1. La c. nella filosofia antica e medievale
La c. nella filosofia antica è concepita come un processo le cui modalità vengono diversamente interpretate: secondo la concezione di Pitagora, ripresa successivamente da Eraclito e da Empedocle, c. è azione di un elemento omogeneo su un altro (si conosce il «simile con il simile»), mentre per Anassagora gli elementi in questione risultano opposti (si conosce infatti il «contrario con il contrario»). Platone, riprendendo la problematica dei presocratici, svolge compiutamente una teoria della c. come identificazione, fissando altresì l’oggetto di essa: su questa base diventa possibile distinguere la c. vera e valida dalla e nel contempo ammettere una serie di gradi dell’attività conoscitiva a seconda del grado di realtà degli oggetti che essa coglie: vera c. è quella delle idee; essa si rivolge all’essere e nella sua forma più alta è c. del bene. Anche Aristotele intende la c. come identificazione, processo che si risolve nell’identità del soggetto che conosce e dell’oggetto che è conosciuto, e oggetto della c. è l’essere, considerandosi nel contempo come c. vera soltanto quella che coglie l’universale.
La tesi per cui la c. è processo d’identificazione si mantiene sostanzialmente immutata sia nella speculazione post-aristotelica sia nella scolastica. Per Alberto Magno la c. è assimilazione («simili simile cognoscimus»), per s. Tommaso adeguazione.
2. La c. nella filosofia moderna
Per R. Descartes, in cui possono rintracciarsi spunti platonici, di quel platonismo che trova sviluppo in teorie come quella dell’illuminazione di s. Agostino (c. immediata di sé stessi e della verità per illuminazione divina), la c. è essenzialmente un ‘vedere’: il suo oggetto è l’idea, le cui caratteristiche sono la chiarezza e la distinzione, mentre il suo correlato fondamentale è l’evidenza. Questa riduzione della c. a conoscenza di idee non altera comunque la base realistica della concezione gnoseologica cartesiana, dato che l’idea è concepita per lo più come immagine della realtà. Descartes ammette tuttavia un altro strumento di c., cioè la deduzione, che se è in qualche modo riconducibile all’‘intuito’, rende però possibile la c. dell’ordine e della successione.
La distinzione, effettuata da B. Spinoza, di vari tipi di c. si fonda su un’analoga concezione, e così la problematica di una c. adeguata o inadeguata. G.W. Leibniz considera accanto a una c. a priori anche una c. delle rappresentazioni, consistente nella concordanza di queste con le cose. Se lo schema è ancora quello identificatorio, la c. è vista tuttavia non solo come identificazione con i singoli elementi, ma anche, in senso lato, con l’ordine che tra di essi si costituisce. Per J. Locke piuttosto che in una non verificabile adeguazione, la c. consiste nella reciproca connessione delle rappresentazioni; analogamente G. Berkeley concepisce la c. come connessione di rappresentazioni conforme a norme; D. Hume riduce la c. a connessioni di rappresentazioni in base all’esperienza, spiegate con l’abitudine.
Per I. Kant la c. è una complessa interazione di sensibilità e spontaneità, elementi a posteriori ed elementi a priori, un’operazione di sintesi. Le leggi a priori delle connessioni conoscitive sono le leggi stesse di una realtà che non è più vista come trascendente, ma come fenomenica. Conseguentemente l’oggetto non è oggetto assoluto, cosa in sé, ma fenomeno. Per J.G. Fichte invece, e per l’idealismo tedesco in generale, la c. è vista come processo che pone o produce il proprio oggetto: in questo caso, attuata l’eliminazione di qualsiasi realtà al di fuori del soggetto conoscente, si avrà esclusivamente un’interazione dell’io con sé medesimo. Nella filosofia di G.W.F. Hegel, il conoscere è l’attività in cui si realizza l’unità del soggettivo e dell’oggettivo, momento del venire a sé stesso dell’Assoluto come idea.
Persino la teoria linguistica del primo L. Wittgenstein presuppone una teoria della c. come identificazione, sulla base di un’impostazione realistica tradizionale di tipo aristotelico. Radicalmente diversa la posizione di E. Husserl, per il quale la c. è un rapportarsi all’oggetto, in cui questo si «presenta» nella sua datità originaria; come «riempimento di un’intenzione significativa» essa solo allora è evidente, quando l’oggetto sia dato intuitivamente. Allo schema dell’identificazione con l’oggetto si sostituisce quello del «venire in presenza» e al suo modo di darsi (Gegebenheits;weise), diverso a seconda delle diverse zone ontologiche, si fa corrispondere un tipo diverso di conoscenza.
