Comunismo

www.treccani.it
Enciclopedia online


Dottrina che, sulla base delle formulazioni teoriche di K. Marx e F. Engels, propugna un sistema sociale nel quale sia i mezzi di produzione sia i mezzi di consumo sono sottratti alla proprietà privata e trasformati in proprietà comune, e la gestione e distribuzione di essi viene esercitata collettivamente dall’intera società nell’interesse e con la piena partecipazione di tutti i suoi membri.

1. Evoluzione del concetto

1.1 C. primitivo e c. religiosoIl mito di un’originaria comunità dei beni, variamente svolto nell’ambito di dottrine religiose, utopistiche, giusnaturalistiche dell’antichità e dell’età moderna, si è trasformato nel 19° sec. a opera degli etnologi evoluzionisti in un’ipotesi scientifica, il cosiddetto c. primitivo . Sulla base di ricerche etnografiche e storiche non è tuttavia possibile dimostrare l’esistenza di società in cui ognuno possiede gli stessi diritti su ogni cosa. Nella cerchia delle antiche civiltà mediterranee, il c. appare limitato nell’applicazione a particolari esigenze religiose, sociali o militari (sissizi o fidizi di Creta, Sparta, Cartagine), o sussiste, anche in epoca tarda come proprietà agricola comune (ager publicus, almenda, township ecc.). Di un c. in atto negli istituti della polis greca o degli Stati della Magna Grecia governati dai Pitagorici non è possibile parlare, nonostante l’elaborazione nel campo dottrinale di programmi comunistici. 

Accanto ai motivi politico-sociali, esigenze prevalentemente religiose e ispirate a un ideale di distacco dai beni terreni si fanno valere dapprima nelle comunità pitagoriche, più tardi in quelle ascetiche palestinesi degli Esseni, dove si può parlare di un c. religioso . La speranza escatologica e la legge di carità cristiana concorrono a produrre la comunione dei beni in atto nella Chiesa del periodo apostolico. Anche nel Medioevo non sono poche le sette che precisano la loro esigenza sociale nella rivendicazione, attraverso lotte anche violente, di una proprietà che deve essere comune anziché a beneficio di una casta privilegiata. Più tardi chiaro significato sociale assumono i movimenti di rinascita religiosa in Inghilterra con Wycliffe, in Boemia con Hus e i Taboriti (14° sec.), in Germania con lo Schuhbund (1431): finché la guerra dei contadini (1524-25) vede vaste masse impegnate a lungo in una lotta per i vasti interessi politico-economici in gioco, nelle campagne di Germania, Svizzera, Austria e Trentino. Significativo a questo proposito il moto anabattista. Discusso invece il carattere comunistico delle colonie dei gesuiti del Paraguay. Nel 18°-19° sec. le comunità dei Rappisti, degli Shakers e altre, fondate in America Settentrionale dai nuclei dei Pietisti tedeschi e dei Quaccheri inglesi ivi emigrati, mostrano il carattere extrastorico di quel c. da esse professato come rifugio dal tumulto degli interessi concreti del mondo capitalistico. 

1.2 C. utopistico e c. rivoluzionario fino al 1848Su un piano astrattamente dottrinale sono da porsi quelle opere che, pur partendo da una polemica osservazione della realtà politico-sociale contemporanea, si traducono però, nella loro parte costruttiva, in fantasie letterarie o millenaristiche. Così Tommaso Moro nell’Utopia (1516) individua, per la risoluzione del problema sociale, il principio etico ispiratore nella dignità e nel dovere del lavoro per tutti: e tale principio torna in numerose opere, dai Mondi celesti del Doni (1552-53) alla Città del sole di T. Campanella, all’Histoire des Sevarambes di D. Vairasse (1677), alle Îles flottantes di E.G. Morelly ecc. 

L’istanza critica si precisa invece, nell’età dell’Illuminismo, con la denuncia della proprietà privata della terra come usurpazione violenta ai danni della naturale uguaglianza, libertà e bontà dell’uomo da parte di J.-J.Rousseau e con le discussioni etico-giuridiche sugli stessi temi dell’uguaglianza e della proprietà svolte nelle opere di G.-B. de Mably, S.-N.-H. Linguet e Morelly. La rivendicazione del diritto al lavoro dedotta dall’equazione proprietà privata-usurpazione viene ripresa dalla Rivoluzione francese e inclusa dalla Convenzione nella Dichiarazione dei diritti del 1793. Nel Manifeste des plèbéiens (1795) e nella Congiura degli Eguali promossa da F.-N. Babeuf, si ritrovano quelle più radicali esigenze di redistribuzione della ricchezza, attraverso la lotta politica del popolo sotto la guida di una minoranza illuminata. Esigenze che dopo il fallimento della congiura saranno riprese dalle numerose società segrete che l’attività di F. Buonarroti creerà in tutta Europa. Notevole pure l’influenza che in questo periodo esercitano le formulazioni del socialismo utopistico di C.-H. Saint-Simon, di C. Fourier e di R. Owen i quali, con la critica di taluni aspetti della società capitalistica favoriscono il formarsi di tendenze più radicali. Così la crescente coscienza di classe portò in primo piano il tema della conquista del potere politico quale strumento per la realizzazione delle esigenze della classe lavoratrice. Conclusioni comunistiche affermano però decisamente solo C. Pecqueur ed E. Cabet.

2. Il c. storico

2.1 Il ManifestoDurante gli anni che precedono la crisi del 1848, si svilupparono, in Francia, Svizzera, Belgio, Inghilterra, vari centri di origine babuvista, in col;legamento con altri gruppi ispirati da capi rivoluzionari come L.-A. Blanqui e A. Barbès. Tra questi un rilievo particolare assunse la Lega dei giusti , fondata da profughi tedeschi e poi trasferitasi a Londra, dove, nel congresso del 1847, sotto l’influenza di Marx ed Engels, cambiò il suo nome in Lega dei comunisti . Gli stessi Marx ed Engels furono incaricati di redigere il documento programmatico del nuovo movimento, che fu pubblicato l’anno successivo (Manifesto del partito comunista). La scelta del termine ‘comunista’, oltre a indicare lo stadio finale della società cui punta il movimento rivoluzionario, voleva anche sottolineare la rottura con le correnti socialiste del tempo, in nome di una concezione politica fondata su un’organizzazione militante e rivoluzionaria. 

Questo nuovo metodo di lotta politica cui è chiamato il proletariato rivoluzionario trova la sua giustificazione storica nell’analisi che Marx ed Engels compiono della nuova situazione sociale connessa al modo di produzione capitalistico. Al centro della loro analisi è il ruolo della borghesia. Attraverso un sistema produttivo che il meccanismo della concorrenza costringe a espandersi e a rinnovarsi continuamente, il capitalismo rivoluziona la produzione, incrementandola quantitativamente e qualitativamente, e occupando sempre nuovi mercati, anche in paesi precedentemente lontani dal progresso storico. Per fare ciò, il capitalismo deve trasformare ogni società a sua immagine con uno sfruttamento crescente del proletariato, fondato sul concetto del plusvalore, ovverosia sull’idea, in termini semplificati, che una quota di lavoro sia prestata ma non retribuita. In questa ottica, il meccanismo della concorrenza obbliga a contenere al massimo i salari e dunque le condizioni di vita del proletariato sono ridotte al minimo vitale. Le crisi economiche capitalistiche sono il segno tangibile delle difficoltà del sistema a espandersi ulteriormente: in esse esplode la contraddizione tra la sovrapproduzione capitalistica e la povertà del proletariato. In questo modo, il sistema di produzione capitalistico ha dato origine a livello mondiale alla classe sociale del proletariato, chiamata a rovesciare il sistema stesso in nome della stragrande maggioranza della popolazione e a ridistribuire la ricchezza prodotta. Nell’analisi di Marx ed Engels questo processo assume un carattere di necessità oggettiva e non può avvenire che al culmine della parabola ascendente dello sviluppo capitalistico. La ‘dittatura del proletariato’ avrà solo il compito di distruggere l’apparato dello Stato, espressione del potere della borghesia. 

Questo schema, che trovò poi nelle opere successive al Manifesto numerose varianti e integrazioni, già conteneva tutti i nodi delle polemiche successive tra gli epigoni: in primo luogo il rapporto tra sviluppo oggettivo delle crisi capitalistiche (crollo) e azione soggettiva del movimento rivoluzionario; in secondo luogo il rapporto tra dittatura rivoluzionaria e democrazia diretta esercitata dall’intera società. 

2.2 La prospettiva riformista europeaIl progressivo declino delle problematiche del c. nella seconda metà del 19° sec. si lega all’incessante sviluppo delle organizzazioni sindacali e politiche del movimento operaio nei principali paesi dell’Europa occidentale, cui si accompagnarono un allargamento della loro partecipazione alla vita politica e un netto miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Queste mutate condizioni trovarono la loro espressione nella Seconda internazionale , e in particolare nel partito socialdemocratico tedesco. Allargamento del suffragio politico e miglioramenti economici rappresentavano ormai la strada maestra dei nuovi partiti socialisti. Secondo E. Bernstein la democrazia politica costituiva il quadro in cui si sviluppano le conquiste del proletariato. ‘Crollo del capitalismo’ e ‘dittatura del proletariato’ erano quindi giudicate parole d’ordine del passato. Una linea più vicina al pensiero di Marx si sviluppa nell’analisi di K. Kautsky, che vede nello sviluppo del capitalismo e della democrazia la strada obbligata per la lotta della classe operaia, pur tenendo ferma la meta della società socialista e comunista. 

2.3 Il c. rivoluzionario in RussiaLa polemica contro la versione di Bernstein (poi anche di Kautsky) del marxismo, che portava al rifiuto del metodo rivoluzionario e, di fatto, anche del fine comunista, trovò un terreno particolarmente fertile in Russia, dove l’arretratezza politica e sociale rendeva lontana e inaccettabile la prospettiva riformista. La situazione russa era bene espressa dal movimento populista, formato da intellettuali rivoluzionari, non alieni dal terrorismo, che vedevano nell’arretratezza russa e nelle sue sopravvivenze di comunità agricole tradizionali le premesse per una rivoluzione sociale attuata evitando il passaggio attraverso la fase storica del capitalismo. 

Il rifiuto di una legge universale e uniforme della evoluzione sociale costituisce uno degli elementi caratteristici delle posizioni politiche del leader socialista rivoluzionario russo V.I. Lenin. In polemica con le altre componenti della socialdemocrazia russa, egli affermava che la coscienza di classe non si sviluppa spontaneamente tra gli operai, ma dall’esterno, a opera del partito rivoluzionario: un’avanguardia di militanti di professione capace di alternare propaganda legale e illegale, partecipazione alla vita parlamentare e lotta rivoluzionaria, per impadronirsi del potere, instaurare la dittatura del proletariato e avviare la trasformazione della società. Il partito di Lenin, i bolscevichi , erano appunto l’espressione di questa concezione politica. 

Fino alla Prima guerra mondiale non furono chiare le differenze tra le concezioni di Lenin e quelle del socialismo europeo. Con lo scoppio del conflitto, invece, i contrasti esplosero. I bolscevichi e altre minoranze socialiste, nei diversi paesi, rifiutarono l’appoggio ai rispettivi governi nello scontro militare in atto. Lenin teorizzò allora che il capitalismo poteva sopravvivere solo attraverso gli imperi coloniali e che lo scontro in atto rifletteva la lotta per il controllo mondiale. A tale scontro il proletariato doveva rispondere con la lotta rivoluzionaria.

3. Il movimento comunista internazionale

3.1 Dalla Rivoluzione d’ottobre alla Seconda guerra mondialeAll’indomani della rivoluzione russa dell’ottobre 1917, la prospettiva della rivoluzione mondiale e la gravissima situazione in cui si trovava allora lo Stato sovietico determinarono la decisione dei dirigenti bolscevichi di potenziare e organizzare l’adesione suscitata dalla rivoluzione. D’altronde, la rivoluzione d’Ottobre era stata interpretata da gran parte del proletariato europeo come l’inizio della rivoluzione mondiale e i moti popolari del dopoguerra (1919-20) in Ungheria, in Italia, in Germania e in altri paesi furono le condizioni preliminari per la nascita dei partiti comunisti. Nel marzo 1919 veniva così fondata a Mosca la Terza Internazionale (Internazionale Comunista o Komintern), come partito rivoluzionario mondiale ( Internazionale). Tra il 1919 e il 1921 si costituirono partiti comunisti in tutti i paesi d’Europa, ma anche in Asia, in America e in Australia, organizzazioni talora ristrette a gruppi di intellettuali, ma più spesso rappresentanti di settori consistenti del proletariato e degli strati popolari. L’Internazionale dai primi anni 1920 fino al 1943 fu il centro propulsore dell’intero movimento comunista mondiale. 

Nessuno dei moti rivoluzionari del dopoguerra ebbe esito positivo e con la crisi del movimento rivoluzionario si interruppe anche l’espansione del movimento comunista. I nuovi partiti, soprattutto in Europa, presero comunque a esercitare un ruolo talora rilevante come in Germania e in Francia. Dopo la morte di Lenin (gennaio 1924) lo scontro tra J. Stalin e L. Trockij si riflesse pesantemente sul movimento comunista internazionale: la vittoria di Stalin fece prevalere l’orientamento alla bolscevizzazione; l’espulsione di Trockij dal partito (1927) e dall’URSS (1929) fu invece all’origine, nell’area comunista mondiale, del più importante dei movimenti politici antistalinisti. Si manifestava intanto fin dal 1923 un rinnovato interesse dell’Internazionale per i movimenti contadini e per le realtà extra-europee, ciò che diede impulso al formarsi di nuovi partiti comunisti in Asia e America Latina. Rilevanti le vicende dei comunisti cinesi che, rotta nel 1927 l’alleanza con il partito nazionalista (Guomindang), facendo leva proprio sui contadini poveri (secondo la strategia elaborata da Mao Zedong), contesero aspramente, regione per regione, al Guomindang la guida della politica cinese, concludendo con esso un provvisorio patto di alleanza (1937) in funzione dell’unità antigiapponese. 

