Epicuro
www.treccani.it
Dizionario di filosofia (2009)
Filosofo (Samo 341 - Atene 270 a.C.).
Il giardino dei filosofi.
Già in Samo, ancora ragazzo, poté ascoltare le lezioni del platonico
Panfilo: ma gliene derivò soltanto l’avversione, non più
abbandonata, per la filosofia platonica. Più tardi, a Teo, fu
scolaro del democriteo Nausifane: e questa volta l’influsso,
egualmente stabile, fu invece positivo, e fece di E. un convinto
atomista. A diciott’anni si recò ad Atene: forse ascoltò,
all’Accademia, Senocrate, ma l’idealizzata religiosità di lui non
fece presa sul suo animo. A trentadue anni cominciò la sua carriera
di maestro di filosofia: prima a Mitilene, poi a Lampsaco e infine,
dal 307-6 in poi, ad Atene. Qui fondò la sua scuola, che ebbe il
nome dal giardino in cui amava trattenersi coi discepoli: onde gli
stessi epicurei furono poi chiamati ‘filosofi del giardino’. Al pari
dell’Accademia e del Liceo, anche il Giardino ebbe il carattere di
un’associazione religiosa (ϑίασος); ma non dispose mai dei larghi
mezzi posseduti dalle altre due, e conservò il carattere di possesso
privato di Epicuro. Secondo il suo testamento il Giardino passava ai
suoi eredi, per quanto questi dovessero lasciare l’uso alla scuola e
provvedere alle necessità di quest’ultima. Caratteristico era poi
nel Giardino il fatto che il culto religioso non era reso a divinità
(per es. alle Muse, come nell’Accademia o nel Liceo), ma allo stesso
E., e secondo prescrizioni lasciate da lui medesimo. Ciò derivava,
d’altronde, dalla fondamentale irreligiosità dell’epicureismo, e
favoriva a sua volta quel dogmatismo reverente che (anche se talora
esagerato dalla tradizione) distinse in ogni modo da tutte le altre
filosofie quella del Giardino. Della sua opera, amplissima (essa
comprendeva quasi 300 titoli), restano i frammenti di circa 9 libri
(erano in tutto 37) del Περὶ φύσεως («Sulla natura»), tre lettere
che ne riassumono la dottrina (a Erodoto, Meneceo e Pitocle), le
Kύριαι δόξαι («Massime capitali»), tarda raccolta di massime, uno
gnomologio e frammenti di varia ampiezza.
Il quadrifarmaco.
L’interesse dominante del pensiero di E. è per la pratica: fisica e
logica sono infatti subordinate all’etica. Volendo scoprire il fine
cui l’uomo tende come animale, E. trova che questo è il piacere, non
come godimento sensuale, ma come moto regolato, εὐστάϑεια,
equilibrio dell’essere con sé medesimo, che eviti le lacerazioni e
risparmi perciò il dolore. Il saggio coglierà questo equilibrio
contentandosi di poco e vivendo appartato (λάϑε βιώσας «vivi
nascosto»): dalle offese degli uomini e dai colpi della fortuna solo
l’amicizia può proteggere. Non basta però tenere a freno i desideri
smodati, occorre anche liberarsi dai timori. La filosofia ha così il
compito di offrire all’uomo il «quadrifarmaco», cioè la medicina
capace di guarire dai quattro timori che arrecano infelicità: il
timore degli dei, della morte, del dolore (che è intenso e allora
passeggero, o cronico e allora sopportabile serenamente),
dell’impossibilità di raggiungere il piacere. Questa guarigione,
questa liberazione però non può venire che da un sano criterio
(‘canone’) di verità (e ‘canonica’ è detta la dottrina del ‘canone
della verità’).
La canonica.
Il canone della verità è in sostanza un empirismo, che si tiene
lontano dalle preoccupazioni oggettivistiche degli stoici
nell’intenzione di schivare egualmente le confutazioni scettiche.
Criterio fondamentale di verità è per esso l’evidenza (ἐνάργεια),
posseduta in primo luogo dalle sensazioni (αἰσϑήσεις): e queste sono
provocate da specie di emanazioni delle cose (εἴδωλα «immaginette»,
o anche ρεύματα «efflussi»). Tra le sensazioni, vanno distinte
quelle che provengono da un diretto e costante afflusso di εἴδωλα, e
che testimoniano quindi della reale esistenza delle cose (οἰσϑήσις
propriamente dette) e quelle che invece derivano da combinazioni,
saltuarie e arbitrarie, di εἴδωλα erranti: sensazioni fantastiche.
Così la logica epicurea, nel suo materialismo anti-idealistico,
cerca di giustificare oggettivamente anche l’immaginazione. In
questa conoscenza sensibile è d’altronde la fonte di ogni sapere:
perché quella stessa conoscenza concettuale e ideale, che tanto
aveva impegnato il pensiero di Socrate, Platone e Aristotele, non è
per E. che un prodotto secondario della sensazione, memoria del
percepito e ancitipazione («prolessi») del percepibile.
La fisica.
La fisica è nella sostanza una ripetizione dell’atomismo democriteo
per quanto E. abbia poi voluto, insistendo sulle modificazioni
arrecatevi, rivendicare la sua originalità anche in questo campo,
come poi si preoccuparono di fare anche i suoi successori, per es.
