Esistenza
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Nel linguaggio filosofico, lo
stato di ogni realtà in quanto è tale, o, in senso specifico, lo
stato della realtà che può essere oggetto di un’esperienza
sensibile.
1. E. ed essenza
Nella storia della filosofia, il
termine e. (existentia)
ha assunto rilievo soprattutto nella filosofia medievale in
relazione al problema del suo rapporto con l’essenza. In particolare, centrale è in
Tommaso d’Aquino la distinzione fra essenza ed e. intesa come
‘atto di essere’, per cui negli esseri particolari l’essenza,
espressa nella definizione, può essere puramente pensata, senza
che esista; mentre in Dio l’e. consegue necessariamente al
pensiero dell’essenza. Nella filosofia posteriore è fondamentale
la nozione leibniziana che pone l’e. come una tendenza, una
esigenza delle essenze puramente possibili a realizzarsi in
proporzione al loro grado di realtà; essa è retta dal principio
della mentre l’essenza da quello della possibilità . Per I. Kant
l’e. è ciò che in una cosa non può essere ridotto a concetto, a
elemento dell’essenza; è la posizione assoluta di un oggetto.
Nella filosofia hegeliana l’e. non è più opposta all’essenza, di
cui è l’apparire, l’immediatezza. Essa esprime il particolare,
il transeunte e caduco, è solo un momento destinato a essere
‘superato’, cioè tolto e conservato, nel superiore e più vero
momento della ‘realtà’.
Nell’ambito della riflessione filosofica contemporanea una
reimpostazione del problema dell’e. è dovuta a R. Carnap, il quale
distinse tra questioni di e. interne (relative alle entità
appartenenti al campo di indagine di una disciplina) ed esterne
(relative alle entità in sé, indipendentemente dalle discipline
che le studiano), considerando legittime solo le prime.
2. Esistenzialismo
La ‘filosofia dell’e.’ è
l’esistenzialismo , movimento dapprima filosofico e poi anche
letterario. Come movimento filosofico designa quegli indirizzi
di pensiero che concepiscono la filosofia non come disciplina
contemplativa e disinteressata, ma come impegno del singolo
nella ricerca del significato e possibilità dell’e., intendendo
con questo termine il modo d’essere specifico, originale e
proprio dell’uomo. A seconda dei modi di concepire il singolo
nelle sue relazioni con l’‘altro’ (sia questo uomo, natura,
essere ecc.), diversi sono stati gli esiti storici
dell’esistenzialismo, caratterizzato nella sua prospettiva
generale da una aperta insoddisfazione per la filosofia della
conciliazione e della totalità (per es., di stampo panlogistico
hegeliano), e da una accentuazione dei motivi antinomici e
problematici.
L’ esistenzialismo filosofico, sorto in Germania nel primo
dopoguerra, come Kierkegaard-Renaissance,
in quanto si rifà particolarmente al pensiero di S. Kierkegaard,
presenta due direzioni principali: quella umanistico-mondana, in
certo modo atea, e quella teologica. La prima è tipicamente
rappresentata, in Germania, da M. Heidegger, che trasforma la
fenomenologia del suo maestro E. Husserl in ontologia, dà un
contenuto esclusivamente umano e mondano ai temi teologici
(angoscia, peccato, colpa, decisione ecc.) dell’esistenzialismo
kierkegaardiano, e concepisce l’esistere autentico come ‘angoscia’
rivelatrice del ‘nulla’; in Francia è rappresentata da J.-P.
Sartre. La seconda direzione (che, sulle orme di Kierkegaard,
concepisce l’esistere autentico come rapporto del singolo a Dio,
mediante il quale ci si libera dall’angoscia del nulla) è
rappresentata in Germania dalla ‘teologia della crisi’ del
protestante K. Barth. Avviamento all’atmosfera religiosa di questa
tendenza è da considerare il pensiero di K. Jaspers, il quale
concepisce l’e. come rapporto al trascendente (das Umgreifende, il
«Tutto-avvolgente», cioè il fondo dell’essere che, pur
trascendendoci, ci include in sé) e svolge particolarmente il tema
del ‘naufragio’ o ‘scacco’. In Francia la direzione teologica è
rappresentata da G. Marcel, L. Lavelle, R. Le Senne (che si
ispirano specialmente alla tradizione agostiniana francese di B.
Pascal), e anche da L. Chestov e N. Berdjaev di origine russa, che
si rifanno al cristianesimo ortodosso e all’esperienza
esistenziale di F. Dostoevskij, oltre che a quella di Kierkegaard.
Accanto all’ esistenzialismo filosofico si è venuto svolgendo un
esistenzialismo letterario, specialmente in Francia, con le opere
teatrali e narrative di J.-P. Sartre, S. de Beauvoir, A. Camus.
In Italia l’ esistenzialismo ha suscitato largo interesse nel
campo degli studi filosofici e di quelli psicopatologici, mentre
ha avuto scarsa eco nel campo letterario. In filosofia l’indirizzo
umanistico-mondano ha avuto i suoi esponenti in N. Abbagnano, E.
Paci, C. Luporini (i quali, in polemica con l’ esistenzialismo
negativo, tedesco e francese, hanno accentuato il significato
positivo dell’e.), quello teologico è stato rappresentato da E.
Castelli.
Enciclopedia del Novecento (1977)
di Nicola Abbagnano
Esistenzialismo
Sommario: 1. I caratteri generali. 2.
Precedenti storici. 3. Possibilità, trascendenza, progetto. 4.
Finitudine: angoscia, colpa, assurdo.5. La morte. 6. Scelta,
destino, libertà. □ 7. Mondo, scienza, tecnica. 8. Coesistenza e
società. 9. Tempo e storia. 10. Arte e linguaggio. 11. Sviluppi
ontologici e teologici. 12. Sviluppi politici. 13. Conclusione. □
Bibliografia.
1. I caratteri generali
Sia la connotazione che la denotazione del termine ‛esistenzialismo'
sono problematiche. Esso è stato infatti definito in modi diversi;
e, a seconda della definizione che se ne dà, un filosofo o un
indirizzo filosofico può essere o meno considerato come espressione
dell'esistenzialismo. Questo spiega perché alcuni dei filosofi che
sono considerati tra i rappresentanti maggiori dell'esistenzialismo
(come Heidegger e Jaspers) ne abbiano rifiutato la qualifica. E già
questo fatto esclude che l'esistenzialismo possa essere considerato
come una scuola filosofica (quale è stato per es. l'idealismo
classico tedesco) che obbedisca a pochi capisaldi dottrinali. Esso è
piuttosto un clima culturale e filosofico, che ha caratteri generali
ben discernibili, ma nel quale sono nati e si sono sviluppati
indirizzi di pensiero diversi che hanno talora condotto a
conclusioni antitetiche. Questo tuttavia non annulla ogni affinità
tra i pensatori che sono stati designati con questo termine: né le
sue caratterizzazioni diverse si escludono sempre reciprocamente,
perché il più delle volte esprimono, ognuna, qualche tratto
fondamentale di esso, più evidente o dominante in alcuni filosofi e
meno in altri. Tenendo presenti queste avvertenze, i tratti
fondamentali dell'esistenzialismo possono essere ricapitolati nel
modo seguente.
1. L'esistenzialismo assume come suo punto di partenza l'analisi
dell'‛esistenza' intesa come modo d'essere proprio dell'uomo: un
modo specifico, diverso da quello di tutti gli altri enti del mondo.
Essa è in ogni caso un rapporto (o un insieme di rapporti) col mondo
ma non include dentro di sé il mondo stesso (o la realtà in
generale) come se questo fosse solo ‛rappresentazione' o ‛idea'. In
generale l'esistenzialismo rifiuta l'idealismo gnoseologico e anche
quando identifica l'esistenza con la ‛coscienza' nega che alla
coscienza si riduca la realtà delle cose ma piuttosto interpreta la
coscienza stessa come ‛trascendenza' cioè ‛apertura' alla realtà o
manifestazione di essa.
2. Il rapporto con l'essere (con le cose, con gli altri uomini, col
mondo, con Dio), costitutivo dell'esistenza, non è mediato e
oggettivo, ma ‛immediato' o ‛immediatamente' vissuto; e comprende
non solo l'aspetto intellettuale o conoscitivo ma anche quello
emotivo e pratico. I filosofi esistenzialisti trascurano la
distinzione tradizionale tra conoscenza, sentimento e attività
pratica: ritengono che tutte queste attività sono
indistinguibilmente fuse in ogni tipo o forma di rapporto che
l'esistente può avere con gli altri enti. La nozione di esperienza
vissuta (Erlebnis), della quale si erano avvalsi Dilthey e
Husserl, è presupposta e utilizzata dall'esistenzialismo.
3. L'esistenza è sempre individuata, concreta, singola e
irripetibile, anche se può decadere ad esistenza ‛anonima'
(esistenza ‛inautentica'). Ciò vuol dire che l'esistenza non può
essere ridotta a elementi o concetti universali o razionali né
identificarsi con la ragione intesa come attività impersonale o
processo dialettico. In tal senso si suol dire che per
l'esistenzialismo l'esistenza ‛precede' l'essenza: cioè che solo a
partire dall'individualità concreta si può intendere la formazione e
la funzione di procedure, concetti o progetti a carattere
universale. Ma questo stesso carattere universale non consiste in
altro che nella possibilità della comunicazione tra un'esistenza e
l'altra.
4. Come rapporto individuato e concreto con altri enti, l'esistenza
si trova sempre in una ‛situazione' altrettanto individuata e
concreta che in qualche misura la condiziona. In ciò consiste il
carattere finito (la ‛finitudine') dell'esistenza. Anche quando
ammette che l'esistenza è in rapporto con l'infinito,
l'esistenzialismo rifiuta l'identificazione del finito (esistente,
uomo) con l'infinito (Dio, Mondo). Per la sua finitudine l'esistenza
‛non è' l'essere. Questa negazione è assunta da alcuni
esistenzialisti come la dichiarazione della radicale o totale
‛nullità' dell'esistenza; da altri soltanto come il riconoscimento
che l'esistenza non ha lo stesso ‛modo d'essere' dell'Essere totale
e infinito.
5. Come rapporto con l'Essere, l'esistenza è una ‛possibilità di
essere', o un insieme di possibilità, che possono realizzarsi o
meno. L'esistenza non è una realtà sostanziale che ha o possiede
certe possibilità, ma è le sue possibilità stesse. Perciò, anche, è
la scelta fra tali possibilità e il progettarsi sul fondamento di
esse. In questa scelta e progettazione consiste la libertà.
