenso e di formare le nuove
generazioni, sottraendole ad ogni altra influenza (in primo luogo
quella della Chiesa).
Contrariamente ai regimi conservatori-autoritari
(che hanno sempre teso a demobilitare le masse e ad escluderle dalla
partecipazione attiva alla vita politica, offrendo loro dei valori e un
modello sociale già sperimentati nel passato e ai quali viene
attribuita la capacità di impedire gli inconvenienti e gli errori di
qualche recente parentesi rivoluzionaria), per il fascismo (come per
tutti i sistemi politici di massa moderni) il consenso e la
partecipazione al regime non dovevano infatti essere passivi. Le masse
dovevano sentirsi integrate nel regime e mobilitate, sia perché in
‛rapporto diretto' col capo (tale perché capace di farsi interprete e
traduttore in atto delle loro aspirazioni e, quindi, dotato di una
carica di tipo chiaramente carismatico) sia perché psicologicamente
partecipi di un processo ‛rivoluzionario', da cui traevano il
soddisfacimento di alcuni bisogni concreti e di alcune aspirazioni
morali e soprattutto la ‛fede' in un futuro migliore della comunità
nazionale. Solo così esse potevano infatti sentirsi parte di una
‛comunità morale', con propri ideali, propri modelli di comportamento,
proprie gerarchie e il regime poteva diventare un ‛potere legittimo',
che non aveva più bisogno per affermare la propria autorità di far
ricorso alla coercizione e che, ad ogni modo, in caso di necessità era
legittimato a ricorrervi, poiché chi incorreva nei suoi rigori si era
posto fuori della comunità morale. In questa prospettiva l'aspetto di
massa della politica fascista (specie in riferimento alle nuove
generazioni per le quali il fascismo era, per così dire, sempre più la
‛normalità', dato che esse non conoscevano altri sistemi politici) e i
suoi strumenti (scuola, organizzazioni ‛di categoria', assistenziali e
per il ‛tempo libero', propaganda, partito) diventavano il fulcro del
sistema fascista, la premessa perché esso potesse in prospettiva
svincolarsi dalle pastoie del compromesso con la classe dirigente
tradizionale e, intanto, potesse rendere il suo potere politico sempre
più autonomo e via via prevalente rispetto a quello economico, sempre
saldamente in mano ai ‛fiancheggiatori'. E soprattutto - dato che a
livello del consenso di massa nella prima metà degli anni trenta il
fascismo conseguì indubbiamente dei grossi successi, grazie sia a come
fronteggiò la ‛grande crisi' sia alla conclusione vittoriosa della
guerra d'Etiopia - perché potesse affrontare quella che, sui tempi
medi, sarebbe stata la sua prova più difficile e decisiva: la
successione di Mussolini, superata la quale sul piano interno non vi
sarebbero stati per esso più ostacoli per molto tempo.
Alla luce di quanto ora detto bisogna, a nostro avviso, vedere tutte le
più importanti iniziative politiche fasciste del periodo 1929-1936 ed
ancor più quelle degli anni successivi. A ben vedere, tutte, infatti,
si ricollegano ai problemi dei quali abbiamo parlato, anche quando,
apparentemente, sembrano tra loro in contraddizione.
Per il periodo 1929-1936 (ma anche per il successivo, dato che la crisi
del 1938 non fu connessa solo all'adozione da parte del fascismo della
politica razziale, ma anche e ancor prima al riprendere quota della
Gioventù d'Azione Cattolica), è chiaro che la crisi del 1931 con la S.
Sede per l'Azione Cattolica fu determinata dalla necessità per il
fascismo di non farsi sfuggire il monopolio della formazione della
gioventù e, in via subordinata, di ridimensionare in qualche misura le
conseguenze politiche della Conciliazione, ora che questa, per un
verso, aveva per esso perso di importanza (dato che gran parte dei
cattolici erano stati ormai stabilmente integrati nel regime) e, per un
altro verso, sembrava a Mussolini meno importante, dopo che gli
avvenimenti spagnoli sfociati nella caduta della monarchia lo avevano
convinto che in realtà l'appoggio della Chiesa non costituiva di per sé
un fattore decisivo del consenso e che non si poteva fare in ogni modo
affidamento sicuro su di essa. Allo stesso modo, la politica di
‛ruralizzazione' avviata nel 1929 (inizialmente con ambizioni e
propositi che, al limite, si potrebbero definire non molto lontani
dall'avvio di un nuovo modello di sviluppo economico) appare
chiaramente ispirata da due preoccupazioni: quella di stimolare il
consenso del mondo contadino e della piccola borghesia e quella di
frenare il potere economico della grande industria.
Né, pur tenendo in
tutto il debito conto le necessità oggettive del difficilissimo momento
economico e le numerose contropartite contemporaneamente date agli
interessi del padronato, ci pare sia possibile non vedere nella sempre
più esplicita politica di intervento statale nell'economia, avviata con
la prima metà degli anni trenta, un'altra manifestazione di questa
seconda preoccupazione. Per non dire, infine, della guerra d'Etiopia,
il cui nesso con la politica del consenso è così evidente che non
sarebbe il caso di insistervi se ciò non fosse indispensabile per
chiarire la problematica di fondo della realtà fascista del terzo e del
quarto periodo.
La chiave di questa problematica è costituita dal carattere e dai
limiti del consenso di cui godette il fascismo. Anche se non mancarono
‛zone d'ombra' e incrinature (che si andarono estendendo con la seconda
metà degli anni trenta, in connessione con la politica sempre più
pronazista attuata dal fascismo e con la progressiva totalitarizzazione
del regime), il consenso fu sin quasi alla vigilia della catastrofe
militare del 1942 assai vasto a tutti i livelli, anche a quello operaio
e, ancor più, contadino, specie tra i giovani. Né la cosa può
meravigliare se si considera l'atmosfera nella quale viveva il paese e
il lento (ma non per questo inoperante sul piano del consenso) sviluppo
sociale della società italiana in quegli anni; sviluppo sociale che si
traduceva a sua volta nella formazione di una nuova classe politica e
burocratica composta in buona parte da elementi di origine proletaria e
piccolo borghese, la cui promozione sociale era avvenuta grazie al loro
inserimento nelle organizzazioni del regime, in una maggiore
integrazione nazionale e socializzazione delle masse e in una diffusa
convinzione che i progressi conseguiti fossero da attribuirsi
direttamente al fascismo. Detto questo, vanno però messi in luce anche
altri tre aspetti caratteristici di questo consenso. Primo, che esso
toccò il suo apice alla metà degli anni trenta, mentre nel periodo
successivo in alcuni ambienti subì una flessione, in altri sfumò spesso
in una sorta di rassegnata indifferenza e un po' in tutti non riuscì
più a crescere ulteriormente. Secondo, che sempre più nettamente la sua
molla, il suo elemento caratterizzante e catalizzatore divennero la
figura e l'opera del ‛duce' (al cui prestigio molto giovavano tra le
masse la sua origine popolare e il suo modo di fare sicuro, energico e
soprattutto così diverso da quello dei ‛signori'), mentre persero di
prestigio e di credibilità sia il regime sia il fascismo, sempre più
spesso visti come qualche cosa di diverso, in negativo, da Mussolini.
Terzo, che, dati la natura del regime, i rapporti di forza e gli
equilibri tra le sue componenti e la situazione internazionale (resa
sempre più dinamica e instabile dall'affermazione del
nazionalsocialismo in Germania), era praticamente impossibile per il
fascismo operare un rilancio e un ulteriore allargamento di esso sul
terreno della politica interna. Da qui per Mussolini e per il fascismo
la duplice necessità (che caratterizzò il terzo periodo e ancor più il
quarto) di rendere progressivamente più totalitario il regime, in
maniera da forzare al massimo il meccanismo del consenso (anche a costo
di dover ricorrere alla coercizione verso quei settori della società
che avrebbero risposto negativamente al giro di vite totalitario) e da
bruciare i tempi del processo di fascistizzazione delle masse, e di
ricorrere a questo scopo alla molla della politica estera, facendo di
essa il fulcro di tutto e giocando su di essa il consenso morale e
culturale dei ceti piccolo e medio borghesi e quello economico e
sociale delle masse popolari. Solo così, infatti, il fascismo avrebbe
potuto sopravvivere e vincere la sua partita con la classe dirigente
tradizionale: se fosse potuto giungere al traguardo per lui decisivo
del ‛dopo Mussolini' con un consenso così vasto e con un ‛proprio'
carisma tali da compensare la scomparsa del capo carismatico, le
possibilità della classe dirigente tradizionale di riuscire a
riassumere nelle proprie mani il potere politico sarebbero state minime.
Ridurre la guerra d'Etiopia alla sola logica della politica del
consenso è certamente eccessivo e unilaterale. Essa rispose infatti
altrettanto certamente anche ad altre motivazioni e in specie alla
particolare concezione che Mussolini si era fatta dei rapporti
internazionali, del ruolo che in essi doveva avere l'Italia e dei mezzi
con i quali esercitarlo. Ciò non toglie per altro che il nesso tra la
politica del consenso e la guerra d'Etiopia sia chiarissimo. E lo
stesso si può dire per la successiva politica estera fascista, anche se
tra i due momenti - quello etiopico e quello successivo - vi fu una
netta differenza, sia sotto il proffio della resa sia sotto quello
della sostanza. La resa, sul piano del consenso, della guerra d'Etiopia
fu per il fascismo eccezionalmente positiva: essa riuscì infatti ad
attivizzare tutto il paese, facendo leva su una serie di motivazioni
assai vasta e tale da coinvolgere tutte le sue componenti sociali.
Minore e via via decrescente fu invece quella delle successive
iniziative internazionali fasciste. Sia per i rischi sempre maggiori
che vi venivano scorti, sia per la maggior difficoltà di dare loro una
prospettiva economico-sociale, sia perché - nonostante la crisi dei
rapporti con l'Inghilterra e. la Francia provocata dalla guerra
d'Etiopia - le diffidenze e le ostilità verso la Germania e il nazismo
erano troppo vive perché la politica estera fascista divenisse
veramente popolare. Quanto poi alla sostanza, anch'essa fu molto
diversa.
Nel 1935-1936 il dinamismo della politica italiana era stato -
grazie alla congiuntura internazionale particolarmente favorevole alla
strategia mussoliniana del ‛peso determinante' - un fatto reale. Negli
anni successivi, venuta meno questa congiuntura, esso fu tale quasi
solo in apparenza. E, ciò che più conta, i margini di manovra della
politica estera fascista si ridussero sempre più. Sicché Mussolini si
venne a trovare sempre più legato alla Germania, anche se ciò non
corrispondeva né ai suoi veri desideri né ai suoi interessi, sia di
politica estera sia di politica interna, dato che - come si è detto - a
questo secondo livello i sempre più stretti legami con Hitler e il
pericolo di un conflitto intereuropeo indebolivano piuttosto che
accrescere il consenso popolare verso il regime; mentre al primo la
presenza sempre più decisiva della Germania nazionalsocialista sulla
scena europea dava inevitabilmente alla politica internazionale una
carica ideologica che sino allora non aveva avuto (o che non aveva
avuto un peso decisivo) e a cui la politica estera fascista non poteva
sottrarsi, dato che (tralasciamo altri motivi secondari) il fascismo
doveva - come si è pure detto - ricorrere per sopravvivere alla
totalitarizzazione del proprio potere e ciò comportava necessariamente
una sempre maggiore ideologizzazione del fascismo stesso che, a sua
volta, lo portava ad identificarsi vieppiù con il nazismo e a perdere
quindi la propria posizione speciale tra i due blocchi contrapposti.
Quanto abbiamo detto spiega le incertezze di Mussolini nel 1939-1940,
quando Hitler diede inizio alla seconda guerra mondiale, la ‛non
belligeranza' e, alla fine, la decisione dell'intervento (e, se si
vuole, anche la formula della ‛guerra parallela' che egli cercò di
realizzare in un primo tempo), solo quando sembrò che la Germania
avesse ormai praticamente vinto e sorse in lui il timore di venire
escluso dalla risistemazione politico-territoriale postbellica, di
perdere quindi qualsiasi ruolo e credibilità internazionali e di
rimanere esposto al risentimento di Hitler per il mancato rispetto
dell'alleanza senza nessuna possibilità di poterne fronteggiare la
potenza politica e militare.
E ancora più in generale, quanto abbiamo detto a proposito del terzo e
soprattutto del quarto periodo del fascismo, ci pare dimostri che (come
per tutti i moderni sistemi totalitari di destra e di sinistra)
l'elemento determinante delle scelte di fondo del fascismo non
scaturiva tanto dal rapporto fra economia e politica e tanto meno dalla
preminenza della prima sulla seconda (come nei sistemi democratici) ma
- come giustamente ha messo in rilievo F. Neumann - dalla pura politica
o, almeno, dalla preminenza delle ragioni di questa su quelle
dell'economia. E, egualmente, che la molla della politica estera del
fascismo (apparentemente l'elemento caratterizzante della politica
fascista via via che gli anni passavano) non era determinata tanto
dalla logica dell'espansionismo quanto da quella della sua
sopravvivenza come realtà politica.
3. La Repubblica Sociale Italiana
Sotto il profilo storico-politico è difficile porre la R.S.I. in un
netto rapporto tanto di continuità quanto di frattura rispetto al
precedente fascismo. E ciò specie se si tengono presenti, oltre alle
sue vicende particolari, due circostanze che indubbiamente ne
condizionarono in modo decisivo l'esistenza e il suo stesso
significato: quella di essere nata e vissuta sino alla fine in una
sostanziale mancanza di autonomia rispetto ai Tedeschi (che la
considerarono un loro strumento volto ad alleggerire le loro forze
armate da alcuni oneri in Italia e, come tale, in effetti qualche cosa
di contingente), da cui la pressoché totale irrilevanza pratica e la
mancanza di effettivo valore rispetto al suo futuro - anche nel caso di
una vittoria tedesca della guerra - di tutte le sue iniziative non
immediatamente militari (e cioè antipartigiane); e quella che le
derivava dalla particolarissima posizione che in essa aveva Mussolini.
Se si pensa al ruolo decisivo che il ‛duce' aveva avuto nel fascismo
sino al 25 luglio 1943 e a quello assai ridotto che ebbe (e in buona
parte volontariamente) nella R.S.I., è impossibile non convenire
infatti che se al fascismo repubblicano, per un verso, mancò quasi
completamente il capo, politico e carismatico, che era stato così
determinante per il fascismo del ventennio, per un altro verso, la
presenza, in buona parte nominale, alla sua testa di Mussolini finì per
costituire per esso un elemento di ambiguità e in definitiva di
ulteriore mancanza di chiarezza e di prospettiva politiche. Infatti
tale presenza rendeva ancora più difficile un vero bilancio del passato
e un chiaro confronto tra le varie posizioni in presenza e, al tempo
stesso, condizionava tuttora l'evoluzione del fascismo con una serie di
iniziative che assai spesso trovavano la loro origine profonda più nel
dramma psicologico personale di Mussolini che in una coerente e fredda
scelta politica.
Premesso ciò, è forse più utile cercare di individuare cosa del
fascismo repubblicano si possa riportare al denominatore della
continuità e cosa invece costituisca un elemento sostanzialmente nuovo
rispetto al fascismo del ventennio. Un elemento di continuità fu
certamente costituito da un certo tipo di nazionalismo, cbe in molti
fascisti repubblicani - soprattutto più giovani - ebbe però un
carattere particolare, poiché, in genere, assunse caratteri elementari
e coloriture romantico-cavalleresche (il richiamo all'onore nazionale,
alla fedeltà ai patti, al cameratismo con i compagni d'arme tedeschi,
alla coerenza per la coerenza, ecc.) e si nutriva di una serie di
motivazioni tipiche del nazionalismo italiano e soprattutto di quello
fascista, quale era venuto prendendo corpo con la guerra d'Etiopia e
successivamente ad essa: da qui la sua carica essenzialmente
antinglese, alla quale quasi sempre si univa un'altrettanto forte
carica antiamericana e assai di rado, invece, antirussa.