Nella seconda metà degli anni 1920 l’Internazionale rilanciò (1928) la lotta contro il socialismo riformista (ridefinito ‘socialfascismo’), mentre, a partire dal 1934, si ebbe in URSS un’accentuazione dell’autoritarismo del partito e quindi anche del carattere di monolitismo e di dipendenza da Mosca di tutto il movimento comunista. La crisi generale dell’Occidente non solo non ebbe sbocchi rivoluzionari, ma portò i nazisti al potere in Germania (1933): di qui la linea adottata dall’Internazionale (agosto 1935), che favorì la formazione di governi di sinistra in Francia e Spagna. La situazione mondiale creatasi con la guerra civile spagnola, il patto anti-Komintern tra Germania, Giappone e Italia (1936-37), le mire tedesche in Europa, orientarono il movimento comunista sempre più in direzione antifascista. Lo schieramento creatosi nel 1941 di USA, URSS e Gran Bretagna contro Germania, Italia e Giappone, abilitava i comunisti a muoversi in una vasta alleanza politico-militare antifascista e permise loro di dare un contributo decisivo alla liberazione dell’Europa, anche se nel 1943, per motivi funzionali alla politica di alleanze dell’URSS, veniva sciolta l’Internazionale. 

3.2 L’esportazione del c. sovieticoGli accordi che già prima della sconfitta dell’Asse avevano delimitato le zone d’influenza delle potenze vincitrici, trovarono rapida applicazione alla fine del conflitto, pur con delle forzature da parte dei sovietici; già occupate Polonia, Romania e Bulgaria durante l’avanzata verso Berlino, vennero lì costituiti governi di democrazia popolare che importavano di fatto il sistema economico-sociale dell’URSS. Analoghi processi intervennero nella Germania orientale (1945) e in Ungheria e Cecoslovacchia (1948), mentre in Iugoslavia e in Albania i partiti comunisti, guidati rispettivamente da J. Tito e E. Hoxha, giunsero al potere per il ruolo da essi sostenuto nella Resistenza; infine nel 1949 i comunisti cinesi vincevano finalmente la battaglia con il Guomindang e proclamavano la Repubblica Popolare di Cina. 

Nel dopoguerra, dunque, un blocco di paesi socialisti si affiancava all’URSS. Il momento di massimo sviluppo del movimento comunista segnò peraltro l’inizio dei contrasti interni. Dopo la morte di Stalin (marzo 1953), la ricerca di un nuovo sistema di rapporti tra paesi socialisti e fra questi e l’Occidente, la necessità di rivalutare i consumi, le aperture politiche ed economiche verso il Terzo Mondo, trovarono una prima formulazione nella relazione di N. Chruščëv al XX congresso del partito comunista dell’URSS (1956). I segnali politici furono però contradditori: se la crisi polacca fu superata con l’avvento in funzione antistalinista di W. Gomulka, la sollevazione ungherese fu soffocata sanguinosamente da parte delle truppe sovietiche. Nel 1955 con il patto di Varsavia era intanto stata costituita l’alleanza militare tra URSS, Polonia, Ungheria, Bulgaria, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Albania e Romania. Era ormai evidente la crisi del monolitismo staliniano, e la nascita del cosiddetto ‘policentrismo’, posizione con cui si teorizzava la fine di un centro unico della rivoluzione comunista mondiale e l’esistenza di una pluralità di linee politiche espressioni delle diverse realtà nazionali. 

Se la politica estera sovietica del periodo di L. Brežnev (che aveva sostituito Chruščëv nel 1964) aveva riportato alcuni successi, di diverso segno apparivano le vicende del movimento comunista in Europa dalla fine degli anni 1950, all’Est come all’Ovest alle prese con il problema di ripensare la tradizione e l’esperienza rivoluzionaria. Cessata la ‘guerra fredda’ e avviatosi un processo di distensione internazionale, il modello sovietico, con le sue caratteristiche di autoritarismo e stagnazione economica, appariva incapace di suscitare speranze rivoluzionarie o ragionevole fiducia in un avvenire di progresso e libertà. Esemplare di questa fase la scelta dei comunisti cecoslovacchi che, guidati da A. Dubcek, inaugurarono nel 1968 un nuovo corso politico aperto a esigenze di democrazia e consenso popolare. L’intervento militare del patto di Varsavia, che nell’agosto 1968 pose fine alla ‘primavera di Praga’, da una parte scoraggiò le spinte riformatrici negli altri paesi socialisti, dall’altra spinse i partiti comunisti occidentali, in specie l’italiano, a differenziare le proprie posizioni da quelle dei sovietici. 

Gli anni 1970 e 1980 fecero registrare importanti novità in Cina: alla morte di Mao (1976), il nuovo gruppo dirigente guidato da Deng Xiaoping liquidò l’eredità ideologica del periodo maoista e orientò la politica interna verso il conseguimento di importanti risultati economici. 

Nell’URSS le spinte al rinnovamento determinarono l’ascesa alla segreteria del partito di M. Gorbačëv (1985), che subito impostava una politica tendente a invertire la pericolosa e costosa corsa agli armamenti nucleari con gli USA, compiva il disimpegno militare in Afghānistān e, all’interno, affermava la riformabilità dell’organizzazione sociale a partire dalle esigenze di sviluppo economico e di partecipazione, aprendo altresì, per la prima volta nell’URSS, la possibilità di una riconsiderazione complessiva della propria storia. Questo processo riattivava sensibilmente il dialogo politico, culturale ed economico con i paesi occidentali e si estendeva rapidamente agli altri paesi dell’Est europeo, determinando vistose crisi politiche che venivano a maturazione a partire dal 1989: in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Bulgaria, Romania, Albania e Iugoslavia cadevano in modo più o meno traumatico i regimi comunisti, mentre mutamenti costituzionali e nuove consultazioni elettorali sancivano l’affermazione del pluripartitismo. Nel 1991 la crisi del potere comunista in URSS determinava la disgregazione dello stesso Stato sovietico, che comportava una fondamentale modifica dell’assetto politico mondiale.

Pur sancita la fine dell’internazionalismo comunista, e fra i vari dibattiti sul bilancio storico di un’esperienza, va comunque rilevata la permanenza di partiti comunisti al potere in alcuni paesi, come Cina, Corea del Nord, Cuba, Vietnam e la presenza di movimenti e partiti di tradizione o ispirazione comunisti in molte regioni del pianeta.

4. Il Partito Comunista Italiano

Il 21 gennaio 1921, a Livorno, dalla corrente di sinistra del Partito socialista italiano nacque il Partito comunista d’Italia - Sezione italiana dell’Internazionale comunista (PCd’I ), che avrebbe mantenuto tale denominazione fino al giugno 1943 (scioglimento dell’Internazionale) quando prese il nuovo nome di Partito Comunista Italiano (PCI ). 

Fondato dagli esponenti della corrente astensionista di A. Bordiga e dal gruppo torinese dell’Ordine nuovo, periodico diretto da A. Gramsci, il PCd’I fu costituito in polemica con la politica socialista e allo scopo di organizzare e dirigere lo sbocco rivoluzionario della crisi italiana. I primi anni furono caratterizzati da un lato dalla sconfitta del movimento operaio e dalla reazione statuale e fascista, dall’altro dal rapido spostarsi del gruppo dirigente sulle posizioni dell’ala sinistra dell’Internazionale. Ciò determinò il diversificarsi delle posizioni all’interno del partito e la decisione dell’Internazionale (giugno 1923) di sostituire la direzione bordighiana con un esecutivo che includesse l’opposizione di destra. Protagonista della bolscevizzazione fu Gramsci che diede avvio a un nuovo corso perseguendo il consolidamento della presenza del partito nella società. Con la promulgazione delle ‘leggi speciali’ e l’arresto di Gramsci (novembre 1926), il PCd’I entrò nella fase di azione clandestina. Nel 1927 la direzione venne di fatto trasferita a Mosca e, a contatto con la complessa situazione dell’Internazionale e del Partito comunista dell’URSS, emerse il nuovo gruppo dirigente attorno a P. Togliatti. 

In condizioni completamente nuove il PCI tornò sulla scena politica nazionale nel 1943. Acquisì un ruolo dirigente nella lotta armata contro i nazifascisti e un posto di rilievo nel Comitato di liberazione nazionale. Ma la ridefinizione della linea del partito ebbe luogo a partire dal ritorno di Togliatti in Italia (marzo 1944). La sua idea guida era che la trasformazione socialista dell’Italia non dovesse avvenire per via rivoluzionaria bensì attraverso la progressiva ascesa delle masse popolari al governo della cosa pubblica. Escluso dal governo (maggio 1947), il PCI venne a costituire da allora la maggiore forza politica di opposizione, impegnata nel primo dopoguerra in un duro confronto su temi di politica sia interna sia internazionale. Momenti particolarmente aspri furono le manifestazioni che seguirono l’attentato a Togliatti (luglio 1948) e la campagna elettorale per le politiche del 1953. In questo periodo si delineò anche lo scontro interno che avviò il ricambio generazionale alla guida del partito. Nell’VIII congresso (dicembre 1956) il partito fece propri i temi della coesistenza pacifica e iniziò a prendere le distanze dall’unitarismo di stampo sovietico prevalente nel movimento c. mondiale. Alla morte di Togliatti (agosto 1964) venne eletto alla segreteria L. Longo. 

Nei primi anni 1970 si delinearono nuove aspettative verso la politica del PCI, alle quali il nuovo segretario E. Berlinguer rispose nel 1973 con il compromesso storico . La delicata fase di ‘solidarietà nazionale’ ebbe termine nel marzo 1979 con la decisione comunista di uscire da una maggioranza giudicata non positiva, mentre iniziavano da un lato un trend elettorale negativo e dall’altro la ricerca di una strategia di ‘alternativa democratica’. Il relativo isolamento del PCI fu confermato dal risultato elettorale del 1983. Durante la campagna per le elezioni europee del 1984, Berlinguer morì. Gli subentrò nella carica di segretario generale A. Natta, seguito nel 1988 da A. Occhetto con il quale il PCI accentuò la ricerca e l’impegno sulle riforme istituzionali. 

Nel febbraio 1991 il PCI, nel quadro del riassetto globale dei partiti comunisti determinato dalla dissoluzione dell’URSS, si sciolse e il XX congresso diede vita al Partito Democratico della Sinistra (PDS); contrari all’iniziativa si dichiararono i militanti dell’ala sinistra che avviarono la costituzione del Partito della Rifondazione Comunista (PRS). In seguito a una divisione interna, guidata da A. Cossutta, da questo si scisse nel 1998 il Partito dei Comunisti Italiani (PdCI), di cui è segretario dall’aprile 2000 O. Diliberto, fautore, dopo la sconfitta elettorale del 2006 e l'esclusione delle sinistre radicali dal governo per aver mancato la soglia di sbarramento, di una riunificazione tra i due maggiori partiti comunisti (Comunisti Italiani e Rifondazione). Il 14 ottobre 2007 nasceva il Partito democratico (PD), di centro-sinistra, coalizione di forze riformiste che vuole essere una sintesi delle tradizioni socialista-socialdemocratica, cattolico-democratica e liberal-democratica: in questo, l'erede de L'Ulivo, al governo negli anni 1996-2001 e 2006-2008.


Enciclopedia delle Scienze Sociali (1992)

di Massimo L. Salvadori


Sommario: 1. Significato del termine. 2. Il comunismo come critica degli 'interessi particolari'. 3. I diversi tipi di comunismo. 4. Forme e modelli del comunismo antico. 5. Cristianesimo e comunismo. 6. Le correnti del comunismo millenaristico e utopico nell'età moderna. 7. Socialismo e comunismo 'utopistici' nell'età della prima industrializzazione. 8. Il comunismo marx-engelsiano. 9. Il rovesciamento dell'ipotesi marxiana: lo sviluppo senza rivoluzione e la rivoluzione senza sviluppo. 10. Il bolscevismo dalla sua formazione al 1917. 11. Il comunismo al potere. La nascita dello Stato bolscevico e la Terza Internazionale. 12. Totalitarismo e industrializzazione accelerata nell'URSS staliniana. 13. Dall'apogeo del comunismo staliniano e dalla formazione del 'campo' socialista alla 'destalinizzazione' ad opera di Chruščëv. 14. L'URSS e l'Europa dell'Est dalla 'restaurazione' brezneviana alla perestrojka di Gorbačëv e al collasso dei regimi comunisti. 15. Il comunismo cinese e la sua evoluzione. 16. Il comunismo nei paesi capitalistici fra le due guerre mondiali. I rivoluzionari senza rivoluzione. 17. Il comunismo occidentale dalla seconda guerra mondiale al suo esaurimento. □ Bibliografia.

1. Significato del termine

Il termine comunismo ha un duplice significato: per un verso designa un progetto di riorganizzazione radicale della società, fondato sull'abolizione della proprietà privata e sulla sua sostituzione con la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, o quantomeno dei beni prodotti, e culminante nella costituzione di rapporti sociali armonici tali da portare alla definitiva soppressione dei conflitti economici, politici ed etici; per altro verso indica l'insieme dei movimenti che si sono organizzati in vista dell'attuazione di questo progetto, e che in età contemporanea, nel quadro delle lotte del movimento operaio, hanno rivendicato una posizione di avanguardia combattendo le posizioni dei partiti socialdemocratici e socialisti giudicate rinunciatarie e devianti.