6. L'analisi dell'esistenza non è solo attività teoretica, cioè pura
contemplazione, ma è essa stessa scelta e progettazione: sicché
coinvolge (cioè impegna) colui stesso che la mette in opera.
A seconda degli sviluppi che tali capisaldi subiscono si possono
distinguere tre tipi di esistenzialismo cioè: a) l'esistenzialismo
‛ontologico', per il quale le possibilità esistenziali sono soltanto
impossibilità di essere l'essere e, tuttavia, manifestano in qualche
modo l'essere stesso. È l'indirizzo proprio di M. Heidegger, K.
Jaspers e J.-P. Sartre; b) l'esistenzialismo ‛fideistico', per il
quale le possibilità esistenziali sono garantite dall'essere stesso,
identificato con Dio, o includono una possibilità privilegiata che è
un diretto dono di Dio, quella della fede. Questo indirizzo è stato
quello di G. Marcel, L. Lavelle, R. Le Senne, N. Berdjaev; e, per la
seconda alternativa, di R. Bultmann; c) l'esistenzialismo
‛umanistico', che mantiene alle possibilità esistenziali il loro
carattere problematico, rifiuta di considerarle garantite
dall'Essere o riducibili tutte a impossibilità, e perciò si dedica a
cercare criteri che consentano la scelta tra esse e progetti che non
siano preliminarmente condannati all'insuccesso. Questo è
l'indirizzo seguito dall'esistenzialismo italiano, da M.
Merleau-Ponty e, parzialmente, da A. Camus.
2. Precedenti storici
L'esistenzialismo è stato il clima dominante degli anni
immediatamente seguenti alla seconda guerra mondiale e si è
presentato, in primo luogo, come la crisi dell'ottimismo romantico,
fondato sulla garanzia che un Principio infinito o una Ragione
assoluta avrebbe offerto all'ordine perfetto del mondo e al
progresso infallibile della storia. Contro l'esaltazione romantica
dell'uomo e della sua storia come manifestazione e realizzazione
compiuta di una Ragione onnipotente o di altra onnipotente e
perfetta Realtà, l'esistenzialismo ha insistito sui caratteri
negativi dell'esistenza umana nel mondo, sul suo disordine e la sua
casualità, sull'anonimato e l'alienazione in cui essa può cadere e
cade di continuo, sui rischi di ogni genere che la minacciano e
sulla sua ineliminabile fragilità. Nelle sue analisi
l'esistenzialismo si è perciò rifatto di preferenza a pensatori che
nell'Ottocento erano rimasti isolati e soprattutto a Kierkegaard e a
Nietzsche.
Kierkegaard era stato un critico radicale del razionalismo
romantico: all'universalità della ragione infinita aveva
contrapposto la singolarità dell'esistenza finita e alla ‛necessità'
del processo dialettico, nel quale la ragione si realizza, aveva
contrapposto le possibilità alternative fra le quali l'esistenza ad
ogni istante si trova a scegliere. Della nozione di possibilità
aveva anche dato un chiarimento decisivo (v. Kierkegaard, Philosophiske
..., 1844) affermando l'irriducibilità di essa alle altre
categorie modali e polemizzando a questo proposito con Aristotele e
con Hegel. Contro Aristotele, osservava che il necessario non può
essere ritenuto possibile perché non può non essere; nè il possibile
può essere ritenuto necessario perché può non essere. E contro Hegel
osservava che definire la necessità come ‟sintesi del possibile e
del reale" è frutto della stessa confusione tra due modi d'essere
che si escludono. Ma nelle sue opere più note non si atteneva
coerentemente a queste notazioni; perché ammetteva l'infinità dei
possibili e il loro carattere totalmente negativo, che perciò
determinano l'‛angoscia' per ciò che riguarda il rapporto dell'uomo
con il mondo (v. Kierkegaard, Om begrebet ..., 1844) e la
‛disperazione' nel rapporto dell'uomo con se stesso (v. Kierkegaard,
1849). Dalla minaccia del possibile così inteso, l'uomo può
salvarsi, secondo Kierkegaard, con un ‛salto' nella fede religiosa
cioè affidandosi a Dio al quale ‟tutto è possibile". Tuttavia la
fede non è tra le possibilità umane, ma è la possibilità conferita
all'uomo direttamente da Dio mediante la grazia.
Dall'altro lato, Nietzsche aveva insistito anch'egli sul carattere
individuale e singolo dell'esistenza, gettata tuttavia in un mondo
dominato dal caso e da valori fittizi; e aveva tentato di
rintracciare la via verso un'esistenza più alta e più piena, che si
fondi su una totale e gioiosa accettazione di sé e che offra
all'uomo le possibilità nuove annunciate da Zaratustra. L'ateismo di
Nietzsche e il teismo di Kierkegaard hanno costituito i due assi
principali intorno a cui ha ruotato l'esistenzialismo contemporaneo.
Ha scritto Jaspers a questo proposito: ‟Kierkegaard e Nietzsche
fanno entrambi un salto nella trascendenza, ma in una trascendenza
in cui, in verità, nessuno può seguirli: Kierkegaard nel
cristianesimo concepito come assurdo paradosso, con la conclusione
negativa della totale rinuncia al mondo e come un martirio
necessario, Nietzsche con l'intuizione dell'eterno ritorno e del
superuomo" (v. Jaspers, 1935, cap. 1, È 2). Con la sua dottrina
dell'eterno ritorno cioè della ripetizione indefinita dell'identico
ciclo del mondo si collega anche quella dell'amor fati o
del ‛destino': inteso come accettazione appassionata, da parte
dell'uomo superiore, della necessità del ritorno. E anche questo
concetto del destino è stato più volte ripreso dall'esistenzialismo
contemporaneo.
Infine Kierkegaard e Nietzsche hanno fornito all'esistenzialismo
un'altra arma contro il razionalismo romantico dell'Ottocento e del
primo Novecento, con un ridimensionamento del concetto di ‛ragione'.
La ragione non è per esso la sostanza della realtà, il principio che
la domina e la sorregge in tutte le sue articolazioni e in tutti i
suoi sviluppi, è soltanto uno strumento di cui l'esistenza si avvale
per interpretarsi, per chiarirsi nelle sue possibilità, e nei suoi
limiti, per proiettarsi in avanti. Conseguentemente
l'esistenzialismo, anche nella diversità delle sue diramazioni, non
si è mai trasformato in un radicale irrazionalismo: si è battuto da
un lato contro la divinizzazione della ragione operata
dall'idealismo; e dall'altro lato contro l'obiettivazione della
ragione operata dallo scientismo positivistico, che vedeva la
ragione realizzata nell'ordine e nelle leggi necessarie della realtà
naturale.
L'analisi, cui l'esistenzialismo sottopone l'esistenza, intende
appunto avvalersi di una ragione così intesa. Ma sotto quest'aspetto
l'esistenzialismo ha un altro precedente storico di importanza
decisiva: la fenomenologia di Husserl.
Heidegger esplicitamente riconosce a Husserl il merito di aver visto
nella ragione il manifestarsi delle cose così come esse sono; e di
avere perciò concepito la ‛fenomenologia' come il metodo che
consiste nel far sì che le cose stesse manifestino la propria
esistenza cioè si rivelino per quello che sono (v. Heidegger, 1927,
È 7 C). Solo perché la ragione è una siffatta manifestazione,
aggiunge Heidegger, essa puo poi anche esercitare la funzione
dimostrativa che tradizionalmente le si attribuisce e che
sostanzialmente consiste nel mostrare il ‛fondamento' di ciò che si
dice nell'essenza stessa delle cose di cui si parla. Adottando il
metodo fenomenologico, l'esistenzialismo si avvia perciò, secondo
Heidegger, a costituirsi come ontologia: giacché l'analisi
dell'esistenza sarà allora il manifestarsi o il venire alla luce
dell'essere che è proprio dell'esistenza o che ne è il fondamento.
In senso non molto diverso Jaspers intende la ragione, nel suo
significato fondamentale, come la ‛chiarificazione' dell'esistenza,
cioè la manifestazione dell'esistenza a se stessa, che la porta alla
consapevolezza di sé e alla comunicazione con le altre esistenze. Il
carattere apofantico (o rivelativo) riconosciuto alla ragione da
alcuni indirizzi dell'esistenzialismo è così di diretta derivazione
husserliana.
3. Possibilità, trascendenza, progetto
Nonostante che, come si è detto, l'esistenzialismo tenda talora a
ridurre l'esistenza a un nulla e quindi l'uomo al portatore di
questo nulla, l'uomo è tuttavia, per tutte le forme
dell'esistenzialismo, il tema centrale o almeno il punto di partenza
della riflessione filosofica. Questa riflessione può anche essere
diretta a determinare qual è il significato dell'essere in generale,
secondo lo schema della metafisica classica. Ma per giungere a tale
significato, cioè a risolvere il problema dell'essere, non si può
ignorare che è proprio l'uomo che cerca questo significato o si pone
questo problema. Non si può quindi presupporre che l'uomo sia già in
possesso di una ‛natura' determinata, che sia costituito da
un'‛essenza' immutabile: giacché egli è l'ente che interroga se
stesso intorno all'essere che gli è proprio e all'essere in
generale. In questo senso, nell'uomo, l'esistenza precede l'essenza
e il punto di partenza di ogni ricerca filosofica è l'analisi
dell'esistenza cioè del modo d'essere di quell'ente che si pone il
problema dell'essere. E poiché questo ente si interroga sull'essere
che gli è proprio, e che perciò chiama ‛io', il tema dell'analisi
esistenziale è, nelle parole di Heidegger, ‟questo ente che noi
stessi sempre siamo e che ha, fra l'altro, quella possibilità
d'essere che consiste nel porre il problema" (v. Heidegger, 1927, È
2). Heidegger e Jaspers chiamano ‛Esserci' (Dasein) l'uomo
in quanto è insieme soggetto e oggetto dell'analisi esistenziale. Ma
l'Esserci, in quanto è problema, non è realtà o una presenza attuale
come una cosa o un oggetto, ma una possibilità, che lo costituisce
in proprio. ‟L'esserci - ha scritto ancora Heidegger - si determina
come ente sempre a partire da una possibilità che egli stesso è e
che, nel suo essere, in qualche modo comprende" (ibid., È
9).
