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Enciclopedia online
Arte, tecnica e attività di interpretare il senso di testi antichi, leggi, documenti storici e simili.
FILOSOFIA
Le origini dell’e. risalgono al mondo classico, dove sorse per stabilire l’esatto senso dei testi letterari (per es., i poemi omerici), sceverarne le parti autentiche da quelle spurie, ricostruirne l’organicità della struttura e del linguaggio.
Con il cristianesimo, quando si pose il problema estremamente delicato di interpretare un testo formulato in linguaggio umano, ma considerato frutto di ispirazione divina, assunse grande sviluppo e complessità il principio dell’allegoria, ossia il rintracciare un significato più profondo e diverso da quello immediatamente offerto dal testo. Si giunse così a distinguere molti sensi della Scrittura. Successivamente, quando con la Riforma fu contestata l’autorità della Chiesa e della tradizione come criterio ermeneutico del testo sacro e si affermò il principio della sola Scriptura, ossia di attenersi scrupolosamente al testo sacro quale documento unico della rivelazione, prese sempre più spazio nell’e. la ricerca storico-linguistica e l’esigenza di una analisi anche comparativa dei testi sacri con quelli di altre civiltà e culture.
Con il romanticismo, e soprattutto con il filosofo e teologo tedesco F. Schleiermacher, si afferma l’esigenza di un’e. universale, dotata di esplicita e intrinseca rilevanza filosofica, in quanto condizione indispensabile per comprendere, di un testo, la mens auctoris. Per questa via si arriva, con lo storicismo di W. Dilthey, a considerare l’e. come metodo specifico delle scienze storiche rispetto a quelle naturali.
Un approfondimento e un’accentuazione del significato filosofico dell’e. si hanno successivamente a opera della fenomenologia per la sua concezione della coscienza come attività intenzionale sempre aperta a un orizzonte temporale di correlati. Per questa via M. Heidegger pone l’e. al centro stesso dell’esistenza, non considerandola più soltanto come una delle possibili dimensioni del pensiero e della conoscenza, ma come il momento costitutivo fondamentale dell’esistenza dell’uomo, che è tale solo in quanto insieme interroga e interpreta sé stesso e l’essere, in un processo continuamente aperto e orientato al futuro. Si fa così più serrato il rapporto tra e. e verità, nel senso che la verità non può affatto essere ricondotta ai criteri astratti della logica tradizionale, ma colta soltanto nel processo intrinsecamente storico dell’e. o, più esattamente, di quel ‘circolo ermeneutico’ per cui l’interpretazione muove necessariamente dalla totalità del processo alle sue parti e viceversa.
Queste posizioni heideggeriane, che trovarono ampio sviluppo nel campo della logica, dell’estetica e soprattutto della teologia (per es., in R. Bultmann), sono state poi riprese da H.G. Gadamer con la sua affermazione dell’universalità dell’e. e del primato della dimensione storico-linguistica rispetto a ogni forma possibile di pensiero e di sapere.
Interessanti sviluppi del nesso tra filosofia ed e. si sono avuti pure in Francia conP. Ricoeur che, riprendendo anche motivi della fenomenologia hegeliana da una parte e della psicanalisi dall’altra, ha posto al centro dell’e. lo studio dei simboli come comprensione della coscienza nelle diverse dimensioni in cui si esplica.
In Italia il giurista e storico del diritto E.
Betti, rifacendosi all’impostazione storicistica dell’e., ha
insistito soprattutto sull’esigenza di oggettività a cui il
processo ermeneutico deve e può rispondere nel suo sforzo di
ricostruzione del senso del testo, mentre il filosofo L.
Pareyson ha affermato la possibilità di conciliare attraverso
l’e. il carattere insieme ontologico e storico della verità.
Dizionario di Filosofia (2009)
Presente fin dall’antichità, il termine arte o scienza dell’interpretazione di un testo (poetico, letterario, giuridico, religioso, ecc.) ha assunto particolare rilevanza filosofica nel Novecento per opera delle correnti storicistiche, fenomenologiche ed esistenzialistiche. Se infatti l’e. è stata concepita per secoli come una scienza o una tecnica ausiliare rispetto alla filologia, alla teologia o alla giurisprudenza, nella misura in cui il linguaggio si presta a molteplici interpretazioni, o – soprattutto in campo teologico – a molti ‘sensi’ (letterale, allegorico, analogico, anagogico, tipologico, ecc.), già con il Romanticismo, e soprattutto con Schleiermacher si comincia a vedere nell’e. qualcosa di più profondo e autonomo come sforzo di comprensione che va molto al di là del testo e ricostruisce, con una sorta di congenialità, la mens auctoris. Con Dilthey, tra i maggiori esponenti dello storicismo e autore di studi fondamentali su Schleiermacher, il problema dell’e. viene ripreso e ampliato nel quadro di una «critica della ragione storica» volta a fondare la legittimità e l’autonomia delle scienze dello spirito rispetto alle scienze della natura cui si appellava il positivismo dominante. Per Dilthey l’e. è la scienza dell’arte dell’interpretazione e concerne quelle manifestazioni della vita spirituale che hanno trovato l’espressione più compiuta e conclusiva nello scritto. In tal senso l’e. ha una funzione centrale e portante nelle scienze dello spirito, il cui oggetto può esser colto adeguatamente solo attraverso un’interpretazione che realizzi in modo unitario e intuitivo il nesso tra vita, espressione e ‘comprensione’.
Verso l’ermeneutica filosofica. Se con Dilthey l’interesse pur rilevante per l’e. appare circoscritto all’interno del problema delle scienze dello spirito e impostato quindi ancora in senso prevalentemente metodologico, la svolta decisiva verso l’e. filosofica si ha con la fenomenologia di Husserl e con l’esistenzialismo di Heidegger. Nella sua polemica contro ogni forma di oggettivismo e naturalismo, Husserl mette in luce infatti il carattere intenzionale della coscienza, per cui ogni percezione è sempre legata a un orizzonte entro il quale soltanto diventa significante e il giudizio rinvia a tutta una serie di presupposti ‘precategoriali’. Su questa linea Heidegger, già in Essere e tempo (1927), concepisce l’e. non più come uno dei possibili modi d’intendere o di conoscere, contrapposto o coordinato ad altri, ma come il modo fondamentale di esistenza, essendo l’uomo precisamente un continuo autointerpretarsi e interpretare l’essere. Nella misura in cui l’esistenza è continua progettazione, anticipazione della morte, ‘cura’, il problema della verità va considerato in una dimensione anteriore e diversa rispetto a quella del giudizio dove è stato collocato dalla metafisica occidentale, da Platone a Hegel.
Il circolo ermeneutico. Il disvelarsi della verità presuppone sempre un’anticipazione di senso, una sorta di ‘pre-comprensione’ che è al tempo stesso il segno della sua intrinseca storicità. È questo il cosiddetto circolo ermeneutico per cui l’interpretazione è un processo che va continuamente dal tutto alle parti e viceversa: soltanto in riferimento alla struttura dell’esistenza come «esserci-nel-mondo» si rivela il senso di ciò che l’esistenza viene storicamente scoprendo e viceversa. L’e. filosofica, considerando indispensabile questo circolo (che agli occhi della logica e della filosofia tradizionale appare invece come vizioso, e cioè tale da inficiare la verità delle conclusioni raggiunte), si contrappone alla logica quale si è venuta configurando nella filosofia occidentale, e cioè come logica della proposizione e del giudizio. Si hanno così nella scia del pensiero heideggeriano forme di logica ermeneutica (H. Lipps), dove alla ‘morfologia del giudizio’ si cerca di sostituire la ‘tipologia del discorso’, o di logica semantica (J. Lohmann), che cerca d’individuare nella storicità e intersoggettività dialogica del linguaggio il vero a priori dell’uomo e della ragione. Con l’evolversi del pensiero di Heidegger dalla prospettiva fenomenologico-esistenziale di Essere e tempo verso una prospettiva ontologico-linguistica, l’e. ha acquistato ancor maggiore rilevanza filosofica. Il motivo heideggeriano del rapporto tra arte e verità, per cui l’arte non è espressione di una verità presupposta o comunque assoluta e metastorica ma è l’accadere della verità, porta con Gadamer a una revisione critica del concetto di coscienza storica che sfocia nell’affermazione dell’universalità dell’ermeneutica. La comprensione storica non consiste nella semplice ricostruzione del senso di un testo o di un momento del passato, come voleva lo storicismo, ma in una continua fusione di orizzonti dove, proprio come accade rispetto all’arte, vengono sempre di nuovo messi in gioco tanto l’opera quanto l’interprete in un processo sempre incompiuto e infinito qual è appunto il linguaggio. Proprio questa consapevolezza del primato della dimensione linguistica e dialogica rispetto a ogni possibile forma di pensiero ha portato a una certa convergenza tra l’e. filosofica e certi sviluppi della filosofia analitica del linguaggio, soprattutto dell’ultimo Wittgenstein, attento ai giochi linguistici e alla loro connessione con la prassi e le forme di vita.
Il panorama europeo. Se l’e. filosofica si è sviluppata soprattutto in Germania, non ne sono però mancate trattazioni originali e significative in Francia, soprattutto con Ricoeur, e in Italia con Pareyson e Betti. Prendendo le mosse dalla fenomenologia husserliana e con particolare attenzione al problema del male e del sacro da una parte e ai risultati della psicoanalisi dall’altra, Ricoeur considera compito essenziale dell’e. lo studio dei simboli, ossia di quei segni che, oltre ad avere un senso diretto e letterale, rinviano pure a uno o più sensi indiretti e figurati. Nell’adempiere a tale compito l’e. si dispiega in direzioni diverse, a seconda che riguardi l’archeologia della coscienza (psicoanalisi freudiana), la sua teleologia (fenomenologia hegeliana) o la sua escatologia (fenomenologia del sacro); direzioni tra le quali deve operare una continua dialettica per ritrovare in ciascuna di esse l’unità di senso che vi si esplicita. Pareyson è giunto ad affermare il valore ontologico e di verità dell’e. dopo aver approfondito il problema dell’interpretazione nell’estetica, dove già ne aveva evidenziato il carattere irripetibile e personale (cfr. soprattutto Estetica: teoria della formatività, 1954). Così in Verità e interpretazione (1971), attraverso la distinzione tra pensiero puramente espressivo di esigenze e situazioni pratiche e storiche, e pensiero rivelativo della verità, Pareyson pone l’e. al centro dell’intero discorso filosofico. Questo, infatti, è sempre personale e istituisce una molteplicità di interpretazioni singole e irripetibili del vero, e al tempo stesso tutte le unisce nella consapevolezza di possedere la verità senza esaurirla, ma alimentandosene continuamente nella storia. Lo storico e teorico del diritto Betti ha preso invece le mosse soprattutto dal campo giuridico per sviluppare una Teoria generale dell’interpretazione (1955) molto vicina alle impostazioni specificamente metodologiche del problema dell’e. dell’inizio del sec. 20°. Per quel che riguarda in partic. l’oggettività del processo ermeneutico, Betti ne ritrova la garanzia nel fatto che l’interprete, nel suo sforzo di ricostruzione del senso, ripercorre a ritroso il cammino creativo da cui è scaturita l’opera interpretata e la trasferisce in una soggettività diversa da quella originaria, ma a essa unita nella comune umanità.