Diogene di Enoanda. La modificazione sostanziale, che E. apporta
all’atomismo di Democrito, concerne il principio del moto atomico,
da Democrito attribuito al vortice originario e da E. invece
considerato come semplice caduta verso il basso per forza di
gravità: al materialismo di E., insofferente del divino e di tutto
ciò che, principio assoluto e autonomo, potesse somigliare al
divino, il misterioso vortice democriteo doveva apparire sospetto.
D’altronde, ammessa la semplice caduta verticale degli atomi, e
concepite (come soltanto potevano esser concepite allora) le loro
traiettorie verticali come parallele, quale urto, generatore di
combinazioni atomiche e quindi di determinate realtà avrebbe potuto
nascerne?
È qui che E. avanza il suo tipico concetto della «inclinazione»
(παρέγκλισις, nella traduzione di Lucrezio clinamen), quale motivo
della deviazione degli atomi, senza alcuna causa o ragione
predeterminata, dalla loro caduta verticale. Un concetto che assai
male si accorda col rigido meccanismo causale del sistema: ma che
era d’altronde strettamente logico come rimedio alla contraddizione
in cui veniva a cadere il sistema stesso rispetto alla sua più
genuina intenzione. E. aveva infatti costruito il suo mondo sullo
schema del meccanismo puro, per esser sicuro che esso non fosse in
balia di alcuna volontà superiore e per liberare quindi gli uomini
dal terrore del divino: allo stesso modo in cui aveva voluto
liberarli dal timore della morte, esprimendo nella forma più
rigorosa l’argomento, che già doveva esser stato presente a Socrate,
secondo cui la morte non è nulla per noi, perché, finché ci siamo
noi, la morte non c’è, e, quando c’è la morte, non ci siamo più noi,
l’anima dissolvendosi negli atomi originari.
E se non aveva negato addirittura l’esistenza degli dei (forse per
evitare probabili accuse di empietà), li aveva comunque esclusi dal
mondo e relegati negli oziosi paradisi degli intermundia, basandosi
per ciò, del resto, sul più classico e universale concetto
etico-teologico del mondo antico, che chi è perfetto non ha bisogno
di nulla e quindi non fa nulla. E dell’entusiasmo che dovette
suscitare questa dottrina si ha testimonianza nella poesia di
Lucrezio.
Ma, liberato il mondo e l’uomo da Dio, e costituita la natura come
sistema assolutamente autonomo e meccanico, l’uomo diveniva, a sua
volta, schiavo del mondo, che nella sua ferrea causalità escludeva
ogni libertà. Al fato stoico si sostituiva un altro fato, non meno
insofferente di ogni libertà individuale: e se il primo era, almeno,
razionale, nel secondo non appariva per noi, perché, finché ci siamo
noi, la morte non c’è, e, quando c’è la morte, non ci siamo più noi,
l’anima dissolvendosi negli atomi originari.
Ma, liberato il mondo e l’uomo da Dio, e costituita la natura come
sistema assolutamente autonomo e meccanico, l’uomo diveniva, a sua
volta, schiavo del mondo, che nella sua ferrea causalità escludeva
ogni libertà. Al fato stoico si sostituiva un altro fato, non meno
insofferente di ogni libertà individuale: e se il primo era, almeno,
razionale, nel secondo non appariva che la brutalità indifferente
del meccanismo. Di qui la necessità del ripiego disperato
dell’eccezione: la libertà concepita come può essere concepita
all’interno di un sistema causale, cioè come mera negazione della
causa, realtà che accade senza alcuna ragione per la quale accade.
L’etica.
Questo ripiego è tuttavia quello che permette a E. di trovare, in
questo mondo che alterna l’indifferenza della causa
all’irrazionalità del caso, un posto per l’uomo, il quale d’altronde
tanto più sarà felice quanto meglio riuscirà a mantenersene immune.
Qui è l’ascetismo epicureo, che corregge l’edonismo cirenaico
addirittura con motivi cinici. Resta, certo, a fondamento
dell’azione il movente cirenaico del piacere: ma non più come
l’aristippeo piacere cinetico (piacere in movimento), bensì come
piacere catestematico (piacere stabile), soddisfazione che deriva
più dalla serenità astinente dell’animo che dall’improvviso e
saltuario appagamento.
Di qui una critica e una distinzione dei bisogni, che per quanto non
miri al supremo ideale cinico dell’assoluta autosufficienza
individuale e provveda soltanto alla migliore attuazione di
quell’unica virtù che è il calcolo dei piaceri, trova comunque
utile, per il raggiungimento dell’atarassia, la maggior possibile
riduzione dei bisogni stessi.
Gli unici piaceri stabili sono perciò l’atarassia (mancanza di
turbamento) e l’aponia (assenza di dolore), conseguibili mediante
una limitazione dei desideri, cioè delle cause dei dolori: il
saggio, quindi, appagherà i desideri naturali e necessari (per es.,
il desiderio del cibo), non invece quelli naturali ma non necessari
(per es., il desiderio di un cibo gustoso) e tanto meno i desideri
non necessari né naturali, che sorgono solo da vana opinione e da
bisogni artificiali. Non al futuro quindi deve mirare il saggio per
cercarvi un’impossibile felicità, ma al passato e al piacere goduto,
la cui memoria come ricordo di una realtà può confortare realmente
del presente dolore.