Una ripresa di teorie kantiane è invece la posizione della scuola di Marburgo, specie quella di E. Cassirer (influenzata dagli sviluppi della scienza e dalle riflessioni epistemologiche), per cui la c. è il processo che consente il passaggio dall’immediatezza della sensazione e della percezione alla ‘mediatezza’ di categorie puramente mentali, processo mai compiuto, in cui le variabili dell’esperienza sono continuamente sostituite da costanti, in una connessione funzionale dei dati.
Sia in M. Heidegger, che sviluppa in modo peculiare alcune suggestioni fenomenologiche, sia nel pragmatismo di J. Dewey, il problema della c. come rapporto tra soggetto e oggetto sembra definitivamente superato. Per il primo, la c., vista come ‘trascendenza’ verso l’oggetto, è un modo tra gli altri di «essere-nel-mondo», mentre per il secondo la c. si riduce a essere il momento terminale di un processo di ricerca: gli oggetti sono concepiti come reali solo in dipendenza da certe operazioni che hanno permesso di risolvere una situazione problematica costituendoli appunto come oggetti, in senso lato. Svanisce così, con l’eliminazione dei termini filosofici tradizionali (e la sottolineatura del momento operativo), qualsiasi problema relativo alla natura della c., lasciandosi piuttosto aperto il campo a una molteplicità di problemi particolari delle singole scienze, oggetto di specifiche ricerche metodologiche.
3. La c. nella filosofia contemporanea
Nell’ambito della teoria della c. (detta anche epistemologia, secondo un uso ormai consolidato nella tradizione angloamericana e nella letteratura filosofica) una delle svolte più rilevanti è il riorientamento di tipo naturalistico-biologico cui si è assistito negli ultimi decenni del 20° secolo. Tra i programmi di ricerca più conseguenti e articolati, nell’obiettivo di fornire un’immagine naturalistica dei processi cognitivi, va innanzitutto ricordato quello dell’epistemologia evoluzionistica , dove il ricorso alle categorie biologiche evoluzionistiche introdotte da C. Darwin non si riduce, come spesso in passato (per es., nel darwinismo sociale), a una loro estensione metaforica, quando non metafisica, ad ambiti estranei alla biologia. L’idea fondamentale che informa l’approccio evoluzionistico alla c. è che i processi cognitivi, al pari delle altre capacità animali e umane, non siano altro che funzioni estremamente complesse sviluppatesi nel corso della filogenesi per assicurare la conservazione della specie. In tale prospettiva la vita stessa può essere considerata come un processo conoscitivo. Secondo K. Lorenz, che insieme con K.R. Popper e D.T. Campbell è stato uno dei maggiori rappresentanti dell’orientamento epistemologico evoluzionistico, l’attività fondamentale degli organismi viventi è quella di immagazzinare ‘informazioni’ sull’ambiente per meglio adattarsi a esso. Si tratta naturalmente di un processo caratterizzato tanto dal caso quanto dalla ‘sperimentazione’ cui l’organismo sottopone le sue informazioni. Non sempre tale sperimentazione ha un esito positivo: la sopravvivenza è generalmente una funzione dell’adattamento riuscito e questo dipende, per Lorenz, dalla capacità di assimilare e sperimentare le informazioni giuste.
L’epistemologia evoluzionistica di Popper vede nel meccanismo di tentativo ed errore l’attività di ogni organismo e la fonte di ogni c.; le stesse ipotesi e teorie scientifiche che determinano il progresso della c. non sono che tentativi di adattamento a un ambiente, con una differenza di rilievo tra l’uomo e gli altri organismi naturali: laddove la selezione elimina l’organismo che propone una soluzione sbagliata, l’uomo è in grado di ‘far morire’ i propri prodotti (ipotesi e teorie) al suo posto; l’attività scientifica si caratterizza così come eliminazione selettiva delle ipotesi errate (soluzioni inadatte) e conservazione selettiva di quelle corrette o vere (soluzioni adatte).