Il pensiero di Gadamer. Anche nella sfera del diritto prevalse la linea di Gadamer che recupera in Verità e metodo (1960) il momento dell’applicazione della legge come momento costitutivo di ogni comprensione, segnalando conseguentemente il significato esemplare dell’e. giuridica, dove si evidenzia quella condizione della comprensione consistente nell’appartenenza dell’interprete al testo. Chi interpreta la legge non può, per Gadamer, assumere liberamente un punto di vista, ma deve partire dal presupposto necessario che «la legge obblighi ugualmente tutti i membri della comunità giuridica». Negli ultimi decenni del Novecento l’e. è stata indubbiamente una delle correnti filosofiche che ha avuto maggiore diffusione e risonanza, fino al punto che si è pensato di poterla definire la koinè del dibattito filosofico contemporaneo. Tale processo ha comportato per un lato l’emergere di nuovi importanti sviluppi dell’e., e per l’altro la possibilità di una sua comprensione più approfondita alla luce di una migliore messa a fuoco retrospettiva di molti suoi aspetti e articolazioni essenziali. A tale proposito grande importanza ha avuto la pubblicazione (1985-97) delle Opere complete di Gadamer, che presentano una panoramica vasta e unitaria del suo pensiero, sì da consentire di evidenziarne sempre meglio alcuni punti nodali: tra questi, la peculiarità della sua concezione della coscienza storica rispetto alle varie forme di storicismo.
Sviluppi recenti. Le teorie di Gadamer impressero un forte
sviluppo dell’e. nel pensiero contemporaneo, con particolari
approfondimenti nell’ultimo ventennio del Novecento da parte di
Vattimo in scritti tra i quali vanno ricordati soprattuttoLa fine
della modernità (1985) e Oltre
l’interpretazione (1994). Come sottolinea Vattimo, a tale
proposito non si può non richiamarsi anzitutto alla linea
tracciata da Heidegger con il suo saggio sul moderno L’epoca
dell’immagine del mondo(1938), e con la sua critica complessiva
dell’umanismo come compimento della metafisica. Ma l’essenziale,
per Vattimo, è leggere l’interpretazione heideggeriana della
modernità, e quindi della peculiarità della tecnica moderna, al di
fuori dei consueti schemi di ‘filosofia della cultura’, e cogliere
così il valore propositivo (e non soltanto negativo)
dell’interpretazione della scienza e della tecnica moderna come
compimento della storia della metafisica. La filosofia ermeneutica
trova legittimazione come rinuncia a qualsiasi illusione di
preparare un ‘ritorno dell’essere’ e a leggere in questa chiave il
pensiero heideggeriano, scorgendovi invece un invito a
radicalizzare il motivo nichilistico, senza alcuna pretesa o
presunzione di un superamento (nel senso tradizionale del termine)
della metafisica. La filosofia ermeneutica va intesa piuttosto
come la storia di un lungo addio, di un indebolimento
interminabile dell’essere quale esito manifesto della sua storia.
Per i suoi stessi legami con la tradizione romantica da una parte
e con le tesi heideggeriane sulla portata veritativa dell’arte
dall’altra, la filosofia ermeneutica non poteva poi non assumere
un ruolo sempre più rilevante nel dibattito dell’estetica e della
critica contemporanee. Particolare importanza ha avuto in questo
quadro quella tendenza che va sotto il nome di estetica della
ricezione, il cui maggiore esponente è stato lo storico della
letteratura e filosofo Hans R. Jauss soprattutto
in Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria(1982).
Richiamandosi al concetto gadameriano
di Wirkungsgeschichte («storia degli effetti»), Jauss
considera centrale, per una riabilitazione della storia della
letteratura, prestare attenzione a un momento essenziale del
processo estetico, indebitamente sacrificato, quello appunto della
‘ricezione’. Nel triangolo autore-opera-pubblico, quest’ultimo non
è affatto una parte soltanto passiva, una catena di semplici
reazioni, ma, a sua volta, un’energia produttiva di storia. Questa
istanza, che si richiama al motivo ermeneutico della fusione degli
orizzonti, dev’essere fatta valere tanto contro l’ideale di
oggettività della vecchia storia letteraria caduta in discredito,
quanto contro la pretesa di esattezza avanzata dai detrattori
della comprensione storico-ermeneutica, muovano essi da
presupposti di tipo sociologico oppure strutturalistico.
Nonostante i numerosi motivi di consenso con Gadamer, Jauss assume
però una posizione critica nei confronti della sua e, poiché vi
scorge un privilegiamento della nozione di ‘classico’ come
prototipo di ogni mediazione storica del presente: una tesi,
sempre secondo Jauss, che deriva dal non voler abbandonare il
concetto di mimesis che può invece valere soltanto per
alcune e non per tutte le fasi della storia dell’arte. Sempre per
quanto riguarda la ricezione, Jauss ritiene infine che si debba
sottolineare la sua portata pratica ed emancipatrice attraverso la
continua interazione traWirkungsgeschichte e ricezione, tra
orizzonte dell’esperienza e orizzonte dell’attesa, da cui
scaturisce una dialettica interna tra letteratura e storia
universale, una sorta di mediazione ermeneutica che consente di
evitare ogni forma di storicismo sociologico estrinseco.
Enciclopedia del Novecento (1977)
di Hans-Georg Gadamer
Sommario: 1. L'ermeneutica nell'antichità. 2. L'ermeneutica
nell'età moderna.
1. L'ermeneutica nell'antichità
Come spesso accade con parole analoghe prese in prestito dal
greco, che hanno trovato accoglienza nel nostro linguaggio
scientifico, il termine ‛ermeneutica' ricopre disparati livelli di
riflessione. ‛Ermeneutica' vuol dire in primo luogo - come indica
il fatto di richiedere l'integrazione di τέχνη - una prassi
tecnicamente fondata. L'arte, di cui qui si tratta, è quella
dell'annunciare, del far da interprete, dello spiegare e
dell'interpretare, e abbraccia naturalmente la sottostante arte
del comprendere, di cui v'è necessità ogniqualvolta il senso di
qualcosa non si mostri in modo aperto e inequivoco. Già nell'uso
più antico della parola c'è quindi una certa ambiguità. Ermes era
il messaggero degli dei, colui che recava agli uomini le
ambasciate degli dei; nella narrazione omerica, egli spesso non
faceva altro che riportare alla lettera il messaggio affidatogli.
Spesso però, e specialmente nell'uso profano, l'ufficio
dell'ἑρμηνεύς consiste nel tradurre, nella comprensibile lingua di
tutti, qualcosa che è stato espresso in una lingua straniera o in
modo incomprensibile. L'ufficio del tradurre comporta perciò
sempre una certa ‛libertà'. Esso presuppone la piena comprensione
della lingua straniera, ma più ancora la comprensione della
specifica intenzione significativa di ciò che è stato espresso.
Chi vuole riuscire comprensibile deve dare una nuova espressione
linguistica a quel che altri hanno inteso dire. L'operazione
dell'ermeneutica consiste sempre in una siffatta trasposizione da
un mondo in un altro, dal mondo degli dei in quello degli uomini,
dal mondo di una lingua (straniera) a quello di un'altra (la
propria). (I traduttori umani possono tradurre sempre e soltanto
nella propria lingua). Ma poiché il compito proprio del tradurre
consiste nel ‛ridisporre' ciò che si è voluto dire, il senso
dell'ἑρμηνεύειν oscilla tra la traduzione e l'indicazione pratica,
tra il comunicare e il richiedere obbedienza. In verità, ἑρμηνεία
vuol dire, in un'accezione affatto neutra, ‛enunciazione di
pensieri'; è però caratteristico che Platone (Politico, 260 d) non
ricomprenda sotto questo termine tutte le espressioni di pensieri,
ma soltanto quelle (per es. nel caso del re, dell'araldo, ecc.)
che possiedono il carattere dell'ingiunzione. Né si potrebbe
intendere altrimenti l'affinità dell'ermeneutica con la mantica
(Epinomide, 975 c): l'arte di trasmettere la volontà degli dei non
è lontana dall'arte di divinare tale volontà o il futuro a partire
da segni.
È comunque caratteristico per l'altra componente del significato
- quella puramente intellettuale - che nel περί ἑρμηνείας
Aristotele tratti unicamente il senso logico dell'enunciato, il
λόγος ἀπoϕαντικός. In sintonia con l'uso aristotelico, si sviluppa
nella tarda grecità il senso puramente intellettuale di ἑρμηνεία e
di ἑρμηνεύς, che possono significare rispettivamente l'esegesi
dotta e l'esegeta o il traduttore. Naturalmente, all'‛ermeneutica'
come arte rimane sempre un poco attaccata la vecchia derivazione
dalla sfera sacrale: è un'arte i cui responsi esigono
sottomissione ovvero vengono riconosciuti con aminirazione, poiché
essa consente di comprendere e di render noto qualcosa che
altrimenti rimarrebbe precluso: un discorso in una lingua
straniera o una convinzione inespressa. È dunque un'ars (in
tedesco Kunstlehre), come l'oratoria o l'arte dello scrivere
o quella del far di conto: più un'abilità pratica che una
‛scienza'.
Quando oggi parliamo di ermeneutica, ci collochiamo invece nella
tradizione scientifica dell'età moderna. È con la nascita del
moderno concetto di metodo e di scienza che si afferma l'uso
moderno del termine ‛ermeneutica'. Oggi il termine implica sempre
una qualche sorta di consapevolezza metodica. Non ci si limita a
possedere l'arte dell'interpretazione, ma si sa giustificarla
teoricamente. La prima attestazione di ‛ermeneutica' come titolo
di un libro risale al 1654 (J. K. Dannhauser, Hermeneutica
sacra sive methodus exponendarum sacrarum litterarum). Dopo di
allora, si distinguono un'ermeneutica teologico-filologica e una
giuridica. Sul piano teologico, ermeneutica significa l'arte della
retta interpretazione della Sacra Scrittura; arte che, in sé
antichissima, era stata portata a consapevolezza metodica già in
epoca patristica, soprattutto da Agostino nel De doctrina
christiana. Una dogmatica cristiana traeva infatti il proprio
compito dalla tensione esistente tra la storia particolare del
popolo ebraico - com'era interpretata, in termini di storia della
salvezza, dal Vecchio Testamento - e l'annunzio universale di Gesù
nel Nuovo Testamento. Appunto a tale proposito l'ermeneutica, in
quanto riflessione metodica, doveva recare aiuto e fornire
soluzioni. Nel De doctrina christiana Agostino, con
l'ausilio di rappresentazioni neoplatoniche, insegna che lo
spirito ascende, dal senso letterale e da quello morale, al senso
spirituale. Egli risolve così il problema dogmatico e così facendo
ricapitola da un punto di vista unitario l'antica eredità
ermeneutica.
Il nocciolo dell'ermeneutica antica è il problema
dell'interpretazione allegorica (la quale è in sé ancora più
remota). ‛Υπόνοια, il senso che sta dietro, era originariamente la
parola usata per indicare il senso allegorico. L'interpretazione
allegorica era usuale già al tempo della sofistica, come aveva già
sostenuto A. Tate e come è stato confermato da recenti testi
papiracei. È chiaro il nesso storico che sta alla base di ciò: dal
momento in cui il mondo di valori dell'epos omerico, che era
destinato a una società aristocratica, perse la propria
imperatività, divenne necessaria, per la sua trasmissione, una
nuova arte interpretativa. Ciò avvenne con la democratizzazione
delle città, il cui patriziato aveva raccolto l'etica
aristocratica. Espressione dello stesso processo era l'idea di
cultura propria della sofistica: Odisseo toglie ad Achille il
primato e, sulla scena, assume non di rado tratti sofistici. In
seguito, l'allegoresi assurse a metodo universale soprattutto con
l'interpretazione omerica della Stoa, nell'ellenismo. A questa si
riallacciò l'ermeneutica patristica, che fu ricapitolata da
Origene e da Agostino. Nel Medioevo essa fu sistematizzata da
Cassiano e poi sviluppata nel metodo del quadruplice senso delle
Scritture.