Per capire queste ultime due varianti bisogna rifarsi ad altri elementi
di continuità e in particolare a tre, due molto vivi e uno secondario
ma non sottovalutabile. Il primo è quello dell'antidemocrazia, tipico
del fascismo in tutte le sue manifestazioni e in tutti i suoi periodi,
sicché è inutile dilungarci su di esso. Il secondo (quello secondario)
è quello che potremmo chiamare il mito dei ‛popoli giovani', per il
quale ‛vecchi' erano l'Inghilterra e per estensione anche gli Stati
Uniti, mentre ‛giovane' era la Russia. Il terzo - e più importante -
infine è quello costituito dal vecchio rivoluzionarismo tipicamente
piccolo borghese del primo fascismo. All'origine tanto antiproletario
quanto anticapitalistico, questo rivoluzionarismo si era visto negli
anni del regime, da un lato esaltato sul piano ideologico attraverso la
presentazione del corporativismo come terza via tra capitalismo e
comunismo e interpretato sul piano pratico dal fascismo-governo
attraverso la sua politica di intervento nell'economia, ma, da un altro
lato, sacrificato politicamente da Mussolini ai ‛fiancheggiatori' e
assai spesso addirittura estromesso o emarginato. Il 25 luglio era
stato pertanto per esso un dramma ma anche una vittoria morale, nel
senso che lo aveva confermato nella sua convinzione che i veri nemici
del fascismo, quelli che avevano prima ingannato e strumentalizzato e
poi tradito Mussolini, erano i fiancheggiatori: la monarchia, i capi
militari, la vecchia classe dirigente, i capitalisti; mentre le masse
popolari avevano mostrato nel complesso una maggiore tendenza ad
integrarsi nella nazione e nel fascismo. Da qui il loro ritorno alla
ribalta politica con la R.S.I., il loro riallacciarsi al programma
fascista del 1919, la loro volontà di vendetta sui ‛fiancheggiatori' di
tutte le specie. Da qui, ancora, per tornare al discorso sul
nazionalismo, il loro guardare, in genere, all'URSS in maniera diversa
che alle due grandi potenze anglosassoni; sia perché socialmente più
vicina al ‛fascismo rivoluzionario' delle ‛demoplutocrazie', sia
perché, al fondo, considerata una sorta di loro futura vendicatrice
postuma su di esse, nata per di più dallo stesso travaglio
‛rinnovatore' da cui era nato il fascismo e in contrapposizione alla
soluzione parlamentaristica liberal-democratica. Un travaglio al quale,
oltre tutto, lo stesso Mussolini mostrava di volersi ricollegare e nel
nome del quale la R.S.I. raccoglieva anche adesioni di ex sovversivi e
di ex antifascisti che, in quel momento, assumevano un carattere tutto
particolare.
Questi, a nostro avviso, i quattro elementi più significativi di
continuità, ma, al tempo stesso, di una continuità che, specie nei più
giovani, si presentava con alcuni innesti di novità non insignificanti,
almeno sotto il profilo ideologico-politico.
Lo stesso discorso ci pare si debba fare per quegli elementi che,
rispetto alla tradizione italiana del ventennio, rappresentano invece
una novità, frutto della frattura determinata dalla sconfitta militare
del regime e dalla consapevolezza che, anche nella eventualità sempre
meno credibile di una vittoria tedesca, il fascismo così come era stato
concepito e idealizzato nel ventennio era comunque sconfitto. A parte
ogni altra considerazione, perché aveva irrimediabilmente perduto il
rapporto col paese e - se mai l'aveva avuto - ogni forma di carisma.
Anche in questi elementi vi è una radice preesistente; gli innesti
nuovi sono però tali da dare loro un significato di frattura che, a
nostro avviso, è quello che, in prosieguo di tempo, distinguerà il
neofascismo post seconda guerra mondiale dal fascismo storico. Tra essi
è, per esempio, l'acquisto di una dimensione europea del fascismo, non
più intesa nei termini del ‛fascismo universale' degli anni trenta e
neppure nei termini egemonici che essa aveva assunto nel nazismo, ma in
quelli di una effettiva unità dei ‛credenti' e dei ‛combattenti' per la
sopravvivenza dell'Europa e della sua civiltà contro le forze ‛non
europee' e ‛antieuropee'. Soffermarsi su questi elementi è però, in
questa sede, inutile. Ciò che importa è chiarire da cosa essi presero
le mosse, quale cioè fu il fatto nuovo che li determinò.
G. L. Mosse e T. Kunnas, i due più acuti studiosi dell'intima sostanza
dell'ideologia fascista e - soprattutto il primo - delle sue radici
sociali e culturali, hanno bene messo in luce i rapporti esistenti tra
questa ideologia e la crisi, morale, culturale e esistenziale
dell'Europa tra le due guerre mondiali. In particolare essi hanno posto
l'accento sull'anelito a ricostruire '‛uomo totale' e sulle componenti
di fondo della mentalità fascista nella sua aspirazione a superare
l'‛anonimato del presente', a contrastare la crisi della civiltà
europea e a recuperare nell'autocoscienza nazionale il senso della
comunità. Nei vari fascismi storici e in alcuni intellettuali fascisti
isolati questo anelito e queste componenti si sono presentate in forme
e misure diverse, prefigurando futuri diversi. In essi il futuro era
però un dato di fatto che - pure in una visione di ottimismo
vitalistico o tragico, a seconda dei casi - era prospettato come una
realtà contrapposta a quella rappresentata dalla crisi della civiltà
europea. Gli sbocchi potevano essere diversi: il millennio ciclico del
nazionalsocialismo, l'intima capacità dei popoli giovani di trovare in
se stessi e nella propria peculiare tradizione la forza morale di un
rinascimento nel fascismo. Un futuro però c'era e con esso, quindi,
qualche cosa per cui valesse la pena di lottare. Con la sconfitta
militare e politica del fascismo questo stato d'animo, questa mentalità
mutarono profondamente, sino a trasformarsi nel loro contrario, nella
convinzione che la civiltà europea fosse ormai inevitabilmente
condannata alla degenerazione. Da qui un pessimismo tragico senza il
quale non si capisce veramente l'intima realtà della R.S.I. e le sue
suggestioni (ed elaborazioni culturali più significative) successive
sul neofascismo. Un pessimismo tragico i cui sbocchi furono o una sorta
di imperante ‛senso della morte', individuale e collettivo, o, come si
è detto, una sorta di odio-amore verso lo Stato sovietico, visto, per
un verso, come vendicatore del fascismo e, per un altro verso, come
ultimo, anche se inidoneo, freno momentaneo alla degenerazione della
civiltà europea.
4. Il fenomeno fascista
Sino agli inizi degli anni trenta pochi furono coloro che videro nel
fascismo un fenomeno potenzialmente non solo italiano. Se si prescinde
dai marxisti e specialmente dalla III Internazionale, che videro nel
fascismo l'ultima forma reazionaria di potere del capitalismo
senescente, i più lo spiegarono sulla base della specifica realtà
italiana: la debolezza della tradizione e delle istituzioni
liberal-democratiche, le deficienze della classe politica, i caratteri
particolarmente aspri del dopoguerra in Italia sotto il profilo
politico-sociale; né mancarono coloro che si appellarono al
‛temperamento' degli Italiani, intrisi di forti ma incostanti passioni
e bisognosi, data la loro scarsa coscienza politico-sociale, di un
governo forte. Al massimo qualcuno accennò alla possibilità che
l'esempio italiano potesse esercitare una certa suggestione in alcuni
paesi dell'Europa orientale, privi di una salda tradizione liberale e
di un efficiente sistema parlamentare e poco sviluppati economicamente
e socialmente. Di un ‛fenomeno' fascista si cominciò a parlare sempre
più diffusamente nella prima metà degli anni trenta. Dopo che il
nazionalsocialismo si fu affermato in Germania, movimenti e partiti
fascisti o parafascisti sorsero in moltissimi paesi e anche a livello
culturale vi fu chi cominciò a considerare il fascismo come un modello
politico-sociale che tendeva a superare le contraddizioni e le
disfunzioni dei regimi capitalistici (rese più evidenti dalla ‛grande
crisi') senza cadere nel comunismo.
La guerra civile spagnola, il ‛patto d'acciaio' e la seconda guerra
mondiale completarono l'opera. Dissoltesi le illusioni di coloro che,
come si è detto, avevano guardato al fascismo come a una sorta di
‛terza via', la tendenza sempre più accentuata fu quella a
generalizzare, a mettere l'accento sugli elementi comuni ai vari
fascismi - spesso con toni di tipo demonologico -, a insistere
soprattutto su quelli nazionalistico, coercitivo-terroristico
(risolvendo in esso il problema del consenso) e di reazione di classe,
e a sottovalutare e a ignorare le differenze. Per un quindicennio il
fascismo fu così essenzialmente un problema etico-politico, attorno al
quale, per di più, fu combattuta la guerra più distruttiva dell'età
moderna. Ciò spiega bene perché, conclusosi il secondo conflitto
mondiale e scomparsi con esso tutti i regimi fascisti o parafascisti
(salvo quello spagnolo, che, per altro, nel nuovo clima internazionale
attenuò rapidamente molti dei suoi caratteri più tipicamente fascisti
per trasformarsi in un regime sempre più di tipo
conservatore-autoritario), il discorso sul fascismo in un primo tempo
sia rimasto largamente condizionato da tutta una serie di
valutazioni-interpretazioni politico-ideologiche contrastanti, che,
praticamente, erano le stesse nel nome delle quali era stato
combattuto, e in un secondo tempo abbia registrato un processo di
differenziazione estremamente netto. Da un lato il fascismo è diventato
una categoria onnicomprensiva, sempre più priva di effettivo
riferimento ai fascismi storici, che a livello politico di massa è
servita a definire e a squalificare a priori qualsiasi
avversario politico; da un altro lato, a livello scientifico, il
fenomeno fascista è stato studiato in una serie di prospettive nuove,
sempre meno condizionate sia dalle interpretazioni ‛classiche' sia
dalle altre fiorite nell'immediato dopoguerra, che hanno in genere
portato ad una valorizzazione delle peculiarità nazionali dei singoli
fascismi e ad una revisione in senso riduttivo di molti degli elementi
che in un primo tempo erano sembrati comuni a tutti i fascismi.
Nelle interpretazioni ‛classiche' è facile riscontrare l'influenza
determinante di come negli anni tra le due guerre mondiali il fascismo
fu visto a livello tanto culturale quanto politico da liberali,
radicali e comunisti e di come queste forze si posero di fronte al
problema del postfascismo.
Per la cultura liberale (soprattutto europea, si pensi a Croce,
Meinecke, Ritter, G. Mann, Kohn) il fascismo sarebbe stato una sorta di
‛malattia morale', uno smarrì- mento delle coscienze che colpì tutta
l'Europa e tutte le classi sociali (anche se il suo impatto fu maggiore
in alcuni paesi e a livello dei ceti medi) e che aveva radici lontane:
nella mobilitazione delle masse provocata dalla Rivoluzione francese e
dalla rivoluzione industriale, nelle illusioni e nelle aspirazioni alla
felicità, al guadagno, alla potenza da esse suscitate, nella
dissoluzione dei tradizionali vincoli sociali, nel disprezzo della
ragione e nell'esaltazione della vita e della forza praticata da tutto
un settore della filosofia e della cultura contemporanee.
Ricollegandosi a queste radici più o meno remote, la crisi e il
travaglio causati dalla guerra 1914-1918 e dal dopoguerra avrebbero
provocato il fascismo. Per la cultura radicale (Vermeil, Viereck, Mack
Smith, ecc.) il fascismo, invece, sarebbe stato la logica e inevitabile
conseguenza di una serie di tare caratteristiche dello sviluppo storico
di alcuni paesi. Tare connesse soprattutto al ritardo, alla fragilità e
alla esasperazione con i quali in questi paesi si sarebbero realizzati
lo sviluppo economico, l'unificazione e l'indipendenza nazionali: la
borghesia di questi paesi non sarebbe riuscita a svilupparsi altro che
in forme patologiche e avrebbe perciò dovuto ricorrere sempre ad
alleanze conservatrici e a forme di potere politico illiberali e
antidemocratiche per affermare il proprio predominio, con la
conseguenza di escludere qualsiasi effettiva partecipazione morale e
materiale delle masse popolari al processo di unificazione nazionale e
al governo del paese; sicché il fascismo non sarebbe stato che il
logico e necessario portato di questa politica reazionaria e
antipopolare e, quindi, tra esso e la tradizione autoritaria e
imperialista dei paesi nei quali si è affermato esisterebbe una ben
precisa continuità. Per larga parte dei marxisti e per i comunisti,
infine, il fascismo sarebbe stato un prodotto della società
capitalistica, la concreta manifestazione a livello di massa della
reazione antiproletaria alla quale il capitalismo era costretto a
ricorrere nel vano tentativo di salvarsi. Va per altro anche detto che,
nell'ambito di questa interpretazione, il discorso è stato articolato
(a seconda dei momenti e dei gruppi) in forme diverse, spesso assai
meno schematiche (si pensi a Trotzki, a Löwenthal, a Togliatti), tanto
è vero che esso è stato più o meno largamente recepito anche dalla
storiografia non marxista.
A queste interpretazioni principali si deve aggiungere, per
l'importanza che ha avuto negli Stati Uniti e soprattutto nella
Germania occidentale, quella che ha voluto vedere nel fascismo (così
come nel comunismo, specialmente nella fase stalinista) una
manifestazione di un fenomeno assai più vasto e strettamente connesso
all'atomizzazione e alla individualizzazione della società
contemporanea determinate dalla disgregazione sociale causata dalla
prima guerra mondiale e dall'affermarsi di una nuova società
caratterizzata dal ruolo decisivo che in essa hanno per un verso le
masse e per un altro verso la moderna tecnologia: il ‛totalitarismo',
inteso come una nuova forma di potere, volta a ricostruire, appunto, il
tessuto sociale, creando, con l'aiuto di una ideologia elementare e del
terrore, un nuovo senso della comunità e nuove forme di organizzazione
della vita economica e sociale più adatte ad una società di massa e ai
suoi bisogni morali e materiali.
A queste interpretazioni (e a quelle minori, ad esse per un verso o per
un altro tutte ricollegabili) nell'ultimo trentennio se ne sono venute
affiancando e contrapponendo altre, elaborate soprattutto nell'ambito
delle scienze sociali, che - assolutamente minoritarie all'inizio -
hanno acquistato via via sempre più credito (specie nella cultura
anglosassone) e tendono oggi a porre il discorso sul fascismo su un
terreno sempre più diverso da quello tradizionale o, almeno, ad
integrarlo con tutto una serie di suggestioni e di ipotesi di ricerca
nuove. All'origine di esse sono spesso opere e ipotesi interpretative
elaborate negli anni trenta-quaranta (si pensi agli studi di Reich,
Fromm, Mannheim, ovvero a quelli sulla ‛personalità autoritaria'), sia
in sede scientifica sia ad opera dei servizi psicologici e di
propaganda delle forze armate statunitensi negli anni della guerra. In
genere, queste interpretazioni si rifanno però soprattutto alle più
recenti teorie psicosociali, sociologiche e socioeconomiche. Da qui la
duplicità del loro apporto al discorso sul fascismo: positivo, laddove
esse contribuiscono a mettere in luce l'inscindibile rapporto che lega
il fascismo al formarsi di società di massa e, quindi, il tipo
particolare di motivazioni che determinarono l'atteggiamento e
l'evoluzione del comportamento delle varie componenti del corpo sociale
rispetto ai movimenti e ai regimi di tipo fascista; negativo, laddove,
invece, esse pretendono di offrire delle interpretazioni
onnicomprensive del fascismo e di costruire dei ‛emodelli' di esso più
o meno disancorati dalla concreta realtà del momento storico e dei
singoli paesi. Tipico in questo senso è il caso di quei sociologi e
politologi che (riprendendo tutti più o meno esplicitamente la teoria
di Rostow sugli stadi dello sviluppo economico) hanno calato il
discorso particolare sul fascismo in quello più ampio sulla
‛modernizzazione', col risultato di sganciare quasi completamente i
fascismi storici dal loro specifico contesto geografico; culturale e
storico e di costruire un modello fascista in cui rientrerebbero
esperienze e regimi diversissimi, tra cui molti di quelli dei paesi in
via di sviluppo dell'America Latina e del Terzo Mondo.
