Darwinismo sociale
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Enciclopedia online
Applicazione allo studio delle società umane dei principi darwiniani
della lotta per l'esistenza e della selezione naturale, diffusa
nella seconda metà dell'Ottocento a opera dei pensatori positivisti,
in particolare H. Spencer. La locuzione è rimasta nell'uso corrente
soprattutto con significato polemico per indicare teorie razziste;
alcune tesi del d. sono però state riprese dalla sociobiologia
novecentesca.
Dizionario di Storia (2010)
Locuzione che apparve negli anni Ottanta dell’Ottocento per indicare
l’applicazione dell’evoluzionismo allo studio delle società umane.
La locuzione non acquistò mai, però, contenuti precisi, e ai primi
del Novecento fu resa obsoleta da trasformazioni culturali quali la
reazione antipositivista e la nascita dell’antropologia
funzionalista, nonché dalla riscoperta delle teorie biologiche di
Gregor Mendel. La prima applicazione sistematica del darwinismo in
campo sociale fu attuata da Herbert Spencer in Inghilterra, il quale
ebbe una vasta influenza sulla cultura dell’Ottocento. Con Spencer
il darwinismo si trasformò da teoria probabilistica della mutazione
in tassello di una metafisica naturalistica finalisticamente
orientata a interpretare la storia umana. Il meccanismo della
selezione naturale, ribattezzata da Spencer «sopravvivenza del più
adatto», divenne così un principio con cui spiegare la causazione
naturalistica delle istituzioni e individuarne il necessario
percorso. Nel 1872 Walter Bagehot, uno dei più eminenti
intellettuali vittoriani, pubblicò una serie di saggi in cui
delineava lo sviluppo della società e dello Stato combinando
sapientemente Darwin, Maine e Lamarck. Assunta la selezione naturale
come principio guida e data per scontata l’analogia fra variazioni
biologiche e innovazioni socioculturali, Bagehot vide nella capacità
di queste ultime la via che ha condotto al passaggio da società
dispotiche basate sulla forza a società come quella romana, fondata
sul diritto, fino al government by discussion inglese,
culmine evolutivo della libertà e della ragione. Nell’Europa
continentale il polacco Ludwig Gumplowicz, alla fine dell’Ottocento,
illustrò la sociologia come la scienza dell’interazione fra i gruppi
e delineò l’evoluzione del processo interattivo dall’orda primitiva
fino allo Stato, servendosi di un modello conflittuale fondato sulla
lotta per l’esistenza. Influenzato da Comte e da Gobineau, oltre che
da Darwin, negò l’inevitabilità del progresso e, individuando nello
Stato una forma evolutivamente superiore, aderì a una visione
ciclica della storia.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1992)
di Tiziano Bonazzi
Sommario: 1. Introduzione. 2. Le componenti
fondamentali dell'approccio socialdarwinista. 3. Il darwinismo
sociale in Gran Bretagna. 4. Il darwinismo sociale negli Stati
Uniti. 5. Il darwinismo sociale nell'Europa continentale. 6.
Socialdarwinismo e socialismo. 7. Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Introduzione
La locuzione 'darwinismo sociale' apparve negli anni ottanta
dell'Ottocento per indicare l'applicazione dell'evoluzionismo allo
studio delle società umane. La locuzione non acquistò mai, però,
contenuti precisi e ai primi del Novecento venne resa obsoleta da
trasformazioni culturali quali la reazione antipositivista (v.
Hughes, 1958) e la nascita dell'antropologia funzionalista, nonché
dalla riscoperta delle teorie biologiche di Gregor Mendel. Rimase,
tuttavia, nell'uso corrente con significato polemico in rapporto a
una varietà di teorie imperialiste e razziste a base
evoluzionistica, nonché all'eugenetica. Richard Hofstadter la rese
popolare in ambito storiografico nel 1944, facendone il pilastro
dell'ideologia individualista conservatrice americana di fine
Ottocento, e nel 1958 Gertrude Himmelfarb osservava che il
socialdarwinismo, come fenomeno euroamericano, era servito a
sostenere sia individualismo e antistatalismo che nazionalismo e
imperialismo negli anni a cavallo fra i due secoli.
La storiografia più recente è divenuta però cauta circa l'effettiva
influenza del socialdarwinismo conservatore, le reali idee di molti
autori considerati socialdarwinisti e le implicazioni del darwinismo
per il pensiero sociale, implicazioni che Robert Bannister (v.,
1979), Linda Clark (v., 1984), Frank Hankins (v., 1931), Greta Jones
(v., 1980) hanno individuato in ambiti assai lontani fra loro e in
pensatori socialisti, pacifisti o sostenitori di forme di
solidarietà sociale; tanto che per Bannister il socialdarwinismo fu
un 'mito' polemico usato soprattutto da autori riformisti per
attaccare varie forme di conservatorismo. Il termine è parso ad
alcuni autori (v. La Vergata, 1982) tanto indeterminato da spingerli
a consigliarne l'abbandono.
Tenendo conto di questa disputa storiografica ancora irrisolta non
ha gran senso cercare di definire concettualmente il darwinismo
sociale, che può considerarsi una variante del naturalismo
evoluzionista - quest'ultimo una sorta di 'lingua franca'-, che
negli ultimi decenni dell'Ottocento e all'inizio del Novecento
penetrò gli ambiti più diversi e le cui ramificazioni è pressoché
impossibile seguire. Può, a ogni modo, ritenersi proprio
dell'approccio socialdarwinista il tentativo di applicare
all'analisi dei fenomeni sociali le idee di lotta per l'esistenza e
di selezione naturale, con commistioni con l'organicismo che non
possono, però, essere considerate prevalenti.
L'impossibilità di una chiara definizione non impedisce che il
socialdarwinismo, per l'uso che ne fecero i contemporanei e per
quanto se ne evince a livello storico, costituisca un fenomeno non
secondario nella storia del pensiero sociale, soprattutto in
rapporto alla necessità culturale e ideologica, che si diede in
particolare nel mondo angloamericano, di ricercare la causazione
naturale delle istituzioni sociali e di compattare attorno alla
nuova sintesi darwiniana le teorie e i concetti delle scienze
sociali. Si tratta, pertanto, di individuare le ragioni e il modello
di un'operazione che, se si dimostrò un vicolo cieco per lo sviluppo
delle scienze sociali, ebbe una notevole rilevanza immediata, e di
mettere a nudo un momento essenziale della costruzione dell'identità
europea nel secolo della borghesia.
2. Le componenti fondamentali dell'approccio
socialdarwinista
La tesi secondo cui l'evoluzionismo darwiniano segnò una svolta
decisiva per le scienze sociali, nata sulla scia delle affermazioni
di fede darwiniana di tanta parte della cultura europea di fine
Ottocento, viene considerata da oltre vent'anni (v. Burrow, 1968)
poco più di un mito. L'opera di Darwin, pur nella sua genialità, si
inquadra infatti in una complessa temperie culturale, nella quale la
creazione di modelli storico-evolutivi nelle scienze sociali avvenne
in modo del tutto autonomo - tanto da influenzare lo stesso Darwin
di The descent of man (1871). L'impostazione socialdarwinista,
pertanto, ebbe una matrice intricata in cui, accanto al darwinismo,
svolsero una parte di primo piano il 'metodo comparato'
dell'antropologia, il lamarckismo e, soprattutto, lo spencerismo. A
complicare ulteriormente la scena vi è l'intreccio strettissimo che
per tutto il secolo si diede fra discorso scientifico e valori e
modelli teorici strutturanti la cultura borghese.