2. L'ermeneutica nell'età moderna
Un nuovo impulso l'ermeneutica lo ricevette dal ritorno della
Riforma alla lettera della Sacra Scrittura; al contempo, i
riformatori si mostravano polemici verso la tradizione dottrinale
della Chiesa e verso il suo trattamento dei testi per mezzo di
metodi come quello dei molteplici sensi della Scrittura (cfr. le
ricerche di K. Holl sull'ermeneutica di Lutero: Luthers
Bedeutung für den Fortschritt der Auslegungskunst, 1920, e la loro
continuazione per opera di G. Ebeling,Evangelische
Evangelienauslegung. Eine Untersuchung zu Luthers Hermeneutik,
1942, e Die Anfänge von Luthers Hermeneutik, 1951). In
particolare, venne allora rifiutato il metodo allegorico, ovvero
la comprensione allegorica fu limitata ai casi nei quali il senso
delle parabole la giustificava in modo specifico. Nello stesso
tempo si destò una nuova coscienza metodica, che voleva essere
obiettiva, legata all'oggetto, libera da ogni arbitrio soggettivo.
Il motivo centrale rimane però di natura normativa: quel che è in
questione nell'‛ermeneutica teologica' o ‛umanistica' dell'età
moderna è la retta interpretazione di testi i quali contengono la
vera autorità, che occorre recuperare. La motivazione dello sforzo
ermeneutico, pertanto, non è da ricercarsi tanto, come più tardi
in Schleiermacher, nel fatto che un dato contenuto tramandato è
difficilmente comprensibile e dà adito a fraintendimenti, quanto
piuttosto nel fatto che esso viene assoggettato a una rinnovata
comprensione, mentre una tradizione costituita viene spezzata o
trasformata dalla riscoperta delle sue origini sepolte. Il senso
originario, celato o deformato, deve essere nuovamente ricercato e
rinnovellato. L'ermeneutica cerca dovunque, ritornando alle fonti
originali, di raggiungere una rinnovata comprensione di qualcosa
che è stato corrotto dallo snaturamento, dalla deformazione e
dall'abuso: la Bibbia, dall'insegnamento tradizionale della
Chiesa; i classici, dal barbaro latino della Scolastica. I nuovi
sforzi dovevano quindi mirare non solo a una più corretta
comprensione, ma a ridare validità a qualcosa avente un valore
normativo esemplare.
Accanto a tale motivazione - di natura concreta - era però
operante nell'ermeneutica, all'inizio dell'età moderna, anche una
motivazione formale, in quanto la coscienza metodica della nuova
scienza, che si serviva specialmente del linguaggio della
matematica, spingeva verso una teoria generale
dell'interpretazione delle lingue costituite da segni. Per la sua
generalità, essa fu trattata come una parte della logica (cfr.
l'esposizione di L. Geldsetzer nell'introduzione alla ristampa di
G. F Meier, Versuch einer allgemeinen Auslegungskunst, 1965;
specialmente pp. 10 ss.). A questo proposito, il ruolo decisivo fu
certo svolto dall'inserimento di un capitolo ermeneutico
nella Logicadi Ch. Wolff (Philosophia rationalis sive logica,
17322, parte III, sezione III, capp. 6, 7). Era qui all'opera un
interesse logico-filosofico, che mirava alla fondazione
dell'ermeneutica entro una semantica generale. Il disegno di una
tale semantica è rinvenibile dapprima in Meier, che ha in
Chladenius un precursore d'ingegno (J. A.
Chladenius, Einleitung zur richtigen Auslegung vernunftiger
Reden und Schriften, 1742, ristampa 1970). In generale, però, la
disciplina dell'ermeneutica, che andava emergendo nella teologia e
nella filologia, rimase nel sec. XVII allo stato frammentario e
servì a scopi didattici piuttosto che filosofici. Pragmaticamente
orientata, essa ha elaborato, è vero, alcune fondamentali regole
metodologiche, in grandissima parte tratte dall'antica grammatica
e retorica (Quintiliano, Institutio oratoria); rimase però
nel complesso solo una raccolta di spiegazioni di passi, destinata
a dischiudere l'accesso alla comprensione della Scrittura (o, sul
terreno umanistico, dei classici).
Il vocabolario concettuale dell'ermeneutica del ‛primo
protestantesimo' deriva interamente dalla retorica antica. Il
riadattamento - operato da Melantone - dei concetti fondamentali
della retorica al corretto studio dei testi (bonis auctoribus
legendis), che aveva il suo modello già nella retorica della tarda
antichità (Dionigi di Alicarnasso), fu a questo proposito
decisivo. Così, l'esigenza di comprendere ogni particolare a
partire dal tutto risale al rapporto
tra caput e membra, rapporto assunto a modello
dalla retorica antica. In Flacius, questo principio ermeneutico
conduce naturalmente a un'applicazione ricca di una tensione
estrema, giacché l'unità dogmatica del canone, che egli difende
contro l'interpretazione singola degli scritti neotestamentari,
limita fortemente il caposaldo luterano del ‛principio
scritturale' (Schriftprinzip). Quel paio di regole ermeneutiche
generali - fondate sulla retorica antica - che si trovano
anticipate in queste ‛ermeneutiche', non giustificano certo un
interesse filosofico per questi scritti. Nondimeno, nella
preistoria dell'ermeneutica protestante si rispecchia già la più
profonda problematica filosofica, che doveva venire pienamente
alla luce soltanto nel nostro secolo. Il principio
luterano sacra scriptura sui ipsius interpres contiene,
è vero, un chiaro ripudio della tradizione dogmatica della Chiesa
romana; ma, giacché tale principio non voleva affatto venire in
soccorso di un'ingenua teoria dell'ispirazione, e poiché in
particolare la teologia di Wittenberg, seguendo la dotta
traduzione luterana della Bibbia, utilizzava, per giustificare la
propria esegesi, un ricco apparato filologico ed esegetico, la
problematicità implicita in ogni interpretazione doveva
coinvolgere anche il richiamo al sui ipsius interpres. Il
paradosso di tale principio non era che troppo palese, ed era
inevitabile che i difensori della tradizione dottrinale cattolica,
il Concilio di Trento e la letteratura della Controriforma ne
svelassero la debolezza teorica. Non si poteva negarlo: neppure
l'esegesi biblica protestante lavorava senza linee direttive, che
in parte erano raccolte sistematicamente negli ‛articoli di fede',
e in parte venivano suggerite nella scelta dei loci precipui.
La critica a Flacius di Richard Simon (Histoire critique du texte
du Nouveau Testament, 1689) è oggi per noi un documento
caratteristico della problematica ermeneutica della
‛precomprensione', nella quale, come si mostrerà poi, si celavano
implicazioni ontologiche che soltanto la filosofia del nostro
secolo doveva rendere evidenti. In connessione con il rifiuto
della dottrina dell'ispirazione verbale, infine, anche
l'ermeneutica teologica del primo illuminismo cerca di raggiungere
regole generali del comprendere. In particolare, la ‛critica
storica della Bibbia' trova allora la sua prima legittimazione
ermeneutica. Il Tractatus theologico-philosophicus di
Spinoza fu l'avvenimento capitale. La sua critica, per esempio, al
concetto di miracolo era legittimata dalla pretesa della ragione
di riconoscere soltanto il razionale, cioè il possibile. E quella
spinoziana non era semplicemente una critica; essa conteneva a un
tempo un momento positivo, in quanto avanzava l'esigenza là dove,
nella Scrittura, la ragione trova motivo di scandalo - di una
spiegazione naturale. Ciò conduce a volgersi alla storia, a
volgersi cioè dalle (incomprensibili) narrazioni di miracoli alla
(comprensibile) fede nei miracoli.
A un tal risultato negativo-illuministico si contrappose
l'ermeneutica ‛pietistica', che, a partire da A. H. Francke,
associò nel modo più stretto l'applicazione ‛edificante' al-
l'interpretazione dei testi. In ciò si scorge la tradizione della
retorica antica e della sua dottrina sul ruolo degli affetti, come
è specialmente chiaro nella dottrina della predica (sermo), che
nel culto protestante aveva ricevuto un nuovo grande ruolo.
L'ermeneutica di J. J. Rambach (Institutiones hermeneuticae
sacrae, 1723), che ebbe grande autorità, pose esplicitamente,
accanto alla subtilitas intelligendi, la subtilitas
applicandi, dalla quale la predica trae certamente il suo
significato. Il termine subtilitas (finezza), che deriva
certo dalla mentalità competitiva del- l'umanesimo, allude con
eleganza al fatto che la ‛metodica' dell'interpretazione - come in
generale ogni applicazione di regole - richiede una facoltà di
giudicare, la quale non può a sua volta essere assicurata mediante
regole (cfr. Kant, Kritik der Urteilskraft, 17992, VII).
Questa circostanza doveva significare, per quanto riguarda
l'applicazione della teoria alla prassi ermeneutica, una costante
limitazione. Per di più l'ermeneutica, come disciplina ausiliaria
della teologia, cerca sempre, ancora nel tardo sec. XVIII, il
compromesso con l'interesse dogmatico (per es. in Ernesti,
Semler).
Stimolato da F. Schlegel, F. Schleiermacher scioglie
l'ermeneutica, in quanto teoria universale del comprendere e
dell'interpretare, da tutti i momenti dogmatici e occasionali, che
in lui trovano una loro legittimità ermeneutica solo su un piano
secondario, in considerazioni speciali sulla Bibbia. Con la sua
teoria ermeneutica egli difese la scientificità della teologia, e
ciò specialmente contro la teologia dell'ispirazione, la quale
metteva radicalmente in questione la verificabilità metodica della
comprensione della Sacra Scrittura con i mezzi dell'esegesi
testuale, della teologia storica, della filologia ecc. Ma sullo
sfondo della concezione schleiermacheriana di un'ermeneutica
universale stava non solo un siffatto interesse per uno sviluppo
della teologia come scienza, ma un motivo filosofico. Uno degli
impulsi più profondi dell'epoca romantica era la fede nel dialogo
in quanto peculiare fonte di verità: fonte non dogmatica né
sostituibile da alcun dogmatismo. Se Kant e Fichte avevano
indicato nella spontaneità dell'‛Io penso' il principio supremo di
ogni filosofia, nella generazione romantica degli Schlegel e degli
Schleiermacher, contrassegnata da un ardente culto dell'amicizia,
quel principio si trasformò in una sorta di metafisica
dell'individualità. L'ineffabilità dell'individuale stava anche
alla base della svolta verso il mondo della storia, il quale
emerse alla coscienza in seguito alla rottura con la tradizione,
propria di quell'età di rivoluzioni. La capacità di amicizia, la
capacità di dialogo, di scambio epistolare e in generale di
comunicazione: tutti questi tratti del sentimento romantico della
vita vennero incontro all'interesse per la comprensione (o per il
suo fallimento); e quella primordiale esperienza umana costituì
appunto, nell'ermeneutica di Schleiermacher, il punto di partenza
metodico. A partire da lui, la comprensione dei testi, la
comprensione di tracce spirituali straniere, remote, oscurate e
irrigidite nella redazione scritta - cioè la vivente
interpretazione dei testi letterari e soprattutto della Sacra
Scrittura - si presenta come un'applicazione specializzata.