Per importante che sia il contributo che le scienze sociali hanno dato
al discorso sul fenomeno fascista con tutta una serie di suggestioni e
di spunti sia a livello d'interpretazione generale sia di definizione
di singoli aspetti di esso, l'apporto maggi9re al discorso sul fascismo
è però venuto in questi anni essenzialmente dal sistematico lavoro di
ricerca e di approfondimento storico della realtà dei singoli fascismi
fatto soprattutto in Germania Occidentale; negli Stati Uniti e in
Italia. Grazie a questi studi (in genere tanto più importanti quanto
più ampia è diventata la possibilità di accedere alle fonti e minori si
sono fatte le preoccupazioni di origine immediatamente politica degli
storici e, dunque, si è accresciuta la loro capacità di estendere
l'orizzonte delle ricerche a campi sino a pochi anni or sono ritenuti
estranei alla tematica del fascismo) il discorso sul fenomeno fascista
tende oggi a definirsi in termini piuttosto univoci e parzialmente
diversi da quelli nei quali era stato impostato nel ventennio
precedente il nostro. Da un lato, essi hanno confermato la validità di
un discorso storico che continui a considerare il fascismo come un
fenomeno complessivamente unitario, sia perché definibile entro confini
cronologicamente (il periodo tra le due guerre mondiali) e
geograficamente (l'Europa) precisi, sia perché strettamente connesso a
determinate condizioni e trasformazioni socioeconomiche, ad una
particolare temperie culturale delle élites e soprattutto
delle masse e ad una certa concezione (e all'oggettiva possibilità di
attuarla) dei rapporti di forza all'interno delle nazioni e tra gli
Stati. Da un altro lato, essi hanno però sempre più chiaramente messo
in luce due fatti nuovi e che contrastano in genere con quanto
affermato in passato. Primo: che - al di là di quanto or ora detto -
nei singoli fascismi le peculiarità nazionali e in primo luogo il grado
di nazionalizzazione delle masse (fondamentali sono a questo proposito
gli studi di G. L. Mosse, non solo per quello che dicono sulla Germania
e sul nazionalsocialismo, ma per le possibilità che offrono di
comprendere le differenze di fondo che sotto questo profilo vi erano
tra Germania e Italia e, quindi, tra nazionalsocialismo e fascismo)
furono a tutti i livelli decisivi, tali da rendere improponibile, sia
per i partiti e i movimenti sia per i regimi, un discorso di tipo
assolutamente unitario. Secondo: che le radici storiche del fascismo
non possono essere ricercate solo nella tradizione politica e culturale
della destra, ma, al contrario, vanno ritrovate assai spesso in quella
di un certo radicalismo di sinistra nato con la Rivoluzione francese;
il che marca ulteriormente (e a monte) le profonde differenze che fanno
dei regimi fascisti di massa una realtà assai diversa dai regimi
autoritari e conservatori tradizionali e del fascismo un ‛nuovo stile
politico' che - come ha dimostrato compiutamente G. L. Mosse per il
nazionalsocialismo, ma il discorso vale anche per il fascismo italiano,
sempre che si tengano presenti le differenze tra i due regimi - se si
serviva di una tradizione precedente, si poneva però obiettivi
completamente nuovi: trasformare le folle in masse organizzandole in un
movimento politico con caratteri di religione laica.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1994)
di Roberto Vivarelli e Edda Saccomani
Storia
di Roberto Vivarelli
Sommario: 1. Definizione. 2. Storia: a) origini
(1919-1922); b) primo periodo di governo (1922-1925); c) trasformazione
in regime (1925-1929); d) esperienza corporativa (1929-1935);
e) svolta della guerra di Etiopia (1935-1939); f) la guerra
(1939-1943); g) epilogo (1943-1945). 3. Il fascismo fuori
d'Italia: a) Germania; b) Portogallo e Spagna; c) Francia;
d) Inghilterra; e) Belgio; f) Romania; g) Ungheria.
4. Le interpretazioni. 5. Questioni aperte: a) il ruolo della Grande
guerra; b) la tradizione conservatrice e il nazionalismo;
c) il Duce; d) le origini culturali e la dottrina del
fascismo; e) l'antifascismo. □ Bibliografia.
1. Definizione
A differenza di altri ismi contemporanei (ad esempio, liberalismo,
socialismo, comunismo) il termine fascismo deriva da un sostantivo,
'fascio', il quale di per sé non possiede nessuna connotazione
qualitativa. 'Fascio' significa infatti un insieme di elementi quali
che siano e solo assai relativamente affini tra loro. Nel linguaggio
politico il termine ricorre con frequenza già nel corso del XIX secolo
per indicare una qualsivoglia coalizione di forze. Ne deriva che nella
vita pubblica il termine 'fascio' assume un significato puramente
strumentale e l'azione che esso è chiamato a svolgere acquista un
contenuto solo rispetto al fine particolare che il 'fascio', via via,
si propone di perseguire. Nella storia d'Italia precedente la prima
guerra mondiale l'esempio più noto è quello dei Fasci siciliani
(1892-1894). Rispetto a questi caratteri generali la concreta
esperienza storica che chiamiamo fascismo, e che occupa il quadro
europeo tra le due guerre mondiali, non fa eccezione.
I Fasci di combattimento, cioè il movimento politico fondato a Milano
da Benito Mussolini il 23 marzo 1919 e che rimarrà in vita sino
all'aprile 1945, cioè sino all'uccisione di Mussolini stesso, è un
movimento di reazione nel senso letterale del termine. Esso nasce,
sulla spinta di un patriottismo esasperato dai pregiudizi di un diffuso
nazionalismo, non per affermare ma per negare, cioè per opporsi con la
forza a quella che si riteneva una svalutazione della vittoria e una
mortificazione delle vaghe ma intense speranze che la guerra aveva
sollevato. Anche in un secondo momento, quando l'azione fascista sarà
soprattutto azione antisindacale, non perciò verranno meno le
motivazioni iniziali, in quanto i fascisti continueranno a identificare
nei loro avversari i nemici della nazione. In questo senso l'elemento
più caratteristico del fascismo è uno stato d'animo, comune a tutti
coloro, per altri aspetti ben diversi tra loro, che aderi scono ai
Fasci; stato d'animo che ha la sua matrice nella guerra, senza la cui
esperienza non sarebbe spiegabile. Se, tuttavia, oltre queste
relativamente chiare finalità negative, si ricerchi nell'azione
fascista quali concreti obiettivi politici essa si proponesse di
raggiungere, subito emergeranno gravi ostacoli dovuti alle
contraddizioni e alle ambiguità che caratterizzano i programmi
fascisti.
Ed è proprio il carattere ambiguo del movimento fascista, il
suo prestarsi a fungere da centro di aggregazione di forze disparate e
a divenire il contenitore di programmi diversi, i quali mutano nel
tempo a seconda dei cangianti obiettivi politici che il suo fondatore
via via si pone, a fare di questo movimento soprattutto lo strumento di
azione di Mussolini. Attraverso il quale prima egli assume nella vita
pubblica italiana un ruolo di primo piano, poi conquista il potere, e
successivamente attua un vero e proprio regime politico, di cui non
esisteva in precedenza nessun progetto definito ma che del fascismo
dichiarerà di essere l'attuazione.
Giustamente, perciò, è stato suggerito (v. De Felice, 1975) che
nell'insieme del fenomeno fascista vadano distinte due componenti: il
movimento e il regime. Ma il rapporto tra queste due componenti pone
dei problemi. Di per sé il regime fascista ha una rilevanza storica ben
maggiore che non il semplice movimento, sicché, in prospettiva, nel
fascismo si riconosce soprattutto quel sistema di potere, che Mussolini
costruisce col suo governo a partire dall'ottobre 1922; e tuttavia, nel
suo corso storico, il regime è stato strettamente dipendente dal
movimento fascista, che ne ha consentito la nascita e condizionato
l'immagine. D'altra parte, anche se il movimento fascista in quanto
tale ha avuto una sua particolare storia e sembra quindi mantenere una
sua autonomia, indipendentemente dal regime, si tratta di una autonomia
più apparente che reale in quanto, al pari del regime, anche il
movimento fascista è stato in gran parte frutto della volontà del suo
fondatore, che nel fascismo occupa dunque una posizione chiave. In
realtà nell'insieme del fenomeno fascista il Duce, il movimento, il
regime, rappresentano i tre elementi costitutivi, che si sovrappongono
e si intrecciano secondo combinazioni le quali variano nel tempo. E,
come in un caleidoscopio, proprio queste diverse combinazioni rendono
l'immagine del fascismo così varia e sfuggente.Questo cangiante aspetto
del fenomeno fascista, che è riconoscibile solo a chi abbia la pazienza
di ripercorrerne la storia, è un indice della sua complessità, ed è
anche ciò che talvolta induce chi lo osservi troppo sommariamente a
errate valutazioni.
2. Storia
Nel ripercorrere la storia del fascismo sul terreno suo proprio, che è
quello italiano, converrà suddividerla in sette periodi.
a) Origini (1919-1922)
Per comprendere che cosa significasse la fondazione dei Fasci di
combattimento (23 marzo 1919), cioè del primo nucleo del movimento,
occorre porla in relazione sia con la biografia di Benito Mussolini,
sia con il contesto della storia d'Italia in quel particolare momento.
Dopo la rottura traumatica, nell'ottobre del 1914, sul tema della
guerra, con il Partito Socialista, di cui come direttore dell'"Avanti!"
era l'effettivo leader, Mussolini aveva continuato a occupare un certo
spazio nella vita pubblica italiana con il suo nuovo quotidiano, "Il
Popolo d'Italia", che aveva iniziato le pubblicazioni nel novembre
1914, e che rimarrà suo personale strumento sino al luglio 1943. Dalle
colonne di questo giornale egli aveva prima svolto una energica
campagna a favore dell'intervento dell'Italia in guerra, raccogliendo
intorno a sé le diverse voci di coloro che, pur militando nelle file
della sinistra, non si riconoscevano nel neutralismo. Poi, tra il
maggio 1915 e il novembre 1918, il quotidiano di Mussolini aveva
sostenuto lo sforzo del paese in guerra, esortando i governi al massimo
rigore per mantenere unito il fronte interno, gradualmente
accostandosi, specialmente a partire dalla fine del 1917, alle
posizioni di un vario nazionalismo. Un indizio di questa metamorfosi
era stato, nell'agosto del 1918, il mutamento del sottotitolo del
giornale da "quotidiano socialista" a "quotidiano dei combattenti e dei
produttori". Ma il terreno sul quale le posizioni assunte da Mussolini
nell'ultimo anno di guerra emergevano con maggiore chiarezza fu quello
della politica estera e della dibattuta questione dei nostri confini
orientali, dove contro le aspirazioni, peraltro ugualmente eccessive,
della nascente Iugoslavia, Mussolini verrà gradualmente a schierarsi a
favore del più estremo programma di espansione (patto di Londra più
Fiume), quello stesso che, pochi mesi dopo la fine della guerra,
porterà al disastro diplomatico dell'Italia alla Conferenza di pace di
Parigi, e al drammatico precipitare della questione adriatica. Proprio
queste posizioni venivano da Mussolini riconfermate con sempre maggiore
enfasi nella prima metà del 1919. Non sorprende perciò che alla loro
nascita i Fasci si presentassero come una delle molte iniziative del
tempo per esaltare le più estreme aspirazioni nazionali, nate nel
crogiolo della guerra, e per opporsi anche con la violenza alla
montante offensiva dei socialisti, che sempre più suggestionati dagli
sviluppi della Rivoluzione russa dichiaravano di volerne seguire
l'esempio, assumendo posizioni apertamente eversive e antipatriottiche.
Pochi mesi dopo, quando D'Annunzio occuperà Fiume alla testa di reparti
militari italiani, i Fasci si schiereranno al fianco di D'Annunzio, di
cui Mussolini esalterà la figura e l'opera.
Le cose muteranno nel corso del 1920 quando, in conseguenza delle
elezioni politiche del novembre 1919 (che segneranno per Mussolini una
cocente sconfitta), la politica interna riprenderà il sopravvento. Per
la sua variegata composizione e il prevalere di forze politiche nuove o
rinnovate (popolari e socialisti) tra loro inconciliabili, la nuova
Camera era incapace di garantire la stabilità di un qualsiasi governo.
Intanto, tra la fine del 1919 e per tutto il corso del 1920, il paese,
sia nelle industrie che nelle campagne, era scosso da agitazioni
sociali, senza precedenti per numero e per intensità, le quali,
accompagnandosi alla sempre più minacciosa offensiva dei socialisti,
turbavano profondamente l'ordine, producevano negli animi dei cittadini
e nella pubblica opinione grande impressione, e sembravano talora
mettere in pericolo la stessa stabilità delle istituzioni. Il
definitivo superamento della questione adriatica si ebbe nel novembre
del 1920 con la firma del trattato di Rapallo. Poche settimane più
tardi le forze militari italiane costringevano D'Annunzio ad
abbandonare Fiume. Ma, a eccezione di alcuni dissidenti che rimarranno
fedeli alla causa dannunziana, in questi mesi Mussolini e i Fasci si
erano già assestati su nuove posizioni. Si veniva preparando quella
nuova stagione del movimento fascista che fu lo squadrismo, e che
imprimerà ai Fasci quel carattere nuovo che rimarrà come una delle loro
note più originali.Lo squadrismo fascista nasce come reazione
antisindacale e soprattutto antisocialista. Reazione armata, che si
organizza appunto in squadre, seguendo gli schemi di un elementare
ordinamento militare e mettendo a frutto le esperienze della guerra. Le
squadre nascono dapprima là dove le lotte sociali hanno assunto
maggiore asprezza. Di esse si era avuto un precedente, sin dall'estate,
nella Venezia Giulia, ma si era trattato di una situazione particolare,
legata ai conflitti di nazionalità tra Italiani e Slavi e alla
questione di Fiume.
Nel resto d'Italia una accelerazione allo squadrismo viene semmai dalle
elezioni amministrative dell'autunno 1920, nelle quali molte
amministrazioni locali sono conquistate dai socialisti all'insegna di
un programma antinazionale e fortemente provocatorio.
Il primo episodio squadristico di rilevanza nazionale sarà costituito
appunto dai fatti di Bologna del novembre 1920, dove le squadre
fasciste si scontrano con la manifestazione socialista, indetta per
l'insediamento del nuovo consiglio comunale. Il cruento conflitto che
ne seguì, con numerose vittime, portò allo scioglimento del consiglio
comunale stesso, segnando quindi una vittoria fascista. Dopo di allora
il modello squadristico si diffonderà in tutte le regioni dell'Italia
settentrionale e centrale, e in molte zone dell'Italia meridionale.
Alla guida delle squadre fasciste si formerà una struttura gerarchica,
in genere su base provinciale, all'interno della quale emergeranno
uomini nuovi, capaci di esercitare un forte potere locale e perciò ben
presto denominati ras. Così a Bologna Dino Grandi, a Ferrara Italo
Balbo, a Cremona Roberto Farinacci, a Pavia Cesare Forni, a Firenze
Dino Perrone Compagni, a Bari Giuseppe Caradonna, ecc. Anche se la
nascita delle squadre fu spesso il frutto di iniziative locali,
Mussolini seppe abilmente coordinare l'insieme del movimento
inquadrandolo in una struttura nazionale, e farsene il capo, anzi, come
ben presto si disse, il 'Duce'.
Tra la fine del 1920 e la prima metà del 1921 lo sviluppo del nuovo
movimento fascista fu impetuoso, e i Fasci diventarono in breve una
delle più consistenti forze politiche del paese. In essi, e
specialmente nelle prime formazioni squadriste, erano certamente
confluiti uomini ai margini della delinquenza, avventurieri, o comunque
persone specialmente votate alla violenza. Di questa componente i Fasci
manterranno a lungo il segno; e tuttavia essa diverrà ben presto
secondaria. Con il loro crescere, le file del movimento fascista
acquistavano una composizione assai varia: molti gli ex combattenti,
molti gli studenti, ma si può dire che complessivamente nessuna
categoria sociale vi rimaneva estranea, anche se la prevalenza era di
ceti medi.
L'obiettivo che i Fasci ben presto si prefissero fu quello di una
sistematica occupazione del territorio, spazzando via le forze
avversarie, organizzazioni sindacali e amministrazioni locali,
attraverso incursioni (le cosiddette spedizioni punitive) che muovevano
per lo più da un centro urbano e miravano alla devastazione di sedi e
alla intimidazione di uomini. Il successo di questi metodi violenti non
sarebbe stato possibile senza talora il concorso, spesso la connivenza,
quantomeno la tolleranza dei pubblici poteri. Una quasi naturale intesa
si ebbe, intanto, tra Fasci e forze militari; anche forze di polizia e
carabinieri mostrarono spesso simpatia per le azioni dei fascisti
rivolte proprio contro coloro che dalla fine della guerra si erano
presentati come i nemici dell'ordine; la stessa magistratura, in più di
una occasione, dimostrerà verso i fascisti grande indulgenza. Tutto ciò
era in gran parte il frutto di uno spontaneo consenso, che accompagnò
il sorgere della reazione fascista per più di una ragione. Ma si trattò
anche di un problema politico, cioè dell'atteggiamento del governo. Nei
primi mesi del 1921, cioè nello stesso momento in cui maturava
l'offensiva squadrista, sperando di riuscire in tal modo a risolvere la
paralisi parlamentare, il presidente del Consiglio Giolitti decise di
sciogliere la Camera e indire nuove elezioni. Per evitare il
frazionamento delle forze costituzionali, il governo promosse liste di
coalizione (i cosiddetti blocchi) nelle quali furono accolti anche i
candidati fascisti. Pertanto i Fasci venivano a essere considerati
alleati del governo.