L’obiettivo di fornire un’articolata teoria evoluzionistica della c. è stato perseguito su basi strettamente psicobiologiche da Campbell, al quale si devono contributi di rilievo sull’articolazione del modello evoluzionistico sia nell’analisi della percezione e dei processi induttivi sia nella teoria delle ‘aspettative innate’ che, prodotte dalla filogenesi, caratterizzano gli organismi in quanto soggetti conoscitivi.
Le prospettive evoluzionistiche in campo epistemologico vanno collocate, senza peraltro esaurirlo, nel quadro di quella che W.V.O. Quine definiva epistemologia naturalizzata , locuzione con cui il filosofo statunitense indicava un progetto di ricerca sull’attività conoscitiva rientrante a pieno titolo nella sfera delle scienze positive e come tale radicalmente innovativo rispetto alla gnoseologia tradizionale che aveva perseguito l’obiettivo di fondare filosoficamente su principi definitivi e indubitabili l’attività conoscitiva. Quine sosteneva, in una forma che sarebbe diventata paradigmatica del suo approccio alla teoria della c., che ogni discorso sensato sulla c., dai più elementari livelli percettivi fino all’elaborazione di sofisticate teorie scientifiche, non può che essere basato sulle risorse, gli strumenti e i risultati delle scienze stesse. Il programma di Quine prevedeva naturalmente una fervida cooperazione tra le più varie scienze naturali, dalla psicologia comportamentista (di tipo skinneriano) alla neurofisiologia, dalla biologia evoluzionistica alle scienze del linguaggio.
Per quanto influenti, le teorie naturalistiche della c. sono state spesso criticate. H. Putnam, per es., ha sottolineato come l’epistemologia evoluzionistica poggi in ultima analisi su una inaccettabile concezione realista-metafisica della verità, trascurando la dipendenza della c. dall’inevitabile pluralità delle descrizioni che è tipica dell’attività cognitiva umana. Gli approcci ‘biologistici’ e causali non riuscirebbero inoltre a rendere conto in modo adeguato delle considerazioni di accettabilità razionale delle credenze e, quindi, degli aspetti normativi e argomentativi che sovrintendono all’attività epistemica. D’altra parte, secondo S. Stich, la tesi che i processi inferenziali e le capacità di pervenire a credenze vere siano un prodotto dell’evoluzione naturale si basa su un’idea eccessivamente ottimistica della razionalità umana. Essa attribuirebbe a ideali normativi (appartenenti a una certa cultura) lo status di descrizioni biologico-naturalistiche, estendendo ai meccanismi biologici che presiedono all’adattamento degli organismi requisiti di razionalità che in realtà non trovano in quei meccanismi perfetta esemplificazione: strategie che conducono a inferenze sbagliate o a credenze false si rivelano non di rado più adattive rispetto a strategie perfettamente razionali.
Il dibattito ha visto in qualche modo schierati tre orientamenti: uno di tipo naturalistico (per lo più biologico-evoluzionistico); un altro di tipo o postmodernista, secondo cui la c. è fondamentalmente un’attività mediata dalle regole, dalle convenzioni e dalle presupposizioni culturali vigenti in una data comunità o gruppo sociale; un terzo di tipo cognitivo , volto a individuare (di solito tramite simulazione al computer) gli specifici processi psicologici che sovrintendono all’acquisizione e all’utilizzazione della conoscenza.
4. La teoria affidabilista
Tra gli approcci di tipo tradizionale alla teoria della c. va menzionata la cosiddetta della c., che ha goduto di una certa diffusione negli anni 1980. Tale teoria intende fondamentalmente porre dei vincoli alla concezione tradizionale secondo cui l’autentica c. consiste nella credenza vera giustificata, una concezione che fornirebbe condizioni necessarie ma non sufficienti per la c. vera, dato che potrebbero darsi credenze vere ma giustificate solo in modo accidentale, quindi prive di valore conoscitivo. Più di un autore ha individuato nell’affidabilità dei processi cognitivi coinvolti la garanzia per la c. autentica. Si possono ricordare, tra questi, D.M. Armstrong, R.E. Nozick e A.I. Goldman. Quest’ultimo ha inoltre sottolineato come l’individuazione dei processi cognitivi che permettono di generare credenze vere non possa essere di esclusiva pertinenza della filosofia, ma coinvolga necessariamente anche le indagini nel campo della scienza cognitiva, dal quale la filosofia può trarre utili indicazioni per un’autentica comprensione della razionalità umana.
Come conosciamo.