Naturalmente, l'ermeneutica di Schleiermacher non è del tutto
sgombra da una certa polverosa scolasticità tipica della
precedente letteratura ermeneutica, come d'altra parte anche la
sua opera propriamente filosofica si è sviluppata all'ombra degli
altri grandi pensatori idealisti. Egli non ha infatti né la forza
cogente della deduzione fichtiana, né la eleganza speculativa di
Schelling, né la robusta originalità dell'‛arte concettuale' di
Hegel: egli era un oratore - anche là dove filosofava - e i suoi
libri sono i brogliacci di un oratore. Ma in particolare i suoi
contributi all'ermeneutica hanno un forte spicco e, quel che più
interessa sotto l'aspetto ermeneutico, le sue osservazioni sul
pensare e sul parlare non si trovano nell'‛ermeneutica', ma nella
‛dialettica'. Siamo però sempre in attesa di una maneggevole
edizione critica della Dialektik (v. Vattimo, 1968). Il
senso normativo fondamentale dei testi, che aveva originariamente
conferito allo sforzo ermeneutico il proprio significato, in
Schleiermacher arretra nello sfondo. Il comprendere è la
‛ripetizione riproduttiva', sulla base della congenialità degli
spiriti, della produzione mentale originaria. Tale era
l'insegnamento di Schleiermacher, con - sullo sfondo - la sua
concezione metafisica dell'individualizzazione della vita
universale. Emerge così, e in modo tale da superare radicalmente
l'esclusivo interesse della filologia per la letteratura scritta,
il ruolo del ‛linguaggio'. La fondazione schleiermacheriana del
comprendere sul dialogo e sull'intesa interumana significava a un
tempo approfondire le basi dell'ermeneutica, così da consentire
l'edificazione, su base ermeneutica, di un sistema delle scienze.
L'ermeneutica divenne il ‛fondamento di tutte le scienze storiche
dello spirito', e non solo della teologia. Il presupposto
dogmatico dell'autorità del testo, sotto il cui dominio il lavoro
ermeneutico - sia dei teologi sia dei filologi umanisti (per non
parlare dei giuristi) - svolgeva la sua originaria funzione di
mediazione, è ora scomparso. Lo storicismo ha così la via libera.
Dopo Schleiermacher, fu soprattutto l'interpretazione
‛psicologica', sostenuta dalla teoria romantica della creazione
inconscia del genio, a divenire sempre più nettamente la base
teorica delle scienze dello spirito nel loro complesso. Ciò si
manifesta nel modo più istruttivo già in Steinthal (Einleitung in
die Psychologie und Sprachwissenschaft, 1881), e in Dilthey si
arriva a una rifondazione sistematica dell'idea di scienze dello
spirito sulla base di una psicologia comprendente (verstehend) e
descrittiva. Non è in Schleiermacher, naturalmente, che si trova
la più profonda fondazione filosofica delle scienze storiche. Egli
appartiene piuttosto alla linea di pensiero dell'idealismo
trascendentale fondato da Kant e da Fichte: e specialmente
la Grundlage der gesamten Wissenschaftslehre di Fichte
quasi eguagliò, per importanza epocale, la Kritik der reinen
Vernunft. Come già mostra il titolo, si tratta qui della
derivazione di ‛tutto' il sapere da un supremo principio unitario,
quello della spontaneità della ragione (Fichte parlava di ‛atto'
anzichè di ‛fatto'); e questa svolta dall'idealismo ‛critico' di
Kant all'idealismo ‛assoluto' sta alla base di tutti gli sviluppi
posteriori, da Schiller e Schleiermacher, Schelling, Friedrich
Schlegel e Wilhelm von Humboldt sino a Boeck, Ranke, Droysen e
Dilthey. Che la ‛scuola storica', a dispetto del suo rifiuto della
costruzione aprioristica della storia universale nello stile di
Fichte e di Hegel, condivida le basi teoriche della filosofia
idealistica, è stato mostrato specialmente da E. Rothacker (v.,
1920).
Particolare autorità ebbero le lezioni del celebre filologo
August Boeck sull'‛enciclopedia delle scienze filologiche'. In
esse Boeck determinava il compito della filologia addirittura come
quello di ‟riconoscere il conosciuto": era una buona formulazione
del carattere secondario della filologia. Il valore normativo
della letteratura classica, che era stato riscoperto
nell'umanesimo e aveva costituito l'impulso primario all'imitatio,
sbiadiva nell'indifferenza della storia. Dal compito fondamentale
di un siffatto ‛comprendere' Boeck distingueva poi i diversi modi
interpretativi nella sfera grammaticale, in quella dei generi
letterari, in quella storico-reale e in quella
psicologico-individuale. È qui che si riallacciò Dilthey con la
sua psicologia ‛comprendente'. Naturalmente, l'orientamento
‛gnoseologico' si era nel frattempo mutato, specialmente sotto
l'influsso della ‛logica induttiva' di J. H. Mill, e quando
Dilthey difese contro la psicologia sperimentale, che andava
espandendosi sulla base dell'opera di Herbart e di Fechner, l'idea
di una psicologia ‛comprendente', egli condivideva certo il
generale punto di vista dell'‛esperienza', anche se ovviamente
nella forma basata sul ‛principio della coscienza' e sul concetto
di ‛esperienza vissuta' (Erlebnis). Ebbe inoltre per lui il valore
di una costante sollecitazione lo sfondo culturale - intessuto di
filosofia della storia, anzi di teologia della storia - sul quale
si stagliava la penetrante istorica di J. G. Droysen, come anche
la severa critica che il suo amico, il luterano Yorck von
Wartenburg rivolgeva allo storicismo ingenuo dell'epoca. Entrambi
questi fattori hanno contribuito all'aprirsi, nel successivo
sviluppo di Dilthey, di una nuova strada. Il concetto
di Erlebnis, che in lui aveva costituito il fondamento
psicologico dell'ermeneutica, fu integrato dalla distinzione di
‛espressione' e ‛significato', in parte sotto l'influsso della
critica rivolta allo psicologismo da Husserl
(neiProlegomena alle Logische Untersuchungen) e della
sua teoria platonizzante del significato, e in parte per una
ripresa della teoria hegeliana dello spirito oggettivo, che gli si
era chiarita anzitutto attraverso i suoi studi sul giovane Hegel
(v. Dilthey, 1914-1936). I frutti di questi sviluppi sono maturati
nel Novecento. I lavori di Dilthey sono stati continuati da G.
Misch, E. Spranger, Th. Litt, J. Wach, H. Freyer, E. Rothacker, O.
Bollnow e altri. La summa della tradizione idealistica
dell'ermeneutica - da Schleiermacher a Dilthey e oltre - fu
redatta dallo storico del diritto E. Betti (v., 1954 e 1955).
Naturalmente, Dilthey non riuscì realmente a venire a capo del
compito che lo tormentava, quello cioè di mediare teoricamente la
‛coscienza storica' con la pretesa di verità propria della
scienza. La formula di E. Troeltsch: ‛dalla relatività alla
totalità', la quale doveva rappresentare la soluzione teorica del
problema del relativismo nel senso di Dilthey, rimase in verità,
al pari dell'opera personale di Troeltsch, impigliata nello
storicismo che presumeva di superare. È caratteristico che anche
nella sua opera in tre volumi sullo storicismo Troeltsch si
abbandonasse continuamente a - splendidi
- excursus storici. Dilthey, al contrario, cercava,
dietro a ogni relatività, di risalire a una costante e abbozzò una
‛teoria tipologica' delle Weltanschauungen (destinata ad
avere un influsso grandissimo), la quale doveva corrispondere alla
multilateralità della vita. Ciò non rappresentava che in un senso
molto limitato un superamento dello storicismo. La base essenziale
di questa, come di ogni altra analoga teoria tipologica, era
infatti costituita dal concetto di Weltanschauung: cioè un
atteggiamento della coscienza non ulteriormente indagabile, che si
poteva solo descrivere e comparare con
altre Weltanschauungen, ma si doveva lasciare allo stato di
‛fenomeno di espressione della vita'. Che la ‛volontà di conoscere
per concetti', e quindi la pretesa ‛di verità' della filosofia,
debba cedere dinanzi alla ‛coscienza storica' era l'irriflesso
presupposto dogmatico di Dilthey; un abisso divide quindi la
concezione diltheyana dal detto, spesso abusato, di Fichte: ‟La
scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo" (J. G.
Fichte, Werke, a cura di I. H. Fichte, 1845-1848, I, p. 434),
il quale rappresentava una lampante professione di idealismo. Ciò
doveva venire in luce, prevalentemente in modo indiretto, nei
seguaci di Dilthey: le teorie tipologiche elaborate in campo
pedagogico-antropologico, psicologico, sociologico, artistico e
storico dimostrarono ad oculos che la loro fecondità
dipendeva in verità dal segreto dogmatismo che stava alla loro
base. Tutte le tipologie di Max Weber, Spranger, Litt, Pinder,
Kretschmer, Jaensch, Lersch ecc. mostrarono di possedere un certo
limitato valore di verità, che però perdevano non appena volevano
afferrare la totalità di tutti i fenomeni, cioè volevano la
completezza. Per ragioni essenziali, una siffatta ‛costruzione' di
una tipologia onnicomprensiva conduce all'autodissoluzione, cioè
alla perdita del suo dogmatico nocciolo di verità. Anche la
‛psicologia delle Weltanschauungen' di Jaspers non era
affatto libera (come invece pretese più tardi - con buona ragione
- la sua filosofia) da questa problematica tipica di ogni
tipologia. Lo strumento concettuale della tipologia, in verità, è
legittimabile soltanto collocandosi in una posizione di estremo
nominalismo; senonché, persino l'ascetico radicalismo
nominalistico di Max Weber aveva i suoi limiti, e fu integrato
dall'ammissione, affatto irrazionale e volontaristica, che ognuno
debba scegliere il ‛proprio Dio'.
L'ermeneutica ‛teologica' dell'epoca che ha inizio con la
fondazione generale di Schleiermacher è rimasta impigliata in modo
analogo nelle sue aporie dogmatiche. Già Lücke, l'editore delle
lezioni di Schleiermacher sull'ermeneutica, aveva fortemente
sottolineato il loro momento teologico. Nel complesso, la
dogmatica teologica dell'Ottocento tornò alla problematica del
primo protestantesimo, che si riassumeva nella regula fidei.
Di fronte a essa stava, con atteggiamento di crescente
indifferenza, l'esigenza storica della teologia liberale, critica
verso ogni dogmatica. Nell'epoca della teologia liberale non ci fu
quindi, in fondo, alcuna problematica ermeneutica specificamente
teologica. Fu pertanto un avvenimento capitale quando, passando
attraverso lo storicismo radicale e sotto l'impulso della teologia
dialettica (Barth, Thurneisen), la riflessione ermeneutica di R.