Alle elezioni del maggio 1921 furono eletti 35 deputati fascisti, tra
cui Mussolini. Da quel momento il suo problema fu quello di gestire la
nuova forza politica fascista, emersa in modo inaspettato e assai
squilibrata tra Camera e paese, quali obiettivi generali porle, quale
immagine dare del fascismo stesso. Un tentativo, nell'estate, di
limitare la violenza squadrista attraverso un patto di pacificazione
che avrebbe dovuto normalizzare la situazione, fallì clamorosamente
portando anzi ad una momentanea rottura tra Mussolini e una parte del
movimento fascista.
La crisi fu superata al Congresso di Roma (novembre 1921), nel quale il
movimento si trasformava in Partito Fascista; questo incorporava al suo
interno le squadre armate, dando il primo esempio, nel quadro di
istituzioni rappresentative, di un partito politico che ufficialmente
faceva della violenza un metodo di lotta. Mussolini era riconfermato il
Duce del fascismo. La questione di che cosa il nuovo partito si
proponesse di fare era più che mai aperta.
Il fatto stesso che si consentisse ad un partito politico di avere una
sua forza armata significava che il paese era senza governo. In effetti
le elezioni del 1921 non avevano affatto risolto quella paralisi
parlamentare che privava ogni governo in carica della necessaria
autorità. In questa situazione la violenza fascista, che dall'autunno
del 1921 era ripresa su ancor più larga scala, procedeva ormai
incontrastata. Se un anno prima i nemici dell'ordine erano potuti
apparire i socialisti, sicché la reazione fascista era sembrata
restauratrice, ora la situazione si era rovesciata. La legalità veniva
sistematicamente infranta dall'azione delle squadre fasciste, che non
incontrava più alcuna resistenza. Così, nel corso del 1922, impotenza
parlamentare e violenza squadrista venivano a svolgere ruoli
complementari per consegnare il governo nelle mani di Mussolini. Da un
lato, infatti, non trovando più sulla sua strada alcun serio ostacolo,
era naturale che l'offensiva fascista si ponesse obiettivi sempre più
ambiziosi, sino alla conquista del potere. Dall'altro lato, una classe
politica ormai allo sbando sempre più si veniva convincendo che, per
riportare il paese alla normalità e ristabilire l'ordine, l'unico modo
fosse quello di dare ai fascisti stessi responsabilità di governo. In
questo clima matura, alla fine di ottobre, la cosiddetta marcia su
Roma, cioè la ripetizione in scala maggiore del modello di spedizione
squadrista, contro la stessa capitale del regno. Essa fece precipitare
una crisi politica già in atto, per uscire dalla quale il re decise di
affidare allo stesso Mussolini l'incarico di formare un nuovo governo.
b) Primo periodo di governo (1922-1925)
Mussolini formò un gabinetto al quale oltre a tre fascisti (Aldo
Oviglio, Alberto De Stefani, Giovanni Giuriati), a un nazionalista
(Luigi Federzoni) e a un indipendente (Giovanni Gentile), partecipavano
sia alcuni tra i più alti gradi militari (Armando Diaz, Paolo Thaon de
Revel), sia i rappresentanti di quelle stesse forze politiche che
avevano composto i governi precedenti. Indi si presentò ai due rami del
parlamento per ottenere la fiducia e i pieni poteri in materia
finanziaria e amministrativa, e l'una e gli altri gli furono concessi
con ampia maggioranza, nonostante le sprezzanti parole pronunciate alla
Camera ("Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di
manipoli"). Da un punto di vista formale, perciò, non vi fu violazione
della legalità istituzionale. Tuttavia è dubbio che dopo il 28 ottobre
1922 si possa ancora parlare per lo Stato italiano di regime liberale.
Intanto, la violenza che aveva accompagnato la conquista del potere da
parte di Mussolini non cessò affatto, come mostrarono già i sanguinosi
fatti di Torino del dicembre e una miriade di episodi successivi.
All'inizio del 1923, inoltre, Mussolini varò due provvedimenti che
trasformavano di fatto la natura dello Stato. Il primo fu la
costituzione del Gran Consiglio del Fascismo. Questo nuovo organo
riuniva insieme uomini detentori di cariche pubbliche e uomini
detentori di cariche all'interno del Partito Fascista, trasformando
quest'ultimo da associazione privata in pubblica istituzione. Il
secondo provvedimento costituì all'interno dello Stato una nuova forza
armata, la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale (MVSN), nella
quale confluivano le squadre fasciste. In tal modo, dopo la conquista
del governo, Mussolini si apprestava alla conquista fascista dello
Stato, presentando se stesso e il suo movimento non come rappresentanti
di una parte politica, ma della nazione tutta. La facilità con cui
Mussolini conseguì questi risultati senza incontrare alcun serio
ostacolo richiede qualche spiegazione.Non si trattò soltanto di forza,
bensì anche di un vasto e assai diffuso consenso.
Le ragioni di questo consenso furono assai varie. Posto che nessuno dei
contemporanei era allora in grado di sapere che cosa il fascismo fosse
e dove avrebbe condotto il paese, queste ragioni furono in parte
negative, in parte positive. Le prime consistevano soprattutto nel
disgusto per le forze politiche presenti sulla scena parlamentare le
quali, sia al governo sia all'opposizione, si erano mostrate
assolutamente incapaci di gestire la cosa pubblica o di suggerire
credibili vie alternative. La necessità di un radicale ricambio della
classe politica era perciò fortemente sentita e assai paventata
l'ipotesi di un qualsiasi ritorno al precedente malgoverno. Le seconde
ragioni consistevano soprattutto nelle simpatie che il movimento di
Mussolini era riuscito a guadagnarsi tra molti strati di cittadini, e
specialmente tra i ceti medi, non tanto per la difesa da esso assunta
di interessi materiali offesi, quanto e soprattutto presentandosi come
il legittimo erede della tradizione nazionale. Ciò era stato in gran
parte facilitato dal fatto che ambedue i maggiori partiti politici
italiani, il socialista e il popolare, sia per scelta sia per i modi
della propria storia, erano forze estranee, se non ostili, all'eredità
risorgimentale. Inoltre, poiché l'insieme della tradizione nazionale
era apparso riassunto nella guerra, e poiché la stessa esperienza
fascista era maturata sul terreno della difesa della guerra, di quella
tradizione il fascismo poteva facilmente presentarsi come il legittimo
erede. Questa apparenza nascondeva il fatto che, dall'interventismo in
avanti, i sostenitori della guerra, e cioè l'insieme di quelle forze
che sembravano rappresentare la tradizione nazionale, lungi dall'essere
uniti tra loro si erano sempre più divisi intorno alla questione dei
fini della guerra, distinguendosi in nazionalisti e democratici. E in
realtà il fascismo non rappresentava affatto l'insieme di quelle forze
politiche che la guerra aveva voluto e sostenuto; di esse, esso
rappresentava soltanto la parte nazionalista, e cioè solo quella parte
che ben poco aveva a che fare con i principî ispiratori del
Risorgimento.
La pretesa del fascismo di ergersi a erede della tradizione nazionale
era pertanto priva di fondamento e costituiva una vera appropriazione
indebita, cioè un inganno. Tuttavia, ben difficilmente questo inganno
sarebbe stato possibile se già in precedenza, e specialmente a partire
dal 1887, non si fosse consumata nello spirito pubblico del paese una
vera e propria metamorfosi, secondo la quale i valori della tradizione
risorgimentale si erano venuti gradualmente a scolorire, il
patriottismo trasformandosi in nazionalismo. Non sorprende perciò che
nel febbraio del 1923 il movimento nazionalista venisse ufficialmente
assorbito nelle file del Partito Fascista.
Oltre quelle iniziative con le quali egli aveva mirato a consolidare il
suo potere, venendo con ciò a conferire al fascismo stesso una più
precisa definizione, Mussolini seppe imprimere all'opera del suo
governo un ritmo nuovo. Assunto direttamente il controllo, con il
dicastero degli Interni, dell'ordine pubblico, il governo Mussolini si
distinse sul piano interno soprattutto per aver proseguito, con il
ministro De Stefani, l'opera di restaurazione finanziaria dei
precedenti gabinetti, risanando il bilancio, e per aver attuato, con il
ministro Gentile, una significativa riforma della scuola. Sul piano
internazionale l'esordio di Mussolini, che deteneva anche il dicastero
degli Esteri, fu meno convincente, dimostrando già nell'estate del
1923, in occasione di un incidente con la Grecia, la sua propensione
all'avventurismo (occupazione di Corfù). Malgrado gli indubbi successi
e una consistente misura di consenso, Mussolini avvertiva il pericolo
della sua debolezza parlamentare. Perciò, attraverso la cosiddetta
legge Acerbo, egli si propose di correggere il meccanismo elettorale
eliminando la frantumazione della rappresentanza prodotta dalla
proporzionale e introducendo un forte premio di maggioranza, tale da
assicurare la stabilità del governo.
Le resistenze della Camera all'approvazione di questa legge furono
vinte sia con l'intimidazione, sia grazie all'intervento della Curia
volto a superare l'opposizione del Partito Popolare con il forzato
allontanamento del suo segretario, don Luigi Sturzo. Le nuove elezioni
si tennero nell'aprile 1924. Anche se la campagna elettorale fu
condotta in un clima di violenza e gli arbitri commessi furono
innumerevoli, la misura del successo fascista (64,9% dei voti),
raggiunto per lo più con una lista di forze coalizzate dove la vecchia
classe politica si mescolava con le nuove leve fasciste (il cosiddetto
listone), dimostrò quanto quella violenza fosse in gran parte gratuita.
Ma essa era parte costitutiva e del carattere di Mussolini e del suo
movimento. Pochi giorni dopo l'apertura della nuova Camera (24 maggio),
il deputato socialista Giacomo Matteotti, uomo di grande coraggio
fisico e integrità morale, che aveva denunciato le violenze elettorali
dei fascisti e promesso di produrre ancor più ampia documentazione, fu
rapito da una squadra fascista e ucciso. Il rapimento avvenne il 10
giugno, il corpo martoriato fu ritrovato soltanto il 16 agosto; ma fu
subito chiaro che si trattava di un crimine e di che parte fossero gli
autori. L'emozione nel paese fu fortissima, sicché per alcune settimane
parve che il governo Mussolini potesse essere rovesciato. Ma
l'insipienza dimostrata, ancora una volta, dalle opposizioni e il
sostegno che continuarono a dargli le forze istituzionali, Corona,
Senato, Camera dei deputati, consentirono a Mussolini di superare anche
questo momento di crisi, certamente il più grave da quando aveva
assunto il potere e sino al luglio 1943. A sostegno di Mussolini si
rinnovò nel paese la mobilitazione delle squadre fasciste, riprendendo
e gradualmente accentuando il clima di violenza e di intimidazione
contro tutti gli oppositori. Ogni incertezza venne poi definitivamente
superata con il discorso parlamentare di Mussolini, il 3 gennaio 1925,
in cui egli si assumeva ogni responsabilità politica e morale di quanto
avvenuto, sfidando gli oppositori, se ne erano capaci, a porlo in stato
di accusa.
c) Trasformazione in regime (1925-1929)
Con il 3 gennaio 1925 inizia la vera e propria dittatura fascista. Essa
si verrà attuando prima sul piano dei fatti, con una drastica riduzione
dei poteri del Parlamento, con l'impedire ogni libertà di stampa, col
costringere al silenzio ogni voce di opposizione, con ciò mettendo fine
alla stessa vita politica. Ma di lì a poco la dittatura acquistò una
veste legale, attraverso una serie di leggi che da un lato ponevano
fine a quelle libertà, di parola, di stampa, di associazione, sancite
dallo Statuto albertino, che pur rimaneva formalmente in vigore, sicché
i cittadini venivano riportati allo stato di sudditi; e che, dall'altro
lato, accrescevano smisuratamente il potere di Mussolini. Questo
processo di trasformazione dello Stato si protrasse nel tempo e subì,
almeno sino alla guerra, una serie di correzioni, ma le basi del nuovo
regime vennero solidamente poste tra il 1925 e il 1926. Le sue tappe
fondamentali furono: la legge 24 dicembre 1925, sulle attribuzioni e
prerogative del capo del governo, con la quale non solo si sottraeva il
potere esecutivo al controllo parlamentare, ma istituendo la nuova
figura del capo del governo si concentravano nelle sue mani pressoché
tutti i poteri, limitando anche l'iniziativa legislativa del Parlamento
e perciò rimettendo di fatto nelle sue mani anche la facoltà di fare le
leggi; la legge sulla stampa, del 31 dicembre 1925, che introduceva su
tutto quanto si pubblicasse un pesante controllo politico; nel corso
del 1926, le leggi che ponevano fine alle elezioni per la formazione
delle amministrazioni locali e istituivano a capo dei comuni la figura
del podestà di nomina governativa. Il ciclo si chiuse, in un certo
senso, con la legge 25 novembre 1926 per la difesa dello Stato. Essa
non solo rendeva illegale ogni manifestazione di dissenso, ma
consentiva di privare della libertà personale in base al semplice
sospetto, istituiva nuove pene detentive quali il confino di polizia, e
sottraeva il giudizio dei reati politici alla magistratura ordinaria
affidandolo sia alle autorità di polizia, sia al nuovo Tribunale
speciale, il quale poteva anche applicare la pena di morte.
Perciò, a partire dalla fine del 1926, lo Stato fascista sarà anche
formalmente uno Stato di polizia. La dittatura troverà il suo
completamento nella legge elettorale del 17 maggio 1928, la quale
introduceva la lista unica, sostituendo con ciò alla libera scelta
elettorale il sistema plebiscitario.Nel corso di quei due fatidici anni
(1925 e 1926), l'unica lotta politica di cui in Italia si possa parlare
fu combattuta all'interno del fascismo stesso. Si trattò di uno scontro
molto significativo, che ebbe come contendenti da una parte Roberto
Farinacci, il quale dal febbraio 1925 era il segretario nazionale del
Partito Fascista, dall'altra alcuni personaggi di un fascismo per così
dire revisionista (Giuseppe Bottai, Camillo Pellizzi, Ermanno
Amicucci); e mentre alle spalle del primo stavano alcuni tra i più
irriducibili ras squadristi, alle spalle dei secondi stava lo stesso
Mussolini. La posta in gioco era il ruolo del Partito Fascista nella
gestione del potere, e cioè la parte che il movimento fascista stesso
era chiamato a svolgere all'interno del nuovo regime.
Sommariamente i
termini della partita si misuravano all'interno di ciascuna provincia
nel confronto tra il potere del segretario federale fascista,
espressione del partito, e i poteri del prefetto, espressione
dell'amministrazione statale. Ma le implicazioni generali erano più
vaste, giungendo, ad esempio, ad investire la questione del rapporto
tra milizia fascista ed esercito regio. In un certo senso, ed è un
punto della massima importanza, il contrasto riguardava il rapporto
stesso tra il movimento fascista e Mussolini. Questi sin dal 1923 (c'è
una sua circolare ai prefetti, del 13 giugno) aveva chiaramente
mostrato la sua preferenza, nella gestione del potere da poco
conquistato, a servirsi piuttosto dei tradizionali organi dello Stato
che non dei meno affidabili capi fascisti. Tra il 1924 e il 1925,
tuttavia, la situazione era cambiata, perché l'intervento del rinato
squadrismo aveva avuto una parte considerevole nel permettere a
Mussolini di superare indenne la crisi Matteotti. La nomina alla
segreteria del Partito di Farinacci, uno dei più estremisti tra i capi
fascisti e sostenitore di una sorta di 'rivoluzione permanente', era il
riconoscimento di questo debito.
Per oltre un anno il terreno della contesa fu la libertà di iniziativa
delle squadre fasciste, che continuarono a imperversare, e poiché dal
giugno 1924 Mussolini aveva lasciato il dicastero degli Interni,
l'interlocutore diretto di Farinacci fu il nuovo ministro Federzoni.
Questi, anche se poco dopo fu messo da parte, ebbe di fatto partita
vinta. Ma il vincitore vero fu Mussolini. Nel novembre 1926, una volta
che con le nuove leggi il suo potere personale si era rinsaldato, egli
riprendeva nelle sue mani le redini di quel dicastero degli Interni,
che era una posizione chiave per la gestione di un potere largamente
basato sulla repressione. Frattanto, il 30 aprile 1926, Farinacci
veniva rimosso dalla segreteria del partito e al suo posto veniva
nominato un ben più docile personaggio, Augusto Turati. Da allora in
poi il ruolo del Partito e di tutte le organizzazioni fasciste, che si
estenderanno in una rete capillare il cui fine era quello di
coinvolgere il maggior numero possibile di persone, sarà sempre più
limitato al compito di mediatore del consenso, attraverso opere di
assistenza, iniziative culturali e sportive, attività ricreative,
gestione della propaganda, e tutte quelle manifestazioni coreografiche
nelle quali si incarnava l'immagine del fascismo. All'insegna del motto
"credere, obbedire, combattere", il movimento fascista perdeva così
ogni originario attivismo per assumere come propria virtù cardinale
quella di una sottomessa disciplina. L'iniziativa politica restava
intera nelle mani di Mussolini e il potere di imporre le regole della
dittatura nelle mani della polizia di Stato.