Che i sensi siano un organo privilegiato di c. sembra un’opinione
diffusa tra i filosofi naturalisti presocratici. Se esaminiamo
infatti le testimoniamze sul loro pensiero, ci accorgiamo che i
principi delle cose sono sempre aspetti del mondo fisico, come
l’acqua, l’aria, il fuoco ecc., cioè elementi che cadono sotto i
sensi. Questa opinione verrà corretta da Anassagora, che
introdurrà l’intelletto o νοῦς come principio di tutte le cose, e
dirà che non bisogna riferire ogni cosa ai sensi, perché i
principi sono intuibili solo con la ragione. Muovendosi sulla
stessa linea di pensiero, la scuola pitagorica indicherà non in
ciò che appare ai sensi, ma nei numeri e nei loro rapporti la
chiave di tutto il cosmo.
Questo punto di vista verrà ripreso dal Socrate dei dialoghi
platonici e quindi dallo stesso Platone, che collocherà nella
parte razionale dell’anima, l’intelletto, la vera fonte della
conoscenza, che per lui è soprattutto reminiscenza , ossia ricordo
delle idee – unica vera realtà immutabile – che l’anima ha
conosciuto prima di incarnarsi e dimenticare. L’eredità delle
dottrine pitagoriche è avvertibile soprattutto nel Timeo ,
l’opera che la tradizione platonica, sia antica e medievale che
rinascimentale, considererà la summa del suo pensiero.
Opponendosi a Platone, Aristotele, e dopo di lui anche gli stoici
e gli epicurei, rivaluteranno l’apporto della c. sensibile, pur
elaborando parallelamente (con l’eccezione degli epicurei)
complesse teorie logiche (logica sillogistica, logica
proposizionale) dedicate all’analisi sistematica del materiale
offerto dai sensi. I sensi sono la fonte privilegiata della nostra
conoscenza, che procede essenzialmente per via induttiva. I dati
raccolti per via induttiva forniscono in Aristotele la base di
partenza del sillogismo, il cui scopo principale è quello di
chiarire i rapporti di implicazione fra termini universali e
termini singolari.
Lo scetticismo antico invece contesta sia l’affidabilità dei
sensi che quella dell’intelletto. Questa tesi radicale, presente
già nello scetticismo accademico e in Cicerone, verrà ripresa
estensivamente dallo scetticismo ‘pirroniano’ di Sesto Empirico,
che negli Schizzi pirroniani e nell’Adversus
mathematicos farà terra bruciata dei tre settori
tradizionali della c. filosofica, logica, fisica ed etica.
L’inaffidabilità dei sensi e dell’intelletto è dimostrata grazie
ai cosiddetti «tropi» o modi del dubbio, dall’esame dei quali
emerge il principio della relatività di ogni asserzione sul mondo
esterno e sulle procedure dell’intelletto umano.
Che né i sensi né l’intelletto siano strumenti adeguati alla c.
dell’assoluto è convinzione presente anche nelle correnti mistiche
che prenderanno piede in età imperiale, soprattutto neoplatonismo
e gnosi . L’Uno, il vertice degli enti divini e la meta ultima del
percorso iniziatico, è infatti assolutamente trascendente e «al di
là dell’intelletto», ed è raggiungibile esclusivamente tramite una
ascesi mistica sovrarazionale.
Queste posizioni riemergeranno sostanzialmente invariate lungo
tutto l’arco temporale dello svolgimento del pensiero medievale e
rinascimentale. Platone e Aristotele restano infatti i punti di
riferimento di entrambe le culture, anche se nella forma ereditata
dal neoplatonismo, per cui accanto a un Platone «aristotelico»
compare un Aristotele «platonico». In Agostino, che ha conosciuto
il neoplatonismo tramite Mario Vittorino, la c. non può esaurirsi
nel conoscere sensibile, perché ciò che è legato ai sensi è
mutevole e provvisorio.