Bultmann - che doveva sfociare nella parola d'ordine della
demitizzazione - fondò un'autentica mediazione tra esegesi storica
ed esegesi dogmatica. Naturalmente, il dilemma tra analisi
storico-individualizzante e continuazione delkerygma rimane
teoricamente insolubile, e il concetto bultmanniano di ‛mito' si
rivelò presto una costruzione, oltremodo ricca di presupposti,
edificata sul terreno del moderno illuminismo. Egli negò la
pretesa di verità, che è incorporata nel linguaggio del mito: una
posizione, dal punto di vista ermeneutico, estremamente
unilaterale. Il dibattito sulla ‛demitizzazione', com'è stato
presentato con compiuta informazione da G. Bornkamm (Die Theologie
Rudolf Bultmanns in der neueren Diskussion, in ‟Theologische
Rundschau", NF 29, 1963, Heft 1/2, pp. 33-141) rimane tuttavia di
grande interesse ermeneutico generale, poiché in esso torna a
nuova vita, in una variante contemporanea, l'antica tensione tra
dogmatica ed ermeneutica. Nella propria autoriflessione teologica,
Bultmann si era allontanato dall'idealismo, avvicinandosi al
pensiero di Heidegger. In questo processo operava l'esigenza che
avevano avanzato K. Barth e la teologia dialettica, quando avevano
portato a consapevolezza la problematica, così umana come
teologica, del ‛parlare di Dio'. Bultmann cercava una soluzione
‛positiva', cioè giustificabile metodicamente, una soluzione che
non prescindesse dalle conquiste della teologia storica. La
filosofia heideggeriana dell'esistenza sembrò offrirgli, inSein
und Zeit, una posizione neutrale, antropologica, a partire
dalla quale l'autocomprensione della fede potesse sperimentare una
fondazione ontologica (sulla discutibilità di un tale ricorso
‛neutrale' alla filosofia dell'esistenza, cfr. K.
Löwith, Grundzüge der Entwicklung der Phänomenologie zur
Philosophie und ihr Verhältnis zur protestantischen Theologie, in
‟Theologische Rundschau", 1930, pp. 26 ss., pp. 333 ss.). La
futurità (Zukünftigkeit) dell'esserci nel modo dell'autenticità e,
sull'opposto versante, la deiezione nel mondo si potevano
spiegare, teologicamente, mediante i concetti di fede e di
peccato. Non si era con ciò, in verità, nella linea
dell'esposizione heideggeriana del problema dell'essere, bensì in
quella di una reinterpretazione antropologica. Ma la rilevanza
universale del problema di Dio per l'esistenza umana, che Bultmann
fondò sull'autenticità del poter essere, condusse a una reale
conquista ermeneutica, consistente soprattutto nel concetto di
‛precomprensione' (per non parlare del cospicuo vantaggio, sul
piano esegetico, derivante da una siffatta consapevolezza
ermeneutica).
Il nuovo approccio filosofico di Heidegger non si limitò a
produrre effetti positivi in teologia, ma mise soprattutto in
grado di spezzare l'irrigidimento relativistico e tipologico che
predominava nella scuola di Dilthey. Spetta a G. Misch
(Phänomenologie und Lebensphilosophie, 1929) il merito di aver
nuovamente liberato, attraverso il confronto con Husserl e
Heidegger, gli impulsi filosofici di Dilthey. L'edizione, curata
da Misch e altri, dei molti saggi sparsi nei volumi V-VIII
delle Werke - come anche le dotte introduzioni dello
stesso Misch - hanno portato alla luce, per la prima volta negli
anni venti, il lavoro filosofico di Dilthey, eclissato in
precedenza dalla sua opera storica. Con la penetrazione delle idee
diltheyane nella fondazione fenomenologica della ‛filosofia
dell'esistenza', il problema ermeneutico sperimentò la sua
radicalizzazione filosofica. Fu allora che Heidegger creò il
concetto di un'‛ermeneutica dell'effettività', formulando con ciò,
contro l'husserliana ontologia fenomenologica delle essenze, il
compito paradossale di interpretare il ‛non-pre-pensabile' (das
Unvordenkliche: Schelling) dell'‛esistenza', anzi di interpretare
l'esistenza stessa come ‛comprensione' e ‛interpretazione', cioè
come un progettarsi a partire dalla propria possibilità. Si
raggiungeva così un punto nel quale l'orientamento metodico
strumentalizzante del problema ermeneutico doveva volgersi
all'ontologia. Il ‛comprendere' non è più un comportamento tra gli
altri del pensiero umano, un comportamento che si lasci
disciplinare metodicamente ed educare all'uso di procedimenti
scientifici, ma costituisce la mobilità di fondo dell'esistenza
umana. La caratterizzazione e accentuazione heideggeriana
dell'interpretazione come movimento fondamentale dell'esistenza
rientra così nella linea del concetto di interpretazione
sviluppata nella sua portata teorica soprattutto da Nietzsche.
Tale sviluppo si basa sul dubbio riguardo agli enunciati
dell'autocoscienza (come afferma Nietzsche: ‟è necessario dubitare
più radicalmente"). Ma il risultato di questo dubbio in Nietzsche
è una modificazione del senso della verità in generale per cui il
processo interpretativo diventa una forma della volontà di potenza
e assume quindi una valenza ontologica.
Un analogo senso ontologico acquista nel XX secolo il concetto di
storicità tanto nel giovane Heidegger quanto in Jaspers. La
storicità non è più una determinazione limitativa delle pretese
della ragione di raggiungere la verità, ma piuttosto una
condizione positiva della verità. In tal modo viene a mancare ogni
fondamento effettivo alle argomentazioni del relativismo storico,
perché il criterio di una verità in senso assoluto si rivela
astratto e perde il suo significato metodologico. La storicità
cessa di evocare lo spettro del relativismo storico.
In questo nuovo orientamento si inserisce efficacemente
soprattutto una rinnovata influenza del pensiero di Kierkegaard
ispirando (dopo Unamuno, Th. Haecker e altri) una nuova critica
all'idealismo dal punto di vista del ‛tu' come venne sviluppata da
F. Gogarten, E. Grisebach, F. Ebner, M. Buber, K. Jaspers, V. von
Weizsäcker (v. anche il libro di K. Löwith, Das Individuum in
der Rolle des Mitmenschen, München 1928).
Ma quando Heidegger riconobbe come insufficiente la fondazione
trascendentale della sua teologia fondamentale, e quando, nella
‛svolta' (Kehre), l'ermeneutica della ‛effettività' si trasformò
nella ‛illuminazione' del ‛ci' (Da) dell'essere, la problematica
ermeneutica della tradizione idealistica subì un'ulteriore
radicalizzazione. Anche l'ingegnosa dialettica, attraverso la
quale E. Betti cercò di giustificare l'eredità dell'ermeneutica
romantica nel reciproco giuoco di soggettivo e oggettivo, doveva
rivelarsi insufficiente dopoché Sein und Zeit ebbe
mostrato l'anticipazione ontologica del concetto di soggetto e
quando i successivi sviluppi di Heidegger infransero, nella
‛svolta', il quadro della riflessione filosofico-trascendentale.
L'evento della verità, che costituisce lo spazio proprio del
disvelamento e dell'occultamento, diede a ogni disvelamento -
anche a quello delle scienze ‛comprendenti' - una nuova valenza
ontologica. Divenne così possibile porre all'ermeneutica
tradizionale una serie di nuovi interrogativi.
Il fondamento psicologico dell'ermeneutica idealistica si
dimostrava ‛problematico': si esaurisce realmente il senso di un
‛testo' nel senso ‛inteso' (mens auctoris)? È la comprensione
null'altro che la riproduzione di una produzione originaria? Che
questo non sia il caso dell'ermeneutica giuridica, che ha
palesemente una funzione di creazione del diritto, è chiaro. Tale
funzione è però stata attribuita alla sfera normativa, e quindi
considerata come una faccenda pratica che non ha niente a che
vedere con la ‛scienza'. Al contrario, il concetto di obiettività
della scienza richiedeva l'osservanza del canone costituito
dalla mens auctoris. Ma può esso bastare realmente? Come
vanno le cose, per esempio, nell'interpretazione di opere d'arte
(che nel regista, nel direttore d'orchestra e nel traduttore ha
ancora la conformazione di una produzione pratica)? È forse
possibile negare che l'artista che riproduce ‛interpreti' la
creazione originale (non ne fa cioè una nuova creazione)? Noi
distinguiamo molto accuratamente tra interpretazioni riproduttive
adeguate e interpretazioni ‛non consentite' o ‛non conformi allo
stile'. Con qual diritto si separerà questa natura riproduttiva
dell'interpretazione da quella della scienza? Forse che un
siffatto interpretare ha luogo in uno stato di sonnambulismo e
senza alcun sapere? Non si può certo limitare il senso contenuto
nell'interpretazione a ciò che discende dal senso consapevolmente
immesso nell'opera dall'autore. Com'è noto, l'autointerpretazione
degli artisti ha un valore discutibile. Il senso della loro
creazione pone tuttavia all'interpretazione un compito consistente
in una non ambigua approssimazione: la riproduzione non è per
nulla affidata all'arbitrio.
E come vanno le cose con il senso e con la spiegazione di eventi
‛storici'? La coscienza dei contemporanei è caratterizzata dal
fatto che essi, che pure ‛vivono' (erleben) la storia, non sanno
che cosa loro accada. Al contrario Dilthey tenne fede con intera
coerenza al suo concetto di Erlebnis, come insegna, per
quanto riguarda la teoria diltheyana della connessione
storico-effettuale, il modello della biografia e
dell'autobiografia (v. Dilthey, 1914-1936). Anche l'acuta critica
rivolta alla coscienza metodica del positivismo da R. G.
Collingwood (Autobiography, 1939), il quale si serve del resto
degli strumenti dialettici dell'hegelismo crociano, rimane chiusa
con la sua teoria del reenactment in una sfera di
problemi angustamente soggettivistica. Qui Hegel stesso era più
coerente. La sua pretesa di riconoscere nella storia la ragione
era fondata sul suo concetto di ‛spirito', alla cui essenza
appartiene il fatto di ‛cadere nel tempo' nonché il fatto che il
suo contenuto viene determinato unicamente dalla propria storia.
Certo, anche per Hegel si davano ‟individui cosmico-storici"
(weltgeschichtliche Individuen), individui che egli chiamava
‟portatori dello spirito del mondo" e le cui decisioni e passioni
personali si accordavano con ciò che ‟era nell'aria". Questi casi
eccezionali però non definivano per lui il senso del comprendere
storico, ma venivano al contrario definiti come eccezioni dalla
comprensione concettuale, che appartiene al filosofo, della
necessità storica. La scappatoia, già tentata da Schleiermacher,
di presumere nello storico una congenialità con il suo oggetto non
porta evidentemente ad alcun progresso. In tal modo, infatti, si
trasforma la storia universale in uno spettacolo estetico, il che
significherebbe da una parte caricare lo storico di un peso
eccessivo e dall'altra sottovalutare il suo compito, consistente
nel confrontare il proprio orizzonte con quello del passato.
Come si presentano poi le cose con il senso ‛kerygmatico' della
Sacra Scrittura? Qui il concetto della congenialità conduce
chiaramente all'assurdo, evocando lo spauracchio della teoria
dell'ispirazione. Anche l'esegesi ‛storica' della Bibbia trova
però qui i propri limiti, specialmente nel concetto guida
dell'‛autocomprensione' degli autori della Sacra Scrittura. Il
senso salvifico della Scrittura non è forse necessariamente
qualcosa di diverso da quello risultante dalla mera somma delle
vedute teologiche degli autori del Nuovo Testamento? A questo
proposito merita sempre attenzione l'ermeneutica ‛pietistica' (A.