In tal modo Mussolini riuscì abilmente a costruire il suo regime con
una nuova e assai radicale operazione di trasformismo. Rimanendo il re
capo dello Stato, rimanendo le strutture della pubblica amministrazione
formalmente invariate, Mussolini poté facilmente far credere che la
cosiddetta rivoluzione fascista si fosse limitata a correggere, nei
rapporti tra potere legislativo e potere esecutivo, quelle storture che
avevano impedito allo Stato risorgimentale di essere un vero Stato
nazionale. E nel quadro di questo regime, ben oltre i limiti angusti
dell'originario movimento, il termine fascista si dilatava sino a
includere tutti coloro disposti a riconoscere quale bene supremo
l'interesse nazionale, cioè di fatto quanto Mussolini stesso indicava
come tale. Lungo questa strada, che mirava a raccogliere sotto le ali
del fascismo ogni qualsivoglia componente significativa di una storia
nazionale che prendeva le mosse dall'Impero romano, Mussolini,
allargando quanto più possibile la sfera del consenso, si propose il
riavvicinamento alla Chiesa, cioè il superamento anche formale della
questione romana e la sistemazione dei rapporti tra Curia e Stato
italiano. Fu la cosiddetta riconciliazione, sancita dagli accordi
sottoscritti l'11 febbraio 1929. Anche l'Italia cattolica veniva in tal
modo fascistizzata.
Dopo questa svolta poté tanto più sembrare che i due termini 'italiano'
e 'fascista' fossero sinonimi.Nasceva su queste basi lo Stato
'totalitario' che, a differenza di quanto avveniva o avverrà altrove,
ebbe in Italia un carattere particolare. La sua istanza fondamentale
era che la vita privata venisse quanto più possibile assorbita in
quella pubblica, e che la vita pubblica si svolgesse interamente
nell'ambito dello Stato fascista. In realtà la vita privata mantenne un
suo margine di autonomia e anche quella pubblica un suo margine di
indipendenza, se non di libertà, almeno in alcuni settori, come quello
della stampa. Se, infatti, i quotidiani erano rigidamente controllati,
su libri e periodici la censura fascista non fu priva di indulgenza.
Dove lo Stato fascista condusse con successo una sistematica
occupazione di tutti gli spazi fu nel tessuto della società civile.
Istituzioni culturali e ricreative, organizzazioni professionali,
settori chiave dell'apparato produttivo del paese, enti sanitari e
assistenziali, in aggiunta naturalmente a tutti quegli organismi, come
la scuola in tutti i suoi gradi, che direttamente o indirettamente già
erano o verranno a cadere sotto il controllo pubblico, tutto doveva
gravitare nell'orbita del fascismo. Ciò significava che sia sul piano
dell'occupazione sia su quello del prestigio e dell'ascesa sociale,
nessuno era in grado di farsi strada senza un atto di sottomissione al
fascismo. Una sottomissione per lo più soltanto formale, che non
implicava necessariamente una partecipazione attiva alla vita del
regime e un'adesione sincera al suo credo; ma una sottomissione che
quanto meno sembrava onerosa in termini di impegno personale, tanto più
era esigente in termini di ossequio formale. Malgrado la formula del
giuramento fascista recitasse che ogni iscritto al Partito si impegnava
a servire la causa della rivoluzione fascista con tutte le sue forze e
se necessario col suo sangue, nello Stato totalitario mussoliniano il
prototipo del fascista non fu affatto l''uomo nuovo', il milite fedele
all'idea e agli ordini del Duce: il prototipo del fascista fu in realtà
il conformista.
d) Esperienza corporativa (1929-1935)
La riprova del successo raggiunto, il quale mostrava l'effettivo
consolidamento del regime fascista all'interno non del solo Stato ma
anche della società italiana, fu data dai risultati delle elezioni che
si tennero, secondo la nuova legge, il 24 marzo 1929: vi parteciparono
l'89,63% degli aventi diritto al voto, e i 'sì' furono 8.506.574
(94,4%), contro 136.198 'no' (1,6%). Il plebiscito voluto da Mussolini
aveva dato gli attesi frutti. E tuttavia le condizioni di vita degli
Italiani erano tutt'altro che rosee. Oltre all'antica piaga della
disoccupazione, per la quale il fascismo non aveva saputo offrire alcun
rimedio nuovo, la politica economica fortemente deflazionistica imposta
da Mussolini e riassunta nella formula della cosiddetta 'quota novanta'
(cioè il valore di cambio della sterlina non doveva superare le novanta
lire), aveva effettivamente stabilizzato la nostra moneta e perciò
rafforzato il nostro credito sui mercati finanziari internazionali; ma,
al tempo stesso, aveva reso più difficili le nostre esportazioni,
scoraggiato gli investimenti e prodotto una diminuzione di salari e
stipendi alla quale non aveva corrisposto una eguale diminuzione dei
prezzi. D'altra parte, modi per far sentire voci di protesta non
esistevano più. Sciolte le antiche organizzazioni sindacali, i nuovi
sindacati fascisti erano divenuti organi dello Stato e perciò,
impegnati ad evitare vistosi conflitti, disponevano di mezzi assai
limitati per premere sulla parte padronale. Rimosso il concetto di
lotta di classe, impedito lo sciopero, ogni contrasto doveva riuscire a
comporsi senza turbare l'armonia sociale e la produzione nazionale. I
termini di questa nuova visione collaborazionistica erano stati sanciti
dalla legge 3 aprile 1926, per la disciplina giuridica dei rapporti
collettivi di lavoro, le cui vertenze venivano rimesse a una speciale
magistratura del lavoro.
Ciò corrispondeva alla nuova idea di 'corporazione', cioè di un
organismo che raccogliesse unitariamente tutti coloro che operavano in
un determinato settore produttivo, non importa con quale grado e con
quale funzione. Nel luglio 1926 era stato creato il Ministero delle
Corporazioni e al suo fianco il Consiglio Nazionale delle Corporazioni,
anche se in realtà le corporazioni stesse non esistevano ancora. Il 21
aprile 1927 le nuove regole e i principî a cui queste erano improntate
venivano enunciati ufficialmente nella Carta del lavoro. Si trattava di
un insieme di provvedimenti i quali, a parole, costituivano, come
scrisse lo storico fascista Gioacchino Volpe, "l'opera più originale
della rivoluzione fascista". "Si partiva - così continua Volpe - dal
concetto che la nazione italiana è un'unità morale politica economica
che si realizza nello Stato; che i cittadini sono necessariamente
solidali nella nazione; che il lavoro non è un diritto ma un dovere e
come tale viene tutelato dallo Stato; che la produzione nazionale è
unitaria e unitari i suoi obiettivi, cioè lo sviluppo della potenza
nazionale [...]; che le forze produttive nazionali, organizzate nei
sindacati, se non si vuole che, operando fuori dello Stato, siano
contro lo Stato, debbono essere dentro lo Stato [...]. Individuo e
Stato, finora disgiunti o non bene e organicamente congiunti, sono da
collegare meglio e quasi compenetrare l'uno nell'altro, per il tramite
del sindacato e dei corpi sindacali, organi di diritto pubblico,
operanti nell'ambito e sotto il controllo dello Stato" (v. Volpe,
1943², pp. 139-140). Era, come ben si vede, una concezione dello Stato
opposta a quella liberale.
Ma, al tempo stesso, rimaneva del tutto impreciso in che modo,
all'interno delle corporazioni, all'armonia sociale imposta dal potere
si potesse accompagnare un'armonia effettiva, distribuendo equamente
tra le parti oneri e profitti.
La prova comunque fu rimandata nel
tempo, perché per alcuni anni i pur già enunciati principî corporativi
e i pur già creati organi rimasero in letargo. A risvegliarli provvide
la grande crisi del 1929 che, sconvolgendo l'intero sistema economico
del mondo occidentale, provocò anche in Italia effetti funesti. Per
porvi in qualche modo rimedio, si rese necessario l'intervento dello
Stato. In esso Mussolini vide l'occasione per rilanciare la formula
dello Stato corporativo, la quale consentiva ora di presentare sulla
scena internazionale il fascismo come il portatore di una dottrina che,
tra lo statalismo radicale del comunismo russo e la eccessiva
permissività privatistica del capitalismo occidentale, era in grado di
indicare all'economia moderna una terza via. Tuttavia si trattava assai
più di parole che di fatti.
Lo Stato corporativo si assunse effettivamente l'onere della gestione
diretta di molti settori disastrati e di pagarne le forti perdite; ma
nella coesistenza di pubblico e di privato, che rinnovava l'esperienza
già fatta negli anni di guerra dell'economia associata, i ruoli
rimanevano assai squilibrati, sia nei rapporti tra datori di lavoro e
lavoratori dipendenti, sia rispetto al potere di avanzare e imporre
scelte di indirizzo generale, cioè di attuare una vera programmazione
economica. Di fatto, proprio in questi anni, si stabiliva quella
prassi, destinata ad una larga e assai prolungata fortuna, riassunta
nella formula "socializzazione delle perdite, privatizzazione dei
profitti". Semmai, l'indicazione che la politica economica fascista
seppe effettivamente far valere nel sistema produttivo italiano, fu
quella dell'autarchia: si riprendeva così uno dei motivi classici del
nazionalismo, e cioè il mito della indipendenza economica. Del resto,
su questa strada si era già posta la politica agricola del fascismo
che, a partire dal 1925, con la battaglia del grano, si era proposta di
raggiungere l'autosufficienza nazionale nella produzione di questo
fondamentale cereale. I risultati raggiunti furono positivi, ma in
buona parte illusori. Le assai accresciute rese (nel 1933 il grano
prodotto fu quasi sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale)
nascondevano il fatto che solo in parte queste erano il frutto di
accresciuta produttività del suolo o della messa a coltura di nuove
terre, rese fertili dalle bonifiche (come la giustamente nota bonifica
dell'Agro Pontino).
Per lo più si trattava invece di un fenomeno indotto da artificiosi
incentivi, per cui si continuava o si estendeva la coltura granicola su
terreni inadatti e che sarebbe stato economicamente assai più
vantaggioso destinare a diverso uso. Ma illusioni ancor maggiori la
politica autarchica era destinata a produrre sul piano industriale, in
un paese come l'Italia del tutto povero di materie prime.Con queste
scelte, avendo il fascismo imboccato una strada del tutto incapace di
condurre a un aumento effettivo della produttività del paese, era poco
probabile che esso riuscisse ad alleviare i rigori della perdurante
questione sociale e a trovare una risposta adeguata alla crescente
disoccupazione (1.158.418 disoccupati, nel gennaio 1934, secondo le
fonti ufficiali notoriamente assai inferiori al vero: v. Salvatorelli e
Mira, 1956, p. 538). E ciò nonostante il regime si impegnò in una
insistente campagna di propaganda per favorire l'aumento delle nascite,
ponendo tra i propri fini quello dell'incremento demografico del paese.
I problemi di fondo rimanevano perciò privi di soluzione e lo Stato
corporativo si mostrava per quello che effettivamente era: una pura
formula di propaganda. È difficile dire in che misura la delusione
destinata a seguire questo grossolano inganno avrebbe potuto incidere
sulla stabilità del regime, offuscandone l'immagine. Il tempo della
resa dei conti non era ancora giunto. Altre frecce aveva ancora al suo
arco la politica di Mussolini per stimolare le emozioni degli Italiani
e distogliere la loro attenzione dalla dura realtà delle cose.
e) Svolta della guerra di Etiopia (1935-1939)
Nel luglio del 1932 Mussolini aveva ripreso nelle proprie mani la
direzione del dicastero degli Esteri, alla cui guida dal settembre del
1929 aveva lasciato che facesse la sua prova uno dei più noti e
intelligenti capi fascisti, Dino Grandi. Questo cambio della guardia
coincideva con l'aprirsi in Europa di un periodo di gravi
sconvolgimenti, alla cui origine era la crisi della Repubblica di
Weimar e l'avvento al potere in Germania di Adolf Hitler (30 gennaio
1933). Sino a questa data, malgrado non fossero mancate provocazioni
verbali, qualche atto sconsiderato (come Corfù), e manifestazioni
propagandistiche attraverso le quali Mussolini aveva denunciato la
perdurante insoddisfazione dell'Italia per la 'vittoria mutilata' e
perciò la sua insoddisfazione per l'ordine europeo e l'assetto
mediterraneo raggiunti dopo la fine della guerra, la politica estera
fascista era rimasta sostanzialmente legata a quella degli alleati
europei di guerra (Francia e Inghilterra) e aveva dato la sua
collaborazione alla Società delle Nazioni. I fini di questa politica
avrebbero dovuto essere quelli di garantire la sicurezza europea
attraverso il rispetto dei trattati, la stipulazione di nuovi accordi
suggeriti dalle circostanze, e la limitazione degli armamenti.
Tuttavia al leale perseguimento di questa linea politica ostavano sia
il carattere di Mussolini e i suoi pregiudizi, sia le esigenze di una
macchina propagandistica la quale, per garantire il consenso, doveva
costantemente trovare pretesti per eccitare gli animi. Da un lato,
perciò, Mussolini non poteva né concepire né desiderare una pace
stabile. Egli condivideva pienamente quei presupposti nazionalistici i
quali, accogliendo suggestioni darwiniane, ritenevano legge
imprescindibile della vita dei popoli una sorta di lotta permanente,
ciascuno di essi mirando alla propria espansione. Questa rozza
concezione della vita internazionale, che assumeva l'imperialismo e la
guerra come propri cardini, si coniugava spontaneamente con il naturale
cinismo di Mussolini, predisponendolo a ogni forma di intrigo e ogni
tipo di avventura, dai quali egli credesse di potersi ripromettere un
qualche immediato guadagno. Dall'altro lato, il successo della
propaganda fascista essendo in gran parte legato all'immagine di
un'Italia nuova che, grazie all'azione e alla sapienza del Duce, aveva
raggiunto sulla scena internazionale una posizione di prestigio e
ottenuto di essere riconosciuta alla pari tra le grandi potenze,
occorreva periodicamente rinnovare quelle occasioni di prova, nelle
quali questo artifizio potesse riproporsi. In questo contesto
l'assopita ma non mai deposta speranza di una nuova impresa africana
era destinata a ridestarsi.
Ironia della sorte, l'occasione per una ripresa di iniziativa in Africa
fu data a Mussolini dalla situazione di pericolo creatasi in Europa
dopo l'avvento al potere di Hitler. Mussolini riteneva infatti, non
infondatamente, che Francia e Inghilterra avessero ora più che mai
bisogno di un'Italia amica e che non avrebbero perciò ostacolato
un'impresa coloniale italiana verso l'unica regione africana ancora
libera dalla dominazione europea, l'Etiopia. D'altra parte, adiacenti a
questa regione l'Italia aveva già due colonie, la Somalia e l'Eritrea,
che rendevano plausibili i progetti di un'ulteriore espansione.
Dopo una laboriosa fase di preparazione, sia militare che diplomatica,
durante la quale Mussolini ritenne di avere ottenuto un consenso
esplicito almeno dalla Francia (colloqui romani col ministro degli
Esteri francese Pierre Laval, gennaio 1935), ai primi di ottobre di
quello stesso anno l'Italia fascista iniziava una guerra di aggressione
contro il vecchio Impero etiopico, nonostante esso fosse uno Stato
membro della Società delle Nazioni. Come era prevedibile, data la
disparità di forze, la campagna militare si risolse abbastanza
rapidamente a favore delle truppe italiane che, dopo pochi mesi di
operazioni, il 5 maggio occupavano la capitale Addis Abeba. Mussolini
poté così annunciare al popolo italiano, in un commosso discorso, che
l'Italia fascista aveva ridato vita a un Impero romano e Vittorio
Emanuele III assumeva da allora il titolo di re e imperatore. Il
tripudio nazionale fu grande. Ben pochi tra gli Italiani si resero
allora conto che, con la guerra di Etiopia, il fascismo aveva voltato
pagina. Da allora esso si avviava sulla strada di un'alleanza con la
Germania nazista, verso una nuova guerra europea.
Quella svolta non fu intenzionale. Ancora un anno avanti, alla
Conferenza di Stresa (aprile 1935), di fronte al pericolo del riarmo
tedesco, Mussolini aveva confermato di voler rimanere al fianco di
Francia e Inghilterra; ma, contrariamente alle sue aspettative, alla
notizia dell'aggressione italiana all'Etiopia, le reazioni nei due
paesi formalmente amici furono di dura condanna. Da Ginevra, la Società
delle Nazioni impose contro l'Italia sanzioni economiche, e
l'Inghilterra decise di spostare nel Mediterraneo una parte della sua
Home fleet. Erano segni inequivocabili di ostilità.