2. Il comunismo come critica degli 'interessi particolari'

L'idea centrale del comunismo è che i meccanismi economici determinati dalla proprietà privata, i rapporti sociali che ne derivano, le istituzioni politiche che li regolano e gli ordinamenti giuridici che li tutelano, producano necessariamente una strutturale diseguaglianza fra gli uomini, l'oppressione dei molti e il privilegio dei pochi; che l'eguaglianza costituisca il valore e lo scopo supremo; che per realizzare quest'ultimo occorra un sovvertimento totale delle basi della società, il quale introduca la proprietà collettiva. La lotta per il comunismo è dunque finalizzata all'abolizione del mondo degli 'interessi particolari', frutto della divisione tra proprietari e non proprietari, e alla costituzione di un ordine sociale in grado di sopprimere una volta per sempre i meccanismi che, mediante un processo di alienazione, separano l'uomo storico dalla sua natura.

3. I diversi tipi di comunismo

Se tutte le forme di comunismo hanno il loro comun denominatore nella convinzione che la proprietà privata costituisca la matrice di tutti i mali sociali, esse vanno però distinte in relazione a due elementi principali: 1) i mezzi per attuare la nuova società; 2) i 'soggetti' preposti a guidare il processo di trasformazione.

Esiste un comunismo che fa leva in primo luogo sulla riforma etica e/o religiosa dell'uomo, e invece un comunismo politico e materialistico, il quale ritiene che l'arma per eccellenza sia la mobilitazione degli interessi materiali degli strati sociali oppressi. Si dà poi un comunismo che delega a élites di 'coscienti' la guida delle masse, sfruttate ma ideologicamente arretrate, nella lotta per la nuova società; e un comunismo che invece vede nelle masse, rese consapevoli dei loro interessi dal meccanismo stesso dello sfruttamento, il soggetto principale della trasformazione e perciò respinge ogni tutela e guida autoritaria dall'alto.Quanto ai tempi storici in cui i tipi di comunismo si sono affermati, possiamo dire che il comunismo etico e/o religioso si è prevalentemente sviluppato prima della Rivoluzione francese e dell'avvento della società industrialistica, laddove il comunismo politico dopo di esse. Per contro comunismo autoritario e comunismo democratico attraversano l'intera storia di questa teoria e dei movimenti a essa legati.

Prima della Rivoluzione francese e della trasformazione industrialistica, i comunisti concepivano la società esistente come una realtà 'ingiusta', contraria ai precetti della morale umana o della religione oppure all'ideale politico di un ordine non conflittuale. Essi non avevano l'idea, la quale invece caratterizza prevalentemente il secondo tipo di comunismo, che la società fosse un organismo in sviluppo; che questo sviluppo creasse le condizioni per la realizzazione dei progetti comunistici favorendo la crescita di certi gruppi sociali a scapito di altri; che il nuovo ordine potesse essere costituito solo una volta raggiunto un determinato grado di sviluppo e non prima. Le armi fondamentali della loro battaglia, in conseguenza, erano la denuncia dell''ingiustizia' in termini etici e/o religiosi, l'appello all'autoriforma della società, l'elaborazione di progetti di rigenerazione e di rifondazione generale. Questi progetti si esprimevano in disegni utopici, diretti spesso in primo luogo ai governanti e alle classi alte, richiamati ai loro doveri umani. Le vie di siffatti utopismi erano fondamentalmente due: da un lato la stesura ad opera di esponenti delle élites politiche e culturali di testi teorici al fine di persuadere della superiorità razionale e umana dell'ordine comunistico; dall'altro la mobilitazione eversiva di certi strati sociali, guidata da esponenti di correnti del cristianesimo radicale ispirati dal mito dell'eguaglianza evangelica, al fine di costituire una società autenticamente cristiana.Per contro, la convinzione che il comunismo avesse le sue radici nella dinamica dei conflitti di classe e il suo soggetto privilegiato in una specifica classe ha caratterizzato il comunismo contemporaneo: il quale ha affidato la realizzazione dei propri fini in primo luogo non più alla denuncia etica e/o religiosa, bensì alla mobilitazione mondana degli interessi, all'organizzazione politica e alla rivoluzione come rovesciamento dei rapporti di classe, nel quadro di un'analisi scientifica dello sviluppo delle forme di società.

4. Forme e modelli del comunismo antico

In tutte le forme di comunismo premoderno è presente il mito di una felicità perduta a cui si vuole ritornare. Si tratta del mito della cosiddetta 'età dell'oro', che ha una storia millenaria e arriva sino all'epoca moderna. Due soli esempi. Nel Liji (Memorie sui riti), testo che costituisce un'espressione classica dell'utopismo sociale cinese antico e comprende parti che risalgono probabilmente sino al IV-III secolo a.C., si favoleggia di un "periodo della Grande Unità", in cui si lavorava "senza cercare un profitto privato" e "le ambizioni personali non potevano svilupparsi". Nella Spagna del XVI secolo, Cervantes faceva risuonare l'elogio del tempo in cui si ignoravano "queste due parole: tuo e mio" e "tutto era pace, tutto amicizia, tutto concordia".
Nel pensiero antico greco e cinese troviamo fissati due opposti modelli di comunismo, che possiamo definire l'uno gerarchico-organizzativo e l'altro democratico-spontaneistico. Il primo trova la sua classica espressione nella Repubblica di Platone (427-347 a.C.) e il secondo nella scuola taoista (V-IV secolo a.C.). Platone solo con opportune riserve può essere considerato un teorico comunista. Il suo scopo primario era infatti quello di porre fine alla conflittualità all'interno della società greca. Egli elabora un tipo di Stato basato su diverse 'classi' - governanti, guerrieri e produttori -, aristocratico e gerarchico, teso ad assicurare il predominio della minoranza dei 'migliori'. Per assicurare l'ordine politico, vuole che i governanti operino in vista del bene comune e non di quello privato. E allo scopo di ottenere governanti e anche guerrieri lontani dal perseguimento di interessi privati, sostiene la necessità di abolire per gli uni e per gli altri la proprietà privata sia dei beni materiali sia delle donne, in quanto fonte di divisioni e conflitti. L'elemento comunistico resta così limitato al vertice e alla parte centrale della piramide sociale, è funzionale al perseguimento dell'ordine politico, non dell'eguaglianza in quanto valore universale, e viene collocato in una struttura sociale e politica fortemente gerarchica.

Un modello opposto è presentato nella stessa epoca storica dai testi taoisti, dove si parla di "un solo corpo sociale" e di un ordine nel quale "non esistono capi e tutto si svolge in modo spontaneo", senza divisioni fra governanti e governati. Altro interessante tipo di comunismo antico è quello praticato dalla setta ebraica degli Esseni (II secolo a.C.-I secolo d.C.), dove una rigida organizzazione gerarchica, al cui vertice era collocata la casta dei sacerdoti, poggiava sulla comunione dei beni.

5. Cristianesimo e comunismo

Aspetti di radicalismo sociale, che in taluni casi assume un volto comunistico, è inoltre dato rintracciare nel cristianesimo. È naturalmente importante sottolineare come qui il problema della produzione, della distribuzione e del consumo dei beni risulti del tutto subordinato alla dimensione religiosa. Il cristianesimo sociale ha il suo fondamento nel comandamento dell'amore del prossimo e nella condanna della ricchezza in quanto fonte di egoismo. Da ciò derivano due diverse espressioni dell'amore cristiano: l'una moderata e l'altra radicale. Nella forma moderata, lo spirito di carità porta l'abbiente a dare al povero una parte dei propri beni; in quella estrema, a rinunciare integralmente alle ricchezze e a stabilire una comunità dei beni, in modo che tutti possano riconoscersi realmente fratelli in Cristo realizzando la comunione dei santi in attesa della vita eterna. Nel cristianesimo sociale radicale l'attaccamento alla proprietà privata è visto come una conseguenza del peccato originale, che porta l'uomo all'egoismo. Nei Vangeli si trovano passi che giustificano sia la concezione moderata che quella radicale. Quest'ultima ha trovato una sua espressione in un celebre passo degli Atti degli Apostoli, in cui si descrive la comunità dei credenti come quella in cui "tutto era comune".

Il mito dell'età dell'oro trovò nel pensiero cristiano una formulazione tipica. Nel De civitate Dei sant'Agostino (354-430) parla di una prima età in cui gli uomini vivevano senza leggi e proprietà privata, prodotti le une e l'altra dal peccato originale. Dal canto suo sant'Ambrogio (340-397) denuncia la proprietà come "usurpazione".
Nel periodo tardo antico e nel Medioevo si diedero movimenti di ribellione sociale, correnti ereticali, singole personalità, che attaccarono le istituzioni legate alla proprietà in nome di una completa rigenerazione umana e religiosa. Fra i primi possiamo ricordare il movimento dei Circoncellioni, braccianti cristiani poverissimi in lotta contro i grandi proprietari romani dell'Africa settentrionale del IV secolo, e i movimenti millenaristici medievali, tra i quali fece spicco quello dei Taboriti; fra le seconde i Patarini, i Catari, i Valdesi, le correnti estreme del movimento francescano; fra le singole personalità, Gioacchino da Fiore (c. 1130-c. 1202), fra Dolcino (c. 1250-1307), che predicò la comunione dei beni e delle stesse donne, i seguaci dalle tendenze radicali dell'inglese John Wycliffe (c. 1320-1384) e del boemo Jan Hus (c. 1369-1415). Un particolare significato va attribuito al movimento rivoluzionario dei Taboriti, i quali nella prima metà del XV secolo organizzarono, in una località della Boemia settentrionale da essi denominata Tabor (dal monte della Galilea), una società teocratico-comunistica volta a costituire una 'nuova Gerusalemme', la quale venne stroncata dalla repressione nel 1434.

Non è agevole attribuire precise basi sociali alle correnti di radicalismo ereticale e al comunismo tardo antico e medievale; ma in termini generali è possibile dire che i movimenti come quello dei Circoncellioni e dei Taboriti ebbero una base formata prevalentemente da strati inferiori (braccianti, contadini poveri, piccoli artigiani, emarginati); laddove le altre tendenze sopra menzionate misero radici anche negli strati intermedi (artigiani, commercianti, contadini, basso clero) e in taluni casi coinvolsero persino esponenti delle classi superiori. Grande importanza, infine, ebbe nel Medioevo la rivolta contro le istituzioni feudali e la Chiesa ufficiale, considerata un puntello non già del regno di Dio ma di quello di Mammona.

6. Le correnti del comunismo millenaristico e utopico nell'età moderna

Nell'età moderna il comunismo fa il suo ingresso per un verso con le tendenze estremistiche manifestatesi in Germania nel corso della guerra dei contadini (1524-1526), che vide emergere la figura di Thomas Müntzer (c. 1467-1525), e con il movimento degli anabattisti di Münster, e per l'altro verso con il progetto di integrale ristrutturazione della società elaborato da Tommaso Moro (1478-1535) in Inghilterra.

Il movimento esploso con la guerra dei contadini, a carattere nettamente antifeudale, agitò solo in maniera confusa il Leitmotiv della comunione evangelica dei beni. Gli elementi comunistici emersero invece in primo piano nel movimento anabattista che, in congiunta ostilità ai cattolici e ai luterani, portò alla fondazione nel 1534 di una repubblica teocratica nella città di Münster, dove - si diceva nel suo programma - tutti attingono "in base ai bisogni" ai beni messi in comune. È importante notare tanto nel movimento dei contadini quanto nel tentativo di Münster un aspetto di 'sociologia della rivoluzione', vale a dire l'alleanza tra elemento popolare da un lato e leaders intellettuali radicali ed elementi declassati delle classi superiori, come i nobili impoveriti, dall'altro: un aspetto che, in un quadro ammodernato delle figure sociali, verrà poi teorizzato dal comunismo contemporaneo come fattore centrale dell'azione rivoluzionaria.

È nel pensiero di Moro che il comunismo moderno trova la sua prima elaborazione teorica. Egli reagì non solo contro l'ordine feudale, ma anche contro le enclosures - che in Inghilterra allargavano la grande proprietà privata a scapito della piccola proprietà contadina oppure delle terre comuni nell'ambito del processo di modernizzazione agraria - e contro gli sviluppi del capitalismo manifatturiero. Il suo saggio Utopia (1516) deve la propria importanza a tre elementi principali. In primo luogo esce dalla penna di uno dei maggiori esponenti della classe dirigente inglese, lord cancelliere e grande intellettuale; in secondo luogo è il frutto di una conoscenza quanto mai realistica dei meccanismi del sistema di potere; in terzo luogo è l'espressione di una concezione comunistica radicale, secondo cui la società esistente richiede una rifondazione ab imis. Di qui il significato del titolo del saggio: "utopia", vale a dire progetto di una società che non sta ancora in nessun luogo. Per Moro le istituzioni economiche e politiche vigenti sono state tutte costruite in funzione dello sfruttamento e per la sua difesa; lo Stato è uno strumento diretto delle classi privilegiate; la proprietà privata è la fonte dei mali della società e dei suoi conflitti. "Il solo mezzo - scrive - per organizzare la pubblica felicità consiste nell'applicare il principio dell'eguaglianza. Ora l'eguaglianza è impossibile in uno Stato nel quale la proprietà sia individuale e assoluta". Moro, inoltre, introduce un'altra idea-forza del comunismo moderno: la necessità di elaborare un 'piano' generale onde regolare secondo modalità razionali e ai fini della pubblica felicità la produzione, e di abolire il danaro come mezzo di accumulazione e di scambio. Per lui il comunismo rappresenta il mezzo necessario per stabilire l'armonia fra tutti e consentire a ciascuno di sviluppare le proprie facoltà spirituali liberamente. Emerge qui chiaramente un'analisi che distingue fra 'struttura' materiale e 'sovrastrutture' istituzionali e culturali.