H. Francke, Rambach) poiché essa, nella sua teoria esegetica,
aggiunse alla comprensione e alla spiegazione la ‛applicazione',
indicando così il rapporto della Scrittura con il presente. È qui
racchiuso il motivo centrale di un'ermeneutica che prenda
realmente sul serio la storicità dell'uomo. Di tale motivo tiene
certo conto anche l'ermeneutica idealistica, e specialmente E.
Betti con il canone della ‛corrispondenza di senso'. Pure,
soltanto il deciso riconoscimento del concetto di precomprensione
e del principio della effettualità storica (Wirkungsgeschichte),
cioè il dispiegamento di una coscienza storico-effettuale
(wirkungsgeschichtliches Bewusstsein), sembra offrire una
sufficiente base metodica. Il concetto di canone nella teologia
neotestamentaria vi trova, come caso speciale, la propria
legittimazione. Anche l'importanza teologica del Vecchio
Testamento è difficile da giustificare, se si tien fermo al canone
della mens auctoris, come dimostrarono soprattutto i
risultati grandemente positivi dell'opera di G. von Rado che
supera le strettoie di questa prospettiva. Da un tale stato di
cose è dipeso il fatto che le più recenti discussioni
sull'ermeneutica hanno coinvolto anche la teologia cattolica (cfr.
G. Stachel, Die neue Hermeneutik, 1967; E.
Biser, Theologische Sprachtheorie und Hermeneutik, 1970; E.
Coreth, Grundfragen der Hermeneutik, 1969). Nella teoria
della letteratura si trova qualcosa di analogo sotto l'etichetta
di ‛estetica della ricezione' (Rezeptionsästhetik, Jauss), anche
se proprio in questo campo è divenuta manifesta la resistenza
della filologia legata alla metodologia, la quale teme per
l'obiettività della ricerca (cfr. R.
Jauss, Literaturgeschichte als Provokation der
Literaturwissenschaft, 1970; E. D. Hirsch, Validity in
interpretation, 1967; Th. Seebohm, Zur Kritik der
hermeneutischen Vernunft, 1972).
Alla luce di questo problema la venerabile tradizione
dell'ermeneutica ‛giuridica' recupera una nuova vita. All'interno
della dogmatica giuridica moderna essa non poteva svolgere che un
misero ruolo, per così dire quello di una macchia vergognosa, mai
del tutto evitabile, su una dogmatica mirante a trovare in se
stessa la propria completezza. Non è stato però possibile
misconoscerne la natura: l'ermeneutica giuridica è una disciplina
normativa esperta nella funzione dogmatica di integrazione del
diritto. In quanto tale, essa conserva un compito per sua natura
indispensabile, poiché deve gettare un ponte sull'ineliminabile
iato tra la generalità della norma giuridica e la concretezza del
caso singolo. Per questo già Aristotele (nell'Etica Nicomachea),
discutendo del problema del diritto naturale e del concetto
di aequitas (ἐπιείκεια), aveva delimitato, entro la
teoria del diritto, lo spazio destinato all'ermeneutica. Anche
rifacendosi alla sua storia (cfr. F. Walch, Prefazione
alla Hermeneutica Juris di C. H. Eckard, 1779), è palese
che il problema dell'interpretazione è inestricabilmente connesso
con quello dell'applicazione. Alla scienza giuridica un tale
duplice compito si pose in modo particolare a partire dalla
‛ricezione del diritto romano'. Bisognava allora, infatti, non
soltanto comprendere i giuristi romani, ma, nello stesso tempo,
applicare la dogmatica del diritto romano al mondo culturale
dell'età moderna (cfr., tra gli altri, P. Koschaker, Europa
und das römische Recht, 19583). Ne risultò, per la scienza
giuridica, una connessione tra compito ermeneutico e compito
dogmatico non meno stretta di quella che si era istituita in
teologia. Una teoria dell'interpretazione del diritto romano non
poteva costituirsi (occorrendo allo scopo una sufficiente
estraniazione storica) fintantoché il diritto romano conservava
effettivo valore di legge. Nell'interpretazione del diritto romano
data da Thibaut (A. F. J. Thibaut, Theorie der logischen
Auslegung des römischen Rechts, 1799, 18062, rist. 1967) si
considerava come cosa ovvia il fatto che la teoria
dell'interpretazione non possa appoggiarsi unicamente
sull'intenzione del legislatore, ma debba elevare a proprio canone
ermeneutico il ‛fondamento della legge'. Con l'avvento delle
‛codificazioni moderne', il classico compito primario
dell'interpretazione del diritto romano poté perdere il suo
interesse dogmatico nella sfera pratica per divenire un elemento
dell'impostazione degli studi storico-giuridici. In quanto
partecipe della storia del diritto, l'interpretazione del diritto
romano poté allora associarsi senza riserve alla metodologia delle
scienze storiche. Al contrario, l'ermeneutica giuridica, in quanto
disciplina sussidiaria di una dogmatica giuridica di nuova specie,
fu relegata al margine della giurisprudenza. Ma il capitale
problema della ‛concretizzazione nel diritto' (v. Engisch, 1953)
continua a sussistere, e il rapporto tra storia del diritto e
scienza normativa è di gran lunga troppo complicato perché la
storia del diritto possa sostituire l'ermeneutica. Per istruttiva
che possa risultare - ermeneuticamente - l'illuminazione delle
circostanze storiche e delle effettive riflessioni del legislatore
prima o durante l'emanazione di un testo legislativo,
la ratio legis non si risolve in ciò e continua a
costituire, per ogni giurisdizione, ineliminabile istanza
ermeneutica. Il problema ermeneutico rimane quindi di casa in ogni
scienza del diritto, proprio come lo è per la teologia e il suo
incessante compito di demitizzazione.
Occorre perciò chiedersi se la teologia e la teoria del diritto
non possano fornire un contributo essenziale a un'ermeneutica
‛universale'. Per rispondere a questo interrogativo, non può certo
esser sufficiente la problematica metodica immanente nella
teologia, nella scienza giuridica e nelle scienze
storico-filologiche. Si tratta, infatti, proprio di indicare i
limiti della concezione che la conoscenza storica ha di se stessa
e di restituire all'interpretazione dogmatica una sua limitata
legittimità (v. Rothacker, 1954). A ciò si oppone naturalmente il
concetto della mancanza di presupposti propria della scienza (cfr.
E. Spranger,Über die Voraussetzungslosigkeit der Wissenschaft, in
‟Abhandlungen der Berliner Akademie der Wissenschaften", 1929;
l'autore ha indicato l'origine di questa parola d'ordine nel clima
del Kulturkampf dopo il 1870, naturalmente senza
concepire il minimo sospetto circa la sua illimitata validità).
Per queste ragioni la ricerca da me intrapresa in Wahrheit
und Methode muoveva da una sfera d'esperienza che in un
certo senso può essere chiamata sempre dogmatica, in quanto
richiede il riconoscimento della sua pretesa di validità e non può
essere tenuta in suspenso: l'esperienza dell'arte. Nel campo
dell'arte, comprendere significa, in tutta l'ampiezza
dell'espressione, ‛riconoscere' e ‛lasciare agire': ‟Comprendere
(begreifen) ciò che ci afferra (ergrezft)" (Staiger).
L'obiettività della scienza dell'arte o della scienza letteraria,
che in quanto lavoro scientifico conservano pienamente il proprio
valore, rimane però sempre, quando si fa esperienza dell'arte o
della poesia, subordinata. Ora, nell'esperienza dell'arte non è
affatto possibile separare
l'applicatio dall'intellectio e dall'explicatio, fatto
che, per la scienza dell'arte, non può restare senza conseguenze.
La problematica di cui ci occupiamo è stata discussa per la prima
volta da H. Sedlmayr nella sua distinzione di una prima e di una
seconda scienza dell'arte (H. Sedlmayr, Kunst und Wahrheit,
1959). I molteplici metodi che sono stati elaborati dalla ricerca
scientifica in campo artistico e letterario debbono, in ultima
analisi, convalidare la propria fecondità sempre a questa stregua:
per quanto grande sia l'ausilio prestato nell'illuminare e nel
rendere adeguata l'esperienza dell'opera d'arte, essi abbisognano
per ragioni interne dell'integrazione ermeneutica. Doveva dunque
assumere importanza la struttura dell'applicazione, che ha il suo
ereditario diritto di cittadinanza nell'ermeneutica giuridica.
Certamente, il rinnovato accostamento del comprendere
storico-giuridico e del comprendere dogmatico-giuridico non può
cancellare le loro differenze, come è stato sottolineato
specialmente da Betti e da Wieacker.
Ma il senso dell'‛applicazione' (Applikation), che rappresenta un
elemento costitutivo di ogni comprendere, non è quello di
un'applicazione (Anwendung) posteriore ed esterna di qualcosa che
è originariamente per sé. L'applicazione di mezzi per scopi
predeterminati o l'applicazione di regole nel nostro comportamento
non significa in generale che noi subordiniamo a uno scopo pratico
un dato in sé autonomo, per esempio qualcosa che ci è noto in via
‛puramente teorica'. Al contrario, i mezzi e le regole sono in
generale determinati, o addirittura astratti, a partire
rispettivamente dagli scopi e dal comportamento. Già Hegel,
nella Fenomenologia dello spirito, ha analizzato la
dialettica di legge e caso singolo, nella quale la concreta
determinatezza si frantuma. Anche la struttura applicativa del
comprendere (ove non faccia ricorso alla filosofia analitica) non
comporta quindi alcuna limitazione della disponibilità ‛priva di
presupposti' a comprendere ciò che il testo stesso dice, e neppure
assolutamente significa estraniare il testo dalla sua intenzione
significativa ‛autentica' e farlo servire a intenzioni
precostituite: la riflessione svela semplicemente le condizioni,
alle quali il comprendere sempre sottostà e che, in quanto
costituenti la nostra ‛precomprensione', sono sempre ‛applicate'
quando ci affatichiamo intorno all'enunciato di un testo.
Con questo non si vuole assolutamente lasciare ulteriormente
vegetare le scienze dello spirito (in quanto scienze imprecise) in
tutta la loro deplorevole manchevolezza, fintantoché non possano
essere elevate alla science e incorporate nell'unity of
science. Al contrario un'ermeneutica ‛filosofica' arriverà al
risultato che il comprendere è possibile solo quando colui che
comprende mette in giuoco i suoi propri presupposti. Il contributo
produttivo dell'interprete appartiene ineliminabilmente al senso
del comprendere stesso. Ciò non legittima la privata arbitrarietà
di prevenzioni soggettive, poiché ciò di cui sempre si tratta - il
testo che si vuol comprendere - rimane l'unico metro valido. Anzi,
la necessaria ineliminabile distanza delle epoche, delle culture,
delle classi, delle razze - o anche delle persone - è essa stessa
un momento sovrasoggettivo, che conferisce vita e tensione a ogni
comprendere. Si può descrivere questa situazione anche dicendo che
l'interprete e il testo posseggono ciascuno il proprio
‛orizzonte', e che ogni comprendere rappresenta una fusione di
tali orizzonti. La problematica dell'ermeneutica si è dunque
spostata, sia nella scienza neotestamentaria (anzitutto in E.