Visto retrospettivamente, l'elemento più rivoluzionario di The
origin of species (1859) consiste nel fatto che, nella prospettiva
della selezione naturale, l'ordine non risulta da una struttura
archetipica che la storia realizza, ma da un insieme di leggi che
sovrintendono ai meccanismi dell'evoluzione senza guidarla verso una
meta precisa. Questa 'proceduralità aperta' è ciò che distingue The
origin dall'opera di altri scienziati ai quali Darwin deve molto,
quali Jean Baptiste Lamarck, il geologo Charles Lyell e il maggiore
dei biologi epigenetici, Karl E. von Baer. L'evoluzionismo di The
origin - le cui leggi, come notò Charles S. Peirce, sono statistiche
e quindi probabilistiche - si contrappone anche ai modi in cui si
venivano costituendo le scienze umane, ad esempio con Auguste Comte,
la validità positiva della cui tipologia storica si fonda sul fatto
che essa realizza potenzialità inerenti all'ordine naturale. È
tuttavia innegabile che Darwin non fu del tutto cosciente degli
aspetti rivoluzionari della sua teoria, in quanto profondamente
partecipe di una cultura per la quale la storicizzazione delle
scienze naturali e umane non si dissociava da un'impostazione
finalistica che nell'idea di progresso aveva il proprio fulcro.
La feconda ambiguità di The origin fra 'casualità' delle variazioni
e 'necessità' della sopravvivenza dei più adatti finì così col
trasformarsi, nell'approccio socialdarwinista, in legge del
progresso evolutivo.Onde chiarire le radici di questa vicenda
occorre rivolgersi alla Gran Bretagna, anche se il quadro
complessivo è quello della ridefinizione borghese dell'identità
europea. Oltre Manica, infatti, nacque - in modo del tutto
indipendente, anche se contestuale al darwinismo - l'antropologia
evoluzionista che, possiamo ritenere, ha contribuito potentemente
alla rifondazione dell'identità liberale una volta esauritasi la
spinta dell'utilitarismo, giustificando in modo coerente con le
svolte scientifiche intervenute la superiorità del modello
individualista e dei valori positivi su cui esso si reggeva. Ciò che
in questa sede interessa dell'antropologia evoluzionista è il
'metodo storico-comparato' da essa messo a punto per organizzare,
sia spazialmente che temporalmente, la varietà delle esperienze
umane. In base a esso si ritiene possibile analizzare le società
primitive esistenti per indagare il passato delle società avanzate:
la storia mostra infatti un'evoluzione verso forme di civiltà sempre
più complesse e razionali, ma l'evoluzione non si svolge allo stesso
modo e alla stessa velocità nelle diverse aree a causa della
complessità dei fattori in gioco; le società umane esistenti
mostrano pertanto contemporaneamente tutti gli stadi dello sviluppo
dell'umanità.
Il presente viene, così, assunto come punto di vista privilegiato da
cui ricostruire il percorso dell'evoluzione, servendosi anche di
lontani postulati organicistici per i quali le istituzioni evolvono
sviluppando potenzialità intrinseche. Sir Henry Maine, il cui
Ancient law è del 1861, riassume quanto si è venuti dicendo. Egli,
infatti, applicando il metodo storico-comparato alle istituzioni
giuridiche del mondo ariano, formulò la legge secondo cui il
progresso umano è consistito nel passaggio dallo status al
contratto. Un'evoluzione in cui si contrappongono due tipi ideali,
quello comunitario, fondato sull'appartenenza a un ceto, e quello
individualista. Con ciò, al di là delle sue cautele sulla felice
fortuità del passaggio da un tipo all'altro, egli propose una scala
di valori fondata sulla superiorità della libera scelta individuale
e, quindi, della civiltà inglese ed europea, capace di fondare
l'ordine sociale sul principio della morale razionale del singolo
che si impegna individualmente nel contratto.
Maine e gli altri fondatori dell'antropologia, John Lubbock, John
McLennan, Edward B. Tylor e, negli Stati Uniti, Lewis Morgan,
intesero studiare la vita sociale come una branca della scienza
naturale, elaborando metodi empirici di analisi applicabili sia
all'uomo che alla natura. Su questa strada, spinto dalla logica
interna della sua opera e dall'influenza degli antropologi, si mosse
anche Darwin, quando, con The descent of man, completò la sua
ipotesi naturalistica inserendo l'uomo nel contesto dell'evoluzione
e negandogli una posizione distinta in natura. Egli diede, in questo
modo, fondamento al convergere di scienze biologiche e sociali; ma,
paradossalmente, indebolì l'impostazione non finalistica e non
antropocentrica di The origin.
Inconsciamente, infatti, Darwin prese a metro di paragone il modello
dell'individuo liberale, come facevano gli antropologi, ricostruendo
all'indietro nella vita animale le origini delle facoltà complesse
che di tale individuo erano proprie. Come conseguenza creò una scala
dell'evoluzione dei comportamenti razionali che suggeriva un forte
parallelo fra il rapporto animali-uomo e quello società
primitive-società avanzate. La sua opera complessiva e quella dei
fondatori dell'antropologia ebbero pertanto un contenuto ideologico
forte, essenziale alla ridefinizione dei valori liberali. Tutte
rimasero, però, coerentemente limitate ad ambiti disciplinari
precisi. Chi si propose come teorico dell'identità borghese,
attraverso il compattamento di scienze fisiche, naturali e umane in
un quadro evolutivo, fu invece Herbert Spencer, il cui evoluzionismo
precede quello di Darwin e che fu in grado di inglobarlo nel sistema
della 'filosofia sintetica'.
Autore oggi secondario, Spencer ebbe un'influenza enorme sulla
cultura dell'Ottocento e con più di una ragione è stato indicato
come il vero padre del darwinismo sociale. Anch'egli, al pari degli
antropologi, prese le mosse dall'insoddisfazione nei confronti
dell'utilitarismo, la cui ipotesi di una natura umana immutabile
portava a postulare un'unica possibile soluzione ai problemi del
bene e dell'utile, che la storia al contrario smentiva. Spencer
trovò la soluzione nella teoria di un'evoluzione del sentimento
morale, inserita in una metafisica naturalistica che faceva
dell'evoluzione una legge cosmica. Al di là di suggestioni
idealistiche, egli fondò il suo sistema su tre teorie scientifiche:
il principio di conservazione dell'energia, formulato in termini
generali da Hermann von Helmholtz, che gli fornì il modello di un
universo dinamico in cui la continua trasformazione di materia in
energia crea equilibri momentanei sempre rinnovati; la biologia di
von Baer, il cui schema di sviluppo da forme di vita semplici e
omogenee a forme complesse e differenziate gli indicò la direzione
della dinamica universale; il lamarckismo, infine, che, con la
teoria della trasmissione ereditaria dei tratti acquisiti, gli
mostrò i meccanismi dell'evoluzione nel mondo animale.
Un evoluzionismo, quindi, fondato sul processo cosmico del continuo
passaggio dall'omogeneo all'eterogeneo, che ricomprendeva
necessariamente l'uomo, spiegandone la storia nei termini di un
necessario progresso verso la perfezione, definita come razionalità
efficiente dei singoli nel coprire ruoli sociali vieppiù
differenziati. Un principio in cui era evidente l'influenza delle
teorie economiche sulla divisione del lavoro filtrate attraverso i
principî dell'etica protestante. Questo processo, pur benefico e
necessario, non appariva a Spencer senza ostacoli e traumi, per la
presenza della lotta per l'esistenza che gli scienziati, a partire
da Lyell, ritenevano una legge di natura, pur senza darle un
significato evolutivo. Egli, di conseguenza, fin da Social statics
(1850), sostenne che la moderna società industriale è più benefica
verso i suoi membri delle antiche, autoritarie e meno evolute
società militari, e che i suoi complessi meccanismi di spontanea
collaborazione fra i singoli non possono essere ostacolati. Ciò
implicava una radicale difesa del laissez faire, forma tipica del
contemporaneo stadio storico, e la denuncia degli interventi
pubblici diretti a salvare dall'estinzione gli individui incapaci
dell'autodisciplina necessaria a sopravvivere.