Per Heidegger come per Jaspers i termini ‛uomo', ‛esserci', ‛Io',
‛persona', sono equivalenti come sono equivalenti ad essi i termini
‛realtà umana', ‛coscienza', ‛per sé', usati da Sartre e in generale
dall'esistenzialismo francese. Sartre ha infatti contrapposto
all'essere ‛in sé', che è la realtà di fatto, costituita dalle cose
del mondo, l'essere ‛per sé', cioè presente a se stesso, della
coscienza; e ha affermato che ‟la coscienza è il suo proprio nulla
in quanto si determina perpetuamente a non essere ‛in sè'" (v.
Sartre, 1943, p. 132). Ciò vuol dire che la coscienza non è altro
che la presenza all'uomo della realtà stessa e che l'uomo non è che
il nulla di questa presenza perché nulla aggiunge ad essa.
Ma appunto perché non è mai ‛in sé', la coscienza, cioè la realtà
umana, è ‟un essere che è la sua propria possibilità ed è definita
da essa" (ibid., p. 144). Analogamente, per Jaspers,
l'esistenza, in quanto ricerca dell'essere, è ‛esistenza possibile'
e la comprensione dell'esistenza si può ottenere pertanto attraverso
la comprensione delle possibilità che la costituiscono (v. Jaspers,
1932, vol. I, p. 24; vol. II, p. 2; vol. III, p. 50). Il possibile
di cui parla l'esistenzialismo non è tuttavia il possibile logico,
caratterizzato dall'assenza di contraddizione, ma è il possibile
reale che è definito come ‛ricerca dell'essere', ‛apertura verso
l'essere', ‛movimento verso l'essere' o ‛trascendenza'.
La trascendenza è intesa dall'esistenzialismo non nel senso
tradizionale, come attributo di Dio in quanto è ‛al di là' di ogni
cosa finita, ma nel senso di Husserl come il movimento per cui
l'esistenza si protende verso l'essere e si costituisce come un
rapporto con l'essere stesso. L'essere, verso cui l'esistenza
trascende, o è l'‛io' stesso, che non è mai una realtà stabile e
definitiva ma sempre un progettarsi in base alla propria
possibilità; o sono gli ‛altri' io con cui esso entra in rapporto; o
è il mondo delle cose che l'io progetta d'utilizzare per i propri
bisogni; o è ‛Dio' stesso come trascendenza assoluta. In ogni caso,
il trascendere dell'uomo verso l'essere costituisce un ‛progetto'
che seleziona e organizza le possibilità costitutive dell'esistenza.
Ma proprio nel modo d'intendere trascendenza e progetto cominciano a
differenziarsi le varie forme dell'esistenzialismo. Heidegger
afferma: ‟La trascendenza significa un progetto del mondo tale che
il progettante cade nel dominio dell'ente che trascende ed è già
accordato ad esso" (v. Heidegger, Vom Wesen ..., 1929, p.
45). Ciò vuol dire che ogni progetto esistenziale è anticipatamente
dominato dallo stato di fatto che esso cerca di trascendere e perciò
finisce per ridursi e appiattirsi su questo stato di fatto. Secondo
Jaspers, la trascendenza verso il mondo conduce non già al mondo
stesso nella sua totalità, ma piuttosto ad un'immagine del mondo che
sarà un ‛cosmo', cioè un singolo e particolare punto di vista fra i
tanti che sussistono ‛nel' mondo; e il mondo rimane come
l'‛orizzonte conglobante' di questo cosmo e del punto di vista che
lo ha suggerito: orizzonte che non sarà mai possibile raggiungere e
che perciò determina lo scacco del movimento di trascendenza (v.
Jaspers, 1932, vol. I, pp. 68-71). Sia per Heidegger che per Jaspers
quindi la possibilità della trascendenza si manifesta da ultimo come
un'‛impossibilità'; e precisamente come l'impossibilità di andare al
di là di ciò che l'ente già è e già comprende di fatto. La posizione
di Sartre sembra apparentemente antitetica a questa, giacché egli
afferma che il progetto in cui l'esistenza consiste è frutto di una
libertà assoluta, di una scelta arbitraria che, come tale, può ad
ogni istante venir meno. A fondamento di tutti i progetti, Sartre
tuttavia riconosce un ‛desiderio d'essere' e, giacché l'essere
assoluto è Dio, ‛un desiderio d'essere Dio'. Ma proprio perché la
sua radice è in questo desiderio, ogni progetto umano è destinato
allo scacco (v. Sartre, 1943, pp. 653 ss.). Fra le possibilità umane
infatti non c'è quella di essere Dio che è l'‛in sé' per eccellenza:
l'uomo rimane un ‛per sé', cioè coscienza, possibilità, non-essere.
Così le posizioni apparentemente antitetiche di Heidegger e di
Jaspers da un lato e di Sartre dall'altro conducono, per ciò che
riguarda l'esistenza come trascendenza e progettazione, allo stesso
risultato: a riconoscere come impossibile trascendenza e
progettazione, a ridurre in ‛impossibilità' effettive le
‛possibilità' che in linea di principio si erano riconosciute come
costitutive dell'esistenza. Il presupposto comune a queste forme di
esistenzialismo è la pretesa dichiarata che l'esistenza tenti
continuamente il salto dalla possibilità alla necessità; che, come
movimento di trascendenza, aspiri a raggiungere la trascendenza
assoluta; che come progettazione sempre parziale e provvisoria miri
a un progetto totale e onnicomprensivo; che, in una parola, come
finitudine, tenda a immedesimarsi con l'infinito. L'aspirazione
romantica all'infinito, sia pure in forma negativa o delusoria, è
rimasta presente nell'esistenzialismo ontologico.
L'esistenzialismo fideistico dall'altro lato considera le
possibilità esistenziali come ‛potenzialità' destinate a
realizzarsi, quindi prive di ogni aspetto negativo o angosciante.
Questa trasformazione delle possibilità in potenzialità è ottenuta
agganciando le possibilità stesse ad una realtà assoluta da cui esse
deriverebbero la loro garanzia di realizzazione infallibile. La
realtà assoluta è intesa da Marcel come ‛Mistero' cioè come la
presenza nascosta di Dio all'essere stesso dell'uomo, presenza che
tuttavia si rivela nella forma personale di un ‛Tu' al quale l'uomo
appartiene e a cui non può rifiutarsi quando si impegna nell'amore e
nella fedeltà al mistero (v. Marcel, 1939, p. 135).
Per Lavelle, invece, la realtà assoluta, che conferisce alle
possibilità esistenziali l'infallibilità della loro realizzazione, è
l'Essere stesso che è totalmente presente all'Io e lo sorregge in
tutte le sue determinazioni (v. Lavelle, 1945, p. 38). Per Le Senne,
l'esistenza, come coscienza, è un rapporto diretto tra l'uomo e Dio,
rapporto che si manifesta soprattutto nelle situazioni in cui il
‛dover essere' si oppone all'‛ssere', cioè nell'esperienza
dell'ostacolo che si oppone allo sforzo dell'uomo diretto a
realizzare il valore. Già in questa esperienza l'uomo cerca di
adeguarsi all'infinità di Dio che gli è presente come valore supremo
e garanzia del superamento di ogni limitazione (v. Le Senne, 1934,
p. 220). Non mancano, certo, anche in questo esistenzialismo
fideistico, riconoscimenti dei rischi, degli ostacoli e degli
aspetti negativi che si riscontrano nell'esistenza dell'uomo. Ma il
superamento di questi aspetti negativi è già dato per scontato sul
fondamento del rapporto intrinseco ed essenziale che c'è tra l'uomo
e Dio, rapporto che elimina la prospettiva dello scacco.
Per l'esistenzialismo umanistico, invece, le possibilità
esistenziali debbono essere assunte e mantenute come tali senza che
siano trasformate né in impossibilità né in potenzialità. In questo
caso, la prospettiva aperta da una possibilità non è né la
realizzazione infallibile né il fallimento inevitabile, ma la
conservazione della possibilità stessa come tale. Così intesa, la
possibilità non è solo il punto di partenza della ricerca
esistenziale (o di qualsiasi attività umana) ma anche il suo punto
di arrivo o il suo fine e dà luogo perciò ad una ‛struttura' che
tende a salvaguardare la possibilità stessa della possibilità (v.
Abbagnano, 1939, È 5). Da questo punto di vista la realizzazione del
possibile non è che ‛strutturazione' di esso: il consolidarsi della
sua possibilità. Non è quindi la negazione del possibile o la
trasformazione del possibile stesso in necessità o in fatto bruto. E
non c'è bisogno di ricorrere all'essere o a qualsiasi realtà
assoluta per determinare l'autenticità del possibile e per
distinguere tra il possibile reale e quello fittizio: giacché la
possibilità autentica ha già in se stessa il criterio della propria
autenticità nella sua possibilità di ripresentarsi ancora come tale.
Per quanto non sempre questo concetto di possibilità sia
esplicitamente assunto e chiarito nei suoi tratti caratteristici, si
avvalgono di esso, oltre che l'esistenzialismo italiano, quello
francese di Camus e Merleau-Ponty. Ed è facile riconoscere questa
forma di esistenzialismo dal suo tratto più caratteristico: il suo
rifiuto di identificare l'uomo con il tutto o con il nulla, di
ritenerlo destinato ad esistere al di qua dell'essere o in unione
stretta con l'essere, e perciò di fare dell'esistenza un fallimento
inevitabile o un infallibile successo.
4. Finitudine: angoscia, colpa, assurdo
Tutte le correnti dell'esistenzialismo insistono sulla ‛finitudine'
dell'esistenza, finitudine che le è inerente in quanto essa non è
l'essere nella sua stabilità e necessità, ma possibilità di essere,
quindi indeterminazione, problematicità e rischio. Sul conto della
finitudine sono stati messi tutti gli aspetti negativi
dell'esistenza, le sue imperfezioni, i suoi limiti; e l'insistenza
su questi aspetti negativi, destinata a smontare l'ottimismo del
razionalismo romantico, ha costituito l'aspetto più popolare
dell'esistenzialismo contemporaneo. L'interpretazione dell'esistenza
in termini di possibilità toglie infatti all'esistenza stessa la
garanzia sicura della riuscita; e, a meno non la si agganci a una
realtà stabile e sicura, la lascia in balia della dispersione e del
caso. L'angoscia, la colpa, la cattiva coscienza, la nausea,
l'assurdo diventano allora i modi della sua rivelazione
privilegiata: cioè le esperienze in cui essa manifesta se stessa,
nel suo fondo di incertezza o nel suo abisso di nullità.