Fuchs e G. Ebeling) sia, per esempio, nelliterary criticism o
anche nell'ulteriore elaborazione ‛filosofica' della posizione
heideggeriana, dalla base soggettivo-psicologica in direzione del
senso obiettivo, mediato dalla effettualità storica.
Il dato fondamentale per la mediazione delle distanze cui si
accennava è il ‛linguaggio', nel quale l'interprete (o il
traduttore!) dà una nuova espressione linguistica a ciò che è
stato compreso. I teologi come i poetologi parlano addirittura di
evento linguistico. In un certo senso, l'ermeneutica s'avvicina,
seguendo una propria strada, alla ‛filosofia analitica', derivante
dalla critica neopositivistica alla metafisica. Da quando la
filosofia analitica non si sforza più, analizzando i modi di dire
e rendendo univoci tutti gli enunciati per mezzo di linguaggi
simbolici artificiali, di dissolvere una volta per tutte
‛l'incantesimo del linguaggio', anch'essa non può più evitare di
concentrarsi sul funzionamento della lingua nel ‛giuoco
linguistico', come proprio lePhilosophische
Untersuchungen hanno mostrato. Apel ha sottolineato, a
ragione, che naturalmente la continuità della tradizione è
descrivibile, attraverso il concetto di giuoco linguistico,
soltanto in modo discontinuo (K. O. Apel,Wittgenstein und das
Problem des Verstehens, in ‟Zeitschrift für Theologie und Kirche",
1966, LXIII). Nella misura in cui l'ermeneutica, con la
riflessione sulle condizioni del comprendere (precomprensione,
carattere preliminare della domanda, storia motivazionale di ogni
enunciato) supera l'ingenuità positivistica che si cela nel
concetto di dato, essa rappresenta a un tempo una critica della
mentalità metodologica positivistica. Fino a che punto essa segua
in ciò lo schema di una teoria trascendentale (Apel) o piuttosto
quello di una dialettica storica (Habermas) è cosa controversa
(cfr. i contributi in ‟Hermeneutik und Dialektik" e recentemente
Gadamer, Nachwort, in Wahrheit und Methode, 19723).
In ogni caso, l'ermeneutica possiede una tematica autonoma. Ad
onta della propria universalità formale, ‛non' è possibile
incorporarla legittimamente nella logica. In un certo senso, essa
condivide con la logica l'universalità, e può anzi addirittura
superarla sotto questo profilo. In verità, ogni nesso di enunciati
può essere considerato nella sua struttura logica: è sempre
possibile applicare a nessi di discorsi e di pensieri le regole
della grammatica, della sintassi e infine le leggi consequenziali
della logica. Accade però di rado che nessi siffatti soddisfino le
esigenze rigorose della logica degli enunciati. Il discorso e il
dialogo, infatti, non sono ‛enunciati' nel senso del giudizio
logico, enunciati cioè la cui univocità e il cui significato siano
verificabili e realizzabili da tutti, ma hanno i loro aspetti
occasionali. Essi hanno luogo in un processo comunicativo, nel
quale il monologo del discorso scientifico o la dimostrazione non
costituiscono che un caso speciale. Il modo di manifestarsi
proprio della lingua è il dialogo, e sia pure il dialogo
dell'anima con se stessa, come Platone chiama il pensiero.
L'ermeneutica pertanto, in quanto teoria del comprendere e
dell'intesa, presenta un'estrema universalità. Essa comprende ogni
enunciato non soltanto nella sua valenza logica, ma come risposta;
e, poiché deve cogliere il senso dell'enunciato a partire dalla
sua storia motivazionale, il comprendere deve necessariamente
andare oltre il suo contenuto logicamente afferrabile. Un
principio siffatto sta già al fondo della dialettica hegeliana
dello spirito, ed è stato poi rinnovato da Croce, Collingwood e
altri. The logic of question and answer è,
nell'Autobiography di Collingwood, un capitolo estremamente
degno di attenzione. Ma anche un'analisi puramente fenomenologica
non può sottrarsi al fatto che non esistono né percezioni isolate
né giudizi isolati. Questo fatto è stato fenomenologicamente
fondato ed elaborato, sotto l'influsso del concetto esistenziale
heideggeriano di mondo, dallaHermeneutische Logik di H.
Lipps, sulla base della teoria husserliana delle intenzionalità
anonime. In Inghilterra Austin ha continuato in modo analogo la
svolta operata dal secondo Wittgenstein.
Come conseguenza di questo ritorno dal linguaggio della
scienza al linguaggio della vita quotidiana, dalle scienze
dell'esperienza all'esperienza del mondo della vita (Lebenswelt),
è risultato che l'ermeneutica può riorientarsi, anziché verso la
logica, verso la più antica tradizione della retorica, con la
quale, come abbiamo mostrato sopra, era un tempo strettamente
associata. Essa riprende in tal modo un filo che si era spezzato
nel sec. XVIII. Allora, soprattutto G. B. Vico aveva difeso,
contro le pretese monopolistiche della scienza ‛moderna', da lui
chiamata ‛critica', l'antica tradizione retorica, ch'egli
rappresentava come professore di retorica a Napoli. In
particolare, egli sottolineò la sua importanza per l'educazione e
per la formazione del sensus communis, e in effetti rientra
nell'ambito dell'ermeneutica, come in quello della retorica,
l'argomento ‛persuasivo', l'εἰκός. La tradizione della retorica,
che in Germania, a dispetto di Herder, subì nel sec. XVIII una
scomparsa particolarmente radicale, era rimasta nascostamente
operante in campo estetico, come ha mostrato soprattutto K.
Dockhorn (recensione di H. G. Gadamer,Wahrheit und Methode, in
‟Göttingischer gelehrter Anzeiger", 1966, pp. 218 ss.). Di fronte
alle pretese monopolistiche della logica matematica moderna e ai
suoi ulteriori sviluppi, anche nella nostra epoca si preannunciano
le resistenze della retorica e della razionalità forense, per
esempio a opera di Ch. Perelman e della sua scuola (cfr.
anche Philosophy, rhetoric and argumentation, a cura di
M. Natanson e H. W. Johnstone jr., 1965).
A questo punto si dischiude al problema ermeneutico una dimensione
ancora più vasta, connessa con la posizione centrale, che è stata
assunta in campo ermeneutico dal linguaggio. Il linguaggio,
infatti, non è soltanto un medium tra gli altri -
all'interno del mondo delle forme simboliche (Cassirer) - ma sta
in un rapporto particolare con la potenziale comunanza della
ragione che, appunto, si attualizza comunicativamente nel
linguaggio, come ha già sottolineato R. Hönigswald: il linguaggio
non è soltanto ‛fatto' (Faktum), ma ‛principio'. Su ciò poggia
l'universalità della dimensione ermeneutica. Una siffatta
universalità s'incontra già nella teoria del significato di
Agostino e di Tommaso, in quanto essi vedevano il significato dei
segni (delle parole) soverchiato dal significato delle cose e
quindi giustificavano l'andare al di là del sensus
litteralis. Certamente, l'ermeneutica non potrà oggi puramente e
semplicemente seguire una concezione del genere, né potrà
intronizzare una nuova allegoresi, giacché, a tale scopo,
bisognerebbe presupporre una lingua della creazione, per mezzo
della quale Dio parli agli uomini.
Non si può però eludere la considerazione che non soltanto il
discorso e la scrittura, ma tutte le creazioni umane sono
compenetrate di un ‛senso', che è compito dell'ermeneutica
estrarre. A ciò Hegel ha dato espressione con la sua teoria dello
‛spirito oggettivo', e questa parte della sua filosofia dello
spirito è rimasta vitale, indipendentemente dal complesso del suo
sistema dialettico, (cfr. per es., la teoria dello spirito
oggettivo di Nicolai Hartmann e l'idealismo di Croce e di
Gentile). Non soltanto, per esempio, il linguaggio dell'arte
richiede legittimamente di esser compreso, ma in generale ogni
forma della creazione culturale dell'uomo. Anzi, il problema si
amplia ancora di più. Ogni conoscenza umana del mondo è mediata
linguisticamente. Infatti, che cosa non appartiene al nostro
orientamento nel mondo (linguisticamente formulato)? Un primo
orientamento nel mondo si compie già nell'apprendimento della
lingua. Non solo; la linguisticità del nostro ‛essere-nel mondo'
articola in fin dei conti l'intero campo dell'esperienza. La
logica dell'induzione, che Aristotele descrive e che Bacone
innalzò a fondamento delle nuove scienze dell'esperienza
(Aristotele,Secondi analitici, II, 19), può anche, come teoria
logica, risultare insoddisfacente e abbisognare di correzioni
(cfr. K. R. Popper, Logik der Forschung, 19662): in essa però
emergeva in modo evidentissimo la concreta prossimità
all'articolazione linguistica del mondo. Già Temistio, nel suo
commentario, ha illustrato il relativo capitolo dei Secondi
analitici (II, 19) per mezzo dell'apprendimento del
linguaggio. Ciò vale anche in un senso assai più ampio: ogni
esperienza si compie nella continuamente progrediente elaborazione
comunicativa della nostra conoscenza del mondo. Essa è sempre, in
un senso molto più profondo e generale di quanto intendesse A.
Boeck con la sua formula del lavoro filologico, riconoscimento del
conosciuto (Erkenntnis von Erkannten). La tradizione in cui
viviamo, infatti, non è una cosiddetta tradizione culturale, che
consisterebbe unicamente in testi e monumenti, e medierebbe un
senso linguisticamente concepito e storicamente documentato. La
verità è piuttosto che il mondo stesso esperito comunicativamente
ci viene continuamente tramandato (traditur), e come una totalità
aperta. In null'altro che in ciò consiste l'esperienza; essa è in
sé ‛ermeneutica'. Lo sforzo ermeneutico ha successo oguiqualvolta
il mondo viene esperito e una mancanza di dimestichezza superata,
ogniqualvolta ha luogo una dilucidazione, una penetrazione,
un'appropriazione; e in ultima analisi il più nobile compito
dell'ermeneutica, come teoria filosofica, sta nel mostrare che
soltanto l'integrazione di tutta la conoscenza della scienza nel
sapere personale del singolo può chiamarsi ‛esperienza'.
La dimensione ermeneutica coinvolge così in modo particolare il
lavoro del ‛concetto filosofico', lavoro che si estende attraverso
i secoli. In quanto trasmissione dell'esperienza pensante, esso
deve essere inteso come un unico grande dialogo, al quale ogni
epoca partecipa senza poterlo guardare dall'alto né dominarlo
criticamente. Questa era stata la debolezza della storia dei
problemi (Problemgeschichte), il credere cioè di poter leggere la
storia della filosofia unicamente come conferma della propria
visione dei problemi, anziché considerarla come una controparte
critica, che delimita la nostra propria visione. A tal proposito è
ovviamente opportuno far intervenire la riflessione ermeneutica.
Essa ci insegna che il linguaggio della filosofia presenta sempre
alcunché di inadeguato e che, nella sua intenzione, esso persegue
più di quanto esprima a parole nelle sue enunciazioni. Le
parole-concetti, infatti, che in esso vengono trasmesse e ricevono
la propria impronta, non sono contrassegni e segnali stabili, per
mezzo dei quali venga indicato qualcosa di univoco, ma
scaturiscono dal movimento comunicativo dell'umana interpretazione
del mondo, quale ha luogo nella lingua; da tale movimento vengono
sospinte e trasformate, si arricchiscono, entrano in nuovi nessi
che ricoprono i vecchi, decadono a un'esistenza in parte vuota di
pensiero, e nuovamente riacquistano vita in un pensiero
problematico. Alla base di tutto il lavoro filosofico del concetto
sta quindi una dimensione ermeneutica, che viene oggi designata,
con un termine un po' impreciso, ‛storia dei concetti'
(Begriffsgeschichte). Non si tratta di una ricerca di carattere
secondario, nella quale, anziché parlare delle cose, si parlerebbe
dei mezzi che intervengono nell'intesa: essa costituisce invece un
elemento critico nell'uso dei nostri stessi concetti.