L'onnicomprensività dell'evoluzionismo spenceriano e il suo
procedere per via analogica, sfruttando le irrisolte ambiguità che
lo percorrono, gli consentirono di inglobare anche il darwinismo,
facendone un supporto ulteriore alle proprie tesi. I complessi modi
in cui ciò avvenne, attraverso una parziale accettazione della
selezione naturale nella struttura lamarckiana dei Principles of
biology (1867), non interessano in questa sede. Qui importa che il
darwinismo con Spencer si trasformò da teoria probabilistica della
mutazione in tassello di una metafisica naturalistica
finalisticamente orientata a interpretare la storia umana. Il
meccanismo della selezione naturale, ribattezzata da Spencer
"sopravvivenza del più adatto" (survival of the fittest), divenne
così un principio con cui spiegare la causazione naturalistica delle
istituzioni e individuarne il necessario percorso. Un adattamento
della concezione di Darwin a quella di Spencer in cui è già del
tutto delineato il modello del darwinismo sociale.
3. Il darwinismo sociale in Gran Bretagna
Integrazione instabile di filosofia spenceriana, interazionismo
ambientale lamarckiano, antropologia e darwinismo, il darwinismo
sociale potrebbe dirsi consistere all'origine in un tentativo di
rifondazione del sapere sociale allo scopo di dare una base
naturalistica alla filosofia politica liberale. Le sue connotazioni
di partenza non sono necessariamente conservatrici e corrispondono
ai fini antiaristocratici e di secolarizzazione propri
dell'ideologia progressista borghese. Non per nulla esso sorse ed
ebbe un ruolo dominante in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove
l'individualismo liberale aveva più salde radici.Come ha dimostrato
Greta Jones, l'impalcatura intellettuale del darwinismo sociale
venne costruita, oltre che da Spencer, il quale muoveva da posizioni
radicali e libertarie, dai liberali inglesi, quel party of progress
che continuava le battaglie della prima metà del secolo per la
liberalizzazione e la secolarizzazione della società. Ai loro occhi
il darwinismo costituiva una filosofia progressista perché forniva
gli strumenti per collegare l'origine delle facoltà sociali e morali
a un'interazione naturale fra i sensi e l'ambiente, impostando,
inoltre, un'interpretazione evolutiva che premiava lo sviluppo di
comportamenti razionali.
Nel 1872 Walter Bagehot, uno dei più eminenti intellettuali
vittoriani, pubblicò con il titolo Physics and politics una serie di
saggi in cui delineava lo sviluppo della società e dello Stato
combinando sapientemente Darwin, Maine e Lamarck. Assunta la
selezione naturale come principio guida e data per scontata
l'analogia fra variazioni biologiche e innovazioni socioculturali,
Bagehot vide nella capacità di produrre queste ultime la via che ha
condotto al passaggio da società dispotiche basate sulla forza a
società come quella romana, fondata sul diritto, fino al government
by discussion inglese, culmine evolutivo della libertà e della
ragione. A suo avviso, però, l'evoluzione non è stata un processo
intenzionale, perché le innovazioni, spesso prodotto della cosciente
creatività dei singoli, vengono integrate nella società attraverso
un inconscio processo di imitazione sociale.
In questo modo egli forgiò uno strumento di analisi che gli consentì
di concepire naturalisticamente sia il delicato equilibrio liberale
tra individuo e società, sia la spontaneità della coesione sociale.
Fondando quest'ultima su sentimenti inconsci e sulla loro
conseguenza psicologica collettiva - il carattere nazionale - egli
intese anche risolvere un problema classico del pensiero sociale
inglese, quello del rapporto fra interesse individuale e morale
pubblica, dimostrando che la selezione naturale nell'uomo è
compatibile con comportamenti non egoistici e che l'evoluzionismo
può dar vita a una morale secolarizzata.La questione era tanto
importante che a essa si applicò lo stesso Darwin, il quale, in The
descent of man, si servì della psicologia associazionista per
individuare le cause naturali dell'altruismo nel valore di rinforzo
che comportamenti di questo tipo assumono già nella vita sociale
degli animali.
Un ulteriore svolgimento delle posizioni di Bagehot e Darwin può
essere considerata The science of ethics (1882) di Leslie Stephen,
opera nella quale l'autore individuava la molla dell'evoluzione
umana nella morale, forza integratrice della comunità. Quest'ultima,
che ha raggiunto il suo più alto livello evolutivo nella razza -
concetto di matrice più culturale che biologica in Stephen -, è un
"tessuto vivente" le cui cellule sono gli individui e che è tenuto
assieme da catene di istituzioni e di valori trasmessi dalla
famiglia. Sotto la pressione della lotta fra i gruppi, la morale si
razionalizza e consente la crescita della libertà individuale. In
questo modo si è giunti al sistema costituzionale britannico e
Stephen prevede che l'umanità, rendendosi conto di dover lottare
unita per la propria sopravvivenza, finirà con l'abolire le guerre.
Durante gli anni ottanta, con l'acuirsi dello scontro sociale in
tutta l'Europa e con l'ondata nazionalista che accompagnò la
competizione coloniale fra le maggiori potenze, il socialdarwinismo
liberale si dimostrò incapace di adeguare il proprio metodo alla
nuova realtà. Spencer, convinto che socialismo e imperialismo
stessero facendo regredire l'Inghilterra allo stadio militare, in
The man versus the State (1884) e in opere successive difese quasi
istericamente un individualismo assoluto, onde evitare la paralisi
del meccanismo progressista della selezione naturale; ma ottenne il
solo risultato di divenire uno dei simboli della crisi del
liberalismo classico e di dar vita allo stereotipo del
socialdarwinismo conservatore.
Nel frattempo la teoria del "plasma germinale" del biologo tedesco
August Weismann, secondo cui il materiale ereditario passa di
generazione in generazione senza alcun rapporto con l'ambiente,
diede un colpo gravissimo al lamarckismo sempre affiorante nei
socialdarwinisti liberali e contribuì a rilanciare il dibattito in
due direzioni opposte. Colpendo indirettamente l'idea naturalista
della continuità fra evoluzione animale e umana, essa rilanciò la
tesi di Alfred A. Wallace (a cui si deve con Darwin la scoperta
dell'evoluzione) secondo cui esiste una discontinuità fra le due,
dal momento che quella umana ha carattere 'spirituale' o
'culturale'. Su queste basi ci si avviò in una direzione che finì
col confluire nell'evoluzionismo spiritualista.
Nel 1893 Thomas H. Huxley in Evolution and ethics sostenne che
l'umanità, con l'esclusione dei suoi primissimi stadi, si è
sviluppata attraverso la crescita di sentimenti razionali di
solidarietà, in una infinita lotta dell'uomo contro la natura che
non ha una precisa tendenza di progresso. L'anno successivo Benjamin
Kidd, con Social evolution, capovolse la tesi di Huxley, facendo
dell'evoluzione umana una lotta contro la ragione che, nel suo
egoismo utilitarista, distruggerebbe la società. Spinto dal suo
istinto sociale, l'uomo si affida a un elemento "ultrarazionale", la
religione, che difende la sua socialità e le sue capacità evolutive.
Nell'opera di Kidd, che nega i capisaldi della centralità della
competizione individuale e dello sviluppo della razionalità
nell'evoluzione, può scorgersi la dissoluzione del tentativo
liberale di dotarsi di un'ideologia naturalista. Il liberalismo
evoluzionista inglese poté uscire dalla propria crisi solo muovendo,
attraverso l'idealismo di Thomas H. Green, verso l'evoluzionismo
spiritualista di Leonard T. Hobhouse, il cui new liberalism, matrice
del riformismo inglese del Novecento, interpreta l'intero processo
evolutivo come sviluppo della 'mente' nella storia (Development and
purpose, 1913; Mind in evolution, 1901).