Al Moro cattolico e utopista, il quale analizza la società inglese agli albori dei processi di modernizzazione, rimane estranea l'idea che per la realizzazione del comunismo occorra una mobilitazione sociale e politica degli interessi. Egli resta altresì in un orizzonte entro il quale il mezzo è essenzialmente la persuasione filosofica, etica e religiosa delle classi alte. E rimane nella scia platonica nell'affidare ai migliori la guida politica della nuova società. Quasi un secolo dopo il calabrese Tommaso Campanella (1568-1639) nella Città del sole (1602) dava un'altra formulazione di utopismo comunista, immaginando una teocrazia senza proprietà privata, sottoposta a criteri di programmazione (degli stessi accoppiamenti, essendo poste in comune anche le donne), retta da un'élite sapiente, tesa alla rigenerazione etico-religiosa universale.
Nel XVII e XVIII secolo il comunismo ebbe tre principali direzioni di sviluppo. In primo luogo trovò una sua significativa espressione in quello che venne detto 'lo Stato comunistico' dei gesuiti del Paraguay; in secondo luogo diventò la bandiera delle correnti più radicali della prima Rivoluzione inglese e della Rivoluzione francese; in terzo luogo fu il prodotto del pensiero di intellettuali. Nel Paraguay, con l'intento di sottrarre gli Indios alla schiavitù, i gesuiti costituirono nel corso del XVII secolo delle comunità nelle quali il lavoro era obbligatorio, i beni distribuiti secondo i bisogni delle famiglie, la proprietà individuale e il danaro vietati, l'istruzione organizzata, il sistema di governo costituito affiancando principî gerarchici e forme di autogoverno. Questo esperimento di 'teocrazia sociale' venne travolto in conseguenza dell'espulsione dell'ordine dei gesuiti avvenuta nel XVIII secolo ad opera delle monarchie assolute.

Nel corso delle due maggiori rivoluzioni europee dell'età moderna, il comunismo assunse una nuova specificità. Esso si manifestò come critica non soltanto della proprietà in generale ma in specie della proprietà borghese in sviluppo, introducendo l'idea che la società comunista avrebbe potuto nascere unicamente dalla mobilitazione in senso rivoluzionario degli strati oppressi. Il comunismo subì in tal modo un mutamento qualitativo, diventò un'ideologia politica in senso moderno, finalizzata a una lotta fra gruppi e classi sociali e alla creazione di un ordine politico atto a garantire il successo del potere rivoluzionario nella fase di transizione dalla vecchia alla nuova società.

Durante la prima Rivoluzione inglese il comunismo emerse, intorno alla metà del XVII secolo, con il movimento degli Zappatori (così detti per aver preso a zappare terreni pubblici in nome del lavoro libero e della proprietà comune), i quali, legando comunismo agrario e cristianesimo primitivo, chiesero la formazione di un settore collettivizzato dell'economia e denunciarono il sistema legale e le istituzioni religiose come baluardi della proprietà privata.

Nella cultura francese settecentesca gli ideali comunistici vennero ripresi da alcuni intellettuali radicali, che, in diretta opposizione alla concezione lockiana secondo cui la proprietà privata costituisce un diritto di natura inviolabile, definirono la proprietà come il più negativo degli artifici sociali, e cioè contro natura. Del pari, fu posta in primo piano la tesi, che collegava comunismo e materialismo, secondo cui non solo le chiese ma la religione stessa andava respinta, essendo un ostacolo alla libertà spirituale e uno strumento del potere dei privilegiati. Si trattò di una svolta che poneva fine al connubio fra comunismo e cristianesimo millenaristico. Jean Meslier (1664-1729), povero e solitario parroco, sostiene che Dio non esiste e che la proprietà è la fonte di tutte le ingiustizie. Nel suo Testamento afferma solennemente che "tutti gli uomini sono uguali per natura". E Morelly (nome di un personaggio sconosciuto) nel suo Codice della natura stabilisce l'equivalenza di natura, ragione, comunanza dei beni, felicità. Gabriel Bonnot de Mably (1709-1785) ritiene che la proprietà sia la radice dell'oppressione e dell'ingiustizia. L'originalità di Léger-Marie Deschamps (1716-1774) sta nel concepire il comunismo come "una società dei costumi", retta da spontanei vincoli di adesione, in cui non si danno più "né ordini né obbedienza".

Perché il radicalismo teorico di questi pensatori trovi una sua espressione concretamente politica, occorre attendere l'iniziativa rivoluzionaria coagulatasi durante la Rivoluzione francese intorno a François-Noël Babeuf, detto Gracco (1760-1797). Il babuvismo rappresenta insieme l'ultima espressione del comunismo preindustriale e la prima forma di comunismo contemporaneo. Esso resta nell'alveo del comunismo preindustriale, in quanto guarda ancora anzitutto al mondo delle campagne, alla produzione artigianale e al comunismo in termini prevalentemente di comunione dei beni prodotti; sennonché apre un capitolo del tutto nuovo, in quanto prodotto delle lotte politiche e sociali della Rivoluzione francese. Questa diede ai babuvisti la convinzione che la dinamica dei conflitti politici avesse le radici nei diversi interessi di classe, che l'eguaglianza perseguita dalla borghesia mantenesse un carattere 'formale', che per emanciparsi il Quarto stato, formato dalle masse dei lavoratori subalterni, degli artigiani, dei contadini poveri, degli emarginati, dovesse compiere - come affermava il Manifesto degli Eguali (1797) - "l'ultima rivoluzione", quella cioè che avrebbe introdotto il comunismo. L'originalità del babuvismo consistette in particolare nell'elaborare una specifica teoria della transizione rivoluzionaria, secondo la quale: 1) la lotta per il comunismo poteva essere diretta solo da una minoranza cosciente e organizzata; 2) nel corso di questa lotta era inevitabile l'uso della violenza; 3) il potere postrivoluzionario preposto al consolidamento della rivoluzione sarebbe stato una 'dittatura' avente quale scopo di preparare la transizione al comunismo. Questi i principî della congiura degli Eguali, conclusasi nel maggio del 1797, allorché Babeuf venne ghigliottinato.

7. Socialismo e comunismo 'utopistici' nell'età della prima industrializzazione

La rivoluzione industriale e i suoi sviluppi da un lato e la Rivoluzione francese dall'altro diedero al comunismo tre nuove componenti di cruciale importanza, tali da costituire uno spartiacque fra il comunismo moderno e quello contemporaneo: 1) la convinzione che, grazie agli effetti dell'industrializzazione, il comunismo sarebbe scaturito primariamente dalla crescita di una ricchezza sociale inaudita messa a disposizione di un'umanità liberata dai conflitti di classe; 2) l'identificazione del 'soggetto' portatore della lotta per il comunismo nella moderna classe operaia organizzata in funzione dei propri interessi rivoluzionari; 3) l'identificazione della guida delle masse rivoluzionarie nella minoranza di quanti sono 'coscienti' delle leggi di sviluppo della società e quindi, oltre che della desiderabilità, anche della necessità storica del comunismo.

Occorre, a questo punto, notare che il comunismo otto-novecentesco si è sviluppato in stretto rapporto con ciò che è stato e viene chiamato 'socialismo'. Si tratta di un rapporto che per un verso risulta inscindibile e per un altro non solo richiede una distinzione ma comporta altresì una contrapposizione. Anzitutto vanno chiariti la distinzione terminologica e il suo significato.

Il comunismo fa primariamente riferimento al fine della comunione dei beni, insomma a un obiettivo di radicale mutamento delle basi della società; il socialismo, invece, è da correlarsi all'assunzione dei problemi posti dall'emergere nella società industriale della 'questione sociale' come dimensione oggettiva della società, e a progetti diversi, anche del tutto contraddittori fra loro, volti ad affrontarla. Vi è un socialismo che si collega in linea diretta al comunismo, del quale si considera fase preliminare. Vi sono forme di socialismo rivoluzionario e altre che respingono la rivoluzione in nome di un riformismo gradualistico, pur mantenendo come fine l'abolizione della proprietà privata. Vi sono forme che intendono affermare il primato del momento sociale e solidaristico, senza abolire la proprietà privata ma solo limitandola e controllandone l'esercizio (come il socialismo di Stato tedesco, il socialismo cristiano, il socialismo cooperativo, le forme di socialismo favorevoli a un'economia 'mista' pubblico-privata regolata dallo Stato, ecc.). Vi sono le diverse correnti di socialismo anarchico, avverse allo statalismo politico ed economico. Vi è il socialismo liberale, che considera necessario porre in relazione feconda mercato, iniziativa individuale e diritti sociali.

Nella prima metà dell'Ottocento la rivoluzione industriale dall'Inghilterra si estese all'Europa occidentale. Gruppi di intellettuali socialisti e comunisti ed esponenti delle frange radicali degli strati sociali inferiori, fra cui numerosi artigiani, giunsero alla conclusione che il capitalismo industriale individualistico e concorrenziale non fosse strutturalmente in grado di risolvere la questione sociale, e andasse perciò abolito. Circa i modi in cui ricostruire la società e con quali mezzi, socialisti e comunisti si divisero in diverse scuole.

Accanto agli esponenti del socialismo che progettavano nuove forme di società, quali Claude-Henri conte di Saint-Simon, Robert Owen, Charles Fourier, Pierre-Joseph Proudhon e Louis Blanc, si collocavano teorici e agitatori che si ponevano quale scopo non tanto di analizzare la nuova società capitalistica e di innestare su questa analisi i loro progetti socialistici, quanto piuttosto di predicare un neomillenarismo comunistico guidato da profeti e capi carismatici o volto a stabilire una dittatura rivoluzionaria. Étienne Cabet (1788-1856), assai popolare fra gli operai francesi, mentre riprendeva i modelli dell'utopismo comunista di Moro e Campanella, vedeva nell'unione fra comunisti moderni e un dittatore, nuovo Gesù, il mezzo del sovvertimento della società esistente.

Il tedesco Wilhelm Weitling (1808-1871) nelle Garanzie dell'armonia e della libertà (1842) teorizzò la conquista del potere da parte delle masse sotto la guida di un capo provvidenziale. Il contributo di questi pensatori era importante in quanto poneva in primo piano il problema della leadership politica nel processo rivoluzionario.

Circa il cruciale nodo se si rendesse o meno necessario il ricorso alla violenza, mentre ad esempio Cabet lo respingeva, essendo convinto della forza di persuasione esercitata dall'evangelismo comunista, Louis-Auguste Blanqui (1805-1881) riprese l'impostazione di Babeuf e del suo seguace Filippo Buonarroti, sostenendo la via della cospirazione, l'obiettivo della 'dittatura del proletariato', elevando così questa classe a soggetto primario del processo rivoluzionario, e un ruolo privilegiato delle minoranze coscienti e attive nella lotta di classe e nel potere dittatoriale.

8. Il comunismo marx-engelsiano

Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895) sono i maggiori teorici del comunismo contemporaneo, e da essi prese origine il 'marxismo' (così chiamato dal riconoscimento del maggior contributo dato dal primo). Nel comunismo marxistico giunsero a maturazione due elementi essenziali: un'analisi e una critica della società esistente che ne fecero una presenza teorica e politica centrale nel mondo contemporaneo; un legame organico fra teoria comunistica e movimento organizzato dei lavoratori.
Il marxismo riprese dalle utopie comunistiche e socialistiche l'idea che la proprietà privata e le istituzioni che da essa derivavano fossero da abolire integralmente; e dalle correnti del materialismo settecentesco e dal pensiero di Ludwig Feuerbach ricavò la concezione che la libertà spirituale richiedesse la piena liberazione dall''alienazione' religiosa.

Ma, figlio della rivoluzione industriale e delle lotte politiche e sociali che avevano avuto la loro matrice nella Rivoluzione francese, il marxismo si distaccò completamente da quelle utopie nel modo di intendere il fondamento sociale del movimento comunista. Esso, dando all''utopismo' un carattere negativo per la sua astrattezza e mancanza di senso della concretezza nel considerare le varie formazioni storico-sociali e il carattere necessario della loro successione, affermò che il comunismo poteva derivare soltanto dallo sviluppo e quindi dal superamento della società esistente, non dalla sua negazione ideologica; che in assenza dello sviluppo capitalistico il comunismo era destinato a restare un'utopia per mancanza di un adeguato presupposto materiale; che solo il capitalismo poteva portare a maturazione i conflitti di classe fra le due moderne classi sociali: la borghesia, agente storico della modernizzazione, e il proletariato, chiamato a essere l'agente del superamento della formazione economico-sociale capitalistica; che, giunto al potere, il proletariato avrebbe stabilito la propria dittatura politica, servendosi del potere statale per stroncare l'opposizione delle vecchie classi, eliminare il meccanismo dello sfruttamento economico, assicurare il passaggio alla fase socialista in cui ciascuno avrebbe ricevuto secondo il proprio lavoro; che, infine, sarebbe stata raggiunta la fase della realizzazione del comunismo, contrassegnata da un'enorme disponibilità di beni - tanto da consentire a ciascuno di ricevere secondo i propri bisogni -, dalla fine dei conflitti sociali e dal regno dell'armonia, da un umanesimo integrale ignaro dell'alienazione religiosa, dal libero sviluppo della personalità di ciascuno, dall'eliminazione della divisione del lavoro e della distinzione fra funzioni manuali e funzioni intellettuali, dall'abolizione del danaro, dalla fine del dominio dell'uomo sull'uomo (e quindi insieme di ogni sfruttamento economico, della politica e dello Stato in quanto mezzo del potere delle classi superiori su quelle inferiori), dalla scomparsa della divisione fra città e campagna in conseguenza di un uniforme grado di sviluppo, dal passaggio alla sola 'amministrazione delle cose' essendo ormai priva di senso 'l'amministrazione degli uomini'.