È invece tramite la plotiniana «illuminazione» che l’uomo scopre
o riscopre la presenza in sé stesso delle idee eterne e
immutabili. Questa tradizione platonica (o platonico-aristotelica)
conoscerà momenti particolarmente significativi in Boezio, nella
disputa fra dialettici e antidialettici – che vede i primi
recuperare e valorizzare il concetto platonico di dialettica –,
nel dibattito sugli universali (fra i sostenitori del realismo ,
ossia della realtà delle idee platoniche), e quindi nei platonici
di Chartres e successivamente di Cambridge. In questo quadro
merita particolare attenzione la famosa prova ontologica di
Anselmo ( prove dell’esistenza di Dio), la cui novità sta nel far
assumere forma logica a una consolidata tesi medio- e neoplatonica
(cfr. per es. La E di Delfi di Plutarco), secondo la
quale solo Dio è il ‘vero’ essere, l’essere a pieno titolo, e
quindi negargli tale attributo sarebbe contraddittorio. A questa
visione si affianca o addirittura si sovrappone quella mistica,
prima fra tutte la filosofia dello pseudo-Dionigi, secondo la
quale Dio è «al di là dell’essere», e quindi non può essere
conosciuto né con argomenti a posteriori né con
argomenti a priori.
Un sostanziale ritorno alla originaria visione aristotelica, e
quindi a una rivalutazione della c. sensibile, si avrà invece con
Tommaso d’Aquino e col tomismo. La c. inizia dai cinque sensi. Le
rispettive sensazioni sono poi unificate dal senso interno
(sentire di sentire, coscienza sensitiva) e in tal modo si
formano, nella immaginativa o fantasia, le
immagini degli oggetti che sono conservati nella memoria.
Successivamente l’intelletto, partendo da queste immagini, forma
per via di astrazione i concetti universali, ossia leessenze o
forme delle cose materiali consideratesenza la materia. Il
programma di Tommaso è dichiaratamente antiplatonico (e
conseguentemente antiagostiniano), e trova il suo maggior punto di
forza nella tesi caratteristica che l’essere delle cose materiali,
sebbene sia un prodotto e un dono di Dio, è un essere a pieno
titolo, e non una sorta di ‘surrogato’ dell’essere.
Lo scetticismo, noto alla cultura medievale attraverso l’opera di
Cicerone, ma presente in modo sostanzialmente episodico
(nominalismo nella disputa sugli univerali, il rasoio di Occam),
riemergerà prepotentemente agli inizi dell’era moderna generando
la cosiddetta crisi pirroniana, che affiancandosi alla riscoperta
dell’atomismo sarà la causa principale della crisi e del tramonto
del sistema del mondo aristotelico-scolastico. La tesi centrale
dello scetticismo moderno, come di quello antico, è che non
sappiamo nulla (quod nihil scitur), perché né i sensi né
la ragione sono veicoli di conoscenza. In queste condizioni la
nostra vita sarà un navigare a vista, sempre pronti a effettuare
improvvisi cambimenti di rotta.
Superata la ‘crisi pirroniana’, la filosofia moderna fino a Kant si dividerà fra razionalismo ed empirismo , privilegiando l’intelletto nel primo caso, i sensi nel secondo. Kant tenterà, con la teoria delle due fonti della conoscenza, una sintesi delle due posizioni, che tuttavia nelle sue conclusioni ultime – che vedono nei dati sensibili un apporto indispensabile e insieme un limite invalicabile da parte dell’intelletto – appare più vicina all’empirismo che al razionalismo. Il punto di vista razionalistico è riproposto invece dall’idealismo classico tedesco, in particolare da Hegel, che però sostituisce all’intelletto come organo principe della c. la ragione, liberata dai vincoli che le aveva posto Kant e arricchita dalla nuova logica dialettica. Nella Sinistra hegeliana emergerà un nuovo tema, quello della c. come prassi. Un’idea, questa, che, scorporata dal contesto socio-politico rivoluzionario, verrà elaborata concettualmente dal pragmatismo . Nella filosofia moderna, infine, verranno ripensate e rielaborate soprattutto le tesi di Hume e Kant. La prima dall’empirismo logico, la seconda dalla teoria evoluzionistica della conoscenza.
Cosa conosciamo.
In linea generale chi affida ai sensi la nostra c. ritiene che
attraverso gli organi sensoriali si possa conoscere con certezza
qualcosa, ma non tutto. I sensi, ancorché affidabili, hanno
nondimeno un raggio d’azione limitato, quasi sempre inferiore a
quello delle altre razze animali, e anche il raffinamento degli
strumenti di indagine non muta in modo radicale questo dato di
fatto. È probabilmente questo il motivo per cui – come osserva
Kant nell’Introduzione alla Critica della ragion
pura (1781) – molti pensatori, Platone in testa, hanno
pensato che senza i sensi si potesse conoscere meglio e di più,
anzi, che si potesse conoscere tutto, arrivando alle soglie della
creazione. E anche chi si affida non alla ragione, ma a una forma
di intuizione mistica, pensa la stessa cosa.