Non è però a personaggi pur significativi come Hobhouse che ci si
deve riferire trattando di socialdarwinismo, perché in essi il
naturalismo è ormai stemperato al punto da perdere consistenza;
bensì alle teorie che costituiscono l'altra interpretazione delle
tesi di Weismann sull'ereditarietà, quella che, nel clima dei
dibattiti di fine secolo sull'irrazionalismo e sull'imperialismo,
portò alla ribalta i temi dell'istinto e della razza. In
quest'ottica occorre guardare all'eugenetica, che Francis Galton
creò per individuare, con strumenti statistici e antropometrici, in
quali gruppi sociali si trovino le caratteristiche socialmente
desiderabili e per incoraggiare, con l'intervento dello Stato, tali
gruppi a riprodursi il più possibile per migliorare la struttura
genetica della razza (Hereditary genius, 1869; Natural inheritance,
1889).
Sebbene si proponesse alcuni fini propri del movimento liberale,
come la lotta all'aristocrazia - i cui privilegi considerava
'disgenici' -, l'eugenetica si fondava su premesse intimamente
illiberali. Ciò non tanto per l'accettazione dell'intervento
pubblico o per l'arbitrarietà dei criteri di valore assunti, quanto
perché negava la rilevanza dei fattori culturali e dell'attività
cosciente dei singoli, legava l'evoluzione alla volontà
programmatrice di gruppi sociali autodichiaratisi geneticamente
adatti e tendeva a chiudere l'individuo in un destino ereditario
senza scampo.Galton, sebbene le sue teorie mostrino il piano
inclinato su cui il fallimento del socialdarwinismo liberale aveva
posto l'avventura del naturalismo evoluzionista, era un positivista
che fondava l'evoluzione su comportamenti e valori razionali che
intendeva promuovere favorendo la riproduzione di chi geneticamente
li possedeva.
L'eugenetica non è, pertanto, assimilabile a buona parte delle
teorie istintuali a essa contemporanee, nelle quali la
predisposizione naturale a determinati tipi di comportamento è
legata al continuo riemergere di istinti primitivi che minacciano la
civiltà, dando luogo a una lotta fra natura e cultura. È questo che
afferma, ad esempio, Wilfred Trotter in Instincts of the herd in
peace and war (1916), sostenendo che l'istinto del branco - dipinto
in modo simile alla 'folla' di Gustave Le Bon - tende costantemente
a sopraffare l'individuo emancipato. Sebbene non mancassero tesi,
come quella dello psicologo William McDougall (Body and mind, 1911),
che davano spazio alla forza dell'intelligenza, capace di modificare
l'istinto, le teorie istintuali fornirono soprattutto materiale per
una visione pessimistica della 'natura' umana - termine quanto mai
lontano dallo spirito darwiniano - e per un'interpretazione
gerarchica della società e dei rapporti fra le società umane.
Il razzismo implicito nelle teorie istintuali emergeva già in
Stephen, il cui liberalismo era condizionato dalla nozione del
ritardo evolutivo della razza negra; ma il suo ragionamento aveva
ancora basi razionali e positive. A fine secolo lo stereotipo
dell'inferiorità dei Negri venne slegandosi dal presupposto di un
ritardo in qualche modo colmabile in tempi storici, per divenire
un'apologia dell'inferiorità della 'natura' dei Negri, istintivi e
perciò irrazionali. In questo può vedersi un mutamento della stessa
nozione di istinto - in parte attribuibile al clima creato dalla
filosofia di Henri Bergson -, non più visto come predisposizione a
dati tipi di comportamento legata al meccanismo evolutivo, ma come
forza ultrarazionale o irrazionale che, pur necessaria a fondare la
coesione di gruppo, impedisce, ove non intervengano mutazioni
genetiche del tipo di quelle intervenute nella razza bianca, lo
sviluppo di una razionalità cosciente.
Su questa base il razzismo si collegò alla teorizzazione
dell'imperialismo, come nel caso dell'antropologo Alfred C. Haddon,
il cui The study of man (1898) collega l'osservazione sul campo alle
teorie istintuali ed eugenetiche, per concludere che vi è una
connessione diretta fra struttura fisica delle razze e cultura, e
che fra le razze e le nazioni si istituisce una gerarchia naturale
di comando legata alle rispettive caratteristiche psicofisiche.La
parabola dal socialdarwinismo liberale a quello imperialista e
razzista si svolse in parallelo alla crisi del liberalismo classico
e al polarizzarsi della lotta politica inglese, che portò da un lato
alla nascita del Partito Laburista e dall'altro a un conservatorismo
che tradusse la diffidenza liberale verso la democrazia in una
reazione spaventata davanti all'avanzare delle masse, nemiche della
civiltà e manipolabili in vista della sua distruzione perché
geneticamente regressive.Con queste teorie il naturalismo
evoluzionista veniva a risolversi in una geremiade sulla decadenza
della società occidentale.
4. Il darwinismo sociale negli Stati Uniti
Negli Stati Uniti l'applicazione dell'evoluzionismo alle teorie
sociali seguì una scansione storica simile a quella inglese; ma ebbe
toni tanto conflittuali da farne la nazione ove lo stereotipo
conservatore del socialdarwinismo raggiunse la maggior diffusione.
Dagli anni sessanta ai primi anni ottanta del secolo scorso il
darwinismo, il cui implicito materialismo scardinava i presupposti
della cultura intensamente cristiana d'oltreatlantico, parve il
corrispondente intellettuale delle forze apparentemente caotiche che
stavano trasformando gli Stati Uniti in potenza industriale
sconvolgendone la società.
Tuttavia la profonda fede americana nel progresso e la tradizionale
alleanza fra protestantesimo e baconianesimo consentirono di
recepire il darwinismo, ma solo dopo averlo 'tradotto' nei termini
di un processo teleologico leggibile in chiave religiosa.
L'operazione, iniziata dal principale teologo presbiteriano, James
McCosh (Christianity and positivism, 1871), che accettò
l'evoluzionismo, anche se soltanto per il mondo animale, venne
portata a termine dal predicatore Henry Ward Beecher, il cui
Evolution and theology (1883) interpretò la redenzione come
evoluzione dell'uomo dallo stato animale allo stato spirituale,
obliterando in pratica la nozione di peccato originale.
L'assimilazione dell'evoluzionismo avvenne, però, soprattutto
attraverso lo spencerismo, in quanto la 'filosofia sintetica' era
più facilmente riconducibile a una visione cristiana, o almeno
teistica, e il lamarckismo di Spencer veniva visto con favore da una
cultura che sull'interazione con la natura fondava la propria morale
individualistica di autenticità e di duro lavoro. Edward L. Youmans,
fondatore nel 1872 di "Popular science monthly", e suo fratello
William furono i principali portavoce dello spencerismo, con cui
intendevano costruire una morale scientifica in grado di mettere
ordine nel caos che industrializzazione, urbanizzazione e
immigrazione provocavano nel tessuto sociale. Al pari dei liberali
inglesi, anche se in un contesto assai diverso, essi interpretavano
la lotta per l'esistenza in termini morali più che economici, in ciò
affiancati dal popolarissimo John Fiske, il cui spiritualismo indica
la svolta che la cultura americana impresse al positivismo.