Tutto ciò giovò enormemente alla propaganda fascista, suscitando
un'ondata largamente spontanea di indignazione patriottica, che
rafforzò il fronte interno ed ebbe una plateale manifestazione nella
pubblica offerta dell'oro, soprattutto le fedi nuziali, alla patria.
Inoltre, mentre sino ad allora Mussolini aveva ostentato l'amicizia
dell'Italia per l'Inghilterra, da questo momento prenderà piede una
violenta campagna propagandistica anti-inglese, destinata a durare
ininterrotta sino alla guerra. E mentre sino a questa data la politica
estera fascista non aveva fatto eccessivo spazio all'ideologia, se non
per uso interno, da ora in avanti le cose cambiano. Divisi tra loro i
tradizionali garanti della sicurezza europea, la Germania nazista
subito ne approfitta per dare corso ai suoi propositi aggressivi e nel
marzo 1936 occupa militarmente la Renania senza colpo ferire. Le
democrazie occidentali accettano il fatto compiuto senza reagire. Quel
primo fortunato esempio farà scuola.
Pochi mesi più tardi le divisioni ideologiche dell'Europa troveranno
nuovo terreno di scontro nella guerra civile che si scatena in Spagna a
partire dal luglio 1936. Quel conflitto si protrarrà per tre anni e in
esso, sia l'Italia di Mussolini, sia la Germania di Hitler si
schiereranno al fianco del generale Franco, partecipando militarmente
alla sua campagna. In quello stesso triennio la Germania porterà avanti
con pieno successo i suoi primi progetti espansionistici, mostrando
chiaramente al mondo di che tempra fosse la dittatura nazista.
Malgrado alcune effettive affinità e una generica simpatia che Hitler
aveva sempre provato per il Duce, il fascismo italiano e lo stesso
Mussolini inizialmente non avevano seguito con alcun favore la crescita
del movimento nazista e la sua vittoria. Neppure più tardi, del resto,
mancarono in ambienti fascisti sospetti nei confronti del regime
hitleriano e riserve verso una politica di avvicinamento alla Germania,
la quale si ebbe soprattutto per volontà di Mussolini. Le tappe di
questo avvicinamento furono l'intesa italo-tedesca dell'ottobre 1936
(il cosiddetto 'asse Roma-Berlino'), la visita di Hitler in Italia nel
maggio 1938 e, atto finale, l'inaspettata stipulazione di una formale
alleanza politica e militare, il cosiddetto 'patto d'acciaio', il 22
maggio 1939. A quella data la volontà di Mussolini di seguire le orme
di Hitler si era già rivelata, con la decisione di introdurre anche in
Italia una politica razzista e una legislazione antiebraica. Le
cosiddette leggi per la difesa della razza furono promulgate a partire
dal settembre 1938, precedute e accompagnate da una velenosa campagna
di stampa. Si trattava di misure del tutto inattese, sia perché in
Italia, per ragioni storiche e anche per il modesto numero di cittadini
ebrei, una questione ebraica non esisteva; sia perché, sino ad allora,
il fascismo non aveva mai fatte proprie posizioni razzistiche, e non
erano pochi gli ebrei che militavano nelle file fasciste. Malgrado
nessun dissenso di rilievo si sia neppure allora manifestato, il nuovo
corso impresso al fascismo aveva certamente alienato a Mussolini molte
simpatie, sicché è da ritenere che la sua popolarità nel paese fosse in
declino. Ma, ancora una volta, tutto dipendeva dalla capacità di
Mussolini di presentare al suo pubblico uno di quei successi, poco
importa se reali od effimeri, capaci di mantenere lucente l'immagine
del regime.
f) La guerra (1939-1943)
L'aggressione della Germania alla Polonia, il 1° settembre 1939, e il
successivo allargarsi di quel conflitto che chiamiamo seconda guerra
mondiale, non determinarono un automatico intervento dell'Italia. Al
contrario, malgrado l'alleanza da poco contratta, per molti mesi fu
possibile credere che Mussolini preferisse mantenere una posizione
neutrale. Tale scelta, del resto, avrebbe corrisposto non solo
all'ormai predominante sentimento pubblico, ma a una prova di saggezza:
esposta su molti fronti, data la propria posizione geografica e la
dislocazione delle proprie colonie, logorata dalle guerre tanto di
recente combattute, assai povera di materie prime, l'Italia tra il 1939
e il 1940 aveva una preparazione militare del tutto inadeguata
all'impegno richiesto dal conflitto in corso. Naturalmente, la
neutralità era contraria al carattere stesso di Mussolini. Inoltre, un
regime la cui immagine aveva fatto tanto largo posto alle virtù
militari, nel quale uno dei fini primari dell'educazione era stato
quello di fare di ogni giovane un potenziale soldato, difficilmente
poteva sottrarsi ad entrare in campo. La decisione di intervenire fu
affrettata dal rapido susseguirsi delle vittorie tedesche e
dall'improvviso tracollo della Francia. Di fronte alla possibilità che
l'Italia fascista non avesse titolo per assidersi al 'banchetto del
vincitore' e quindi si ritrovasse a mani vuote, il 10 giugno 1940
Mussolini rompeva gli indugi e presentava a Francia e Inghilterra la
dichiarazione di guerra.
Si iniziava così un'avventura, nella quale l'Italia si poneva ormai a
rimorchio della iniziativa tedesca e Mussolini vedeva il suo ruolo di
Duce sempre più relegato in secondo piano, all'ombra del Führer
germanico. Troppa, infatti, tra le due potenze alleate, era la
disparità nella quantità e nella qualità dei mezzi bellici, nelle
risorse produttive, e anche nella perizia dei comandanti. Si aggiunga
che, alleandosi alla Germania di Hitler, Mussolini aveva accettato di
condividere fini di guerra che né gli erano noti, né corrispondevano
agli affermati interessi della stessa Italia fascista. In realtà, di
tappa in tappa e attraverso imprese azzardate e clamorosi insuccessi,
sul duro terreno del confronto militare l'Italia fascista mostrò subito
tutte le proprie debolezze e quanto in quel regime le parole poco
corrispondessero ai fatti.
Ciò malgrado, finché la poderosa macchina da guerra tedesca riuscì a
macinare successi, anche le falle italiane vennero tamponate. Quando,
con il progressivo allargarsi del conflitto, neanche le forze tedesche
furono più sufficienti per assicurare la vittoria, l'Italia fu la prima
a cedere. A partire dai primi mesi del 1943 le sconfitte, in Russia, in
Africa, si succedettero con ritmi crescenti, mentre le città italiane
erano sempre più esposte ai bombardamenti alleati. Perduto in Africa
l'ultimo lembo di terra, nel luglio 1943 gli Alleati sbarcavano in
Sicilia. Pochi giorni dopo, il 25 luglio, in una drammatica seduta del
Gran Consiglio del Fascismo e di concerto con il re, Mussolini veniva
deposto e successivamente messo agli arresti. Al suo posto, come capo
del governo, subentrava il maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. Nelle
piazze delle città italiane, quelle stesse che sino a poco tempo prima
avevano accolto folle di cittadini plaudenti ad ascoltare la parola del
Duce, quella notizia veniva ora accolta con giubilo e la gente si
scagliava contro ogni visibile segno del fascismo. Era la fine del
regime fascista.
g) Epilogo (1943-1945)
La storia del fascismo, tuttavia, ebbe un più drammatico epilogo.
Dall'ottobre 1922 al luglio 1943, essa si identifica con la storia
d'Italia e, più precisamente, con la storia del Regno d'Italia, nato
nel 1861. Si potrà dire che il fascismo non ne era un erede legittimo,
si potrà credere che l'eredità risorgimentale più autentica continuasse
a vivere tra alcuni pochi uomini che, esuli all'estero o stranieri in
patria (e per lo più in prigione), contro il fascismo avevano preso
aperta posizione. Ma, sul piano dei fatti, a livello istituzionale, tra
prima e dopo l'ottobre 1922 non c'è soluzione di continuità, come
mostra la permanenza a capo dello Stato dello stesso sovrano. Anche le
più rilevanti decisioni che avevano legato il destino dell'Italia a
quello della Germania, e le leggi più infami che ne erano conseguite
(come quelle razziali), avevano sempre ricevuto il debito assenso del
re. A partire dal 25 luglio 1943 questo sodalizio viene sciolto e
l'Italia ufficiale pretende di poter continuare la sua strada libera
dall'ingombro fascista. Non era una cosa semplice, sia perché troppe
erano le comuni responsabilità e le passate complicità, sia perché
rimaneva sempre in vita l'alleanza con la Germania, anche se ormai
priva del sostegno ideologico.
La decisione del re e del maresciallo Badoglio di rompere
unilateralmente questa alleanza e passare all'altra sponda, annunciata
agli Italiani l'8 settembre 1943, creava una situazione drammatica e
del tutto nuova, nella quale accanto alla guerra sui fronti si apriva
una guerra civile. Il teatro di questa guerra civile fu quella parte
del territorio nazionale che rimaneva ancora in mano all'esercito
tedesco e che solo gradualmente (dal settembre 1943 all'aprile 1945)
verrà occupata dagli eserciti alleati. In questa parte del paese, che
sino al giugno 1944 comprese la stessa Roma e dall'estate di quello
stesso anno si ridusse ai soli territori posti a nord della cosiddetta
linea gotica, fu rimesso in piedi un governo (la Repubblica Sociale
Italiana, più nota come Repubblica di Salò), retto ancora da Mussolini,
che i Tedeschi erano riusciti a liberare. Fu ricostituito anche un
Partito Fascista che assumeva il titolo di 'repubblicano'. Contro
questo nuovo governo e contro i Tedeschi che lo sostenevano, si
organizzò in questi territori una resistenza armata, che solo in parte
si ricollegava a una precedente e mai del tutto estinta opposizione al
fascismo, e che alimentò appunto la guerra civile. Volgendo la guerra
al suo termine con la completa disfatta della Germania, anche questo
rinato movimento fascista fu estinto. Alla fine dell'aprile 1945
Mussolini e i principali capi fascisti furono catturati e fucilati. I
loro corpi furono portati a Milano ed esposti a piazzale Loreto al
pubblico ludibrio.
Si è talvolta detto che in quest'ultima esperienza fascista si
sarebbero ritrovati fermenti di un genuino fascismo originario, che più
tardi il regime avrebbe in buona parte tradito. Ma è ipotesi poco
convincente, sia per l'ambiguità di questi pretesi caratteri originari,
sia perché i termini del tutto eccezionali della situazione che si crea
in Italia dopo l'8 settembre 1943 non consentono di trarre da questa
estrema esperienza elementi qualificanti atti a comporre una specifica
tipologia fascista.
3. Il fascismo fuori d'Italia
Un fenomeno tanto direttamente legato a circostanze particolari, tanto
strettamente dipendente dall'immaginazione e dall'iniziativa di un
uomo, e che traeva gran parte della sua forza dal riuscire a
presentarsi come l'interprete della tradizione nazionale, non sembrava
potersi facilmente trapiantare su terreni diversi da quello italiano
dove era nato. Tuttavia, il fascismo possedette anche caratteri in
grado di suggerire forme di imitazione, sia come movimento che come
regime. Come movimento esso fornì il modello di un partito armato, uno
dei cui compiti essenziali era quello di opporsi al bolscevismo nel
nome dei valori nazionali, il cui apparato seguiva nuovi esempi di
coreografia politica, capaci di esercitare una grande suggestione. Come
regime, sul piano politico esso aveva rivalutato il cesarismo e con
esso la figura del capo carismatico, guida dell'intero popolo, in
opposizione ai tradizionali sistemi rappresentativi; sul piano
economico, con la formula dello Stato corporativo, esso aveva preteso
di risolvere le contraddizioni del capitalismo senza cadere negli
estremi del collettivismo. Perciò la lezione fascista poté fare la sua
strada anche fuori d'Italia. Si giunse addirittura, ma si trattò di una
velleitaria operazione propagandistica, a tentare la formazione di una
Internazionale fascista, che tenne un congresso a Montreux nel 1934.
Esaminando le particolari esperienze di un fascismo fuori d'Italia, si
dovrà comunque distinguere fra quelle situazioni in cui, senza
l'intervento esterno, si ebbero regimi dittatoriali, e le altre
situazioni in cui le tracce di fascismo si trovano soltanto sotto forma
di movimento.
a) Germania
Il caso della Germania è quello che più comunemente, e per ragioni
evidenti, viene considerato nel quadro di una tipologia fascista. Che
molti dei caratteri, per lo più esteriori, del movimento
nazionalsocialista derivino dall'esempio del fascismo italiano o
comunque lo ripetano, è considerazione del tutto ovvia. Ugualmente è
pacifico che Adolf Hitler abbia subito il fascino di Mussolini e ne
abbia, almeno in parte, seguito le orme, sia nelle forme esteriori
impresse al movimento e al regime nazista, sia nello stile di governo.
Tuttavia è da ritenersi pienamente accettabile il giudizio (v. De
Felice, 1975) volto a sottolineare come, ben oltre le apparenti
analogie, esistessero tra fascismo italiano e nazismo tedesco diversità
talmente profonde, di metodo e di sostanza, da rendere ogni
equiparazione improponibile. Del resto, le radicali differenze nel modo
come, in Italia e in Germania, si era raggiunta l'unificazione
nazionale, e il fatto che a quelle tanto diverse tradizioni sia il
fascismo che il nazismo insistentemente si richiamassero, sono ragioni
sufficienti per mettere in guardia contro affrettate generalizzazioni.
b) Portogallo e Spagna
La tesi di un 'fascismo mediterraneo' (Charles F. Delzell), che
includerebbe accanto all'Italia i due Stati della penisola iberica, non
è convincente. Sia il Portogallo che la Spagna, intanto, nel periodo di
vita del fascismo, continuano a vivere ai margini dell'Europa,
ritardando sul piano sociale la trasformazione da società rurali a
società industriali e, sul piano politico, l'adozione di istituzioni
liberaldemocratiche (la Spagna rimase anche del tutto estranea alla
prima guerra mondiale). Nel caso del Portogallo, la dittatura militare
che prese il potere nel maggio 1926 nulla aveva a che vedere con il
fascismo di Mussolini. Anche le successive esperienze che nel 1932
consentirono ad Antonio de Oliveira Salazar di diventare capo del
governo, in una posizione in qualche modo analoga a quella di Mussolini
(il capo dello Stato rimaneva il presidente della Repubblica, generale
Antonio Oscar de Fragoso Carmona), si svolgeranno in un contesto
particolare, il quale rende assai dubbia la proprietà del termine
'fascista' per la dittatura fondata da Salazar. Infatti, anche se sono
presenti alcune analogie, per lo più comuni a ogni dittatura, il
partito di Salazar (União Nacional, fondata nel luglio 1930) ben poco
aveva a che vedere con il movimento fascista, e la sua stessa idea di
Stato corporativo derivava assai più dall'esperienza del pensiero
sociale cattolico che non dall'esempio del regime di Mussolini.
Anche l'esperienza della Spagna rimane assai più in linea con i modelli
tradizionali delle dittature militari che con la nuova esperienza
fascista. Prima della guerra civile, di un vero e proprio movimento
fascista spagnolo non si può parlare. La Falange, fondata nell'ottobre
1933 da José Antonio Primo de Rivera (il figlio del generale Miguel
Primo de Rivera, che dal 1923 al 1930 era stato il capo di una
dittatura militare), del fascismo riprendeva solo alcuni generici
spunti programmatici. Soprattutto, la Falange non riuscì a ottenere
consenso sufficiente da permetterle di avere un ruolo effettivo nella
guerra civile, quando questa incominciò nel luglio 1936; e ciò non
soltanto per l'uccisione dello stesso Primo de Rivera, il 20 novembre
1936, ma per la debolezza del movimento. Dopo di allora la Falange fu
di fatto assorbita dai militari, che se ne servirono specialmente in
funzione propagandistica, cioè per accreditare una corrispondenza tra
il loro operato e l'esperienza fascista. Di fatto, anche rispetto alla
dittatura del generale Franco, che seguì la fine della guerra civile
(aprile 1939), il ruolo della Falange rimase marginale. E di per sé,
malgrado alcuni tratti esteriori come il fatto che Franco si sia voluto
presentare come duce, il Caudillo, la dittatura franchista rimase
un'esperienza profondamente legata alle tradizioni della Spagna e
influenzata dalla Chiesa cattolica, sicché essa rappresenta un caso di
fascismo molto sui generis.
c) Francia
Il caso della Francia è assai interessante e anche particolarmente
controverso. Nel fascismo francese, infatti, accanto a quelli italiano
e tedesco, si è voluto vedere l'esempio di un fascismo classico (Ernst
Nolte, Zeev Sternhell), nel quale, anzi, si ritroverebbero le più
lontane e autentiche origini dell'intero fenomeno. La tesi è
suggestiva, ma confonde cose diverse. Sommariamente i fatti sono i
seguenti. Un regime fascista in Francia non è mai esistito, perché
l'esperienza di Vichy, per il fatto stesso di essere conseguente alla
sconfitta militare e all'occupazione tedesca, non può in senso proprio
definirsi tale. Tuttavia, dopo il giugno 1940 e all'ombra del governo
di Vichy, emergono fenomeni particolari che siamo soliti ritenere
tipici del fascismo: così l'antisemitismo e le persecuzioni contro gli
Ebrei, che precedettero ogni iniziativa germanica e ne furono
indipendenti.