Già Kierkegaard aveva visto nell'angoscia ‟il sentimento del
possibile" il quale, per la sua infinità e indeterminatezza, rende
l'angoscia insuperabile e ne fa la situazione fondamentale dell'uomo
nel mondo. Poiché ‟nel possibile, tutto è possibile", ogni
possibilità favorevole all'uomo è annientata dal numero infinito
delle possibilità sfavorevoli che incombono su di lui come una
minaccia incessante. Mentre la paura è prodotta dall'imminenza di un
pericolo previsto o prevedibile, l'angoscia è connessa
necessariamente con l'esistenza, cioè con le possibilità che la
costituiscono (v. Kierkegaard, Om begrebet ..., 1844,
cap. 5). Ma se Kierkegaard scorgeva la salvezza dall'angoscia nella
fede religiosa per la quale l'uomo trova in Dio l'ancoraggio sicuro
delle sue possibilità, Heidegger vede nell'angoscia la rivelazione
della sostanza stessa dell'esistenza, quindi l'esistenza ‛autentica'
cioè l'esistenza che comprende veramente se stessa. ‟L'angoscia",
egli dice, ‟è la situazione emotiva capace di mantenere aperta la
continua e radicale minaccia che sale dall'essere più proprio e
isolato dell'uomo" (v. Heidegger, 1927, È 53). Con l'angoscia l'uomo
‟si sente in presenza del nulla, dell'impossibilità possibile della
sua esistenza". Collocando l'uomo di fronte al nulla, essa lo fa
intendere nella sua finitudine giacché questa è comprensibile solo
se l'uomo si installa e si mantiene nel nulla. Mentre il nulla è
nascosto o velato nell'esistenza quotidiana o anonima, in cui esso
agisce soltanto come negazione, rinuncia, limitazione, proibizione,
nell'angoscia il nulla si presenta e si rivela nella sua potenza di
annullamento e fa sentire l'esistenza come qualcosa di labile, di
accidentale e di fuggente. Analogamente, per Jaspers, l'angoscia è
il modo di avvertire il naufragio dell'esistenza, lo scacco di tutte
le sue possibilità. Jaspers contrappone all'angoscia evasiva e
disperata, che assale l'uomo di fronte alla morte, l'angoscia
esistenziale che ‟padroneggia la brama di vivere e ritrova la pace
in cospetto della morte come rassegnazione alla consapevolezza della
fine" (v. Jaspers, 1932, vol. II, p. 226). Analogamente ancora, per
Sartre, l'angoscia è la consapevolezza, talora nascosta o camuffata,
della responsabilità totale dell'uomo che, progettando la propria
esistenza, progetta anche quella degli altri e l'intera natura del
mondo (v. Sartre, 1946, pp. 27 ss.).
Quando, invece, come fa l'esistenzialismo fideistico, si ritengono
le possibilità esistenziali garantite da una Realtà trascendente,
l'angoscia perde il suo carattere privilegiato e dominante. Marcel
la identifica con l'‛inquietudine' che, se può esser talvolta
paralizzante, può anch'essere altre volte feconda o addirittura
creatrice, in quanto è un principio di oltrepassamento, un sentiero
che porta la pace vera nella interiorità dell'uomo,
indipendentemente da ogni circostanza esterna (v. Marcel, 1955, pp.
185 ss.). Lavelle ritiene che l'angoscia dipenda dal far
dell'avvenire l'unica esperienza di vita, cioè dal dimenticare che
l'avvenire stesso è già un presente e che la possibilità è una
manifestazione dell'essere, garantita dall'essere stesso (v.
Lavelle, 1945, pp. 260 ss.).
E tra un'esistenza tutta angosciata e un'esistenza priva di
angoscia, l'esistenzialismo positivo opta per un'esistenza che ‛può'
angosciarsi per la perdita o il decadimento delle sue possibilità o
per le ‛non-possibilità' in cui si urta nelle situazioni in cui
viene a trovarsi, ma ‛può' anche sperare, guardare con ragionevole
fiducia l'avvenire, calcolare con probabilità i suoi rischi. Da
quest'ultimo punto di vista, la natura autentica dell'esistenza non
si rivela né in un'angoscia senza riscatto né in una speranza senza
mancamenti, ma proprio nella possibilità di decidere tra angoscia e
speranza, tra fiducia e disperazione, tra rassegnazione e reazione e
nell'invito, che tale possibilità implica, per un impegno positivo e
realizzatore.
Le altre situazioni emotive, in cui alcuni esistenzialisti hanno
visto la rivelazione del carattere negativo dell'esistenza, sono
riconducibili allo stesso fondamento. Heidegger ritiene l'esistenza
sempre ‛in colpa' o ‛in debito' (Schuld) perché, essendo
sempre l'una o l'altra possibilità, non è mai l'una ‛e' l'altra e
così ha la colpa di questa nullità (v. Heidegger, 1927, È 58).
Jaspers ritiene che la colpa inevitabile è la necessaria limitazione
dell'esistenza nella situazione che la costituisce (v. Jaspers,
1932, vol. II, p. 248). Ed è qui evidente il presupposto che
l'esistenza ‛dovrebbe' essere, ma non è, ‛tutte' le possibilità o
‛tutte' le situazioni possibili. Di fronte all'accavallarsi delle
possibilità tutte equivalenti e gratuite che costituiscono la
‛contingenza' assoluta dell'esistenza, Sartre ha parlato di nausea
(v. Sartre, 1938). Camus ha visto in Sisifo il simbolo
dell'assurdità dell'esistenza sbilanciata tra le infinità delle
aspirazioni e la finitezza delle possibilità e culminante nella
vanità di tutti i suoi sforzi (v. Camus, 1943). Questi tratti,
assunti come rivelativi dell'esistenza, esprimono sempre la pretesa
che l'esistenza comprenda la totalità dei possibili, che essa debba
scegliere l'uno senza sacrificare l'altro: una pretesa che sarebbe
giustificata per la divinità di cui parlava Leibniz, ma non per
l'esistenza dell'uomo che tutti gli esistenzialisti assumono come
‛finita'.
5. La morte
Ma senza dubbio la più evidente rivelazione della finitudine
dell'esistenza è la morte: su questo tutti gli esistenzialisti sono
d'accordo. Per le dottrine che scorgono nella realtà un Principio
infinito (comunque inteso) la morte è un fatto insignificante. Muore
l'uomo singolo, ma non lo Spirito, la Ragione, l'Idea, l'Umanità. Ma
l'esistenza è proprio il modo d'essere del singolo; e gli
esistenzialisti si rifanno perciò a un famoso racconto di Tolstoj,
La morte di Ivan Il′iã nel quale il
protagonista che riconosce giusta e valida l'idea della morte in
generale si ribella alla minaccia che la morte fa incombere su se
stesso. E proprio questa minaccia è il punto di partenza della
considerazione esistenzialistica della morte. Heidegger distingue, a
questo proposito, la morte come ‛decesso', cioè come un fatto che
accade nell'ordine dei fenomeni vitali, dalla morte come possibilità
propria dell'uomo e precisamente ‟possibilità di non
poter-più-esserci". Questa possibilità viene dimenticata o camuffata
nell'esistenza quotidiana anonima nella quale il ‛si muore' si
riferisce a tutti e a nessuno. L'esistenza autentica riconosce
invece nella morte la sua ‟possibilità più propria, incondizionata e
insuperabile": ‛propria', perché nessuno può assumersi il morire di
un altro; ‛incondizionata' e ‛insuperabile' perché è connessa con la
nullità essenziale dell'esistenza. Sicché l'unico atteggiamento
autentico di fronte alla morte è viverla anticipatamente
nell'angoscia, che fa comprendere appunto la nullità dell'esistenza,
la sua impossibilità fondamentale (v. Heidegger, 1927, ÈÈ 50-51).
Già nella Psychologie der Weltanschauumgen (1919, cap. 3,
È 2) Jaspers aveva visto nella morte una delle ‛situazioni-limite'
che rivelano lo scacco finale dell'esistenza e il suo urto contro
qualcosa che sta al di là di essa e che essa non puo comprendere: la
trascendenza. Tra queste situazioni-limite aveva incluso anche la
lotta, il caso, la colpa, poiché trovarsi in tali situazioni
significa un ‛non-poter-non'; di fronte ad esse, l'unico
atteggiamento possibile è la pura e semplice accettazione (v.
Jaspers, 1932, vol. II, pp. 220 ss.).
Ma anche per Sartre che considera la morte un puro fatto, come la
nascita, essa non rientra fra le possibilità dell'esistenza. ‟Poiché
la morte sfugge ai miei progetti, in quanto è irrealizzabile, sfuggo
io stesso alla morte nel mio stesso progetto" (v. Sartre, 1943, p.
632): o, in parole povere, nessun calcolo devo fare sulla morte
nella progettazione in cui l'esistenza umana consiste. Tuttavia,
questo rifiuto della morte non può essere accettato da un
esistenzialismo umanistico. ‟Il ‛poter morire', che ognuno di noi
riferisce non solo a sé ma anche agli altri, è il fondamento, talora
nascosto, di attività, pensieri, affetti, cure e sollecitudini di
ogni genere [...]. Questa possibilità si riverbera su tutte le
attività, le imprese e progetti umani minacciandole nella loro
realizzazione" (v. Abbagnano, 1956, pp. 14-15). Da questo punto di
vista la morte è ‟la nullità possibile delle possibilità dell'uomo e
dell'intera forma dell'uomo" (v. Abbagnano, 1939, È 98): perciò
l'accettazione della morte non è né l'anticipazione rassegnata o la
paura, né l'ignoranza di essa, ma una più sollecita cura di se
stesso e degli altri, in un impegno più radicato e operante nelle
ragioni della propria esistenza.
6. Scelta, destino, libertà
Interpretando l'esistenza in termini di possibilità,
l'esistenzialismo l'interpreta anche in termini di scelta. I
concetti di possibilità e di scelta sono infatti strettamente
congiunti. Una possibilità è tale perché si offre alla scelta; una
scelta può effettuarsi solo sulla base di possibilità alternative.
