Eraclito
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Eràclito (alla lat. Eraclìto; gr. ‛Ηράκλειτος, lat. Heraclītus) di
Efeso. - Filosofo greco (6º-5º sec. a. C.), soprannominato per il
suo stile ὁ σκοτεινός ("l'oscuro, il tenebroso"). Autore dell'opera
in prosa ionica Περί ϕύσεως ("Intorno alla natura"),
che si riallaccia, almeno in apparenza, ai filosofi della scuola di
Mileto e in cui viene ammesso come principio di tutto il fuoco.
VITA E OPERE
Nato di nobile famiglia efesia, non avrebbe accettato la dignità
sacerdotale di βασιλεύς che si tramandava nella sua famiglia, di
padre in figlio. In Περί ϕύσεως ("Intorno alla natura"), egli sembra
affrontare quel complesso di problemi che alla incipiente
riflessione erano posti dalla arcaica convinzione di una immediata
congruenza e corrispondenza tra la realtà, il pensiero in cui la
realtà è concepita e il linguaggio in cui si esprime il pensiero
della realtà. "Nome" e "natura" sono quindi aspetti egualmente
oggettivi di ciascuna realtà, e se "l'arco (βιός) ha dunque per nome
vita (βίος) e per opera morte", ciò vuol dire che la realtà stessa
dell'arco è intrinsecamente contraddittoria. Simile modo di
argomentare può far capire come l'unità degli opposti sia il tema
fondamentale della filosofia di Eraclito.
Ciascuna realtà non può essere sé stessa se non opponendosi alle
altre, in un'eterna guerra che è la madre di tutte le cose, il lògos
del mondo. Che poi in questa filosofia, anche per la sua opposizione
a quella di Parmenide, si accentuassero motivi tendenti a presentare
il mondo come un perpetuo divenire (il famoso πάντα ῥεῖ, "tutto
scorre", che non ricorre mai nei frammenti di E.) e che questo
divenire fosse tradotto in una cosmologia incentrata nell'idea del
fuoco come principio, è questione che riguarda piuttosto la storia
dell'eraclitismo.
Anche il famoso frammento secondo cui non possiamo tuffarci due
volte nello stesso fiume, infatti, più che sottolineare lo scorrere
delle acque mette in risalto il contrasto tra questo scorrere e il
permanere del nome del fiume. Ma proprio questo motivo
dell'universale concordia discors, della "bellissima armonia", che
nasce dalla discordia, in antitesi con la concezione eleatica, è uno
dei filoni centrali della storia della metafisica classica.
Enciclopedia Italiana (1932)
di Guido Calogero
Filosofo greco, tra ì più significativi del periodo
presocratico. Secondo la ricostruzione dell'antico cronografo
Apollodoro, che si basa sui presunti rapporti di E. con Dario
d'Istaspe e con gli Eleati, la sua acme (cioè, secondo l'uso
convenzionale, il quarantesimo anno della vita) cadrebbe nella 69ª
olimpiade (504-501 a. C.): egli sarebbe così di quarant'anni più
giovane di Senofane, che cita, e contemporaneo di Parmenide, contro
cui polemizza o che contro di lui polemizza. Ma essendo egualmente
ricostruite, in Apollodoro, anche le datazioni degli Eleati, non si
può attribuire a questa determinazione cronologica che un valore
approssimativo. Assai meno attendibili, d'altronde, sono le
indicazioni di altri cronografi, che farebbero discendere l'acme di
E. al 460-59 o al 456-55.
La precisa datazione di E. resta con ciò incerta, e non si può
quindi a priori escludere la tesi del Reinhardt, che, per varî
motivi (altrimenti discutibili: cfr. su ciò più oltre), lo considera
posteriore a Parmenide e contemporaneo di Alcmeone e di Ippaso.
Nato di nobile famiglia efesia, nella quale, fin da Androclo
fondatore della città stessa, si tramandava la dignità sacerdotale
di Βασιλεύς, E. avrebbe disdegnato, secondo la tradizione, questa
carica, cedendola al fratello minore. Ma il suo animo
d'aristocratico restò saldo, e la sua avversione al popolo si
esasperò in seguito al bando che esso inflisse al suo amico Ermodoro
(fr. 121 Diels; e cfr. ermodoro d'efeso).