Tuttavia a partire da Kant si è osservato che questa presunta conoscenza della totalità delle cose è tale solo in apparenza, perché i tradizionali oggetti di questo sapere assoluto (in particolare Anima, Mondo e Dio) non sono altro che le funzioni o categorie dell’intelletto ipostatizzate, cioè trasformate in sostanze autonome. Procedendo sulla stessa strada il positivismo logico del Circolo di Vienna (per es., Carnap) ha potuto dimostrare agevolmente la mancanza di significato dei concetti fondamentali della metafisica. Antitetica alla tesi secondo la quale possiamo conoscere tutto, è quella che non si possa conoscere nulla. Come si è detto è la tesi principale dello scetticismo, sia antico che moderno, che riflette sui testi di Cicerone e Sesto Empirico. Tuttavia dal momento che questo principio – come hanno riconosciuto gli stessi scettici – è sostanzialmenteimpraticabile, perché bisogna comunque prendere qualche decisione, la moderna filosofia della ricerca scientifica si è orientata verso una forma moderata di scetticismo, che tiene conto nello stesso tempo del modello di empirismo elaborato da Kant. L’intelletto costruisce teorie sulla struttura del mondo circostante – includendo in esso anche il nostro corpo come oggetto di indagine – ma tali teorie devono essere sottoposte al vaglio dell’esperienza, la sola che abbia un valore discriminante nei loro confronti. In questo modo la nostra c., seppur lentamente e procedendo attraverso prove ed errori, si accresce di continuo, senza tuttavia poter arrivare mai a una c. completa della realtà.
Orientamenti del secondo Novecento.
Una delle svolte più rilevanti nell’ambito della teoria della c.
si è avuta, nella seconda parte del Novecento, con il
riorientamento in senso naturalistico-biologico della ricerca
epistemologica. Va innanzi tutto ricordato il programma
dell’epistemologia evoluzionistica, dove il ricorso alle categorie
biologiche evoluzionistiche introdotte da Darwin non si riduce,
come spesso in passato (per es., nel darwinismo sociale), a una
loro estensione metaforica, quando non metafisica, ad ambiti
estranei alla biologia.
L’idea fondamentale che informa l’approccio evoluzionistico alla
c. è che i processi cognitivi, al pari delle altre capacità
animali e umane, non siano altro che funzioni estremamente
complesse sviluppatesi nel corso della filogenesi per assicurare
la conservazione della specie. In tale prospettiva la vita stessa
può essere considerata come un processo conoscitivo. Secondo K.
Lorenz, che insieme con Popper e D.T. Campbell è stato uno dei
maggiori rappresentanti di tale orientamento, l’attività
fondamentale degli organismi viventi è quella di immagazzinare
«informazioni» sull’ambiente, per meglio adattarsi a esso. In
altri termini, le informazioni vengono poste a confronto con
l’ambiente e questo può decretarne il successo o l’insuccesso.
L’ipotesi della continuità delle forme viventi dal punto di vista
cognitivo è alla base dell’evoluzionismo di Popper, che aveva
cominciato a riformulare il suo falsificazionismo in termini
darwiniani sin dalla metà degli anni Sessanta, scorgendo nel
meccanismo di tentativo ed errore l’attività di ogni organismo e
la fonte di ogni c.; le stesse ipotesi e teorie scientifiche che
determinano il progresso della c. non sono, per Popper, che
tentativi di adattamento a un ambiente, con una differenza di
rilievo tra l’uomo e gli altri organismi naturali: laddove la
selezione elimina l’organismo che propone una soluzione sbagliata,
l’uomo è in grado di ‘far morire’ i propri prodotti (ipotesi e
teorie) al suo posto; l’attività scientifica si caratterizza,
quindi, come eliminazione selettiva delle ipotesi errate
(soluzioni inadatte) e conservazione selettiva di quelle corrette
o vere (soluzioni adatte).