In Outlines of cosmic philosophy (1874) egli introdusse l'idea di un
Dio immanente nelle operazioni della natura e negò, con Wallace,
l'applicabilità della selezione naturale all'uomo, il meccanismo
della cui evoluzione scorse nella sua capacità di trasmettere
cultura ai figli.L'assimilazione dell'evoluzionismo all'ideologia
americana del progresso, pur potendosi ritenere un fatto compiuto a
partire dagli anni ottanta, si scontrò con i problemi
dell'individualismo liberale in modo ancor più netto di quanto non
avvenne in Inghilterra. L'ideologia dominante, che legava
indissolubilmente individualismo e democrazia, parve infatti
sfaldarsi negli ultimi decenni dell'Ottocento, di fronte al
prepotente crescere di gruppi economici il cui potere sembrava
negarli entrambi, all'alterazione dei ruoli sociali e
all'immigrazione di massa da paesi di cultura assai diversa da
quella anglosassone. Un capitalista eterodosso come il magnate
dell'acciaio Andrew Carnegie, preoccupato per le conseguenze sulla
democrazia della sfrenata lotta in campo economico, volle combinare,
in The gospel of wealth (1889), spencerismo e ideale cristiano del
'servizio' al fine di dare un ruolo socialmente positivo ai grandi
industriali; ma il suo tentativo non ebbe seguito.
La critica sociale identificò, infatti, individualismo e darwinismo
e, pur mantenendosi nell'alveo dell'evoluzionismo, attaccò
l'applicazione della selezione naturale alla società umana e, in
particolare, l'autore divenuto simbolo del socialdarwinismo
conservatore, William Graham Sumner.Sumner era, in realtà, un
pensatore in buona parte autonomo da Spencer e Darwin. Rigido
positivista, malthusiano, egli intese indagare le leggi scientifiche
dell'evoluzione al fine di comprendere gli sconvolgimenti in corso
in una prospettiva universale. Il suo contributo alla teoria sociale
dell'evoluzione consistette nel distinguere la 'lotta per
l'esistenza' che, in termini malthusiani, la razza umana combatte
contro la natura, dalla 'concorrenza' fra gli uomini, che è un fatto
sociale.
In What social classes owe to each other (1883) egli ne dedusse che
la prima è una lotta socializzante, nella quale i gruppi sono spinti
a rafforzare la propria coesione interna, la seconda, invece, nasce
dal fatto che molti individui non posseggono le virtù del sacrificio
e dell'autodisciplina necessarie a sopravvivere utilmente e debbono
pertanto scomparire. L'antagonistic cooperation su cui, a suo
parere, si fonda la società lo portò su quelle posizioni di laissez
faire e di assoluto antistatalismo che spinse i riformatori a
costruire su di lui la categoria polemica del socialdarwinismo; ma
gli consentì anche di studiare i 'costumi' elaborati dai gruppi per
mantenere la coesione sociale. Da ciò nacque il suo capolavoro,
Folkways (1906), che lo pone fra i pionieri della sociologia
novecentesca. Quest'opera giunse, però, quando si erano ormai
consolidati sia la sua fama di conservatore, sia il suo pessimismo
circa la democrazia, legato al sorgere dell'imperialismo e al
declino dei 'virtuosi' cittadini della classe media di fronte
all'incalzare dei grandi capitalisti.
Gli attacchi a Sumner e a quanti vedevano l'evoluzione umana come il
prodotto della sopravvivenza del più adatto nel mercato provennero
dai riformatori utopisti, quali Henry George e Edward Bellamy, dai
teologi progressisti del Social gospel, come Washington Gladden, e
dagli scienziati sociali che, negli Stati Uniti, fecero la loro
comparsa durante gli anni ottanta e novanta. Tutti definirono il
darwinismo individualista una teoria materialista e fatalista che
sottoponeva l'uomo alla regola della vittoria del più forte e negava
il solidarismo che essi consideravano necessario a superare il caos
sociale. Ciò nonostante rimasero evoluzionisti, anche se cercarono
di spingere la teoria evoluzionista verso approdi cristiani
servendosi di Wallace e di St. George J. Mivart. Fra tutti spicca
Lester Frank Ward, padre della sociologia americana, che respinse il
biologismo del survival of the fittest a favore di un approccio
psicologico basato su fondamenti neolamarckiani.
In Dynamic sociology (1883), Pure sociology (1903), Applied
sociology (1906) egli distinse nettamente fra la dispendiosa, lenta
e conflittuale evoluzione genetica che si dà in natura e quella
'telica', cosciente ed efficiente propria dell'uomo. Sebbene
quest'ultima non possa fare a meno del conflitto e della selezione
fra individui e razze - un punto su cui Ward segue i sociologi
austriaci Gumplowicz e Ratzenhofer -, il processo telico sostituisce
a poco a poco quello genetico e ciò porta a una crescita della
solidarietà che, come dimostra il sorgere di servizi pubblici e di
un sistema di istruzione pubblica, punta verso una sociocrazia
razionale ed efficiente che costituisce il futuro prossimo
dell'umanità. Accanto a lui gli economisti della scuola storica,
come Richard T. Ely, e gli altri maggiori esponenti della nascente
sociologia, da Edward A. Ross ad Albion Small, si servirono di
un'impostazione evoluzionistica per approdare all'idea che
l'evoluzionismo liberale, che restava il loro punto di riferimento,
per non cadere nella barbarie del dominio del più forte o nella
lotta di classe deve servirsi di 'meccanismi artificiali', cioè di
istituzioni razionali affidate a esperti capaci di organizzare in
modo efficiente i singoli comparti della vita sociale.
Con teorie di questo genere un'importante corrente
dell'evoluzionismo americano superò l'impasse in cui vennero a
trovarsi i darwinisti liberali inglesi, i quali, per aver voluto
rimanere tecnicamente all'interno dei principî dell'evoluzionismo
biologico, non riuscirono a trovare risposte alla svolta provocata
dal conflitto di classe, che aveva dato carattere eversivo alla
concorrenza economico-sociale fra gli individui postulata come fonte
di ordine dal liberalismo classico. Meno rigorosi, gli evoluzionisti
d'oltreatlantico si rivelarono più creativi e svilupparono teorie
sociali che, abbandonando gradualmente il naturalismo biologico a
favore di approcci psicosociologici, si dimostrarono in grado di
misurarsi con le trasformazioni in corso e con gli aspetti
potenzialmente eversivi della lotta politica, ideando riforme
tecnocratiche e solidaristiche che divennero tipiche del liberalism
americano.
A questo proposito è senza dubbio utile ricordare che da radici
evoluzioniste uscì anche la filosofia pragmatista; così come non si
può dimenticare il più originale economista americano del periodo,
Thorstein Veblen, il cui contributo al superamento dell'economia
classica in direzione di un approccio istituzionale (The theory of
the leisure class, 1899) nacque da un'analisi, di ispirazione
darwiniana, del susseguirsi storico delle istituzioni economiche,
determinate da interessi economici anch'essi da storicizzare in base
ai principî della selezione naturale.
Quanto detto finora non significa che negli Stati Uniti, così come
in Inghilterra, non ci sia stato fra i due secoli un darwinismo
sociale razzista e imperialista. Oltreatlantico la tematica
evoluzionistica della gerarchizzazione delle razze e delle culture -
denunciata da McCosh - assunse aspetti di drammatica attualità a
causa dell'immigrazione e del problema negro. La prima spinse i
maggiori fra i sociologi, come Ward e Ross, a teorizzare
l'organizzazione efficiente della società anche per impedire la
sovversione della cultura americana da parte di immigrati
culturalmente o razzialmente inferiori. Il secondo, negli anni in
cui si risolveva il problema politico dei rapporti fra Bianchi e
Negri con la segregazione razziale, diede vita a due correnti di
pensiero evoluzionista.
Una, dai toni neolamarckiani, vedeva la possibilità di una rapida
evoluzione per i Negri attraverso l'educazione (Charles A. Ellwood,
Sociology and modern social problems, 1910). L'altra, della biologia
neodarwiniana, la negava sostenendo, con Frederick L. Hoffman
(Trends and tendencies of the American negro, 1896) e William Smith
(The color line, 1905), che ogni forma di aiuto economico o politico
ai Negri andava contro i loro stessi interessi evolutivi, che, in
nome della selezione naturale, consistevano nella progressiva
eliminazione di tutti gli individui di razza negra psichicamente
inadatti.