Il Manifesto del Partito comunista (1848) fu l'opera in cui Marx ed Engels esposero i principî della loro dottrina e sostennero la tesi che ai comunisti spettava il ruolo di rappresentare l'"interesse del movimento complessivo" dei lavoratori; che la lotta per il socialismo e il comunismo avrebbe richiesto un'organizzazione; che, infine, la rivoluzione stessa avrebbe dovuto essere internazionale per poter porre fine a quel capitalismo che aveva ormai superato tutti i confini nazionali. Accanto al Manifesto, nella ricchissima produzione intellettuale di Marx un posto preminente spetta a Per la critica dell'economia politica (1859) e a Il capitale, l'opera in tre volumi di cui solo il primo venne pubblicato nel corso della sua vita, nel 1867. Nella prima opera Marx, inteso a descrivere l'anatomia della società borghese, tracciava la distinzione fra due piani: la 'struttura economica', ossia 'la base reale' costituita dalle forze produttive materiali e dai rapporti di produzione e sede dei meccanismi dello sfruttamento capitalistico, e la 'sovrastruttura giuridica e politica', che dava espressione alle forme, condizionate dalla struttura economica, della 'coscienza sociale' e delle istituzioni intese a regolare il piano delle relazioni materiali. La stabilità di una formazione economico-sociale è data da una relazione di equilibrio e di funzionalità fra struttura e sovrastruttura. Quando invece, in conseguenza dello sviluppo, si crea una condizione di contraddittorietà crescente fra la prima e la seconda, "allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale".

L'idea del primato dell'economia nello sviluppo sociale caratterizza il marxismo come una concezione 'materialistica' della storia; laddove l'idea che il conflitto fra classi dagli interessi incompatibili costituisca il motore della rivoluzione ne fa una concezione 'dialettica' (Marx aveva subito l'influenza profonda del pensiero dialettico di Hegel). Il capitale fu il testo nel quale Marx analizzò, piegando alle esigenze della propria analisi l'eredità teorica di pensatori classici come Smith e soprattutto Ricardo, le leggi che regolavano lo sviluppo del capitalismo. Intendendo segnare una cesura rispetto al comunismo da lui considerato utopistico in quanto concepiva l'avvento della nuova società come il prodotto della rivendicazione di diritti umani violati, Marx affermò: "Il mio punto di vista [...] concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come un processo di storia naturale".

Da questa impostazione venivano le seguenti conclusioni: 1) che il meccanismo di sfruttamento capitalistico (avente il suo cardine nell'appropriazione del 'plusvalore' da parte del capitalista) rappresentava una fase necessaria dello sviluppo sociale; 2) che tutti i paesi nel corso della loro modernizzazione avrebbero seguito fondamentalmente la via inglese; 3) che la rivoluzione socialista internazionale avrebbe potuto avvenire solo una volta che il capitalismo avesse raggiunto la sua maturità; 4) che lo sviluppo del capitalismo giunto alla fase della piena maturità avrebbe prodotto prima la scomparsa dei ceti intermedi e poi lo scontro risolutivo fra una minoranza di grandi capitalisti e la grande massa dei proletari, sulla base di un processo gigantesco di concentrazione delle attività produttive; 5) che siffatta concentrazione avrebbe costituito la base materiale, una volta realizzatosi il processo di espropriazione dei capitalisti, della produzione collettivistica sottoposta alle regole del piano socialista.

La lotta rivoluzionaria, secondo Marx ed Engels, doveva avere quindi il suo fondamento nella conoscenza scientifica dello sviluppo economico-sociale, nell'organizzazione del proletariato e nella guida esercitata su quest'ultimo dai comunisti.Un aspetto importante era altresì quello del ruolo che la violenza e le sue forme avrebbero esercitato nel processo rivoluzionario. Marx ed Engels considerarono la dittatura del proletariato come un inevitabile atto di violenza sociale e istituzionale. Per quanto riguardava invece la violenza fisica, quale quella esercitata dai giacobini, essi oscillarono: in taluni momenti la condannarono, in altri la definirono una necessità politica. Certo per essi maggiormente contava la violenza istituzionale. E nel 1871 Marx, commentando i fatti della Comune di Parigi, affermò che "la forma politica" con cui "si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro" non era il parlamentarismo liberale, bensì una dittatura del proletariato fondata su istituti di democrazia di classe e diretta, tale da impedire la ripresa politica delle classi dirigenti sconfitte e da spezzare lo Stato burocratico e centralistico.

9. Il rovesciamento dell'ipotesi marxiana: lo sviluppo senza rivoluzione e la rivoluzione senza sviluppo

La formazione nel 1864 della Prima Internazionale dei partiti socialisti e operai, la crescente diffusione del marxismo nelle sue file, l'inizio nel 1873 di un lungo e vasto ciclo depressivo del capitalismo parvero dare un credibile fondamento alle analisi di Marx ed Engels. Sennonché il periodo fra l'ultimo decennio del secolo e lo scoppio della prima guerra mondiale scompaginò profondamente lo status teorico e pratico del marxismo. Si assistette, infatti, a un evolversi del processo storico che rovesciava i nessi 'logici' stabiliti dall'analisi marxiana. Assumendo come parametri dello sviluppo capitalismo e democrazia politica, si vide che, dove si consolidavano l'uno e l'altra insieme, i movimenti rivoluzionari socialisti non assumevano alcun ruolo significativo (Stati Uniti e Inghilterra); dove il capitalismo metteva salde radici, ma il quadro istituzionale restava fortemente autoritario, i conflitti politici e sociali tendevano nella sostanza sempre più alla conquista della democrazia e sempre meno all'abbattimento del capitalismo (Germania); dove, invece, il capitalismo moderno era ancora in una fase iniziale e contemporaneamente mancava la democrazia, lì allora lo spirito e la pratica rivoluzionaria si rafforzavano costantemente, e il marxismo diventava una componente fondamentale della lotta contro il sistema dominante (Russia zarista).

In tal modo il marxismo subì un drastico mutamento di funzione: in luogo di essere l'ideologia di una classe operaia maggioritaria in un capitalismo maturo per la transizione al socialismo, diventò di fatto l'ideologia di élites intellettuali e di gruppi di minoranza della classe operaia, aventi di fronte quale unico compito possibile una rivoluzione diretta contro un ordine politico-istituzionale autoritario, in una società debolmente borghese e capitalistica, e finalizzata alla modernizzazione.

Alla vigilia della prima guerra mondiale questo processo di differenziazione nella 'geografia' del movimento operaio internazionale appariva completamente delineato. Ed è particolarmente significativo che in Germania, dove esisteva il più forte partito socialdemocratico del mondo, la forza dello sviluppo capitalistico avesse portato alla nascita di una corrente di radicale revisione del marxismo (il 'revisionismo', di cui fu promotore Eduard Bernstein, divenuto poi una corrente internazionale), che criticava frontalmente l'analisi dello sviluppo economico di Marx e la prospettiva rivoluzionaria, indicando quali compiti essenziali la lotta per le riforme sociali e per la piena democrazia politica. La maggioranza del partito restava sì fedele alla lettera del marxismo, ma nella pratica era orientata fondamentalmente a seguire la linea revisionistica. Il marxismo - e qui notiamo un aspetto largamente anticipatorio di un processo destinato a diffondersi nei partiti politici legati al movimento operaio dell'Europa capitalistica sviluppata - non esprimeva una funzione rivoluzionaria attiva, bensì quella di una ideologia della protesta, per lo più passiva, diretta contro gli aspetti autoritari dello Stato e il conservatorismo sociale delle classi dirigenti.

10. Il bolscevismo dalla sua formazione al 1917

Fu in Russia, dove nel 1898 era sorto il Partito Operaio Socialdemocratico Russo, che la rivoluzione tornò a diventare prassi concreta e il marxismo una delle sue componenti attive, avendo però, come si è detto, le sue radici non nella maturità, ma all'opposto nell'immaturità del capitalismo.

Ben presto, nel 1903, al suo II Congresso il Partito si divise, in relazione sia ai criteri di organizzazione interna, sia alle prospettive strategiche, in una corrente minoritaria ('menscevica') e in una maggioritaria ('bolscevica'). I menscevichi erano favorevoli a un'organizzazione aperta non solo agli elementi impegnati attivamente nel lavoro di partito ma anche ai simpatizzanti che ne condividessero i fini; erano ostili all'idea di qualsiasi primato degli intellettuali e consideravano il proletariato il vero soggetto del processo rivoluzionario, in quanto lo ritenevano pienamente in grado di acquisire la necessaria 'coscienza' socialista, in conseguenza della posizione sociale tenuta nella struttura di classe e nel processo produttivo dominato dai meccanismi dello sfruttamento. Per contro, in diretta opposizione al leader del menscevismo Julij Osipovič Cederbaum, detto Martov (1873-1923), il leader del bolscevismo Vladimir Il´ič Ul´janov, detto Lenin (1870-1924), sostenne un punto di vista rovesciato, illustrato soprattutto negli opuscoli Che fare? (1903) e Un passo avanti e due indietro (1904). Qui Lenin operò una vera e propria rivoluzione copernicana in relazione al modo, consolidatosi nel marxismo occidentale e nella sua variante menscevica, di considerare il rapporto fra 'coscienza socialista' da un lato e minoranze attive e massa proletaria dall'altro.

Anche Lenin non nutriva il minimo dubbio che le contraddizioni oggettive dello sviluppo capitalistico avrebbero spianato la strada alla rivoluzione socialista; ma interpretò il meccanismo di queste contraddizioni in maniera del tutto inedita. Egli mise al centro la tesi che lo sfruttamento per propria natura spingeva le masse alla lotta per miglioramenti immediati, producendo quindi spontaneamente in esse non una coscienza socialista bensì 'tradeunionista', favorevole ad accogliere le istanze riformistiche del liberalismo borghese e del 'revisionismo'. La coscienza socialista-rivoluzionaria era un prodotto dell'elaborazione degli intellettuali marxisti e la sede della sua preservazione e diffusione poteva essere unicamente il partito. Membri del partito dovevano essere solo coloro che fossero disposti a trasformarsi in 'rivoluzionari di professione'. Quindi niente simpatizzanti, inclini al disimpegno e all'opportunismo attendistico. Principio vitale del partito era un'organizzazione in cui regnasse la più rigida disciplina, avente una struttura gerarchica, che connettesse in maniera funzionale il vertice dei capi ideologi, lo strato intermedio composto da quadri selezionati, la base costituita dai membri. Il modello di Lenin era la struttura verticistico-burocratica della fabbrica moderna. Il partito nel suo insieme aveva il compito di educare ideologicamente e guidare le masse proletarie nel corso delle lotte di classe. La teoria leniniana si caratterizzava così in modo da delineare il ruolo privilegiato di tre élites gerarchicamente strutturate: i capi del partito costituivano l'élite interna; il partito era l'élite preposta a dirigere il proletariato; il partito insieme con il proletariato da esso guidato formavano a loro volta una più vasta élite, avente quale compito di mettere in atto la rivoluzione nell'intero corpo sociale, in Russia dominato dalle grandi masse contadine arretrate. Una simile teoria svincolava il leninismo dalle teorie democratiche ottocentesche, collegandolo alle varie teorie elitistiche che si svilupparono a cavallo fra Otto e Novecento. Nel Che fare? Lenin affermò significativamente: "La coscienza politica di classe può essere portata all'operaio solo dall'esterno"; e in Un passo avanti e due indietro che "il principio organizzativo della socialdemocrazia rivoluzionaria" recitava: "burocratismo versus democrazia e centralismo versus autonomia".

A riguardo della strategia rivoluzionaria nella situazione russa, Lenin sostenne che, data la debolezza della borghesia come classe, era da escludersi che l'abbattimento dello zarismo avrebbe introdotto, come invece ritenevano i menscevichi, una fase stabile di capitalismo liberale. La debolezza borghese spingeva il partito a farsi leader di un blocco sociale operaio-contadino con lo scopo di instaurare una 'dittatura democratica' guidata dai partiti rivoluzionari, fra cui la socialdemocrazia, e diretta a una modernizzazione ancora capitalistica nei rapporti di produzione ma non politicamente egemonizzata dalla borghesia liberale. La dittatura democratica degli operai e contadini, una volta scoppiata la rivoluzione socialista nei paesi capitalistici sviluppati e grazie all'aiuto economico fornito alla Russia arretrata dai nuovi Stati socialisti, si sarebbe trasformata in dittatura del proletariato. Così la Russia si sarebbe congiunta all'Occidente nel quadro della rivoluzione internazionale socialista.

La Rivoluzione russa del 1905, conclusasi con la riaffermazione dell'autocrazia, anche se attenuata, vide lo scacco tanto della strategia bolscevica quanto di quella menscevica. Ma la Rivoluzione fece maturare nuove importanti tendenze teoriche e pratiche, che dovevano produrre decisive influenze e conseguenze sul comunismo contemporaneo. Due gli elementi centrali: la comparsa dei soviet (consigli), sorti a Pietroburgo e a Mosca e in altre località per iniziativa spontanea delle masse a fini di auto-organizzazione in assenza di sindacati e in conseguenza delle difficoltà d'azione dei partiti clandestini rivoluzionari; la questione del rapporto tra Rivoluzione russa e rivoluzione socialista internazionale. Di contro ai menscevichi che videro nei soviet una inequivocabile prova della 'coscienza' delle masse, Lenin riaffermò il primato assoluto del partito.

Accanto alle posizioni di menscevichi e bolscevichi emerse nella socialdemocrazia russa una terza posizione, di cui furono esponenti Alexander Helphand (1869-1924), detto Parvus, e Lev D. Bronštein, detto Trockij (1879-1940). I due elaborarono la teoria della 'rivoluzione permanente', secondo la quale non solo non ci si poteva attendere in Russia un ruolo rivoluzionario della borghesia, ma era da considerarsi altresì irrealizzabile una dittatura democratica secondo la concezione leniniana. L'abbattimento dello zarismo avrebbe infatti visto il proletariato passare direttamente alla lotta contro i rapporti capitalistici con finalità apertamente socialiste. Data l'arretratezza russa, un simile processo avrebbe potuto però raggiungere i suoi scopi solo se la Rivoluzione nell'Impero si fosse saldata con le rivoluzioni socialiste nei paesi capitalistici sviluppati, le quali dalla Rivoluzione russa avrebbero ricevuto un impulso essenziale. In conseguenza, la rivoluzione in Russia e in Europa avrebbe assunto il carattere di un processo 'ininterrotto'. Parvus, in particolare, giunse allora a vedere nei soviet i nuclei espansivi di una 'democrazia proletaria' opposta per principî e interessi alla democrazia di tipo liberale e parlamentare, in quanto in essi vigeva il principio della democrazia diretta. Una simile prospettiva si collocava in piena antitesi rispetto all'elitismo leniniano.