L’obiettivo di fornire un’articolata teoria evoluzionistica della
c. è stato perseguito su basi strettamente psicobiologiche da
Campbell, al quale si devono contributi di rilievo
sull’articolazione del modello evoluzionistico sia nell’analisi
della percezione e dei processi induttivi sia nella teoria delle
«aspettative innate» che, prodotte dalla filogenesi,
caratterizzano gli organismi in quanto soggetti conoscitivi. Le
prospettive evoluzionistiche in campo epistemologico vanno
collocate, senza peraltro esaurirlo, nel quadro di quella che
Quine, in un celebre articolo del 1969 (Epistemology
naturalized), definiva «epistemologia naturalizzata», con
ciò intendendo un progetto di ricer-ca sull’attività conoscitiva
rientrante a pieno titolo nella sfera delle scienze positive e
come tale radicalmente innovativo rispetto alla
gnoseologiatradizionale. L’obiettivo di questo approccio
naturalistico sarebbe il conseguimento di plausibili teorie
scientifiche riguardanti il modo in cui, a partire dalle
stimolazioni delle terminazioni nervose, un soggetto fisico qual è
l’uomo arriva a elaborare le teorie scientifiche sulla realtà.
Per quanto influenti, le teorie naturalistiche della c. sono
state spesso criticate. Putnam, per es. (Why reason can’t
benaturalized, in Philosophical papers, 3, 1983),
hasottolineato come l’epistemologia evoluzionistica poggi in
ultima analisi su una inaccettabile concezione realista-metafisica
della verità, trascurando la dipendenza della c. dall’inevitabile
pluralità delle descrizioni che è tipica dell’attività cognitiva
umana. Gli approcci ‘biologistici’ e causali non riuscirebbero
inoltre a rendere conto in modo adeguato delle considerazioni di
accettabilità razionale delle credenze e, quindi, degli aspetti
normativi e argomentativi che sovrintendono all’attività
epistemica.
D’altra parte, secondo S. Stich (The fragmentation of reason,
1990; trad. it. La frammentazione della ragione) la tesi
che i processi inferenziali e le capacità di pervenire a credenze
vere siano un prodotto dell’evoluzione naturale (tesi difesa, tra
gli altri, da Dennett) si basa su un’idea eccessivamente
ottimistica della razionalità umana, giacché strategie che
conducono a inferenze sbagliate o a credenze false si rivelano non
di rado più adattive rispetto a strategie perfettamente razionali.
Il dibattito ha visto in qualche modo schierati tre orientamenti:
uno di tipo naturalistico (per lo più biologico-evoluzionistico);
un altro di tipo culturalistico o postmodernista (derivante in
sostanza dalla filosofia del secondo Wittgenstein, dalle
concezioni di Kuhn e dal pragmatismo), secondo cui la c. è
fondamentalmente un’attività mediata dalle regole, dalle
convenzioni e dalle presupposizioni culturali vigenti in unadata
comunità o gruppo sociale; un terzo di tipocognitivo, volto a
individuare (di solito tramitesimulazione al computer) gli
specifici processi psicologici che sovrintendono all’acquisizione
e all’utilizzazione della conoscenza.
Tra gli approcci di tipo tradizionale alla teoria della c. va
infine menzionata la cosiddetta teoria affidabilista della c., che
ha goduto di una certa diffusione negli anni Ottanta del sec. 20°.
Tale teoria intende fondamentalmente porre dei vincoli alla
concezione tradizionale secondo cui l’autentica c. consiste nella
credenza vera giustificata, una concezione che, in base ad alcuni
noti contro esempi di E.L. Gettier, fornirebbe condizioni
necessarie ma non sufficienti per la c. vera, dato che potrebbero
darsi credenze vere ma giustificate solo in modo accidentale,
quindi prive di valore conoscitivo.
Più di un autore, nel tentativo di superare le difficoltà segnalate da Gettier, ha individuato nell’affidabilità dei processi cognitivi coinvolti la garanzia per la c. autentica. Si possono ricordare, tra questi, D.M. Armstrong, Nozick e A. Goldman. Quest’ultimo ha inoltre sottolineato come l’individuazione dei processi cognitivi che permettono di generare credenze vere non possa essere di esclusiva pertinenza della filosofia, ma coinvolga necessariamente anche le indagini nel campo della scienza cognitiva (Philosophical applications of cognitive science, 1993; trad. it. Applicazioni filosofiche della scienza cognitiva), dal quale la filosofia può trarre utili indicazioni per un’autentica comprensione della razionalità umana. ( anche epistemologia; metodologia).