Il furor del profano, che esige definizioni arbitrarie e
univoche, come anche la smania di univocità di una unilaterale
teoria semantica della conoscenza, misconoscono sia la natura del
linguaggio sia il fatto che il linguaggio del concetto non può
essere oggetto di escogitazione né può essere mutato, adoperato o
messo da parte arbitrariamente: esso discende invece dall'elemento
nel quale ci muoviamo con il pensiero.
Ciò che incontriamo nella forma artificiale della terminologia è
soltanto la crosta indurita di questo flusso vivente di pensiero e
di linguaggio. Ma anche la terminologia è sospinta e trascinata
dal processo comunicativo, che noi realizziamo parlando e nel
quale si costruisce la comprensione e l'accordo (cfr.
Gadamer, Die Begriffsgeschichte und die Sprache der
Philosophie, Arbeitsgemeinschaft für Forschung des Landes
Nordrhein Westfalen, Heft 170, 1971). Questo è il punto di
convergenza tra lo sviluppo della filosofia analitica in
Inghilterra e l'ermeneutica. Tuttavia il loro parallelismo rimane
limitato. Come nel sec. XIX Dilthey accusava l'empirismo inglese
di mancare di cultura e sensibilità storica, così l'ermeneutica
storicamente fondata avanza la pretesa critica non tanto di
rendere dominabili le modalità del parlare nella loro struttura
logica, secondo quello che è all'incirca l'ideale della filosofia
analitica, quanto piuttosto di rendere possibile l'appropriazione
dei contenuti linguisticamente mediati con il loro intero
sedimento di esperienza storica.
Il problema ermeneutico è andato poi incontro a una nuova
radicalizzazione polemica nel campo della logica delle scienze
sociali. Anche quando si riconosce che la dimensione ermeneutica,
stando alla base di ogni esperienza del mondo, svolge perciò un
ruolo anche nel lavoro delle scienze naturali - come ha mostrato
specialmente Th. Kuhn (The structure of scientific revolutions,
Chicago-London 19702) - bisogna poi però ammettere che l'oggetto
stesso delle scienze sociali (e non soltanto la loro elaborazione
teorica) è dominato dalla dimensione ermeneutica, in quanto la
società ha sempre un'esistenza esplicantesi linguisticamente (cfr.
Ch. Taylor, Interpretation of the sciences of man, in ‟The
review of metaphysics", 1971, XXV, pp. 3-51). Con la critica
ermeneutica dell'ingenuo oggettivismo delle scienze dello spirito
concorda anche la critica dell'ideologia di ispirazione marxista
(J. Habermas, Zur Logik der Sozialwissenschaften, Beiheft
della ‟Philosophische Rundschau", 1967;Hermeneutik und
Ideologiekritik, 1971; cfr. anche la violenta polemica di H.
Albert, Konstruktion und Kritik, 1972). Naturalmente, la
critica dell'ideologia contesta come ‛idealistica' la pretesa di
universalità dell'ermeneutica e, per legittimare la pretesa
critico-sociale di un'ermeneutica rettamente intesa, offre il
modello della psicanalisi: il discorso razionale e libero da
costrizioni deve ‛guarire' la falsa coscienza sociale così come il
dialogo psicoterapeutico riconduce il malato alla comunità dei
dialoganti.
In realtà, la guarigione per mezzo del dialogo è un rilevante
fenomeno ermeneutico, del quale soprattutto P. Ricoeur e J. Lacan
hanno nuovamente discusso le basi teoriche (P. Ricoeur, De
l'interprétation. Essai sur Freud, 1965; Le conflit des
interprétations, 1969; J. Lacan, Écrits, 1969). La portata
dell'analogia tra malattie mentali e malattie della società è però
dubbia (cfr. Hermeneutik und Ideologiekritik, a cura di J.
Habermas). La situazione dello scienziato sociale dinanzi alla
società, infatti, non è comparabile a quella dello psicanalista di
fronte al suo paziente. Una critica dell'ideologia che voglia essa
stessa tenersi fuori di ogni compromissione ideologica è non meno
dogmatica di una scienza sociale che si spacci per una tecnica
sociale. Secondo l'ermeneutica, invece, ogni sforzo di
comprensione tende in linea di principio a una possibilità di
accordo e, in verità, deve essere sorretto da un accordo
vincolante, se mai si deve riuscire a intendersi. Questo non è
affatto un assunto dogmatico, ma una semplice descrizione
fenomenologica. Perciò anche la critica dell'ideologia deve
necessariamente introdurre l'ultima istanza del discorso
razionale, che deve rendere possibile intendersi in modo non
costrittivo, e lo stesso procedimento della psicanalisi ne dà
conferma. La riuscita del dialogo terapeutico psicanalitico non si
fonda soltanto sul lavoro spontaneo di riflessione del paziente
che riesce a rimuovere con l'aiuto del medico - mediante
la talking cure - i suoi blocchi: lo scopo definito è
quello di riconquistare la sua capacità naturale di comunicazione
e cioè ritornare a quell'accordo di fondo che rende possibile il
parlarsi l'uno con l'altro.
C'è qui una differenza che non è possibile ignorare. La critica
dell'ideologia pretende di essere riflessione emancipatrice e,
analogamente, il dialogo terapeutico pretende di comprendere e
risolvere i mascheramenti dell'inconscio; tutti e due
presuppongono un sapere e credono di essere scientificamente
fondati. La riflessione ermeneutica come tale non compie invece
nessuna assunzione contenutistica preliminare del genere; così
pure non pretende di sapere che i rapporti sociali rendono
possibili soltanto comunicazioni deformate il che implica il
credersi in possesso di quelle corrette - né si sente di operare
come un terapeuta che porta a buon fine il processo di riflessione
del paziente avvalendosi di una visione superiore dello stato
delle cose. Tanto nella critica dell'ideologia quanto nella
psicanalisi l'‛interpretazione' è guidata da un sapere preliminare
muovendo dal quale opera la dissoluzione delle opinioni
preconcette e dei pregiudizi. Al contrario, l'esperienza
ermeneutica considera con scetticismo la pretesa di un qualsiasi
sapere preliminare. Il concetto di ‛precomprensione' (Bultmann)
significa proprio che i nostri pregiudizi vengono messi in giuoco
nel processo di comprensione. Concetti come quelli di
rischiaramento, di emancipazione, di discorso libero da
costrizione si rivelano nella concretezza dell'esperienza
ermeneutica come povere astrazioni.
L'esperienza ermeneutica sa bene quanto profondamente possono
essere radicati i pregiudizi e quanto poco un primo farne prender
coscienza sia già sufficiente a dissolverne la forza. E questo ben
sapeva uno dei padri dell'illuminismo moderno, Cartesio, quando
cercava di legittimare, com'è noto, attraverso ‛meditazioni' il
suo nuovo concetto di metodo. Inoltre proprio in Cartesio viene in
luce quello che vale per la maggior parte dei contributi della
filosofia e della scienza e cioè che essi devono necessariamente
valersi anche dei mezzi della retorica. L'intera storia del
pensiero conferma l'antica vicinanza tra retorica ed ermeneutica.
Ma l'ermeneutica contiene un elemento che per principio va al di
là della retorica. L'esperienza ermeneutica istituisce un
confronto con le opinioni altrui. I testi da comprendere, come
pure tutte le creazioni culturali di altro genere, per essere
comprese, devono sviluppare al tempo stesso una forza di
persuasione. L'ermeneutica è un elemento della filosofia proprio
in quanto non può venir limitata alla tecnica della comprensione
dell'opinione altrui. La riflessione ermeneutica mette piuttosto
in luce che in ogni comprendere si compie un'autocritica.
L'esperienza ermeneutica non si fonda su una posizione superiore,
ma indica il fatto che la verità possibile viene messa alla prova.
Questo è implicito in ogni comprendere come tale e in tal modo il
comprendere contribuisce a formare la coscienza
storico-effettuale.
Il modello di quest'esperienza è il dialogo. Un dialogo, com'è
noto, non è possibile se uno dei partners crede di
trovarsi senz'altro in una posizione superiore a quella dell'altro
in quanto possiede un sapere preliminare circa i pregiudizi di cui
l'altro sarebbe prigioniero. Egli stesso si chiude così nei propri
pregiudizi. Una comunicazione dialogica è però impossibile anche
nel caso che uno dei dialoganti non si impegni veramente nel
dialogo. Un caso del genere si ha quando un'osservazione di tipo
psicanalitico nel campo sociale non prende sul serio gli enunciati
altrui, ma crede di potersi collocare alle spalle
dell'interlocutore attraverso l'interpretazione. Questo problema è
stato fatto oggetto di una discussione sistematica soprattutto da
parte di P. Ricoeur. Nella sua dottrina riguardo al conflitto
delle interpretazioni Ricoeur contrappone a Marx, a Nietzsche e a
Freud l'intenzionalita ‟fenomenologica" della comprensione dei
simboli. Ricoeur cerca una mediazione dialettica in quanto
presenta da una parte la derivazione genetica (‛archeologia') e
dall'altra l'orientamento verso un orizzonte di senso
(‛teleologia') come due modi diversi, ma entrambi legittimi, di
comprendere i simboli, pur limitandosi ai simboli religiosi.
Questo è certamente anche ai suoi stessi occhi soltanto un lavoro
preliminare per una ermeneutica ‛universale'. Una tale ermeneutica
dovrebbe chiarire la funzione costitutiva universale del
comprendere e dell'intendersi con l'aiuto di ‛simboli' - e
specialmente dell'intendersi con il linguaggio - per l'esistenza
della società in generale.
L'universalità dell'ermeneutica dipende dall'alternativa seguente:
se cioè il carattere teoretico, trascendentale dell'ermeneutica,
sia limitato al suo valore nell'ambito scientifico, o se invece
esso valga anche per quanto riguarda i principî del sensus
communis e quindi il modo onde ogni uso della scienza viene
integrato nella coscienza pratica. L'ermeneutica, intesa nella sua
universalità, si sposta così in prossimità della filosofia
pratica, la cui resurrezione in seno alla tradizione della
filosofia trascendentale tedesca è cominciata con i lavori di
Ritter e della sua scuola. L'ermeneutica filosofica è di ciò ben
consapevole (cfr. J. Ritter,Metaphysik und Politik, 1969 e M.
Riedel, Zur Rehabilitierung der praktischen Philosophie,
1972). Una teoria della prassi è evidentemente teoria e non
prassi; una teoria della prassi non è, però, una ‛tecnica' o una
scientificizzazione della prassi sociale: essa è una riflessione
filosofica sui limiti posti a ogni dominio scientifico-tecnico
della natura e della società. Sono verità, queste, la cui difesa -
dinanzi al concetto di scienza dell'età moderna - è uno dei più
importanti compiti di un'ermeneutica filosofica (cfr.
Gadamer, Theorie, Technik und Praxis, in Neue
Anthropologie, vol. I, 1972).