Superbo, solitario, sdegnoso dei più e anche di coloro che l'avevano
preceduto nella via del sapere (Omero, Esiodo, Archiloco, Pitagora,
Senofane, Ecateo non si salvano dalle sue aspre parole), incline a
esprimere il suo pensiero con ieratica ed esoterica solennità, ebbe
dalla tradizione l'epiteto di "tenebroso" (σκοτεινός) e fu da essa
tipizzato come il "filosofo piangente", di fronte al "sorridente"
Democrito.
Lo scritto in cui E. espose, in prosa ionica, le sue concezioni,
portava nell'antichità il titolo Περὶ ϕύδεως ("Intorno alla natura")
e doveva, stando alla tradizione, esser diviso in tre parti (περὶ
τοῦ παντός, πολιτικός, ϑεολογικός): ma né titolo né partizione
risalivano all'autore. Ci sono rimasti oltre un centinaio di
frammenti, che gli editori hanno tentato a lungo di riordinare,
mirando a ricostruire con essi lo schema originario dell'opera. Ma i
risultati sono stati sempre cosi incerti e disparati che l'ultimo e
miglior editore, il Diels (Fragmente der Vorsokratiker, I, 4ª ed.,
Berlino 1922, pp. 67-113: per i framm. propriamente detti, v. p. 77
segg.) decise utilmente di non accoglierne nessuno e di stampare i
frammenti (fatta eccezione per ì primi due, riferentisi chiaramente
all'inizio dell'opera) raggruppandoli secondo gli autori da cui
erano citati e disponendo questi ultimi semplicemente in serie
alfabetica.
Nella sua apparente estrinsecità, questo metodo fu in realtà assai
utile alla critica eraclitea, perché richiamò l'attenzione sul
problema della varia provenienza dei frammenti e quindi del vario
spirito con cui fossero stati scelti e interpretati. Si estese,
cioè, anche al campo della citazione stessa dei frammenti
quell'indagine dei motivi e delle correnti dossografiche, che dal
Diels era già stata magistralmente compiuta (nei Doxographi) nel
campo della tradizione storico-letteraria delle dottrine, e nel caso
di E., per cui l'analisi dei frammenti è di gran lunga più
importante che quella della tradizione dossografica stricto sensu,
questo metodo diede buoni frutti, avviando alla soluzione delle
infinite difficoltà che alla comprensione storica offriva la
misteriosa figura del filosofo.
Alla critica dell'Ottocento (che dal fascino eracliteo fu largamente
attratta) la figura dell'Efesio si presentava infatti con le più
contrastanti caratteristiche. Da una parte, teorico del fuoco come
principio del mondo, fonte onde tutto nasce e in cui tutto torna, e
con ciò primo autore della dottrina, poi così largamente sfruttata
dagli stoici, delle conflagrazioni universali segnanti i grandi anni
del mondo, E. si manifestava parente degli altri filosofi ionici
della scuola di Mileto, Talete, Anassimandro, Anassimene, che pure
si erano posti il problema dell'ἀρχή ?delle cose e l'avevano risolto
in maniera egualmente ilozoistica ed egualmente basata (almeno nel
più acuto di essi, in Anassimandro) sull'idea di m eterno circolo
delle cose. Ma, d'altra parte, se E. non fosse stato che un
ilozoista ionico, non si sarebbe più inteso quell'elemento originale
della sua dottrina del divenire, per cui egli, e non altri, aveva
pure assunto, nella tradizione, il rango di grande oppositore della
dottrina eleatica dell'essere. Tra l'acqua di Talete e il "tutto
scorre" di E., il contrasto era evidente.
Veniva così in primo piano, a sua volta, tutta l'altra serie dei
frammenti eraclitei, rivelante in ieratico linguaggio una realtà che
è una solo in quanto si scinde e manifesta nel molteplice, che
esiste determinatamente solo in quanto si contrappone ad altro, che
è solo divenendo e che diviene solo perché il generarsi degli
opposti è segno della sua profonda unità e concordia discors. Di
fronte a questo più alto E., l'E. teorizzatore del fuoco delle
conflagrazioni universali e della particolare cosmogonia ionica
restava d'altronde come un residuo insoluto; né era rimedio
sufficiente quello di attribuire alla dottrina del fuoco un valore
puramente simbolico, secondo il quale E. avesse innalzato ad ἀρχή
del mondo l'elemento materiale che, nella sua mobilità incessante,
avesse meglio significato nella natura la legge del divenire eterno.