Negli ultimi due decenni del secolo il nazionalismo statunitense,
costruito attorno all'idea del 'destino manifesto' degli Americani
di portare a perfezione la democrazia, secondo la volontà divina,
prese a nutrirsi di idee legate alla missione civilizzatrice degli
anglosassoni. In questa direzione mosse Fiske, che notava come
fossero stati i popoli di lingua inglese a creare lo stadio
evolutivo più avanzato, quello della società industriale. Nel 1885
gli fece eco il pastore Josiah Strong che, con Our country,
intendeva sostenere lo sforzo missionario protestante nel mondo per
giungere a una federazione di popoli guidati da quelli di cultura
inglese. Simili tesi costituiscono l'humus dello specifico
imperialismo americano, in cui i motivi economici si sommano alla
volontà di democratizzare secondo il modello statunitense i popoli
meno avanzati.
Un humus che sottende i temi del dibattito sull'annessione o meno
delle colonie spagnole conquistate con la guerra del 1898 e che si
ritrova negli scritti dei teorici della nascente potenza navale
americana, Stephen B. Luce e Alfred T. Mahan. Con The influence of
sea power upon history, 1660-1783 (1890) di Mahan siamo, però, ai
limiti estremi in cui il socialdarwinismo si stempera in un
linguaggio evoluzionista che fa semplicemente da supporto a un
approccio politico originale, quello geopolitico: a riprova di
quanto detto sulla diffusione di un paradigma culturale che con il
pur sfuggente metodo socialdarwinista non è affatto identificabile.
5. Il darwinismo sociale nell'Europa continentale
L'evoluzionismo divenne una 'lingua franca' anche nell'Europa
continentale. Qui, però, interagì con tradizioni politiche e
culturali assai diverse da quelle angloamericane, per cui, sebbene
in Inghilterra e negli Stati Uniti venissero spesso definiti come
'socialdarwinisti' il nazionalismo e l'espansionismo tedeschi,
risulta difficile parlare di un coerente darwinismo sociale, anche
nei termini generali in cui se ne è trattato finora.La Francia fu
senza dubbio la nazione che, per la sua tradizione positivista, si
appropriò con maggiore efficacia del darwinismo, che assunse un
ruolo rilevante nell'ideologia repubblicana della III Repubblica. Si
trattò di una recezione che, per quanto ufficializzata dalle
direttive del Ministero della Pubblica Istruzione per l'insegnamento
scientifico e sociale, non fece del darwinismo lo strumento
concettuale di un tentativo di rinnovata analisi teorica, come
avvenne per i liberali inglesi, ma lo usò all'interno di teorie già
costituite. La profonda tensione fra i termini liberté e fraternité,
propria del repubblicanesimo e che questo risolse esaltando il
secondo attraverso il nazionalismo e mantenendo il primo in campo
economico, in un contesto di secolarizzazione della società e di
statalismo burocratico, si rifletté in un uso dell'evoluzionismo in
cui la solidarietà acquistò preminenza sul conflitto
interindividuale.
Così Clémence-Auguste Royer, la prima traduttrice di Darwin (1862),
accettò l'evoluzionismo ai fini di una forte polemica antireligiosa
e per sostenere il laissez faire, ma nelle opere successive, fino a
Le bien et la loi morale (1881), diede sempre maggior spazio alla
subordinazione degli interessi individuali a quelli collettivi e
alla solidarietà nazionale, necessaria alla Francia nella
competizione con gli altri Stati. Questa posizione, intesa a
combattere sia la destra che la sinistra, si ritrova negli scritti
di uomini politici come Clémenceau e Jules Ferry e venne tradotta in
termini darwiniani e spenceriani da pubblicisti quali Alfred
Fouillée e Ferdinand-Camille Dreyfus. Un ancor più forte accento
sugli esiti solidaristici dell'evoluzione si trova fra i
repubblicani radicali, il cui principale esponente, Léon Bourgeois,
proclamò in Solidarité (1896) che l''unione', non la lotta per la
vita, era il principio sociale evolutivamente adatto al mondo
contemporaneo.
La compenetrazione tra idee darwiniane e spenceriane e ideali
repubblicani, nonché la posizione ufficiale dell'evoluzionismo nella
cultura dominante di fine secolo non devono far dimenticare che è al
di fuori dei circoli repubblicani che troviamo i tre autori ai quali
i contemporanei attribuirono l'appellativo di 'darwinisti sociali'.
Il sociologo cattolico Edmond Demolins, in À quoi tient la
supériorité des Anglo-Saxons? (1897), assunse il punto di vista
della selezione naturale per invitare i Francesi ad abbandonare il
tradizionalismo e accettare in politica, come in economia e
nell'educazione, il vigile individualismo anglosassone al fine di
modificare il loro carattere nazionale e divenire più competitivi.
Gustave Le Bon non accettò l'approccio culturale di Demolins e seguì
la via di un rigido determinismo biologico che lo portò a sostenere
l'inevitabilità del conflitto nella storia umana.
Egli, quindi, non solo accettò l'antistatalismo in nome della
sopravvivenza del più adatto, ma, in Les premières civilisations
(1889), sostenne contro Spencer che la guerra è evolutivamente
necessaria e in Lois psychologiques de l'évolution des peuples
(1894) si rifece ancora al determinismo biologico per stabilire,
contro i teorici dell'interazionismo ambientale, la superiorità
genetica della razza indoeuropea. Nella sua opera più famosa, La
psychologie des foules (1895), infine, trattò la decadenza delle
civiltà, che si verifica quando, come nelle democrazie di massa,
l'individualismo cede il passo alle folle, irresponsabili,
manipolabili e pronte ad arrendersi allo Stato.Le Bon segna la
svolta verso quel superamento del liberalismo classico che abbiamo
visto incidere profondamente anche sul mondo angloamericano.
Nello smarrimento che accompagnò questo fenomeno si diedero
commistioni teoriche il cui principale risultato fu l'attacco a ogni
forma di democrazia e di eguaglianza. Esempio di tali commistioni fu
Georges Vacher de Lapouge, la cui convinzione circa l'ineguaglianza
fra gli uomini come conseguenza della selezione naturale lo portò
per un certo periodo al socialismo, nella speranza che esso avrebbe
rimosso le forme di selezione sociale - religione, economia, guerra
- che nelle società moderne impediscono quella naturale.
Successivamente, però, con L'Aryen (1899), egli mosse verso un
programma eugenetico radicale, destinato a rafforzare i dolicocefali
assediati dalle inferiori razze brachicefale. Con le sue "undici
leggi dell'antroposociologia" Vacher de Lapouge divenne uno dei
principali esponenti del razzismo europeo e sviluppò anche un acceso
antisemitismo, individuando negli Ebrei, razza 'artificiale' perché
fondata solo sulla cultura, gli unici potenziali avversari del
dolicocefalo Homo europaeus.Il mondo tedesco non si sottrasse
all'influenza dell'evoluzionismo.
Tuttavia, per le condizioni politiche ed economiche degli Imperi
germanico e austroungarico e per la scarsa omogeneità tra le loro
principali correnti culturali e l'individualismo liberale,
l'evoluzionismo naturalista non vi divenne matrice di
un'elaborazione teorica dominante nel campo delle scienze sociali.