‛Trascendenza', ‛progettazione', ‛libertà' sono per
l'esistenzialismo termini equivalenti che designano l'atto
fondamentale dell'esistenza che è per l'appunto quello della scelta.
Ma nell'interpretare questo atto le varie forme dell'esistenzialismo
differiscono radicalmente.
Già Kierkegaard aveva detto che la scelta originale è quella tra
scegliere e non scegliere. Questo punto di vista è stato ripreso da
Heidegger: ‟Nello scegliere la scelta", egli ha detto, ‟l'Esserci si
rende per la prima volta possibile il suo poter-essere autentico"
(v. Heidegger, 1927, È 54). Soltanto sottraendosi all'esistenza
anonima in cui domina il ‛si dice così', ‛si fa così', ‛si pensa
così', che rende la scelta insignificante, l'uomo si rende libero
per la ‟possibilità più propria della sua esistenza": cioè ‟sceglie
se stesso" (ibid., È 58). Con questa scelta, tuttavia, non
si rompe il legame dell'uomo con la situazione in cui già si trova e
non gli si aprono nuove possibilità effettive oltre quelle che la
situazione gli offre (ibid., È 60). La scelta autentica è
quindi per l'uomo solo quella che gli prospetta la ‟ripetizione di
se stesso" cioè il ‟ritorno su possibilità che sono e sono già state
proprie dell'uomo" (ibid., È 74). In questa scelta consiste
propriamente il ‛destino' che costituisce la storicità dell'uomo (v.
sotto, cap. 9). Ma è chiaro che la scelta di ciò che già è stato
scelto, il ripiegarsi dell'esistenza su ciò che essa è già nella
situazione in cui è gettata, non cambia nulla nella situazione di
fatto in cui l'esistenza si trova: la fa solo ‛comprendere'. E
questo è anche il punto di vista di Jaspers che già lo aveva
esposto, prima di Heidegger, nella Psicologia delle visioni del
mondo. La scelta non è mai un confrontare, un trascegliere,
un cernere tra possibilità diverse, ma è sempre e soltanto il
riconoscimento e l'accettazione di quell'unica possibilità che è la
situazione con la quale chi sceglie non può non identificarsi.
Jaspers dice che le espressioni ‛Io scelgo', ‛Io voglio',
significano in realtà ‛Io devo' (Ich muss nel senso della
necessità di fatto) (v. Jaspers, 1932, vol. II, p. 186).
Sembrerebbe che, per Jaspers, almeno il tradimento, il
misconoscimento di sé, fossero atti di libertà; ma in realtà, stando
alle sue esplicite affermazioni, tali atti non sono possibili, data
la totale coincidenza dell'esistenza singola con la situazione, per
cui l'uomo ‛e' la sua stessa situazione nel mondo. Essere infedele
alla propria situazione non significa perciò modificarla in un modo
qualsiasi, ma soltanto subirla senza consapevolezza o chiarezza
razionale: e così non si vede neppure che cosa questa consapevolezza
o chiarezza aggiunga alla determinazione necessitante della
situazione.
Con Jaspers e Heidegger l'esistenzialismo ontologico riduce perciò
la scelta alla non-scelta, la libertà all'amor-fati, di
cui Nietzsche parlava. A prima vista, la posizione di Sartre è
antitetica a questa: ‟Per l'uomo - egli dice - essere e
‛scegliersi'; niente gli viene dal di fuori e neppure dal di dentro
che egli possa ‛ricevere' o ‛accettare'" (v. Sartre, 1943, p. 516).
La scelta delle possibilità esistenziali è completamente gratuita
perché tutte le possibilità si equivalgono. ‟Noi siamo perpetuamente
impegnati nella nostra scelta e perpetuamente coscienti di poter noi
stessi bruscamente capovolgere questa scelta e invertire la marcia".
La scelta è così da un lato estremamente ‛fragile' dall'altro è
‛assoluta': assoluta nel senso che con essa l'uomo non decide
soltanto di se stesso ma dell'intero mondo ed è responsabile quindi
totalmente di sé e del mondo. Tale è almeno la scelta ‛originaria',
quella che secondo Sartre dà luogo al ‛progetto fondamentale' che è
alla base di tutte le scelte particolari. Tale scelta non è
vincolata o limitata da alcuna condizione ideale o fattuale né
esiste per essa un ‛non-possibile' che limiti in anticipo le sue
possibilità. In tal senso, la scelta stessa è un ‛destino' a cui
l'uomo non può sottrarsi: l'uomo è condannato a essere libero perché
la libertà è libertà di scegliere, non di non scegliere. ‟Ne risulta
che la scelta è fondamento dell'esser scelto ma non fondamento dello
scegliere. Donde l'assurdità della libertà" (ibid., p.
561).
La libertà è assurda perché rinvia a un ‛dato', che non è altro che
lo stato di fatto dell'esistenza. Sicché per Sartre, come per
Jaspers e Heidegger, la libertà, come scelta, viene ad appiattirsi
sulla situazione di fatto; diventa in ogni caso l'accettazione di un
destino: che è quello di non poter scegliere che la scelta. Per
Heidegger e Jaspers tutto ciò che si può scegliere, è già; per
Sartre, tutto ciò che è, è già scelto.
Dall'altro lato, nell'esistenzialismo fideistico, le cose stanno in
un modo solo apparentemente diverso. Le scelte umane sono autentiche
ed efficaci nei confronti del mondo, anzi sono completamente
indipendenti dai fattori che determinano le situazioni in cui l'uomo
viene a trovarsi; ma non sono né autentiche né efficaci rispetto
all'Essere, al Valore, a Dio: cioè alla realtà assoluta di cui esse
sono manifestazioni nell'uomo. Ha scritto Lavelle: ‟Tutto è
ricevuto, ma ciò che è ricevuto è la libertà, cioè la dignità di
esser causa" (v. Lavelle, 1937, pp. 198-199). Bultmann ha sostenuto
che ‟l'uomo è sempre determinato dal proprio passato in forza del
quale è divenuto quello che è, del quale non può liberarsi". Per
esser libero deve quindi liberarsi da se stesso; ma ‟non può
conquistare una tale libertà grazie al proprio volere e alle proprie
forze perché in questo sforzo rimarrebbe il vecchio uomo; può solo
riceverla come un dono" (v. Bultmann, 1957; tr. it., pp. 171-172).
Questo esistenzialismo può essere perciò sia un determinismo
cosmologico sia un indeterminismo cosmologico; ma in ogni caso è un
determinismo teologico giacché l'assoluta indipendenza
dell'autentica scelta umana dal mondo è l'assoluta dipendenza di
questa scelta da Dio.
L'esistenzialismo positivo infine difende la nozione di una libertà
finita o ‛condizionata' per la quale le scelte umane possono avere
un ‛peso' nelle situazioni in cui si inseriscono; ma questo peso
dipende sia dal carattere parti- colare delle situazioni sia dalla
validità della scelta cioè della possibilità cui essa si appiglia.
Da questo punto di vista, la libertà non è il destino nè il libero
arbitrio ma la possibilità dell'uomo di valutare, in ogni situazione
in cui viene a trovarsi, le alternative che essa gli offre e di
esercitare sulla realizzazione di una di esse un'azione in qualche
misura determinante. Ha scritto Merleau-Ponty: ‟L'alternativa
razionalista: o l'atto libero è possibile o non lo è - o l'evento
viene da me o, imposto dal di fuori, non s'applica alle nostre
relazioni col mondo e col nostro passato. La nostra libertà non
distrugge la nostra situazione ma s'ingrana in essa: la nostra
situazione, finché viviamo, è aperta: il che implica insieme che
essa faccia appello a modi di risoluzione privilegiati e che sia
nello stesso tempo di per sé impotente a procurarseli" (v.
Merleau-Ponty, 1945, p. 505). Pertanto la generalità, la
probabilità, il pensiero statistico, di cui si avvalgono le scienze,
non sono finzioni ma ‟appartengono necessariamente a un essere che è
fissato, situato e investito nel mondo" (ibid.).
E se è così, le possibilità che si offrono alla scelta non si
riducono nè alla sola ripetizione di ciò che è già stato (il
‛destino' di cui parlano Jaspers e Heidegger); nè si disperdono in
un insieme di alternative gratuite, indifferenti e fragili (il
‛destino' di cui parla Sartre); né possono ridursi a garanzie
offerte come un dono divino (come crede l'esistenzialismo
fideistico), ma devono avere in se stesse una qualche misura della
loro effettiva o autentica possibilità ed aprire quindi la strada
alla ricerca di un criterio razionale (per quanto non infallibile)
per la determinazione di questa misura. Si può allora dire che una
possibilità è autenticamente tale se, una volta assunta, si presenta
ancora come possibile; e che perciò una scelta è veramente libera
se, una volta effettuata, si può ancora ripetere (v. Abbagnano,
1956, pp. 55 ss.).
Non si può allora affermare che tutte le possibilità si equivalgono
e che tutte le scelte sono indifferenti; nè si può assumere come
autentica la possibilità offerta da un dono divino se essa non si
lascia, di per se stessa, riconoscere come tale. Nè si può dire che
l'uomo è sempre libero o sempre necessitato: la sua libertà può
avere ‛gradi' diversi, che escludono i limiti estremi della
necessità e della libertà assoluta. Si apre la via a una ricerca
diretta alla determinazione di questi gradi sulla base dei criteri
probabilistici che oggi dominano in tutti i campi della scienza. Il
fallimento della scelta, il naufragio, lo scacco e gli errori di
ogni genere rimangono tra i possibili rischi cui l'esistenza umana
va incontro; ma non costituiscono un ‛destino' cui essa
necessariamente soggiaccia. Né una scelta qualsiasi, anche se
decisiva per colui che la effettua, implica una responsabilità
assoluta e totale (che non si distinguerebbe da una irresponsabilità
altrettanto assoluta e totale), ma solo la responsabilità limitata e
parziale inerente agli effetti prevedibili della scelta stessa.
7. Mondo, scienza, tecnica
Poiché l'esistenza è il modo d'essere dell'uomo nel mondo, l'analisi
di essa concerne non solo le possibilità che mettono l'uomo in
rapporto con le cose, ma anche quelle mediante le quali il mondo si
manifesta all'uomo e lo determina o condiziona. L'esistenzialismo
esclude preliminarmente sia l'idealismo gnoseologico sia il
solipsismo egologico, perché non ammette né un soggetto senza mondo
né un io senza gli altri.