La soluzione di questo fondamentale contrasto (che nelle molte
interpretazioni eraclitee assunse poi fisionomie varie) è stata
raggiunta, o almeno avviata, da quando, soprattutto per opera del
Reinhardt, si è cominciato a dubitare dell'attendibilità storica
della tradizione che, stralciando frasi di E. e dandone
interpretazimi di cui è talora facile avvertire l'arbitrio, vide in
E. il precursore della dottrina stoica del fuoco e delle
conflagrazioni. Questa tradizione, risalente nella sostanza al padre
della Chiesa Ippolito il quale, nel IX libro della sua Refutatio
omnium haereseon, combatté l'eresia di Noeto accusandola di
rinnovare, nella dottrina dell'identità delle tre persone divine,
gli errori pagani di E., è in realtà così arbitraria che legge, p.
es., in alcuni frammenti eraclitei (63-66 Diels) allusioni
specifiche al giudizio universale e alla risurrezione, vedendo nel
fuoco dell'Efesio il fuoco dell'inferno. Di qui l'illazione,
confortata da molte altre osservazioni particolari (quale, p. es.,
quella dell'inconsistenza della tradizione che attribuisce a E. una
speciale teoria dell'anno del mondo), che non solo l'interpretazione
d'Ippolito rappresenti un fraintendimento di E. quale appariva
attraverso lo stoicismo, ma che lo stesso stoicismo abbia,
trasformando ai suoi fini le dottrine dell'Efesio, contribuito a che
nella tradizione dossografica l'E. stoico si sostituisse all'E.
storico.
In E. rimane dunque essenziale (la storia vien qui a dar ragione
alle preferenze teoriche) quella concezione dell'unità degli
opposti, della concordia del discorde, che ne ha creato veramente la
fama. Al pari di Parmenide, E. s'accorge come principio del mondo
sia la diversità, onde ogni cosa è in un modo in quanto non è in un
altro, e in quanto c'è qualche altra cosa che non è come essa e che
ad essa si oppone. Ma mentre Parmenide, non potendo ammettere che le
cose siano insieme e non siano, che quel che per un verso è ente sia
per altro verso, nello stesso tempo, non ente, finisce col vedere in
questa antinomia delle cose la loro costitutiva contraddittorietà e
irrealtà, e nega quindi senz'altro il mondo delle cose di fronte
alla realtà dell'unico ente, E. vede in questo stesso contrasto
delle cose il segno della loro più profonda e metafisica realtà.
Di qui il suo concetto fondamentale della "guerra, madre di tutte le
cose" (fr. 53), onde tutto nasce opponendosi ad altro, e tutto è
uno, solo manifestandosi nell'infinita molteplicità. Pur nelle
varie, e spesso discordanti, forme che questo concetto assume, e
delle quali non è qui possibile far cenno, costante resta l'idea che
la legge del mondo, la sua "ragione" (quella che egli chiama appunto
λόγος, o, altrimenti, l'εν σοϕόν), non sia che l'universale
relazione onde ciascuna cosa si distingue e oppone ad altra. Per
Parmenide, riferirsi, opporsi, è non essere: per E., essere è,
sempre, riferirsi e opporsi. Di qui la tesi del Reinhardt, che E.
presupponga Parmenide, contraria alla più comune idea che Parmenide
combatta E. Ma come non regge l'esclusione, tentata dal Reinhardt,
di ogni polemica antieraclitea in Parmenide, così non è necessario
pensare che, per risolvere il principio dell'opposizione, E. avesse
avuto bisogno di conoscerlo nell'Eleate. Parimenti, non sembra
necessario escludere, col Reinhardt, anche la celebre teoria del
"tutto scorre" (πάντα ῥεῖ), onde non è possibile tuffarsi due volte
nello stesso fiume perché esso non è in realtà, la seconda volta, lo
stesso fiume (fr. 91, ecc.), considerandola come non genuinamente
eraclitea, allo stesso modo che quella stoicizzata del fuoco.
L'eterno flusso del divenire, in realtà, era rappresentazione da una
parte ben consona con quella dell'eterno generarsi delle cose per
antitesi (allo stesso modo che l'unità eleatica, scevra di
contraddizione, era insieme immobilità eterna) e dall'altra
direttamente presupposta nell'eraclitismo o nell'antieraclitismo
dell'età sofistica e platonica, come p. es., tipicamente,
nell'eracliteo Cratilo, che la portava insieme all'acme e alla
crisi.