Esso dovette, pertanto, adattarsi e incorporarsi nella complessa
trama esistente, tanto che risulta obiettivamente difficile, a causa
della loro complessa matrice, definire socialdarwiniste, se non in
senso polemico, le teorie sulla grandezza germanica di autori quali
il generale Friedrich von Bernhardi o l'antropologo Felix von
Luschan, che pur esaltarono la guerra servendosi del concetto di
lotta per l'esistenza, teorie che i contemporanei etichettarono come
socialdarwiniste. Conviene allora estrapolare alcune tendenze
dall'intricato disegno del periodo.
La prima è la commistione, assai più accentuata che altrove, fra
evoluzionismo e organicismo (basti pensare all'opera di Albert
Schäffle, Bau und Leben des sozialen Körpers, 1875-1878); la seconda
è l'accento posto sul conflitto fra gruppi a preferenza di quello
fra individui; la terza è il ripudio o almeno il sospetto nei
confronti della metafisica naturalistica che costituisce il nucleo
del positivismo evoluzionista. Su queste basi l'evoluzionismo venne
incorporato nella cultura tedesca; il che non toglie sia possibile
individuare una corrente di pensiero positivista, erede della
tradizione materialistica tedesca, che più di ogni altra si avvicina
alle elaborazioni darwiniane. Il biologo Ernst Haeckel
(Anthropogenie oder Entwicklungsgeschichte des Menschen, 1874; Die
Lebenswunder, 1904) e il chimico Wilhelm Ostwald (Der energetische
Imperativ, 1912) formularono, infatti, teorie universali
dell'evoluzione nelle quali l'uomo era descritto come il fine del
processo evolutivo e la scienza come la massima espressione delle
sue capacità, lo strumento con cui costruire la pace sotto la guida
delle nazioni più avanzate e, per Haeckel, sotto quella di
aristocrazie biologiche.
Un'identica fede nella scienza e nel progresso si ritrova nell'opera
di Franz Carl Müller-Lyer, il quale, prendendo le mosse dalle
concezioni di Spencer e Morgan, tentò di delineare le fasi dello
sviluppo della cultura umana, il cui meccanismo evolutivo egli
ritrova nell'effetto liberatore dei contatti, pur spesso violenti,
fra gruppi umani.Questo tema, tratto da Ludwig Gumplowicz, ci
riporta alla sociologia austriaca del conflitto, la più influente
scuola evoluzionista germanica, di cui lo stesso Gumplowicz, insieme
a Gustav Ratzenhofer, fu il principale esponente. Gumplowicz
(Grundriss der Soziologie, 1885; Die soziologische Staatsidee, 1892)
definì la sociologia come la scienza dell'interazione fra i gruppi e
delineò l'evoluzione del processo interattivo dall'orda primitiva
fino allo Stato, servendosi di un modello conflittuale fondato sulla
lotta per l'esistenza.
Influenzato da Comte e da Gobineau, oltre che da Darwin, negò
l'inevitabilità del progresso e, pur individuando nello Stato una
forma evolutivamente superiore, aderì a una visione ciclica della
storia. Ratzenhofer (Wesen und Zweck der Politik, 1893; Soziologie:
positive Lehre von der menschlichen Wechselbeziehungen, 1907) si
colloca in una posizione prossima a quella di Gumplowicz e incentra
la sua analisi sull'ostilità evolutivamente inevitabile fra gli
uomini, da cui trae la conseguenza di una necessaria gerarchia fra
le razze e le nazioni; tuttavia conserva la fiducia nel progresso,
capace di trasformare conquista e sfruttamento in una partecipazione
equa e attiva di tutti ai vantaggi della civiltà.
Un cenno finale merita lo psicologo Wilhelm Wundt, fondatore
dell'evoluzionismo spiritualista. Wundt non appartiene certo
all'ambito del darwinismo sociale, ma è un esempio - come Hobhouse
in Inghilterra - dell'intreccio che si venne a creare fra
evoluzionismo e altre correnti di pensiero fino all'esaurirsi del
nocciolo naturalista e positivista del primo. Per Wundt, infatti,
l'evoluzione consiste in un processo di 'sintesi creativa' da cui
emergono formazioni psichiche nuove e sempre più alte che danno
luogo ai valori (Logik, 1880-1883). Di conseguenza, il progresso si
realizza attraverso i motivi psicologici che agiscono nei singoli e
nelle comunità, e la storia può essere considerata una forma di
psicologia applicata (System der Philosophie, 1889; Elemente der
Völkerpsychologie, 1912).
Il caso dell'Italia è tutto sommato periferico nell'ambito europeo,
anche se è indubbio che positivismo ed evoluzionismo giocarono un
ruolo importante nella modernizzazione della cultura italiana
postunitaria. In questo quadro non è facile trovare contributi
originali al darwinismo sociale, né a quello liberale, né a quello
razzista o imperialista. La vocazione tutto sommato moderata della
cultura italiana è compendiata nell'atteggiamento prudente di
Giovanni Canestrini, primo traduttore (1864) e principale
sostenitore di Darwin in Italia, il quale in rare occasioni accettò
di discutere le conseguenze sociali del darwinismo, che riteneva, a
ogni modo, puntassero nella direzione di un riformismo
socialisteggiante (Per l'evoluzione, 1894).
Nell'ampia, anche se non innovativa, letteratura è chiara la
tendenza ad accentuare gli aspetti cooperativi, più che quelli
conflittuali, dell'evoluzione. Così nel caso di Paolo Mantegazza,
per il quale la legge universale dell'evoluzione realizza un'idea
umanistica di progresso, come in quello di Michelangelo Vaccaro (La
lotta per l'esistenza e i suoi effetti per l'umanità, 1901), che
considera inaccettabile l'idea che l'adattabilità a un determinato
ambiente costituisca un criterio di valore per determinare chi è
migliore, onde nel mondo umano la competizione non deve prevalere su
ogni altra considerazione, o, infine, nel caso di Enrico Ferri
(Socialismo e scienza positiva, 1894), noto a livello internazionale
per aver sostenuto la compatibilità tra Darwin, Spencer e Marx,
nonché gli esiti socialisti dell'evoluzionismo.
I due nomi a cui resta legata la memoria del positivismo
evoluzionistico italiano sono, però, quelli del filosofo Roberto
Ardigò e del criminologo Cesare Lombroso. Quest'ultimo è quello a
cui meglio si adatta la qualifica di socialdarwinista. Ardigò, pur
muovendo da Spencer, propose una fondazione psicologica, non
biologica dell'evoluzione, che riteneva fosse un continuo processo
per cui l'"indistinto" diviene distinto, pur rimanendo sempre un
ineliminabile orizzonte che, a suo parere, dovrebbe sostituire
l'"inconoscibile" di Spencer (La psicologia come scienza positiva,
1870; La dottrina spenceriana dell'inconoscibile, 1898). Lombroso,
fondatore dell'antropologia criminale, trasse da basi strettamente
biologiche ed evoluzionistiche la teoria dell'atavismo, secondo la
quale in gran parte dei criminali si ripresentano i caratteri di
antenati remoti della specie umana, per cui i criminali stessi
rappresenterebbero un caso di evoluzione regressiva (L'uomo
delinquente, 1876). Nelle sue opere troviamo influssi diversi, anche
predarwiniani (la teoria della ricapitolazione e la teratologia, ad
esempio), un'ulteriore prova della complessità del naturalismo
ottocentesco. Proprio per questo Lombroso resta un esponente dei più
tipici della cultura positivista europea, come testimonia la
notorietà internazionale da lui raggiunta.