L'analisi del concetto di mondo è perciò uno dei temi obbligati
dell'esistenzialismo. Per Heidegger, il mondo è in primo luogo un
mondo di ‛cose', la realtà delle quali consiste nella
‛utilizzabilità' di esse per i bisogni umani. L'essere delle cose e
l'essere dell'uomo si corrispondono: per l'uomo ‛essere nel mondo'
significa ‛prendersi cura' delle cose, per le cose ‛essere'
significa ‛essere utilizzate' dall'uomo (v. Heidegger, 1927, È 18).
Il fine ultimo dell'utilizzabilità è quindi l'‛appagamento'; e a
questo fine sono dirette le attività propriamente intellettuali: la
‛comprensione' delle possibilità che le cose offrono per le
progettazioni umane, l'‛interpretazione' e il ‛giudizio' che svelano
una ‛cosa determinata', nella sua specifica utilizzabilità. Mediante
la comprensione e il giudizio, la cosa corporea, che è una pura
presenza fattuale, diventa oggetto di scienza cioè ‛tema' di ricerca
e di orientamento. La fisica matematica offre, secondo Heidegger,
l'esempio classico non solo dello sviluppo storico di una scienza ma
anche della sua genesi ontologica. Essa è infatti ‟il progetto
matematico della natura" che offre la guida per l'osservazione, la
sperimentazione e la determinazione dei ‛fatti' (ibid., È
69 b). Dall'altro lato, ‛essere nel mondo' significa per l'uomo
anche essere ‛fra gli altri'; e come il rapporto tra l'uomo e le
cose è un ‛prendersi cura' delle cose così il rapporto tra l'uomo e
gli altri è un ‛aver cura' degli altri (ibid., È 26). La
‛cura' (nel senso latino del termine) è perciò la struttura
fondamentale dell'uomo in quanto è ‛gettato' nel mondo in mezzo agli
altri enti e al loro stesso livello, come un ‛fatto' fra gli altri.
Analogamente Jaspers vede nel mondo ‟l'essere che si costituisce
dinanzi alla coscienza in generale come conoscibilità oggettiva":
ogni cosa conosciuta diventa un ‛oggetto' che come tale si
contrappone al ‛soggetto' il quale cerca di ‛orientarsi' nel mondo,
senza riuscire ad abbracciarlo mai nella sua totalità (v. Jaspers,
1932, voi. I, pp. 28-29). La conoscenza del mondo (e quindi la
scienza) finisce perciò sempre in uno scacco per cui il mondo rimane
l'orizzonte trascendente di ogni immagine o visione che l'uomo si
forma di esso. Sartre identifica il mondo con la totalità dell'‛in
sé' costituita da cose la cui essenza è l'utilizzabilità. ‟Come io
‛sono' le mie possibilità, l'ordine degli utensili nel mondo è
l'immagine proiettata dell'‛in sé' delle mie possibilità cioè di ciò
che io sono. Ma quest'immagine mondana non posso mai decifrarla" (v.
Sartre, 1943, p. 25). Per Marcel, il mondo è dominio dell'‛avere'
che è opposto all'‛essere': esso è costituito da oggetti che l'uomo
tende a padroneggiare mediante la tecnica scientifica. Da questo
punto di vista, il mondo tende ‟ad apparire talora come un semplice
cantiere di sfruttamento, tal'altra come uno schiavo addormentato";
ma in ogni caso il rapporto tra l'uomo e il mondo tende a
capovolgersi e a diventare quello della cosa posseduta sul
possessore. Soltanto la religione sottrae l'uomo a questo pericolo
perché lo distoglie dal mondo e lo mette a tu per tu con qualcosa
nei cui confronti è impossibile qualsiasi presa di possesso (v.
Marcel, 1935, pp. 272 ss.).
Sia nella sua forma ontologica sia in quella fideistica,
l'esistenzialismo finisce per scorgere nel rapporto tra l'uomo e il
mondo, ritenuto costitutivo dell'esistenza, una condanna
dell'esistenza stessa: una sua caduta a livello del fatto,
dell'oggettività insignificante, delle cose; e perciò scorge nella
conoscenza del mondo un oblio dell'essere autentico.
Il rapporto con il mondo perde questo carattere di condanna
nell'esistenzialismo positivo: secondo il quale, il mondo è la
struttura stessa dell'esistenza, che è il movimento di trascendenza
che dall'uomo va al mondo, cioè alla totalità di cui l'uomo stesso
fa parte; e che così procedendo costituisce le possibilità che
consentono all'uomo di progettarsi nel mondo stesso (v. Abbagnano,
1939, È 39). Merleau-Ponty ha scritto: ‟Il mondo, nel senso pieno
della parola, non è un oggetto, ha un viluppo di determinazioni
effettive ma anche di fessure, di lacune per le quali le
soggettività si allogano in esso o che piuttosto ‛sono' le
soggettività stesse" (v. Merleau-Ponty, 1945, p. 384). Il mondo non
si può staccare dall'io come l'io non si può staccare dal mondo. ‟La
vera riflessione mi dà a me stesso, non come soggetività oziosa e
inaccessibile, ma come identica alla mia presenza al mondo e agli
altri, quale io la realizzo ora: io sono tutto ciò che vedo, io sono
un campo intersoggettivo, non a dispetto del mio corpo e della mia
situazione storica, ma proprio in quanto sono questo corpo e questa
situazione, e tutto il resto attraverso di essa" (ibid., p.
515). Da questo punto di vista una rinuncia al mondo o una
liberazione da esso non avrebbero senso: giacché equivarrebbero alla
pura e semplice distruzione dell'esistenza, all'annullamento di
tutte le sue possibilità. Se la conoscenza oggettiva della scienza
non può usurpare il posto della riflessione filosofica non può
neppure essere ridotta a un aspetto insignificante o degradato
dell'esistenza perché si radica nello stesso rapporto col mondo che
è costitutivo di essa.
L'esistenzialismo è stato anche all'avanguardia della polemica
contemporanea contro la tecnica: non solo contro i contraccolpi
maligni di essa ma contro la tecnica in sé, come oggettivazione
dell'esistenza nelle cose che cerca di padroneggiare, come
alienazione dell'uomo dalla sua natura autentica. Questa polemica è
svolta da Marcel (v., 1935, pp. 271 ss.), da Berdjaev (v., 1936)
nonché da Heidegger nella seconda fase del suo pensiero (cfr.
Heidegger, Die Frage nach der Technik, 1954). Anche su
questo punto l'esistenzialismo positivo si rifiuta di assumere toni
apocalittici: la tecnica è uno strumento indispensabile per la vita
dell'uomo, dal momento che le cose tra cui vive sono in primo luogo
mezzi per soddisfare i suoi bisogni; il limite della tecnica
dev'essere stabilito dalla libertà dell'uomo per la difesa di questa
libertà e delle condizioni ambientali in cui deve esplicarsi.
8. Coesistenza e società
Uno dei punti cardini dell'esistenzialismo è l'identità tra
esistenza e coesistenza. Per l'esistenzialismo (come si è detto) non
c e un io senza gli altri come non c'è un soggetto senza mondo.
Tuttavia l'esistenzialismo ontologico ha messo in chiaro non solo le
difficoltà ma l'impossibilità della coesistenza autentica, giungendo
a scorgerla nell'isolamento dell'individuo di fronte al proprio
destino o nel silenzio della comunicazione. L'aver cura degli altri
che, secondo Heidegger, è l'essenza della coesistenza, può assumere
la forma inautentica di sottrarre gli altri alle loro cure, cioè di
procurar loro le cose di cui hanno bisogno. Ma in questa forma essa
è un semplice ‛esser insieme' nel quale tutti sono anonimi e domina
il ‛si sa', ‛si dice', ‛si fa così'. Per quanto Heidegger releghi
nella coesistenza anonima non solo la scienza e in generale il
sapere, ma anche le leggi morali e i valori, quindi tutte le forme e
le istituzioni sociali, essa non è, per lui, che il nulla della
coesistenza (come pure dell'esistenza) perché è dominata dalla
chiacchiera, dalla curiosità, dall'equivoco che rendono impossibile
ogni rapporto umano (v. Heidegger, 1927, ÈÈ 26 ss., È 59).
Dall'altro lato la coesistenza autentica, che consiste nell'aiutare
gli altri ad essere liberi per il proprio destino, è l'isolamento di
ciascuno nell'accettazione di questo destino, anche se esso è
necessariamente un ‛destino comune'. Né le cose vanno meglio per
Jaspers, che riduce il problema della coesistenza a quello della
comunicazione: la quale dovrebbe, nello stesso tempo, salvare
l'assolutezza con cui la verità si presenta a ciascuno e la
molteplicità delle verità, ognuna delle quali è legata a
un'esistenza singola perché è il prodotto della chiarificazione
razionale di essa. Jaspers afferma che il processo della
comunicazione, sottoposto com'è a queste due esigenze contrastanti,
non può mai giungere a compimento e perciò mette capo a uno scacco
che è uno dei segni della Trascendenza (v. Jaspers, 1932, vol. III,
È 3). Di fronte alla trascendenza non c'è che il silenzio e quindi
lo sforzo verso la comunicazione non porta che al nulla della
comunicazione. La posizione di Sartre è ancora più radicale giacché
per lui ‟la struttura costitutiva dell'essere-altrui" è il frutto di
una negazione fondamentale: ‟l'altro è colui che non è io e che io
non sono; non solo io devo negare di me l'altro perché l'altro
esista, ma bisogna ancora che l'altro neghi me di lui stesso,
simultaneamente alla mia propria negazione" (v. Sartre, 1943, p.
362). Ma con questa duplice negazione l'esistenza altrui diventa
‛cosa' fra le cose del mondo, si nega e si nullifica come esistenza:
sotto lo sguardo dell'altro, come sotto quello di Medusa,
l'esistenza si pietrifica (ibid., p. 502).
Certamente l'esistenzialismo fideistico ha un compito più facile di
fronte al problema della coesistenza. La possibilità di essa è, dal
suo punto di vista, garantita dal comune rapporto che gli uomini
hanno con Dio; e così, secondo Marcel, dall'amore nel senso
cristiano, per il quale ogni uomo partecipa alla vita dell'altro e
lo considera come un ‛tu' (v. Marcel, 1935, pp. 243-244). Nello
stesso senso, Berdjaev ha parlato di una ‛comunione' tra le anime in
una società che si costituisca come ‛chiesa'; e ha contrapposto
questa società a quella laica che ignora il rapporto dell'uomo con
Dio e rende perciò oggettivi e impersonali i rapporti tra gli uomini
(v. Berdjaev, 1946).