11. Il comunismo al potere. La nascita dello Stato bolscevico e la Terza Internazionale

L'adesione nel 1914 dei partiti socialisti ai governi di guerra nell'Europa centro-occidentale aveva portato il bolscevismo ad affermare che essi avevano completamente tradito i propri compiti rivoluzionari, cedendo all'influenza corruttrice delle classi dirigenti. D'altra parte esso aveva tratto dalla guerra la conclusione che il capitalismo internazionale fosse giunto alla crisi definitiva, che fossero mature le condizioni 'oggettive' per la rivoluzione, che fosse compito storico delle forze autenticamente rivoluzionarie, di cui il bolscevismo stesso costituiva una delle componenti fondamentali, di assicurare al proletariato quella guida 'soggettiva' senza la quale la rivoluzione non era in grado di passare dalla potenza all'atto. Nel 1916 Lenin diede una compiuta base teorica a questo orientamento ne L'imperialismo, fase suprema del capitalismo. Egli teorizzò che occorreva creare una nuova Internazionale, escludendo i falsi socialisti, e trasformare la guerra imperialistica in 'guerra civile', avendo quale obiettivo la lotta per il potere su scala internazionale. Per quanto riguardava la Russia, facendo ormai propria l'essenza della teoria della rivoluzione permanente, il leader del bolscevismo riteneva che la rivoluzione socialista nei paesi sviluppati avrebbe favorito il rapido passaggio dalla 'dittatura democratica' alla rivoluzione socialista.

Nel febbraio del 1917 (marzo secondo il calendario occidentale) lo zarismo venne abbattuto in Russia e in ottobre (novembre) i bolscevichi presero il potere sotto la guida di Lenin e di Trockij. Nella crescente disgregazione istituzionale, sociale e militare, il discredito dei governi costituitisi dopo il collasso dello zarismo, il raggruppamento crescente intorno ai bolscevichi degli operai radicalizzati in senso anticapitalistico, dei soldati ostili al proseguimento della guerra e delle masse contadine spinte da Lenin a impadronirsi della terra costituirono il presupposto del successo bolscevico. Questo fu favorito in maniera risolutiva dal fatto che, di fronte alla crescente disorganizzazione delle forze avversarie, i bolscevichi avevano a disposizione un partito fortemente disciplinato e gerarchizzato, dotato altresì di una sua forza militare (è da tenersi presente che fin dal 1912 la corrente bolscevica, pur formalmente ancora parte del Partito Operaio Socialdemocratico, si era trasformata di fatto in un partito autonomo). La lotta per il potere trovò un'ulteriore condizione favorevole nella leadership congiunta di Lenin, che aveva ormai fatto propria la posizione di Trockij sulla rivoluzione permanente, e di questi, il quale, già tenace avversario menscevico della teoria leniniana dell'organizzazione, ne era ora divenuto un convinto sostenitore e nell'agosto del 1917 era entrato nel Partito bolscevico.
Nel gennaio 1918, dopo che le elezioni per la prima Assemblea Costituente della storia russa (aspirazione tradizionale di tutte le forze antizariste) avevano dato un esito nettamente sfavorevole ai bolscevichi nel suo insieme (175 seggi su 707), ma la maggioranza del consenso nelle zone proletarie, il governo bolscevico fece sciogliere con la forza l'Assemblea stessa, affermando che il partito più progressivo, avente l'appoggio della classe sociale più avanzata della società, non poteva e non doveva cedere il potere a una maggioranza arretrata. Lenin - che nel 1917 aveva steso un saggio, non terminato, Stato e rivoluzione, dove delineava i tratti di una 'democrazia proletaria', in cui lo Stato centralistico e burocratico sarebbe stato completamente distrutto, ogni autorità si sarebbe trovata sottoposta al controllo costante delle masse e sarebbe stato abolito "qualsiasi carattere di privilegio e di 'gerarchia'" - operò un'irrimediabile rottura con il parlamentarismo 'borghese', sostenendo che il consenso della maggioranza del popolo non sarebbe mancato ai bolscevichi non appena il nuovo potere avesse avuto modo di far sentire i propri benefici effetti. A sottolineare il divorzio con i partiti e le correnti socialdemocratiche o socialiste - che condannavano il bolscevismo come antidemocratico e la Rivoluzione di ottobre come un 'colpo di Stato' che aveva costituito un potere socialista in un paese economicamente del tutto immaturo per il socialismo -, i bolscevichi assunsero nel marzo del 1918 il nome di Partito Comunista. E nel marzo del 1919 diedero vita alla Terza Internazionale, destinata a organizzare i partiti comunisti al fine di guidare al successo una rivoluzione mondiale giudicata ormai matura.

Nel periodo tra il 1918 e il 1921 il bolscevismo russo registrò una vittoria decisiva per un verso e una catastrofica disfatta per l'altro. Contro ogni previsione, il potere bolscevico riuscì a consolidarsi nell'ex Impero zarista, ottenendo un pieno successo nella guerra civile (1918-1920), ma la rivoluzione internazionale si dimostrò un mito senza fondamento. La realtà storica operò, rispetto alle aspettative ideologiche dei comunisti russi, una serie di 'rovesciamenti': i paesi sviluppati restarono capitalistici e la Russia arretrata l'unico paese ad avere un potere comunista; la prospettiva della democrazia diretta, antiburocratica ed egualitaria, fondata sui soviet, risultò un'utopia e lasciò ben presto il posto alla dittatura del Partito bolscevico, che assunse un carattere accentuatamente burocratico e poliziesco; il bolscevismo russo, che aveva in un primo tempo considerato se stesso come un centro provvisorio in attesa di cedere la leadership al comunismo più maturo vittorioso nel cuore del capitalismo mondiale (il paese a cui soprattutto si guardava era la Germania), in quanto unica forza che aveva fatto la rivoluzione finì per trasformarsi in un modello obbligatorio per tutti i partiti che la rivoluzione ancora dovevano compiere.

La consacrazione del bolscevismo russo a modello rivoluzionario universale ebbe luogo nel 1920 al II Congresso dell'Internazionale, dove furono adottati 21 punti o criteri di 'bolscevizzazione' che ogni partito aderente doveva fare propri. La trasformazione del Partito bolscevico in una struttura completamente verticistica fu completata al X Congresso del marzo 1921.
Qui, dopo che il partito aveva eliminato dalla scena tutti gli altri partiti, per opporre un potere compatto agli stessi strati insoddisfatti del proletariato, ai contrasti interni agli stessi bolscevichi divisi in diverse correnti, alle minacce insurrezionali quali quelle dei marinai di Kronstadt, fu sanzionato il carattere monolitico del partito e vietata l'esistenza di qualsiasi corrente. Si sanzionò altresì la regola interna del 'centralismo democratico', adottata da tutti i partiti comunisti, secondo cui, una volta presa una decisione, questa sarebbe stata vincolante per tutti, compresi coloro che l'avevano avversata e continuavano ad avversarla. Così, dopo che già la dittatura del proletariato si era trasformata in dittatura del partito, quest'ultima diede luogo alla dittatura dei soli vertici. Poco dopo la dittatura dei vertici avrebbe ceduto alla dittatura di un solo capo.
La dittatura bolscevica diede altresì una risposta precisa alla questione riguardante il ruolo della violenza nel nuovo ordine. Lenin, poco dopo la presa del potere, aveva affermato che i bolscevichi non sarebbero ricorsi a un terrore sistematico di tipo giacobino, poiché la violenza socialista sarebbe stata diretta essenzialmente contro le istituzioni sociali e non le persone fisiche. La guerra civile fece da incubatrice di un corso opposto. La violenza fisica diventò generalizzata. Toccò a Trockij, in polemica con il socialdemocratico Kautsky, di teorizzare in Terrorismo e comunismo (1920) che il terrorismo giacobino e il regno della ghigliottina costituivano un modello 'classico' per qualsiasi autentico potere rivoluzionario.All'inizio degli anni venti il comunismo al potere in Russia si configurava come la prima delle dittature totalitarie contemporanee.

12. Totalitarismo e industrializzazione accelerata nell'URSS staliniana

La morte di Lenin nel 1924 lasciò il gruppo dirigente sovietico in preda ai più gravi contrasti. Fra il 1923 e il 1927 esso si trovò profondamente lacerato in relazione ai fondamenti del potere politico, al rapporto fra la costruzione del socialismo nell'URSS e la rivoluzione internazionale, alla strategia dello sviluppo economico. A rappresentare i due poli del contrasto furono Trockij e Josif Vissarionovič Džugašvili, detto Stalin (1879-1953), eletto nel 1922 segretario generale del partito; attorno a loro ruotarono G.E. Zinov´ev, L.B. Kamenev e N.I. Bucharin. Trockij era convinto che, senza il rilancio della rivoluzione internazionale, il potere bolscevico, a causa dell'arretratezza della Russia, sarebbe degenerato; in politica interna egli auspicava la ripresa del dibattito democratico per impedire il consolidamento della burocrazia, dotata di un sempre maggior potere. Per contro, Stalin esortava a prendere atto che la rivoluzione internazionale non era più attuale e difendeva il ruolo della burocrazia come indispensabile ai fini della costruzione dello Stato socialista nella Russia isolata. Terreno centrale dei contrasti fu altresì la strategia economica. Nel 1921 Lenin aveva fatto approvare la NEP (nuova politica economica), la quale aveva posto fine al 'comunismo di guerra', un regime basato sul prelevamento con mezzi militari delle scarsissime risorse agrarie nelle campagne e sulla distribuzione delle merci secondo rigidi criteri di discriminazione sociale e politica, che aveva finito per provocare il collasso della produzione. La NEP aveva reintrodotto l'iniziativa capitalistica nelle campagne, nella piccola e media industria e nel commercio, lasciando però nelle mani dello Stato la finanza, la grande industria e il commercio estero. La ripresa era stata rapida. Ma essa sollevò l'interrogativo se non ne sarebbe risultato il rafforzamento dei ceti capitalistici così da creare un pericolo politico per il potere sovietico. Trockij rispondeva positivamente, e perciò richiedeva un rapido rafforzamento della base industriale e del proletariato come classe rispetto alla produzione contadina e soprattutto allo strato dei contadini ricchi (i kulaki); laddove Stalin, appoggiato da Bucharin, sosteneva che la NEP costituiva una strategia non solo economica ma anche politica irrinunciabile, in quanto fondata sull'alleanza fra operai e contadini: alleanza che la linea trockijana avrebbe distrutto mettendo in pericolo l'esistenza stessa dello Stato bolscevico.

Stalin, considerando ormai irrealistica la rivoluzione internazionale, era intento a rafforzare il potere statale bolscevico facendo appello alle risorse interne e quindi denunciò la concezione di Trockij, secondo cui senza la rivoluzione internazionale quella russa era condannata alla degenerazione, come fonte di sfiducia nelle forze autonome del paese. Così Stalin trasformò il bolscevismo russo in una ideologia nazionalistica. Al fine di dare al potere sovietico postleniniano, di cui era sempre più il perno, una piena legittimazione, in due opere destinate a diventare il 'credo' di ciò che è poi stato chiamato 'stalinismo', i Principî del leninismo (1924) e le Questioni del leninismo (1926), Stalin si proclamò fedele discepolo del comune maestro Lenin e definì il 'leninismo' - elevato attraverso un processo di sacralizzazione a ortodossia del comunismo sovietico e internazionale, di cui unico interprete autentico sarebbe diventato lui stesso - quale "il marxismo dell'epoca dell'imperialismo e della rivoluzione proletaria". Nelle Questioni, in esplicito contrasto con la teoria della rivoluzione permanente, accusata di essere antileninista, egli proclamò che l'URSS avrebbe potuto costruire il socialismo unicamente con le sue forze (teoria del 'socialismo in un paese solo').Divenuto incontrastato padrone del partito e dello Stato, alla fine degli anni venti Stalin operò una drammatica svolta in politica interna, che pose fine alla NEP. Egli riteneva ormai prioritario creare a ogni costo una grande base industriale, in grado di consentire al paese di far fronte a ogni pericolo di guerra. Bucharin, favorevole alla prosecuzione della NEP, venne emarginato in quanto deviazionista di destra. Le linee essenziali della nuova politica staliniana, quali ebbero a svilupparsi nel corso degli anni trenta legando in un indissolubile intreccio economia, istituzioni, ideologia, furono le seguenti: 1) la sottomissione dell'economia a una rigida pianificazione statale, che esaltò più che mai il ruolo della burocrazia (nel 1928 venne varato il primo piano quinquennale); 2) la collettivizzazione forzata delle terre, con la formazione di fattorie cooperative (kolchozy) e statali (sovchozy), che ebbe il prezzo di scatenare una vera e propria guerra civile sanguinosa contro i contadini ma consentì allo Stato di acquistare il diretto controllo sulle risorse alimentari da mettere a disposizione dei nuovi strati operai; 3) una repressione poliziesca generalizzata nei confronti di tutti gli oppositori e la formazione di un vasto settore di manodopera in campi di concentramento impegnata per lo più nella costruzione di infrastrutture (sistema del gulag); 4) un'accentuata militarizzazione dell'industria finalizzata alla potenza dello Stato; 5) la mobilitazione del consenso mediante le organizzazioni di partito, sindacali, statali, culturali; 6) l'accentramento di tutti i poteri nelle mani di Stalin, fatto oggetto di un culto sfrenato, secondo un processo che conferiva al sistema di potere un carattere totalitario-cesaristico. Dopo le drammatiche lotte per il potere all'interno del gruppo dirigente sovietico, il culto del vincitore da parte del partito unico era un mezzo per dare stabilità al potere.