Ugualmente è un fatto che nel periodo tra le due guerre,
e con particolare intensità dopo il 1934, la Francia conobbe un certo
numero di movimenti politici i quali, sia per l'esplicito richiamo al
fascismo degli uomini che li guidarono, sia per le forme di
organizzazione e di azione che assunsero, e anche per gli obiettivi
politici che si posero, possono ritenersi movimenti fascisti. Tali a
esempio, la Croix de Feu, del colonnello conte Casimir de la Rocque; i
Francistes, di Marcel Bucard; la Solidarité Française, di François
Coty; e, soprattutto, il Parti Populaire Français, di Jacques Doriot;
il Comité Secret d'Action Révolutionnaire (CSAR o Cagoulard), di Eugène
Delonde; e il gruppo di neosocialisti di Marcel Déat, il quale fonderà
nel 1941 il Rassemblement National Populaire. È ancora un fatto che
lungo tutto il corso del XIX secolo, e più specialmente dopo il 1870,
la Francia conosce una tradizione politica di forte resistenza ai
portati del 1789 e, più tardi, di violenta opposizione alla Terza
Repubblica. All'interno di questa opposizione, già tra la fine del
secolo e la guerra, maturano sia un acceso antisemitismo, sia forme di
radicalismo eversivo, che assumono per lo più veste nazionalista. Il
caso più noto è quello dell'Action Française, fondata da Charles
Maurras nel 1899.
L'insieme di queste forme di resistenza, e cioè di
reazione, costituiscono un fenomeno di grande importanza, il quale
investe tutta la tradizione politica europea. Tuttavia, definire questo
fenomeno come una forma di fascismo significa dilatare il termine
fascista al punto da smarrirne ogni specificità. Così facendo si
finisce per ignorare la storia effettiva del fascismo, il suo luogo di
nascita, il ruolo determinante che su di esso ebbe l'esperienza della
guerra, e il fatto che, con l'eccezione della parte comunque marginale
che vi possa aver avuto Georges Sorel, nessuna influenza diretta vi
ebbe l'esperienza politica della Francia. Perciò sembra ragionevole
riconoscere quali forme di un fascismo francese solo quei movimenti e
quegli uomini che all'esperienza fascista effettivamente si
richiamarono e che da essa trassero suggestioni documentabili; senza
peraltro dimenticare che in Francia era già ben presente, e da lunga
data, un vasto retroterra di radicata tradizione antiliberale, del
tutto distinta dal fascismo.
d) Inghilterra
L'esperienza fascista in Inghilterra è legata ad una persona, sir
Oswald Mosley. Già laburista e membro del governo, Mosley aveva
ritenuto insufficienti sia sul piano dei fatti che delle idee le misure
prese per fronteggiare la crescente disoccupazione, perciò nel 1931
aveva lasciato il Partito Laburista per dare vita ad un nuovo gruppo,
il New Party. Dopo un viaggio in Italia nel 1932, Mosley ritenne che il
regime di Mussolini offrisse la risposta migliore alle questioni
sociali più urgenti. Perciò, al suo ritorno, egli fondò la British
Union of Fascists (BUF), un movimento che adottava gli emblemi e le
uniformi dei Fasci. Il successo fu scarso, e le simpatie che Mosley
aveva raccolto tanto più declinarono quando, dopo il 1934, egli parve
accostarsi al regime di Hitler. Nel 1936 una legge (Public order act)
vietava l'uso politico delle uniformi e consentiva alla polizia di
impedire cortei e manifestazioni di piazza, ponendo di fatto fine alle
pubbliche dimostrazioni del BUF. Nel 1940, dopo l'inizio della guerra,
Mosley fu internato, ma a quella data nulla più rimaneva del suo
movimento.
e) Belgio
In Belgio la presenza di due gruppi etnici, rispettivamente di lingua
francese e di lingua fiamminga, produceva risentimenti nazionalistici e
tensioni, che vennero accentuandosi a partire dalla guerra. L'ostilità
dei Fiamminghi nei confronti del gruppo rivale culturalmente egemone, i
Valloni, portò alla formazione di alcuni gruppi politici, dai quali
emerse nel 1921 Joris Van Severen, che assunse per un certo tempo la
leadership dei nazionalisti fiamminghi. Suggestionato dagli esempi sia
di Maurras che di Mussolini, nel 1929 Van Severen fondò una milizia di
tipo fascista, e nel 1931 dette vita al Verbond van Dietsche
Nationaal-Solidaristen (VERDINASO), che si proponeva l'unione politica
con l'Olanda nel quadro di un governo di tipo fascista. Ma su questo
stesso terreno Van Severen trovò presto dei concorrenti, che lo
superarono per estremismo. Nell'ottobre 1933 il deputato Staf de Clecq
fondava infatti la Vlaamsch Nationaal Verbond (VNV), un gruppo che si
proponeva un'organizzazione di tipo fascista, ma che guardava più
all'esempio tedesco che a quello italiano. I due movimenti procedettero
paralleli e raccolsero un certo seguito. Ma mentre Van Severen venne
prendendo le distanze dal regime di Hitler e dal suo antisemitismo, la
VNV rimase filonazista sino e durante la guerra.Anche le regioni di
lingua francese produssero in Belgio un movimento che presenta analogie
con quelli fascisti. Esso si raccolse sotto la guida di un leader, Léon
Degrelle, ugualmente sensibile agli esempi del nazionalismo francese e
del fascismo italiano. Profondamente cattolico, nel 1931 Degrelle fondò
un movimento che si richiamava a Christus Rex e si chiamò perciò
rexismo. Nel 1936 egli pubblicò un programma assai critico sia nei
confronti dei regimi parlamentari che del sistema capitalistico. Forte
di consensi nel mondo cattolico, il movimento di Degrelle conobbe un
certo successo alle elezioni del 1936, ma declinò rapidamente negli
anni seguenti, anche per le crescenti simpatie manifestate da Degrelle
nei confronti della Germania hitleriana. Alla vigilia della guerra il
rexismo era virtualmente finito.
f) Romania
Il movimento rumeno che si suole considerare fascista fu la creazione
di un singolare personaggio, Corneliu Zelia Codreanu, in cui si
mescolavano passioni politiche e fanatismo religioso. La base del
movimento, che si articolò successivamente in altre forme di
organizzazione, fu la Guardia di ferro, un gruppo nato nel 1920 tra gli
studenti e che divenne ben presto una formazione armata, dedita al
terrorismo e all'assassinio politico. Nel 1927 Codreanu fondava la
Confraternita della Croce, che avrebbe dovuto essere una sorta di corpo
mistico della Guardia di ferro, e contemporaneamente la Legione
dell'Arcangelo Michele. Nessuno di questi gruppi aveva un vero
programma politico, se non il forte antisemitismo e l'odio per i regimi
rappresentativi. Negli anni trenta la Guardia di ferro venne
affermandosi come una delle più importanti forze politiche della
Romania, ma i rapporti con il governo di re Carol non furono mai buoni.
Nel 1933 la Guardia di ferro fu dichiarata fuori legge e sciolta; come
risposta, tre studenti uccisero il primo ministro Ion G. Duca. Più
tardi il movimento si riprese, ma accentuandosi il carattere
dittatoriale della monarchia, lo stesso Codreanu decideva nel 1938 di
sciogliere la Guardia di ferro. Ciò non bastò a evitare il suo arresto,
insieme a molti dei suoi seguaci, la sua condanna in un pubblico
processo e infine, con il pretesto di un tentativo di fuga, la sua
uccisione. La morte del suo fondatore non significò la fine della
Guardia di ferro, che continuò clandestinamente a seminare violenze.
Dopo lo scoppio della guerra e specialmente dopo l'abbandono della
scena politica da parte di re Carol (settembre 1940) e l'arrivo al suo
posto del generale Ion Antonescu, che della Guardia di ferro era sempre
stato un ammiratore, questa riapparve al fianco dei tedeschi. Tuttavia
neppure Antonescu poté convivere con questo movimento, che dopo avere
occupato importanti posizioni di governo voleva avere completa mano
libera per sfogare il proprio fanatismo. Gli arbitri della partita
erano ormai i tedeschi. Certo del loro appoggio, nel febbraio 1941
Antonescu sconfiggeva sul campo la Guardia di ferro e ne scioglieva
tutte le organizzazioni.
g) Ungheria
Alla fine della guerra la situazione ungherese era assai particolare.
Dissoltosi l'Impero asburgico, di cui essa era stata parte, l'Ungheria
conobbe nel giro di un anno un breve esperimento di governo democratico
(Mihály Károlyi), seguito da un ancor più breve esperimento bolscevico
(Béla Kun), condotto con metodi terroristici. Al tempo stesso,
l'Ungheria era pesantemente penalizzata al tavolo della pace, dove il
suo territorio e la sua popolazione venivano drasticamente ridotti
soprattutto a vantaggio di Romania e Cecoslovacchia. Queste traumatiche
esperienze produssero i seguenti risultati: un profondo risentimento
nazionalista e il desiderio di riacquistare comunque i territori
perduti; sfiducia e sospetto per le potenze vincitrici, soprattutto per
la Francia, e per i regimi politici di cui offrivano esempio; un
radicale anticomunismo e una conseguente intolleranza verso ogni
programma politico che apparisse di sinistra; inoltre, poiché Kun e gli
altri capi comunisti erano ebrei, un assai accentuato antisemitismo. In
questo contesto furono poste le basi di un vasto movimento di reazione,
che spesso si richiamò agli esempi del fascismo italiano, come più
tardi del nazismo tedesco, ma che fu sempre caratterizzato da una
grande frammentazione e che non riuscì mai a diventare forza di governo.
Inizialmente la base della reazione fu l'esercito, al cui interno sin
dal 1919 si costituirono gruppi e unità speciali, che dettero vita a un
vero e proprio terrore bianco. A partire dal 1920, quando con la sua
nomina a reggente l'ammiraglio Miklós Horthy divenne capo dello Stato e
di fatto il gerente di una forma di dittatura militare, il
rappresentante di queste forze fu il capitano Gjula Gömbös, che
sostenuto dai militari divenne prima ministro della Difesa e poi capo
del governo. In tale veste egli introdusse alcune note esteriori di un
regime fascista. Dopo la sua morte (1936), all'interno di questo
variegato movimento guadagnò terreno il gruppo delle cosiddette Croci
frecciate, guidato da Ferenc Szálasi. Il programma delle Croci
frecciate, oltre a ripetere i tradizionali motivi propri a tutti gli
altri gruppi, faceva anche posto ad alcune rivendicazioni sociali,
mutuate dall'esempio del corporativismo fascista. Lo sviluppo di questo
movimento, che raccoglieva consensi anche in ambienti operai, allarmò
il governo. Nel 1938 Szálasi fu arrestato e dopo un sommario processo
condannato. Tuttavia, nelle elezioni del 1939 le Croci frecciate
ottennero un notevole successo. Il movimento continuò a vivere anche
dopo lo scoppio della guerra, che anzi favorì la liberazione di Szálasi
(settembre 1940). Verso la fine della guerra e dopo che i tedeschi
avevano occupato l'Ungheria ponendo fine al regime di Horthy, Szálasi e
le sue Croci frecciate conobbero un effimero successo occupando
posizioni di governo.Altri movimenti di tipo fascista sorsero in vari
paesi europei: così la Heimwehr in Austria, il movimento Lapua in
Finlandia, il Nasjonal Samling in Norvegia. Essi furono legati a
circostanze locali e non presentarono note di particolare originalità.
4. Le interpretazioni
Di per sé le interpretazioni del fascismo sono ipotesi per riportare
l'insieme del fenomeno, in tutti i suoi aspetti, a un comun
denominatore, tale da consentirne una lettura unitaria. D'altra parte,
è facile riconoscere che le diverse forme di fascismo nacquero sul
particolare terreno dei contesti nazionali e da situazioni assai
diverse. Trascurare queste specificità significherebbe cadere in
superficiali generalizzazioni. Ma non si deve neppure indulgere
nell'eccesso opposto. "Non accettare la tesi di un unico fascismo - ha
scritto Renzo De Felice (v., 1993³, p. 21) - non può voler dire negare
l'esistenza di un minimo comun denominatore tra alcuni fascismi negli
anni tra le due guerre. Il vero problema è quello di non restringere o
di non dilatare troppo questo minimo comun denominatore".
Le prime interpretazioni sorsero, come è naturale, sulla base
dell'esperienza italiana. Furono i contemporanei che, di fronte
all'emergere del fenomeno e poi ai suoi sviluppi, cercarono di darne
una chiave di lettura. La maggiore difficoltà stava nel fatto che la
novità stessa del fascismo e la sua mancanza di precisi riferimenti
dottrinari rendevano ogni giudizio e ogni previsione aleatori. Ciò
nonostante, sin dal 1923 uno di questi primi interpreti, Luigi
Salvatorelli (Nazionalfascismo, Torino, Gobetti), colse con grande
intelligenza uno dei tratti più tipici e permanenti del fascismo, e
cioè il suo stretto rapporto col nazionalismo. Dopo di allora le
interpretazioni italiane del fascismo si sono per lo più orientate in
tre direzioni: quella del fascismo come 'rivelazione', quella del
fascismo come 'parentesi', quella del fascismo come 'reazione di
classe'. La prima di queste tesi (Piero Gobetti, Giustino Fortunato)
sottolinea lo stretto rapporto tra il fenomeno fascista e alcune
particolari deficienze già presenti nel precedente corso della storia
d'Italia; la seconda tesi (Benedetto Croce) considera invece il
fenomeno come dovuto a contingenze particolari e irripetibili, perciò
la sua natura estranea alla tradizione nazionale; la terza tesi
(Antonio Gramsci) vede nel fascismo uno strumento della lotta di classe
della borghesia capitalistica.
Queste tre interpretazioni, avanzate poco dopo che il fascismo aveva
conquistato il potere, furono in più modi riprese dopo la sua caduta.
Oggi, dopo alcuni decenni di rinnovati studi, nessuno sosterrebbe più
la tesi della parentesi. Anche la tesi della reazione di classe,
malgrado essa abbia improntato un largo numero di studi ispirati da
particolari ideologie politiche, non sembra trovar più molto credito.
La tesi del fascismo come rivelazione, invece, in quanto invito a
considerare le interne ragioni di debolezza dello Stato liberale
italiano e ad approfondire il rapporto tra storia d'Italia e fascismo,
appare come l'indicazione più feconda.
Per avere proposte interpretative riguardanti l'insieme del fenomeno
fascista, bisognerà attendere l'avvento del nazismo in Germania. Dopo
di allora furono avanzate numerose tesi il cui fine era quello di
indicare quanto vi fosse di comune tra l'esperienza italiana, quella
tedesca e altre esperienze di tipo fascista che venivano via via
maturando. Il terreno preferito di queste interpretazioni fu quello
sociologico, nel cui ambito il fascismo fu visto soprattutto in
rapporto allo sviluppo della società di massa e come reazione dei ceti
medi all'emergere di un quarto stato (ad esempio Talcott Parsons, Erich
Fromm, ecc.). Il limite maggiore di queste tesi, come del resto di
altre più recenti ma sempre in questa chiave, è quello di elaborare
teorie sulla base di una troppo scarsa e troppo superficiale conoscenza
dei fatti. Ciò è specialmente vero per quello che riguarda l'esperienza
italiana di cui spesso, anche per deficienze linguistiche, molti di
questi studiosi sanno ben poco.
Dopo la fine della guerra le tesi interpretative generali che sono
state proposte e che, per il loro valore, meritano di essere segnalate,
si riducono a tre. La prima è quella del fascismo come forma
particolare di un fenomeno più vasto, il totalitarismo (Hannah Arendt).