6. Socialdarwinismo e
socialismo
Non è contraddittorio con l'impostazione data a queste pagine
dedicare alcune considerazioni al rapporto fra socialdarwinismo e
socialismo, pur essendo vero che fra le due correnti vi fu una sorta
di guerra naturale. Basti ricordare, nell'Ottocento, lo sprezzante
appellativo di "grande eunuco" dato da Antonio Labriola a Spencer e
gli attacchi di Filippo Turati a Lombroso a proposito della natura
sociale della delinquenza; nonché, nel secondo dopoguerra, il tono
liquidatorio con cui György Lukács denunciò la natura ideologica
dell'evoluzionismo sociale e del suo tentativo di oggettivare
naturalisticamente il conflitto di classe. Ciò nonostante, il
darwinismo, che negava l'idea dell'uomo come imago Dei e metteva in
crisi quella di un disegno divino nella natura, non poteva non
interessare gli autori socialisti. Karl Marx colse proprio questi
punti e Friedrich Engels riprese i temi di The descent of man, così
come sposò l'antropologia di Morgan. Entrambi confutarono, però,
l'automatica trasposizione alla società dei principî della selezione
naturale, che avrebbero portato a un individualismo antidialettico e
ideologico. Su questo tema si soffermò appunto Engels
nell'Anti-Dühring (1878), nel momento stesso in cui ribadiva un
approccio di tipo naturalista ed evoluzionista.
I
l complesso rapporto fra darwinismo e dialettica in Engels e Marx
diviene più fluido in altri autori. Ciò è particolarmente vero per
Karl Kautsky, il quale mosse da Haeckel a Darwin alla ricerca di una
soluzione materialista al problema dell'origine dei sentimenti
morali e della solidarietà di gruppo, e da qui pervenne al marxismo
e a una concezione della storia come insieme di leggi oggettive che
si svolgono con necessità naturale (Ethik, 1906; Die materialische
Geschichtsauffassung, 1927). La facilità con cui Kautsky intreccia
darwinismo e marxismo lo porta a una sorta di determinismo storico
parallelo a quello spenceriano e non allontana il sospetto che egli
abbia abbracciato con eccessiva spigliatezza due prospettive
teoriche sostanzialmente contrastanti. Diverso è il caso di quegli
autori, revisionisti o ai margini del marxismo, che da Darwin e
dalle sue teorie sulle origini della solidarietà di gruppo trassero
conseguenze favorevoli al socialismo. Gli esempi sono numerosi, a
partire dal famoso scontro a distanza fra Haeckel e Rudolf Virchow
del 1878, in cui quest'ultimo, pur non essendo socialista, difese
contro il primo la compatibilità fra darwinismo e socialismo, al
nostro Ferri, all'economista belga Émile de Laveleye, che,
attaccando Spencer, fu tra i primissimi a usare l'espressione
"darwinismo sociale" (L'État et l'individu, 1885), al francese
Georges Renard (Régime socialiste, 1898), all'americano Ernest
Untermann (Science and revolution, 1905).
L'elenco potrebbe continuare e dovrebbe comprendere il socialismo
inglese, che, interpretando la rivoluzione essenzialmente come
fenomeno morale, si sposa al fabianesimo. La più forte e
internazionalmente nota valutazione della natura darwiniana del
principio cooperativo venne dall'esule anarchico russo Pëtr
Kropotkin, che, in una serie di saggi culminati in Mutual aid
(1902), intese capovolgere la tesi di Huxley sull'ostilità fra
natura e cultura, dipingendo della prima una immagine benevola in
cui si moltiplicano gli esempi di cooperazione all'interno delle
diverse specie, per giungere ad affermare la necessità evolutiva del
mutual aid anche per la specie umana.
7. Conclusioni
L'excursus fin qui compiuto è stato diretto a mostrare che le
cautele della storiografia più recente sulla concettualizzazione del
darwinismo sociale sono essenzialmente corrette, ma che è, tuttavia,
possibile individuare, all'interno del naturalismo scientifico
ottocentesco, un approccio definibile socialdarwinista. Tale
approccio fu uno dei prodotti della volontà positivista di dar vita
a una visione del mondo fondata su un insieme integrato di grandi
leggi scientifiche capaci di spiegare e organizzare razionalmente i
diversi ambiti della vita umana. Di conseguenza esso divenne
strumento - non unico - del processo di secolarizzazione della
cultura europea e di ridefinizione del significato di quest'ultima
in rapporto alle culture che gli Stati europei incontravano nella
loro espansione coloniale e imperialista.
A partire da queste proposizioni generali è possibile cogliere la
vicenda socialdarwinista, nei suoi complessi e contraddittori
incroci fra scienza, ideologia e politica, come parabola di un
approccio che si rivelò fecondo, ma al tempo stesso incapace di
darsi un'organizzazione coerente e in grado di ricomprendere in sé i
rapidi mutamenti politici e scientifici che si diedero nei decenni
fra Ottocento e Novecento.Del tutto assodata appare ormai la matrice
liberale e liberalizzante, non conservatrice, del darwinismo
sociale, così come il carattere etico del suo individualismo
razionalista e secolare. I socialdarwinisti liberali instaurarono,
infatti, una stretta analogia fra principio biologico della
selezione naturale e principio economico del mercato sulla base di
quello che per loro era un fondamento creatore di moralità presente
in entrambi: la sempre maggior razionalità di comportamento che i
due principî provocano nei singoli. Non sminuisce quanto appena
detto il riconoscere la natura ideologica assai più che scientifica
di tale analogia; anzi, ciò contribuisce a farne cogliere tutto lo
spessore politico.
Altrettanto vero è che la rigida applicazione dell'analogia, nonché
del principio naturalista dell'assoluta continuità fra evoluzione
naturale e umana, impedì di dare un fondamento scientificamente
valido alle specifiche caratteristiche umane della volontarietà
dell'azione e della socialità. Il principio dell'altruismo,
identificato da Spencer e Darwin, non poteva, infatti, bastare a
colmare l'assenza nell'evoluzionismo di una specifica teoria della
società e della cultura. Cosa che non mancarono di rilevare né Marx,
né il fondatore dell'antropologia funzionalista, Franz Boas. Le
conseguenze di questa strozzatura - già rilevata, e risolta in senso
spiritualista, da Wallace - balzarono alla ribalta con la crisi
dello Stato liberale negli anni ottanta e novanta, che spezzò
l'originario tentativo di sintesi socialdarwinista proiettandone i
frammenti, come si è visto, nelle direzioni più diverse.
Esemplare risulta, da questo punto di vista, il caso statunitense in
cui i riformatori si servirono del socialdarwinismo per la loro
"rivolta contro il formalismo" delle scienze giuridiche, economiche
e politiche del liberalismo classico (v. White, 1949). Da essa
scaturirono - debitrici dell'impianto evoluzionistico, anche se a
esso ormai estranee - la visione processuale della società tipica
del pragmatismo di John Dewey e quella del riformismo progressista
di Herbert Croly e Walter Weyl, che intese contemperare difesa
dell'individualismo e presenza della mano pubblica a sostegno dei
diritti sociali del singolo e di quelli della comunità. È vero, come
abbiamo visto, che del progressismo americano fecero parte anche
teorie sulla superiorità culturale e razziale dei Bianchi e, in
particolare, degli anglosassoni; il che deve renderci edotti del
fatto che il pregiudizio culturale e razziale fu uno dei presupposti
e degli esiti necessari della ricostruzione dell'identità europea,
in cui il socialdarwinismo ebbe parte essenziale.
Ciò che s'intende qui rilevare è che l'approccio socialdarwinista
non si esaurisce in esso, anche se lo perseguì e se sue componenti
lo teorizzarono fino alle estreme conseguenze.Il tentativo di
applicare alle scienze sociali i principî del naturalismo
evoluzionista risulta, pertanto, essere stato un episodio ad ampio
spettro e dalle molteplici implicazioni, centrale non tanto per le
scienze sociali, quanto per la cultura sociale e politica europea,
e, come tale, merita di essere studiato con attenzione. Se non lo si
deve giudicare né una teoria, né una scuola, lo si può utilmente
considerare come ambito di ricerca storica diretto a illuminare un
nodo delle vicende dell'Ottocento europeo.