La combinazione del terrorismo repressivo e del consenso plebiscitario divenne affatto evidente nella seconda metà degli anni trenta, allorché per un verso una serie di processi di Stato eliminarono anche fisicamente tutti i maggiori oppositori reali o immaginari (le 'grandi purghe' del 1936-1938) e per l'altro venne varata nel 1936 una nuova Costituzione, la quale, con intenti chiaramente plebiscitari, stabiliva il suffragio universale (naturalmente a favore del solo partito unico) - suffragio che dalle precedenti Costituzioni del 1918 e del 1924 era stato negato ai nemici di classe - e proclamava la realizzazione del socialismo nell'URSS. Trockij, in esilio, in quello stesso 1936 pubblicò La rivoluzione tradita, in cui definiva il regime staliniano un sistema di dominazione burocratica, chiamando il proletariato sovietico a una rivoluzione politica, che abbattesse il cesarismo e ristabilisse la democrazia sovietica.Dal punto di vista teorico, lo stalinismo introdusse nel comunismo marxistico due innovazioni fondamentali. In primo luogo, con l'intento di legittimare il ruolo cruciale che lo Stato aveva assunto nel sistema sovietico, Stalin - contro l'idea che era stata di Marx ed Engels e anche di Lenin, secondo cui la costruzione del socialismo avrebbe portato al sempre maggiore indebolimento dello Stato a favore degli istituti dell'autogoverno sociale - dichiarò nel 1933 e ribadì nel 1939 che la costruzione del socialismo andava invece di pari passo con il massimo rafforzamento dello Stato: mezzo necessario sia per l'edificazione economica che per l'annientamento dei 'nemici del popolo', interni ed esterni. In secondo luogo, collegandosi a elementi poco elaborati dell'ultimo Lenin e in pieno contrasto con la tesi centrale di Marx, che aveva ritenuto possibile la costruzione del socialismo unicamente sulla base della avvenuta modernizzazione capitalistica, Stalin teorizzò che il socialismo di tipo sovietico era lo strumento migliore a disposizione dei paesi di cui l'imperialismo aveva soffocato lo sviluppo per conseguire una modernizzazione economica che non poteva più assumere il carattere capitalistico. Lo stalinismo volle così dire per un verso la 'statizzazione' (o prussianizzazione) del marxismo e per l'altro la completa alterazione dei nessi stabiliti da Marx nel rapporto fra modernizzazione, capitalismo e socialismo.

La formula staliniana di modernizzazione industrialistica ebbe un rilevante successo. Per quanto la pianificazione centralistico-burocratica e l'impiego nelle nuove fabbriche di una manodopera scarsamente preparata e sottoposta a una disciplina largamente militarizzata favorissero lo spreco e la produzione quantitativa a scapito della qualità, la tecnologia centrata sulla 'catena di montaggio' rese possibile un enorme allargamento della base industriale, che fu finalizzata anzitutto alle esigenze militari.

13. Dall'apogeo del comunismo staliniano e dalla formazione del 'campo' socialista alla 'destalinizzazione' ad opera di Chruščëv

La vittoria dell'URSS nella seconda guerra mondiale, la formazione nell'Europa orientale fra il 1945 e il 1948 di un sistema di Stati soggetti alla dominazione sovietica e a regimi improntati al modello staliniano, il trionfo nel 1949 della Rivoluzione maoista in Cina, il rafforzamento dei partiti comunisti in paesi occidentali come la Francia e l'Italia segnarono una nuova tappa nella storia del comunismo internazionale. Ancora una volta si ebbe quella che possiamo chiamare innovazione mediante rovesciamento dell'ortodossia marxiana. Laddove quest'ultima aveva teorizzato un'espansione delle frontiere del socialismo come risultato dei conflitti di classe originati nella sfera della produzione capitalistica, il comunismo si estese per effetto della conquista militare esterna, come nell'Est europeo, oppure della vittoria dell'esercito comunista nel corso di una guerra civile, come in Cina. La via staliniana al socialismo venne presentata dall'URSS come 'scientifica' e quindi obbligatoria per tutti i paesi, salvo possibili varianti tattiche ma non strategiche. Ed è da notare che, con la sola eccezione della piccola Cecoslovacchia, nessuno degli Stati a 'democrazia popolare' (tale era la formula che definiva i regimi di transizione verso il socialismo nei paesi dove i comunisti erano saliti al potere con l'appoggio di partiti alleati fantoccio e in cui era stata avviata la collettivizzazione dell'economia) era stato in precedenza un paese capitalistico sviluppato. Il che contribuì a rafforzare la convinzione che la dittatura comunista fosse anzitutto la strada dei paesi arretrati prima per svilupparsi e poi per superare il confronto con il mondo capitalistico.

Il periodo fra il 1945 e il 1953, anno in cui Stalin morì, segnò l'apogeo dello stalinismo: l'URSS era diventata la seconda potenza mondiale e aveva creato un 'campo' socialista immenso. Unico scacco nel corso della sua vita fu la secessione della Iugoslavia nel 1948. Qui il capo dei comunisti, Josip Broz, detto Tito (1892-1980), che aveva preso il potere con le proprie forze (unico caso dell'Europa dell'Est) aveva rotto clamorosamente con l'URSS, essendo fermamente deciso a salvaguardare la propria indipendenza nazionale.

Dopo la morte di Stalin, Nikita Sergeevič Chruščëv (1894-1971) fu il protagonista di una svolta tesa a modificare in aspetti sostanziali la linea staliniana. Quest'ultima aveva bensì ottenuto un vero e proprio trionfo, ma a giudizio di Chruščëv, giunto nel 1955 a una posizione di preminenza al vertice del potere, sottoponeva la società sovietica, con il suo sistema troppo rigido e violentemente repressivo, a tensioni che comprimevano le energie collettive a scapito delle loro potenzialità di sviluppo. Era ora di far uscire il sistema dal regime di 'eccezionalità' a cui lo aveva sottoposto Stalin. Egli quindi avviò in politica interna un'opera di 'destalinizzazione', e in primo luogo di smantellamento del sistema del terrore permanente; mentre in politica estera si propose da un lato di stabilire rapporti di 'eguaglianza' tra il paese guida e gli altri Stati socialisti e dall'altro di aprire un'era di 'coesistenza pacifica' tra il campo socialista e il campo capitalistico. Era convinto che così il campo socialista avrebbe potuto liberare energie mai viste, vincere la competizione con il capitalismo e favorire la conquista del potere in una serie di paesi capitalistici evitando la via della guerra civile.

Al XX Congresso del PCUS del febbraio 1956 Chruščëv denunciò il sistema di potere personalistico di Stalin, il 'culto' di cui questi era stato fatto oggetto, il ricorso al terrorismo sistematico, e affermò la necessità di stabilire il primato della legge socialista ('ritorno alla legalità leninista'). Il sistema terroristico venne in effetti in parte smantellato, furono allargati i margini della libertà di espressione (soprattutto per lo strato superiore degli intellettuali) e furono avviate, in maniera contraddittoria e disordinata, riforme economiche. Al XXII Congresso del 1962 il leader allargò il processo di destalinizzazione e in un clima di trionfalismo proclamò che entro il 1980 l'URSS avrebbe superato gli Stati Uniti nella produzione industriale e agricola. Inoltre, a sottolineare la fine del regime di eccezionalità e il definitivo consolidamento del socialismo, affermò che lo Stato sovietico non era più espressione della dittatura del proletariato ma 'Stato di tutto il popolo'.Il trionfalismo chrusceviano andò incontro a gravi scacchi. Nel 1956 la destalinizzazione provocò una gravissima crisi nell'Europa dell'Est, e in specie in Polonia e in Ungheria, dove la critica a Stalin diede luogo, invece che a un rinnovamento del sistema, a un attacco contro di esso. In Ungheria si giunse a una rivoluzione popolare anticomunista, conclusasi con una sanguinosa repressione ad opera dei Sovietici e una restaurazione sulla punta delle baionette. In politica interna il chruscevismo subì una parabola involutiva, con l'arresto del processo di 'liberalizzazione' e l'accentramento dei poteri nelle mani del solo Chruščëv, già paladino della 'direzione collegiale'.

In campo internazionale il maggior successo dell'espansionismo sovietico nell'epoca di Chruščëv fu la creazione a Cuba di un regime comunista sotto la leadership di Fidel Castro. Questo successo ebbe però come rovescio della medaglia assai grave la frattura del campo socialista, in seguito allo scontro sempre più aspro fra l'URSS e la Cina, che, nella sua posizione di isolamento internazionale, considerava la strategia della coesistenza pacifica un cedimento all'imperialismo e la destalinizzazione un atto di 'revisionismo' che indeboliva il potere comunista.Nell'ottobre del 1964 Chruščëv venne esautorato. Il suo 'riformismo dall'alto' non aveva raggiunto alcuno dei suoi obiettivi.

14. L'URSS e l'Europa dell'Est dalla 'restaurazione' brezneviana alla perestrojka di Gorbačëv e al collasso dei regimi comunisti

Dopo un nuovo periodo di 'direzione collegiale', il potere sovietico subì ancora una volta un processo di concentrazione nelle mani di Leonid I.Brežnev (1906-1982). Il fenomeno era quanto mai significativo sotto il profilo della sociologia del potere sovietico. Dopo la morte di Lenin e di Stalin e l'esautorazione di Chruščëv si era avuto ogni volta un periodo di direzione collegiale, a cui era poi seguito l'accentramento del potere nelle mani di una sola persona. Ciò stava a indicare che la collegialità, nel sistema totalitario, aveva un carattere transitorio di assestamento, laddove l'accentramento dei poteri in una sola persona rappresentava la normalità istituzionale.

Il chruscevismo venne cancellato, in quanto considerato fonte di pericolose tensioni e instabilità, e lo stalinismo parzialmente riabilitato per non delegittimare il meccanismo di potere, che rimaneva nelle linee fondamentali quello creato da Stalin. Il breznevismo rappresentò l'estremo tentativo del comunismo sovietico di 'congelare' il sistema di tipo sovietico nell'URSS e nell'Europa orientale stabilendo una sorta di pax totalitaria.Nell'agosto del 1968 un intervento militare stroncò la 'primavera di Praga', ovvero il tentativo guidato dal segretario comunista cecoslovacco Alexander Dubček di dar vita a un 'socialismo dal volto umano' con prospettive di pluralismo politico e sociale. Come reazione a esso, Brežnev affermò il principio della 'sovranità limitata' di ciascun paese socialista, secondo cui il limite della sovranità di ciascun paese del campo socialista era di non poter mettere in pericolo i fondamenti dell'ordine politico e sociale. Del pari, in risposta alle critiche, egli proclamò la dottrina del 'socialismo reale', vale a dire che non si dava altro socialismo possibile se non quello realizzato nell'URSS e che questo sistema era l'unico che "non conosce crisi" e assicura una "autentica libertà". Il dissenso ideologico venne combattuto come una forma di devianza mentale. Una nuova Costituzione, approvata nel 1977, dava una perfetta formulazione ideologica della pax totalitaria, asserendo che il socialismo ormai pienamente sviluppato assicurava la più armonica "unità sociopolitica e ideale della società sovietica" e la più "totale democrazia".

Nell'era brezneviana l'URSS esasperò il suo carattere di superpotenza militare. Il sistema poté vantare importanti successi nell'espansionismo diretto verso il Terzo Mondo. In particolare, nel 1975 il Vietnam venne unificato sotto un regime comunista decisamente prosovietico e in tensione con quello cinese; si formarono regimi filosovietici in Etiopia, Angola, Mozambico e altri paesi; in Nicaragua la guerriglia che si appoggiava a Cuba e all'URSS conquistò il potere. Nel 1979 truppe sovietiche intervennero in Afghanistan a sostegno dei comunisti locali.Sotto l'immagine di forza trasmessa dal breznevismo stava però una realtà diversa. La società sovietica era gravata dal peso di un enorme apparato militare, che esauriva le risorse del paese; la bassa produttività e l'inefficienza restavano un male costante (anche Brežnev tentò il varo di riforme economiche che però il sistema finì per respingere in quanto incompatibili con se stesso); il dissenso si rafforzava e ramificava. Inoltre, nei paesi dell'Est persisteva una instabilità di fondo, che l'invasione della Cecoslovacchia non era certo valsa a eliminare. In Polonia, il maggiore dei paesi soggetti, il regime si trovava in uno stato di crescente deterioramento.

Dopo la morte di Brežnev, nel 1982, al vertice sovietico si succedettero nel giro di soli tre anni Jurij Andropov e Konstantin Černenko, rappresentanti di opposte tendenze in una situazione di crescente crisi. I fattori di questa crisi erano essenzialmente tre: il peggioramento della situazione polacca; l'acuta tensione con gli Stati Uniti guidati da Ronald Reagan, deciso a fronteggiare l'espansionismo sovietico con una mobilitazione di risorse a cui l'URSS non era in grado di far fronte; il ritardo tecnologico, e quindi le difficoltà produttive. Applicando al caso sovietico le categorie marxiane, si può dire che nell'URSS la sovrastruttura soffocava le condizioni dello sviluppo della società, creando una situazione di crisi organica del sistema. Diventava a mano a mano più evidente, infatti, che la rigidità pianificatrice burocratico-centralistica, la quale aveva potuto ottenere sostanziali successi nell'ambito di una modernizzazione ritardata basata sull'industria pesante, sulla catena di montaggio, sul controllo autoritario della manodopera, sulla compressione dei consumi a vantaggio degli investimenti nei settori giudicati strategici, in primo luogo militari, non era strutturalmente in grado di compiere il salto di qualità indispensabile al fine di portare il sistema stesso nell'era della telematica diffusa e di produzioni soggette a rapida obsolescenza e quindi attrezzarlo alla necessità di rapide riconversioni, messe in atto da una pluralità di centri decisionali sensibili alle esigenze dell'innovazione permanente. Il connubio fra burocratismo autoritario, produzione senza controllo di qualità, bassa produttività era tale da spingere il sistema verso una crisi generale. Per entrare nell'era postindustriale la società sovietica mancava di tutte le componenti essenziali: materiali, organizzative e culturali. Per una sorta di ironia della storia, il mondo sovietico stava così avviandosi verso quella crisi strutturale che il comunismo aveva creduto si sarebbe realizzata nel mondo capitalistico.