La seconda tesi è quella che vede nel fascismo un fenomeno
transpolitico, cioè il frutto di una crisi della coscienza europea che
è in primo luogo crisi morale e religiosa (Ernst Nolte, Augusto Del
Noce). La terza tesi indica nel fascismo la traduzione letterale di una
dottrina politica reazionaria, che si sarebbe sviluppata soprattutto in
Francia tra il 1870 e il 1914 (Zeev Sternhell). Ciascuna di queste
interpretazioni offre interessanti spunti di riflessione. In
particolare, la prima tesi coglie alcuni caratteri generali del nostro
tempo e alcune significative analogie tra regimi politici, quello
comunista e quello fascista, apparentemente antitetici, consentendo con
ciò di spostare l'attenzione sul più generale sfondo della storia
europea. Anche la seconda tesi presenta elementi di grande suggestione
e rimanda a questioni che riguardano la natura del contesto entro il
quale il fenomeno fascista si colloca.
Tuttavia questi tipi di lettura
del fascismo rischiano di introdurre schemi i quali sarebbero di per sé
applicabili anche là dove il fascismo ha lasciato ben scarsi segni. Il
rischio, insomma, è quello di non tenere sufficiente conto del concreto
andamento dei fatti e delle condizioni particolari che hanno consentito
al fascismo di emergere, cioè di non tenere sufficiente conto della sua
effettiva storia. Questo limite è particolarmente evidente nella terza
tesi, la quale stabilisce rapporti del tutto plausibili sul piano
logico, ma che non trovano poi riscontro sul piano storico.
Complessivamente, la lezione che da questo insieme di studi si può
trarre è che il fascismo ha rappresentato una particolare forma di
reazione a quelle trasformazioni, morali, politiche e sociali, che
hanno investito l'Europa e che sono il portato di una profonda
rivoluzione, per la quale il termine più appropriato sembra quello di
'liberale'. Il fine generale di questa reazione è stato quello di
ostacolare queste trasformazioni o quantomeno, quando esse si
dimostravano inevitabili, reciderne le radici che affondavano pur
sempre in una cultura illuministica. Ma questa reazione,
indipendentemente da ogni precedente proposito, fu resa possibile solo
dalle particolari condizioni successive alla guerra, dalla quale perciò
strettamente dipende. Al tempo stesso, uno dei più significativi
caratteri di questa reazione è stato quello di sapersi sottrarre al
vaglio dello spirito critico, sfruttando con un uso accorto delle
grandi parole l'emotività dei singoli e delle masse. In tal modo il
fascismo è riuscito a imporsi con una sapiente opera di propaganda,
dando di sé una rappresentazione immaginaria. Le ragioni di questo
successo rimangono ancora in gran parte da chiarire.
5. Questioni aperte
Vi sono nella storia del fascismo alcune questioni generali, che
meritano particolare attenzione per la loro rilevanza e per le
discussioni che hanno sollevato.
a) Il ruolo della Grande guerra
A lungo la crisi italiana e poi europea, che ha aperto la strada al
fascismo, è stata vista come la conseguenza diretta della guerra.
Tuttavia più di recente si è sottolineato il fatto che, negli anni
successivi al 1918, sia in Italia che in Germania arrivano al pettine
nodi di problemi le cui radici affondano più indietro nel tempo. Una
più piena comprensione delle circostanze nelle quali le istituzioni
liberali fecero fallimento e maturò il fascismo, richiede perciò che si
risalga ben oltre la guerra, alla quale non si possono attribuire
effetti che hanno cause ben più antiche. Questa nuova prospettiva non
dovrà d'altra parte mettere in ombra due importanti aspetti della
storia del fascismo, che rimangono incontrovertibili. Il primo riguarda
il già ricordato stato d'animo dei fascisti, il quale dipende
interamente dalle esperienze della guerra. Il secondo aspetto riguarda
lo sconvolgimento che la guerra ha prodotto nella tradizione
conservatrice. Sino al 1918 i conservatori potevano ancora riferirsi a
una qualche forma di legittimismo, ritrovando nella tradizione la fonte
dell'autorità e del potere. Dopo il 1918, cioè dopo la guerra, tale
riferimento non è più possibile. Ne deriva che ogni programma
conservatore dovrà da ora in poi assumere un carattere radicale. In
conclusione, anche se la sola guerra non basta a spiegare come nacque
il fascismo, rimane del tutto valida la tesi secondo la quale senza la
guerra il fenomeno fascista non è comprensibile.
b) La tradizione conservatrice e il nazionalismo
La questione del rapporto tra il fascismo e la tradizione conservatrice
è controversa, anche perché, facendo credito alla pretesa del fascismo
di essere stato una rivoluzione e di aver fondato uno Stato popolare, e
alla luce di alcuni tratti della biografia mussoliniana, taluni ancora
ritengono plausibile l'ipotesi di una concordanza tra il fascismo e la
sinistra. L'equivoco sembra aver soprattutto due cause. La prima, il
non tener conto del fatto che uno dei tratti più tipici del fascismo è
quello di usare le parole come strumenti atti a suscitare emozioni,
senza nessun riferimento al loro significato logico. Pertanto nessun
credito può essere attribuito, senza un riscontro obiettivo, alle
diverse immagini che il fascismo ha saputo dare di sé e che rimangono
un puro artifizio retorico. Un esame disincantato del sistema fascista
mostra chiaramente come al suo interno i tradizionali ceti detentori di
prestigio sociale e di potere economico abbiano trovato ampia
protezione. Del resto, la stessa propaganda fascista ha sempre
insistito sulla continuità tra i nuovi regimi e le precedenti
tradizioni nazionali. La seconda causa consiste nel mancato
riconoscimento del fatto che, come già ricordato, con la fine della
guerra e la sconfitta di quei regimi che ancora rappresentavano forme
di ancien régime, la tradizione conservatrice viene privata della sua
stessa base, e quindi condannata a estinguersi o a trasformarsi. La
strada della trasformazione era già stata tracciata dal nazionalismo.
Proprio attraverso il nazionalismo, in Italia come in Germania, la
tradizione conservatrice era confluita nel fascismo. Ciò spiega anche
il vasto consenso e l'appoggio politico di cui il fascismo godette da
parte delle forze conservatrici.
c) Il Duce
Una delle più significative differenze tra il fascismo e altri
movimenti politici del nostro tempo è che in esso la figura del capo
(in Italia il Duce, in Germania il Führer) ha un ruolo determinante. Si
tratta di un movimento che nasce per volontà di un uomo e che dalle
scelte di quest'uomo, dai suoi pregiudizi e spesso anche dai suoi
umori, vede dettato il corso della sua storia. Naturalmente ciò non
significa che, per l'attuazione dei suoi propositi, il Duce non dovesse
fare i conti con le circostanze ambientali e con la presenza in esse di
altre forze, né che, nella costruzione dei suoi progetti immaginari o
reali, egli non si servisse del lavoro altrui, cioè di materiali già
presenti sulla scena politica come su quella culturale. Ma pur
riconosciuti questi limiti anche nella libertà d'azione di Mussolini, e
accettata la possibile dipendenza dei motivi ispiratori della sua
azione da fonti esterne, rimane il fatto che non vi è discordanza
possibile tra il contenuto effettivo del fascismo e la volontà del
Duce. Non è quindi un caso che la più articolata e documentata storia
del fascismo italiano sia la biografia di Mussolini scritta da Renzo De
Felice.Questa identificazione del fascismo con la figura di un uomo
pone naturalmente molti problemi. Sarà opportuno segnalarne almeno due.
Il primo è che, come già ricordato, in Italia tra Mussolini e il
movimento fascista vi è un rapporto di subordinazione, mai di piena
identificazione. Il Duce del fascismo è in realtà il Duce di un'Italia
fascista che pretende di essere l'Italia tout court. In essa il Partito
Fascista, malgrado il suo carattere di massa, è solo una parte. Al
tempo stesso, Mussolini è anche capo del Partito Fascista, e questo
deve via via aggiornarsi per corrispondere alle esigenze di una
politica che Mussolini elabora e impone autonomamente. Mussolini appare
quindi l'elemento di raccordo tra il fascismo-movimento e il
fascismo-regime, ma i rapporti tra gli elementi di questa triade non
sono semplici.
Il secondo problema riguarda il carattere stesso della politica
mussoliniana. In essa alcuni studiosi ritengono si possano ritrovare le
linee di un disegno, che deriverebbe da un nucleo di idee originarie.
Pertanto in Mussolini sarebbero presenti i tratti di una chiara
personalità intellettuale e morale, e la sua azione, pur tenendo conto
delle circostanze, corrisponderebbe a uno sviluppo coerente del suo
pensiero. Altri studiosi, invece, pur non negando affatto che Mussolini
avesse un qualche bagaglio culturale e che fosse capace di servirsene
per costruire un suo discorso politico e dare sostegno alla sua azione,
non ritengono fondata la tesi di un rapporto coerente in Mussolini tra
pensiero e azione, per le seguenti ragioni. In primo luogo, perché la
qualità del suo pensiero, la sua sostanziale rozzezza, fanno dubitare
che Mussolini avesse sufficiente senso critico per una lettura della
realtà capace di superare i più volgari pregiudizi. In secondo luogo,
perché l'uomo stesso ha sempre affermato di anteporre i fatti alle
idee; di quest'ultime ha sempre fatto un uso consapevolmente
strumentale, non preoccupandosi mai, come mostrano abbondantemente i
suoi scritti, di cadere in palesi contraddizioni, anzi giovandosi di
queste contraddizioni, in quanto esse gli consentivano di coltivare un
accorto trasformismo e ottenere consenso in direzioni diverse. Della
coerenza, insomma, Mussolini si fece sempre beffe. In terzo luogo, la
biografia di Mussolini mostra consistentemente l'assenza nell'uomo di
quel senso morale, che da un lato è capacità di credere, di avere cioè
convinzioni profonde risalenti pur sempre a un sistema di valori;
dall'altro, è disposizione a testimoniare coi fatti la serietà delle
proprie convinzioni.
d) Le origini culturali e la dottrina del fascismo
È un fatto che, dopo aver conquistato il potere, il fascismo presentò
una propria 'dottrina', nella cui elaborazione ebbe gran parte il
filosofo Giovanni Gentile. Ugualmente è un fatto che, a sostegno della
sua azione e nella complessa operazione volta ad ottenere un sempre più
vasto consenso, il fascismo si servì di un'ideologia, cioè di un
complesso di espressioni verbali atte a giustificare i fatti. A sua
volta questa ideologia riprendeva per la più parte motivi e formule già
presenti nella cultura politica prima della guerra. Sulla base di
questi dati si sono talora tratte due conseguenze. La prima, che
accanto e oltre il sistema di potere fascista sia identificabile una
cultura fascista, cioè una dottrina corrispondente ai termini di quel
sistema di potere, il quale ne sarebbe stata la coerente applicazione.
A sostegno di questa tesi si sono spesso richiamati i nomi di quei
molti intellettuali, alcuni di gran rilievo, che effettivamente
aderirono al fascismo. La seconda conseguenza, che essendo i tratti di
una cosiddetta dottrina fascista già evidenti ben prima della nascita
del movimento fascista, esista tra quella dottrina e quel movimento una
dipendenza diretta. Il movimento fascista avrebbe perciò avuto un suo
ben definito sostegno ideologico e la sua storia segnerebbe un coerente
sviluppo dalle idee ai fatti.
Queste due tesi non convincono per le seguenti ragioni. Esse, intanto,
non tengono conto della storia del fascismo, dei suoi modi e dei suoi
tempi, e non tengono conto che tra quel retroterra culturale e il
fascismo c'è la guerra. La presenza di quel retroterra culturale è
certamente un dato importante e consente di spiegare, almeno in parte,
la facilità con la quale il fascismo ha guadagnato consenso e come esso
sia riuscito a darsi post factum una genealogia nobilitante. Ma ciò non
significa che essa sia legittima e che possa perciò parlarsi di origini
culturali del fascismo, una ipotesi che lo studio dei fatti non
conferma. Inoltre, la cosiddetta dottrina del fascismo, di cui esistono
più versioni, è un guazzabuglio, una sorta di magazzino dei valori
nazionali, dove a seconda delle circostanze e delle necessità si sono
riposte le più diverse esperienze, senza alcuna pretesa di conciliarle
tra loro, cioè di comporle in un quadro razionale, né di conciliarle
coi fatti, cioè con l'azione politica del fascismo. Il contenuto di
questo magazzino è di grande interesse, perché da esso trasse le sue
armi quel formidabile strumento di potere che fu la propaganda
fascista. Ma esso va visto per quello che fu e per la funzione
effettiva che svolse nel sistema di potere del fascismo, nel quale la
cultura non ebbe il compito di elaborare un modello ideale che servisse
da guida all'azione, bensì quello di manipolare l'opinione pubblica in
vista del consenso: la cultura fu uno strumento di propaganda. Infine,
la constatazione dell'adesione al fascismo di molti intellettuali è un
fatto del tutto irrilevante rispetto alla questione dell'identità e del
carattere di una cultura fascista. Il rapporto tra la cultura e il
fascismo riguarda, infatti, il contributo di pensiero, quale si
concretizza in particolari opere, che gli intellettuali hanno potuto
dare più o meno intenzionalmente al regime di Mussolini. Su questo
piano il bilancio è scarso. Tutt'altra questione quella del rapporto
tra il fascismo e le singole persone degli intellettuali, che riguarda
non più il pensiero ma il comportamento, cioè non le opere ma l'etica e
la biografia.
e) L'antifascismo
Di fronte all'emergere del fascismo e alla sua violenza è ben naturale
che vi sia stata, sin dalle origini, una opposizione, la quale fu
anzitutto costituita da coloro stessi che di quella violenza erano le
vittime. Accanto alla storia del fascismo esiste dunque una storia
dell'antifascismo. Questa opposizione, tuttavia, fu repressa abbastanza
facilmente. A partire dal 1925 essa si ridusse per lo più o a forme di
lotta clandestina, che l'efficienza dell'apparato poliziesco rese
sempre più sporadiche finendo i più degli oppositori attivi al carcere
o al confino; oppure alla emigrazione, sicché la storia
dell'antifascismo è in gran parte una storia di fuorusciti. Pochi
personaggi, e per lo più figure di elevata posizione sociale o di alta
statura intellettuale, primo tra i quali Benedetto Croce, poterono
rimanere in Italia e qui continuare in qualche modo la loro opera,
evitando il carcere, pur essendo notoriamente antifascisti. Di fatto
perciò, durante il corso del regime, il fascismo riuscì a ridurre
l'antifascismo su posizioni del tutto marginali e per lo più esterne
all'Italia. Le cose cambiano con la guerra e soprattutto con il 25
luglio 1943, quando l'opposizione al fascismo trova, nell'esasperazione
degli Italiani di fronte alla disfatta militare e nei nuovi sentimenti
antitedeschi, un nuovo terreno di lotta. Gli esiti di questa lotta sono
noti. Le questioni controverse sono due.
La prima è quella del rapporto tra la resistenza al fascismo, a partire
dall'estate 1943, e il precedente antifascismo degli anni in cui il
regime di Mussolini sembrava saldamente affermato. Una certa continuità
tra vecchio e nuovo antifascismo è facilmente riscontrabile sia sul
piano per così dire istituzionale, cioè delle organizzazioni politiche,
dove i partiti che compongono i CLN (Comitati di Liberazione Nazionale)
sono i partiti tradizionali (con l'eccezione del nuovo Partito
d'Azione); sia sul piano per così dire degli ideali, cioè delle
tradizioni politiche a cui il nuovo antifascismo si richiama. Tuttavia,
gli uomini del nuovo antifascismo, e tanto più coloro che partecipano
alla lotta armata, sono in gran parte uomini nuovi, appartengono a una
generazione che si è formata sotto il fascismo, di esso hanno spesso
subito le tentazioni, e solo di fronte alla sconfitta militare gli
hanno definitivamente voltato le spalle. Perciò, indipendentemente
dalla onestà intellettuale e morale dei singoli, questo antifascismo si
nutre di esperienze politiche ben diverse da quelle dell'antifascismo
precedente.Il secondo problema consiste nel vedere contro quale forma
di fascismo il nuovo antifascismo si è effettivamente indirizzato, e
perciò che cosa ha significato la vittoria del 1945. La difficoltà
nasce dal fatto che con il 25 luglio 1943 il regime fascista era stato
messo fuori scena, e il fascismo che si era riproposto dopo l'8
settembre, e contro il quale la Resistenza ha lottato e vinto,
corrispondeva assai poco al sistema di potere che aveva governato
l'Italia per oltre vent'anni. La sconfitta di quest'ultimo fascismo è
cosa certa, quella del fascismo che si era eretto in regime è un po'
meno chiara. Se anche, con il referendum del 1946, uno dei pilastri di
quel regime, la monarchia, fu effettivamente abbattuto, si ha poi
l'impressione che una parte consistente di quelle strutture, e della
mentalità che ne consentiva il funzionamento, sia rimasta
sostanzialmente integra, malgrado la vittoria dell'antifascismo, ben
oltre il 1945.