Il problema della coesistenza si presenta, invece,
nell'esistenzialismo positivo come quello dei rapporti personali e
della società umana in generale. Il concetto-guida diventa quello
della ‛reciprocità'; cioè il riconoscimento dell'altro come altro ha
lo stesso titolo di quello che l'io fa di sé come se stesso (v.
Abbagnano, 1939, È 52). Ovviamente, la forma della reciprocità, come
possibilità della coesistenza, non è infallibilmente garantita: è
una normatività intrinseca del rapporto con gli altri in quanto non
deve degradarsi a rapporto con cose. ‟Senza reciprocità", ha scritto
Merleau-Ponty, ‟non c'è un alter Ego giacché allora il mondo
dell'uno avviluppa quello dell'altro e l'uno si sente alienato a
profitto dell'altro. [...] La coesistenza deve in ogni caso esser
vissuta da ciascuno" (v. Merleau-Ponty, 1945, p. 140). Il ‟deve" di
questa espressione sta ad indicare che, mentre la reciprocità è la
‛guida' dell'esistenza autentica, ad ogni tipo o forma di
coesistenza è tuttavia inerente la possibilità della caduta
nell'anonimato, nell'alienazione, nella meccanizzazione degli
atteggiamenti stereotipi. Questa minaccia incombe anche sull'amore
che da qualche esistenzialista è considerato (come si è visto) quale
forma privilegiata dell'esistenza. Coerentemente con la sua tesi del
carattere oggettivante della coesistenza, Sartre ha detto che
l'amore sessuale oscilla necessariamente tra il sadismo e il
masochismo, per i quali o l'altro o il se stesso è solo una cosa.
Per quanto quest'oscillazione non sia necessaria, la sua possibilità
rimane: come rimane quella, per ogni tipo o forma d'amore, di
decadere in fanatismo, feticismo, narcisismo, ecc.
9. Tempo e storia
L'interpretazione dell'esistenza in termini di possibilità pone uno
stretto rapporto tra esistenza e tempo e porta a privilegiare (come
già Kierkegaard aveva fatto) come originaria la dimensione temporale
del futuro rispetto a quella del passato e del presente. Secondo
Heidegger, poiché ogni possibilità non fa che proiettare
nell'avvenire ciò che ‛è già stato', la temporalità autentica
(quella che non riduce il tempo a una successione di istanti tutti
uguali), e quindi anche la ‛storicità' propria dell'esistenza,
consistono nella ‛ripetizione': cioè nel ‛destino' che (come si è
visto) consiste nella ‛scelta della scelta': nel voler che sia nel
futuro ciò che è già stato nel passato. E il destino è sempre un
‛destino comune' che ‟lega l'esserci nella sua generazione con la
sua generazione" cioè la fa vivere nel suo tempo e nella sua
situazione (v. Heidegger, 1927, È 74). Analogamente, Jaspers ha
assunto l'‛eterno ritorno', di cui parlava Nietzsche, come il
significato autentico della temporalità e storicità dell'esistenza.
L'eterno ritorno è la ripetizione del passato, decisa nell'attimo e
che, nell'attimo, è l'identità del tempo e dell'eternità, che
garantisce la continuità della storia (v. Jaspers, 1932, vol. II,
pp. 126 ss.). Su questa convergenza del tempo e dell'eternità
nell'attimo (che era anch'essa tesi kierkegaardiana) concorda
l'esistenzialismo fideistico. Bultmann in particolare ha affermato
che l'esistenza autenticamente storica non è legata al passato, al
fatto, al mondo ma è aperta all'avvenire, al ‛non'-fatto, è protesa
verso l'‛evento salutare', (la figura di Cristo) che da evento
storico diventa ‛evento escatologico', attraverso il quale Dio pone
fine al mondo e alla sua storia (v. Bultmann, 1948-1961, vol. II, p.
194).
Se si prescinde dall inserzione della fede, la temporalità è, per
questi filosofi, la ripetizione del passato. Il primato accordato
all'avvenire sul fondamento della possibilità costitutiva
dell'esistenza finisce per essere negato. Più coerentemente Sartre
ha riconosciuto la priorità del passato, affermando che il futuro
‛è' già, anche se non ancora dato, e che lo stesso presente è
attinto già come ‛passato': ‟una carta che esce dal gioco e che vi
rientra" (v. Sartre, 1943, p. 212).
Dall'altro lato se si conserva alla possibilità il carattere di
indeterminazione, si può dire che il ‛presente' è una prospettiva
verso il ‛futuro' che si radica nel ‛passato'. Una possibilità
infatti è aperta verso il futuro perché prospetta il ‛venire
dell'essere' di ciò che è possibile: il presente di essa è l'atto
con cui l'avvenire è problematicamente agganciato al passato e il
passato è spinto verso l'avvenire. L'interesse umano della storia
consiste nel poter rintracciare e riconoscere nel passato gli
aspetti autentici e farli valere come norma di limitazione e di
scelta delle possibilità a venire (v. Abbagnano, 1948, p. 45). Da
questo punto di vista non si può togliere alla scelta storica della
possibilità né l'elemento della razionalità né quello del rischio.
Il corso della storia non è interamente prevedibile e può
trasformare l'intenzione dell'uomo nel suo contrario; ma dall'altro
lato è in certi momenti indeciso nei suoi fatti e l'intervento o
l'astensione dell'uomo può indirizzarlo in una direzione o
nell'altra. Il mondo umano - ha scritto Merleau-Ponty - è un sistema
aperto incompiuto e la stessa contingenza fondamentale, che lo
minaccia di discordanza, lo sottrae alla totalità del disordine e
impedisce di disperarne: a condizione soltanto che si ricordi che i
suoi strumenti sono uomini e che si mantengano e moltiplichino i
rapporti da uomo a uomo" (v. Merleau-Ponty, 1947, p. 206).
10. Arte e linguaggio
Per tutte le forme dell'esistenzialismo, l'arte e il linguaggio
costituiscono tratti essenziali e rivelativi dell'esistenza. Secondo
Heidegger, il linguaggio è l'espressione del ‛discorso' e le
possibilità fondamentali del discorso sono il sentire e il tacere.
Il ‛significato' del discorso è la stessa situazione in cui l'uomo
si trova in quanto esiste nel mondo cioè in rapporto con le cose e
con gli altri. La comunicazione, che si stabilisce attraverso il
discorso, non fa che articolare l'originaria ‛comprensione emotiva'
a cui gli uomini sono legati nella coesistenza. ‟La comunicazione
non è il trasferimento di esperienze vissute, di opinioni o desideri
dall'interno di un soggetto all'interno di un altro. La coesistenza
(Mit-Sein) è già essenzialmente rivelata nella situazione
emotiva comune e nella comprensione comune" (v. Heidegger, 1927, È
34). Ma dal linguaggio, che è manifestazione dell'esistenza, e
precisamente il suo modo di comprendersi e di comunicare, Heidegger
distingue la ‛poesia', che è invece manifestazione dell'Essere e
nella quale, nell'ultima fase del suo pensiero, egli ha visto la
lingua originaria in cui si rivela l'essenza stessa delle cose e che
l'uomo non può far altro che ascoltare (v. sotto, cap. 11).
Una manifestazione dell'essere ha scorto anche Jaspers nell'arte che
è per lui una delle ‛cifre' (cioè dei simboli) della Trascendenza: è
la contemplazione pura che, liberatasi dalla effettualità
dell'esistenza, spazia nel regno del possibile, priva di ogni
impaccio. Per questa libertà l'arte annuncia assai meglio di ogni
altra attività umana la trascendenza divina nella sua
inaccessibilità e insieme nella sua presenza di fronte all'uomo (v.
Jaspers, 1932, vol. III, pp. 192 ss.). Sartre a sua volta considera
il linguaggio come parte della condizione umana e precisamente come
l'insieme delle possibilità di essere questo o quello per gli altri.
‟Il linguaggio non si distingue dal riconoscimento dell'esistenza
degli altri" (v. Sartre, 1943, p. 441). Ma, dall'altro lato, scorge
nell'arte qualcosa che si sottrae completamente alla condizione
umana: una irrealtà totale, ‟un valore che si può riferire soltanto
all'immaginario che implica l'annichilazione del mondo nella sua
struttura essenziale" (v. Sartre, 1940, Conclusion, È 2).
Dall'arte peraltro Sartre distingue la letteratura che nasce nel
rapporto di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico e che
ha come condizione e come fine la libertà, per cui è sempre
ideologicamente e politicamente impegnata (v. Sartre, 1948).
D'altra parte, l'arte è stata intesa non come semplice aspetto della
condizione umana nel mondo, ma come un ‛ritorno' consapevole a tale
condizione. L'arte è un ‛ritorno alla natura', la conquista di una
‛sensibilità pura': nel senso che ‟se la sensibilità è la
percezione, la manipolazione e l'uso delle cose, la sensibilità pura
è la percezione, la manipolazione e l'uso delle cose ‛ai fini della
sensibilità'" (v. Abbagnano, 1942, cap. 7, È 3). Come ritorno alla
natura, l'arte è ‛struttura' in quanto, movendo dalla sensibilità
come sua condizione, muove verso la sensibilità come ‛fine', che
rende possibile la stessa condizione iniziale. Quando poi la si
considera non più dal punto di vista dell'atteggiamento esistenziale
ma da quello del linguaggio con cui essa si esprime, l'arte può
essere considerata come la forma di espressione che non è
subordinata a esigenze o bisogni di comunicazione; ma pone come fine
l'espressione stessa cioè una forma nuova di comunicazione (v.
Abbagnano, 1956, cap. 12).
11. Sviluppi ontologici e teologici
Negli sviluppi che l'esistenzialismo ha subito per opera degli
stessi filosofi che ne sono stati i fondatori, molti suoi tratti
caratteristici vengono meno. Tali sviluppi tuttavia costituiscono
l'eredità storica dell'esistenzialismo e presentano caratteri che li
ricollegano a qualche cardine di esso. L'analisi dell'esistenza ha
avuto per Heidegger sempre lo scopo di condurre a una ontologia,
cioè alla determinazione del senso dell'essere. Ma nell'ultima fase
del suo pensiero, l'esistenza stessa è definita, non dalle
possibilità che la legano alle cose del mondo, ma dallo svelamento
sempre parziale o imperfetto dell'Essere stesso.
L'esistenza diventa allora ‟lo stare alla luce dell'Essere" (v.
Heidegger, 1942, p. 66). Questo vuol dire che ‟l'uomo è gettato
dall'Essere stesso nella verità dell'Essere, sicché, esistendo,
custodisce la verità dell'Essere e con ciò, nella luce dell'Essere,
l'ente appare come quell'ente che è" (ibid., p. 75). In
parole povere, questo vuoi dire che l'unico atteggiamento degno
dell'uomo consiste nel ‟lasciare che l'Essere sia" cioè nella
‛rassegnazione' (Gelassenheit) o nell'abbandono all'Essere,
quindi alle cose, rinunciando a ogni iniziativa. È l'atteggiamento
che si deve assumere anche di fronte al mondo della tecnica ai cui
pericoli, secondo Heidegger, non si può porre alcun rimedio (v.
Heidegger, Gelassenheit, 1959, p. 26). Ma la vera
rivelazione dell'essere consiste nel linguaggio; giacché il destino
stesso è il fatum cioè la parola dell'Essere. Filosofia e
poesia si identificano in quanto entrambe non fanno che svelare il
significato dell'Essere che traluce nelle parole (v. Heidegger, Unterwegs
..., 1959, p. 254): traluce ma non si rivela completamente. Ogni
manifestazione dell'Essere costituisce un'‛epoca' storica; ed
Heidegger è convinto che una nuova epoca si sta preparando, che
anch'essa si annunzierà nel linguaggio (v. Heidegger, 1954, p. 54).
Heidegger rifiuta la qualifica di ateo ma neppure identifica
l'Essere con Dio: verosimilmente, egli ritiene che i caratteri in
cui l'Essere si rivela siano diversi da epoca a epoca. Jaspers
invece ha sempre più insistito, nell'ultima fase del suo pensiero,
sull'importanza della ‛fede' in Dio. Non sono più soltanto le
situazioni-limite che, manifestando lo scacco dell'esistenza,
rendono negativamente certi di Dio: l'esistenza autentica, nel suo
autochiarirsi, giunge a riconoscere l'esigenza dell'incondizionato
al quale solo la fede risponde (v. Jaspers, 1948). La storia stessa
è diretta da un disegno provvidenziale e si avvia verso una nuova
‛età assiale' che è il destino autentico dell'uomo e nella quale la
rivelazione di Dio sarà più completa (v. Jaspers, 1949).
Si è visto come l'esistenzialismo fideistico abbia sempre scorto
nell'esistenza una manifestazione privilegiata di Dio, e nei
caratteri negativi dell'esistenza il segno della trascendenza di
Dio. Bultmann è colui che ha elaborato in forma più strettamente
filosofica questo punto di vista, che è stato egualmente sviluppato,
in forma più strettamente teologica, da molti pensatori
contemporanei come Paul Tillich, Martin Buber, e altri che si
ispirano al pensiero di Kierkegaard.
12. Sviluppi politici
Gli sviluppi politici dell'esistenzialismo sono stati spesso
marginali, cioè non strettamente collegati con i capisaidi
dell'esistenzialismo stesso. Così J. Ortega y Gasset si è servito di
alcuni temi esistenzialistici - la coincidenza dell'uomo con la sua
situazione nel mondo, l'antitesi tra esistenza autentica e
inautentica, il carattere ‛chiarificatore' o ‛vitale' della ragione
che le permette di dominare le situazioni stesse - per una diagnosi
della ‛crisi' della civiltà contemporanea, e specialmente di quella
determinata dalla ribellione delle masse, e di un superamento di
questa crisi mediante una ‛nuova rivelazione' che dovrebbe essere
per l'uomo la ‛ragione storica' (v. Ortega y Gasset, 1930 e 1941).
Gli sviluppi politici più interessanti hanno avvicinato
l'esistenzialismo al marxismo, al quale infatti lo lega l'insistenza
sulla mondanità dell'uomo, sui rapporti dell'uomo con le cose e con
gli altri, quindi con la situazione storica. Questa saldatura è
stata operata soprattutto da Sartre nella Critica della ragione
dialettica (1960). Sartre utilizza a questo scopo la nozione
di ‛progetto'. ‟Dire di un uomo ciò che egli è significa dire ciò
che egli ‛può' e reciprocamente: le condizioni materiali della sua
esistenza circoscrivono il campo delle sue possibilità [...]. Così
il campo dei possibili è lo scopo verso il quale la gente oltrepassa
la sua situazione obiettiva. E questo campo, a sua volta, dipende
strettamente dalla realtà sociale e storica" (v. Sartre, 1960, p.
64). Le ‟condizioni materiali dell'esistenza" di cui Marx parlava
vengono quindi assunte da Sartre come il limite delle possibilità da
progettare per il futuro. Ma poiché anche questo progetto rimane
‛privato', cioè proprio del singolo uomo, Sartre fa intervenire la
‛ragione dialettica' come progressiva ‛totalizzazione' dei progetti
singoli, totalizzazione che dà luogo a gruppi unificati da una
‛sovranità reciproca' e non esclude quella di un ‛capo' (ibid.,
p. 589). Queste tesi presentano in realtà scarsa affinità sia con
l'esistenzialismo sia con il marxismo; e infatti hanno portato
Sartre ad allontanarsi negli ultimi anni sia dall'uno che
dall'altro.
In generale gli scrittori esistenzialisti hanno criticato nel
marxismo soprattutto il concetto di una dialettica impersonale in
cui l'esistenza individuale e la sua libertà vengono dissolte, e
quello della necessità di tale dialettica che dovrebbe fatalmente
condurre la società verso una rivoluzione totale e un'organizzazione
definitiva. Merleau-Ponty ha scritto a questo proposito che la
dialettica rimane vera solo in quanto prospetta ‟che nessuno è
soggetto ed è libero da solo, che le libertà si contrastano e si
esigono reciprocamente, che la storia è storia del loro dibattito e
che tutto si inscrive ed è visibile nelle istituzioni, nelle civiltà
e nella silloge delle grandi azioni storiche" (v. Merleau-Ponty,
1955, p. 276); ma è caduca la pretesa di far terminare la dialettica
con una fine della storia o con una rivoluzione permanente o con un
regime che, essendo la contestazione di se stesso, non può essere
contestato dal di fuori. L'esigenza che l'esistenzialismo fa quindi
valere è da un lato quella del ‛peso', assai variabile nelle diverse
circostanze, ma che può anche essere decisivo, che la libertà degli
uomini può avere sul corso della storia; e, dall'altro lato, quella
di una solidarietà umana che non annulli questa libertà o ne renda
impossibile l'esercizio in una società che assorba in sé e
nullifichi l'individuo. Camus ha espresso questa esigenza affermando
il ‛noi siamo' di fronte alla storia: ‟Io ho bisogno degli altri -
egli ha scritto - che hanno bisogno di me e di ciascuno. Ogni azione
collettiva, ogni società presuppongono una disciplina; e
l'individuo, senza questa legge, è soltanto uno straniero che piega
sotto il peso di una collettività nemica. Ma società e disciplina
perdono ogni direzione se negano il ‛Noi siamo'. Da solo, in un
certo senso, sostengo la dignità comune, che non posso lasciar
avvilire in me stesso e neppure negli altri" (v. Camus, 1951; tr.
it., p. 323). Da questo punto di vista Camus ha opposto la
‛rivolta', che fa sempre appello al limite e alla misura che sono
proprie dell'uomo, al ‛nichilismo rivoluzionario' che vuol creare
l'assoluto nella storia, e perciò nega ogni misura.
13. Conclusione
Sviluppato in direzioni diverse e contrastanti, l'esistenzialismo ha
permeato profondamente la cultura contemporanea. Esso ha proposto e
continua a proporre il problema dell'uomo come problema centrale
della filosofia: dell'uomo nella sua singolarità e nei rapporti che
lo legano alle cose e agli altri, della sua situazione nel mondo e
nella società, e nei rischi molteplici e sempre incombenti della sua
autoprogettazione. Insistendo su questi rischi, l'esistenzialismo ha
reso estremamente improbabile ogni smisurato ottimismo ma non ha
neppure, almeno nelle sue forme più equilibrate, prospettato
all'uomo un pessimismo desolante. Ha inoltre considerato l'uomo
nella totalità della sua esperienza vissuta, rivalutandone anche la
vita emozionale troppo spesso trascurata dalla filosofia
tradizionale. Ma soprattutto ha mostrato che, pur nei legami che lo
legano al mondo e che non possono esser scissi, l'uomo non ha una
natura determinata ma può progettarsi, sia pure sempre entro limiti
e condizioni, nelle forme di vita più disparate. La ricerca,
talvolta caotica e velleitaria, di nuove forme di vita, che è una
delle caratteristiche della società contemporanea, ha le sue radici
nell'esistenzialismo. In esso hanno radici i nuovi indirizzi della
teologia che scorgono nella ricerca e nella realizzazione storica di
un'esistenza umana più alta la ricerca e la realizzazione di Dio.
Per ciò che riguarda la scienza, l'esistenzialismo ha avuto subito
importanti riflessi nel campo della psicopatologia dove fece il suo
ingresso, nel 1913, con l'opera di Karl Jaspers Allgemeine
Psychopathologie ispirata dall'esigenza di ‛comprendere' il
mondo in cui vive il malato, mediante la partecipazione simpatetica
alle sue esperienze. Più tardi Ludwig Binswanger in un suo lavoro
celebre (v. Binswanger, 1933) ispirato all'opera di Heidegger,
vedeva l'origine della malattia mentale nel fallimento delle
possibilità esistenziali che costituiscono l'Esserci (Dasein)
cioè l'essere dell'uomo; e su questa base l'indirizzo
esistenzialistico si è diffuso e variamente atteggiato nella
psichiatria contemporanea. L'esistenzialismo ha inoltre (e questo
non è certo il suo risultato meno importante) elaborato concetti
come quelli di possibilità, scelta, struttura, progetto, che sono
oggi largamente adoperati da tutte le scienze umane e costituiscono
la base delle ricerche interdisciplinari, dall'informatica alla
teoria dei sistemi.