L'elezione nel 1985 a segretario generale del PCUS di Michail Gorbačëv ebbe il significato di una volontà di deciso rinnovamento. Questi ha proclamato l'urgenza di una 'rivoluzione dall'alto' in grado di incontrarsi con la rivitalizzazione delle energie della società. Due concetti chiave sono stati significativamente messi da lui al centro di questa rivoluzione: la perestrojka (ristrutturazione) e la glasnost (trasparenza). Nel suo libro-manifesto, Perestrojka. Il nuovo pensiero per il nostro paese e per il mondo (1987), Gorbačëv pose come obiettivo di fondo "un rinnovamento totale della vita sovietica", teso a "dare al socialismo le forme più progressive di organizzazione sociale".

Sennonché il tentativo di rivitalizzare il sistema sociale entro il quadro del socialismo secondo una linea di rinnovamento nella continuità è andato incontro a una impasse di proporzioni sempre maggiori. Il sistema ha dimostrato di non essere rinnovabile a causa della sua rigidità, per cui il movimento di riforma, che ha investito l'economia e le istituzioni politiche, ha avuto effetti dirompenti, tali da scardinare la macchina precedente e dar luogo a un vero e proprio processo di 'scollamento'. Ne è risultata una situazione economica che nel 1990 ha acquistato il carattere di una catastrofe. Le riforme politiche che hanno smantellato il sistema totalitario, introdotto il pluralismo partitico e ideologico, creato istituzioni parlamentari, hanno provocato una situazione fortemente contraddittoria: da un lato un'accentuata frammentazione delle organizzazioni politiche e dall'altro un accentramento progressivo dei poteri nelle mani di Gorbačëv, eletto nel 1989 presidente dell'URSS per far fronte alla disgregazione interna.Che si trattasse di una crisi strutturale di carattere organico è stato mostrato anche da due altri elementi di eccezionale importanza. Il primo è stato, nel corso del 1989-1990, il collasso dell''impero' sovietico nell'Est europeo, che ha prodotto l'abbattimento dei vecchi regimi comunisti e il formarsi di nuovi regimi. Il secondo elemento, che va visto in relazione al primo, è stato l'inizio di un processo di sfaldamento dell'Unione Sovietica, in seguito all'acutizzarsi di conflitti nazionali ed etnici, alle proclamazioni di secessione da parte di varie Repubbliche, alla formazione di un governo della Repubblica russa guidato dall'ex dirigente comunista Boris El´cin, che ha fatto approvare la supremazia della Costituzione russa su quella federale. Nell'agosto del 1991 un fallito colpo di Stato, volto a esautorare Gorbačëv con fini di restaurazione e diretto da esponenti dello stesso vertice gorbacioviano, da militari e dal capo del KGB, ha da un lato provocato il crollo politico del PCUS, le cui attività sono state sospese, e dall'altro ha accelerato lo sfaldamento dell'Unione Sovietica. Ne è così risultata la crisi irreversibile della perestrojka, ovvero del riformismo imperniato sulla persona di Gorbačëv, che ha dato le dimissioni da segretario generale del PCUS; successivamente egli si è dimesso anche da presidente dell'URSS, in seguito alla disgregazione di quest'ultima.

La crisi sovietica è di un tipo storicamente inedito, e genera contraddizioni nuove. La caduta delle istituzioni totalitarie ha fatto emergere una 'società politica' democratico-pluralistica quanto mai frammentata e conflittuale, la quale però, a differenza che nei paesi capitalistici, è priva di radici in una 'società civile' che sia sede di pluralismo economico-sociale, proprio perché uno degli effetti fondamentali del collettivismo burocratico-statalistico sovietico è stato quello di disseccare gli elementi, tradizionalmente molto deboli già prima della Rivoluzione di ottobre, della società civile stessa.

15. Il comunismo cinese e la sua evoluzione

La variante più importante del comunismo internazionale accanto a quella sovietica è stata quella cinese. È un esempio significativo dell'inversione del rapporto fra sviluppo capitalistico e rivoluzione comunista stabilita dalla realtà storica rispetto all'ipotesi marxiana il fatto che la Cina, quando il Partito Comunista, fondato nel 1921, andò al potere nel 1949, fosse un paese fortemente arretrato, ancor più che non la Russia nel 1917, con una debolissima base industriale e proletaria. Tanto che il comunismo vi ha più che mai assunto il carattere di una forza organizzata tesa alla modernizzazione economica.

Fra gli anni venti e gli anni settanta il comunismo cinese è stato interamente dominato dal suo capo carismatico, Mao Zedong (1893-1976). L'essenza del 'maoismo' è stata quella di operare un capovolgimento dell'ortodossia marxiana assai più radicale di quello operato dai bolscevichi russi. Questi ultimi non avevano mai messo in dubbio che, anche in un paese poco sviluppato, solo il proletariato industriale potesse e dovesse costituire l'agente sociale fondamentale del processo rivoluzionario. Mao affermò che in un paese arretrato come la Cina la forza sociale rivoluzionaria per eccellenza era costituita dai contadini poveri e che l'influenza del proletariato, certo irrinunciabile in quanto bussola politica, si faceva sentire non direttamente ma attraverso la mediazione del Partito Comunista.

In un testo del 1927 destinato a diventare celebre, il Rapporto di inchiesta sul movimento contadino, Mao condannò il marxismo 'dogmatico' che non sapeva uscire dalla sua matrice industrialistica, affermando che in Cina "senza i contadini poveri non ci sarebbe la rivoluzione". Una simile impostazione conferì al comunismo cinese un carattere superideologico, che esaltava in maniera estrema la funzione soggettivistica e pedagogica del partito organizzatore ed educatore.

Dopo un ventennio di lotte contro il Guomindang, il Partito Nazionalista, e contro gli invasori giapponesi, Mao, vincitore nella conclusiva guerra civile infuriata tra il 1945 e il 1949, fondò in Cina una 'repubblica popolare', avente quale scopo non solo la modernizzazione economica ma anche il consolidamento dello Stato unitario. Per circa un decennio il comunismo cinese seguì il modello sovietico, conseguendo risultati importanti nel campo industriale, meno soddisfacenti invece in quello agricolo. Per porre rimedio a ciò, Mao promosse nel 1958 il "grande balzo in avanti", che comportò una drastica spinta verso la collettivizzazione nelle campagne, avente il suo centro nella formazione di 'comuni' destinate sia a riorganizzare la produzione agraria, sia a diventare sedi autonome di produzione industriale su piccola scala, così da ridurre il ruolo della pianificazione centralistico-burocratica.

Mao portò all'eccesso l'esaltazione dello sforzo soggettivo delle masse educate dal partito quale chiave dello sviluppo delle forze produttive, in polemica frontale con il meccanismo negativo degli incentivi materiali di tipo individuale. Il 'balzo' risultò un fallimento di proporzioni colossali e determinò una rottura profonda con i Sovietici, i quali ritirarono i loro tecnici e consiglieri dal paese, accusando i dirigenti cinesi di 'avventurismo' e irrazionalismo. La rottura si approfondì ulteriormente a causa degli interessi di potenza dei due grandi Stati comunisti, in quanto l'URSS chrusceviana non intese aiutare la Cina a fabbricare la bomba atomica, tanto più che Mao non esitava a minimizzare i costi di uno scontro globale, anche atomico, con il mondo capitalistico, da lui definito una "tigre di carta". Così emerse una frattura che spezzò l'unità del 'campo socialista' e in seguito provocò anche scontri armati alle frontiere fra URSS e Cina per contese territoriali. Questa frattura radicale era stata preceduta da forti tensioni ideologiche, dopo che la Cina, in cui Mao aveva acquisito una posizione per tanti aspetti analoga a quella di Stalin nell'URSS, aveva criticato la destalinizzazione e la politica chrusceviana di coesistenza pacifica, considerata quale un cedimento all'imperialismo.

Il fallimento catastrofico del 'grande balzo' aveva causato il ritorno a pratiche economiche 'moderate', in un quadro di rafforzamento del centralismo burocratico, di ritorno nelle campagne alla produzione su scala familiare e di ripristino degli incentivi materiali. Il che provocò un inasprimento del confronto fra la 'destra' e la 'sinistra' nel partito. La sinistra maoista denunciò il pericolo di degenerazione 'borghese', e Mao dotò il proprio soggettivismo volontaristico di un braccio armato, dopo che elevò Lin Biao, capo dell'esercito dal 1959, a proprio "primo compagno d'arme", facendo dell'esercito un mezzo di indottrinamento ideologico e di controllo sociale al servizio della sua linea.

Fra il 1966 e il 1971 la Cina piombò in un periodo di convulsioni interne, che hanno finito per portare il paese in un vero e proprio caos. Si è trattato della "rivoluzione culturale", così chiamata in quanto Mao mise in primo piano la tesi che la 'via capitalistica' potesse venire sconfitta unicamente mutando radicalmente l'orientamento spirituale, cioè la mentalità collettiva, verso i problemi della produzione. Più che mai il maoismo assunse il volto di un 'rivoluzionarismo volontaristico', i cui agenti privilegiati secondo Mao dovevano essere le giovani 'guardie rosse', in specie studenti, svincolate dal mondo produttivo e quindi vergini rispetto alla contaminazione revisionistica penetrata nel mondo del lavoro e nei quadri medi e alti burocratizzati del partito. In questo modo Mao svincolò del tutto il proprio 'marxismo' dalla sua base materialistica e lo vincolò a una concezione iperidealistica. La rivoluzione culturale alimentò altresì una chiusura isolazionistica della Cina, che si espresse nella proclamazione del maoismo come unica manifestazione dello spirito rivoluzionario dell'epoca in totale contrapposizione al revisionismo dell'URSS e all'imperialismo mondiale guidato dagli Stati Uniti.Reagendo al crescente caos interno, che minacciava di travolgere il paese, Zhou Enlai (1898-1976) ebbe un ruolo decisivo nell'iniziare tra il 1971 e il 1973 la liquidazione dell'estremismo di sinistra. Ne derivò la sconfitta non soltanto delle correnti più radicali della sinistra, ma anche della strategia di Mao. Dopo la morte di questi, nel 1976, interprete dell'eredità politica di Zhou, morto poco prima nello stesso anno, è stato Deng Xiaoping, che, riuscito ad assestarsi al potere nel 1978, ha sostenuto la linea, già elaborata dall'ultimo Zhou, delle 'quattro modernizzazioni' (dell'agricoltura, dell'industria, della difesa nazionale, della scienza e della tecnica). Deng ha riabilitato la burocrazia, la competenza professionale, la politica degli incentivi individuali nella produzione, portando così alla ribalta proprio quei ceti e quelle concezioni contro cui era stata diretta la rivoluzione culturale, e ha ristrutturato il partito lacerato. Inoltre, Deng ha avviato una politica di 'porta aperta' verso l'Occidente, favorita dalla normalizzazione nel 1979 dei rapporti fra la Cina e gli Stati Uniti e tesa a utilizzare il sapere e la tecnologia del mondo capitalistico in maniera funzionale agli interessi dello sviluppo e della potenza nazionale della Cina Comunista.

È significativo che, allorché a Pechino, con centro nella piazza Tienanmen, hanno avuto luogo nella primavera del 1989 prolungate agitazioni giovanili aventi la loro bandiera nella democratizzazione politica, il regime di Deng, contraddistinto da un ampio movimento di riforma economica, ha proceduto a una spietata repressione militare, intesa a salvaguardare il monopolio politico del Partito Comunista. Sicché, proprio nel periodo in cui i regimi comunisti sparivano nell'Europa orientale e nell'URSS si passava dal monopolio politico comunista al pluripartitismo, in Cina si aveva una piena riaffermazione del monocratismo comunista.Per quanto riguarda l'Asia, accanto al comunismo cinese sono da menzionare, a causa delle loro caratteristiche tipologiche, il comunismo nordcoreano e quello cambogiano. Nella Corea del Nord, dove i comunisti sono saliti al potere nel 1948 in seguito all'occupazione sovietica, il regime si è evoluto nella direzione di una 'monarchia' retta da Kim Il Sung, che ha distribuito il potere su base accentuatamente familiare e ha predisposto la successione a favore del figlio. In Cambogia, dopo il loro avvento al potere nel 1975, i khmer rossi guidati da Pol Pot hanno stabilito un regime terroristico antimodernista, il quale, introducendo una variante del tutto inedita nel comunismo, si è mostrato apertamente ostile alla modernizzazione e alla civiltà urbana, considerate fonti di corruzione etica e politica, e favorevole a un ruralismo egualitario primitivo.
Si può così concludere che il comun denominatore di tutti i comunismi al potere, nella varietà delle concezioni economiche e sociali è stato offerto dalla concezione elitaria del partito, dalla subordinazione delle masse e dal monocratismo.

16. Il comunismo nei paesi capitalistici fra le due guerre mondiali. I rivoluzionari senza rivoluzione

I partiti comunisti nei paesi occidentali si sono costituiti nel primo dopoguerra per un processo di scissione dai partiti socialisti o socialdemocratici, trovando la loro organizzazione comune nella Terza Internazionale, costituitasi nel marzo del 1919 a Mosca e diretta dai bolscevichi russi. Essi si sono formati passando attraverso un processo di 'bolscevizzazione', vale a dire di conformazione al modello russo e di obbedienza al gruppo dirigente sovietico, basando la loro identità sulla lotta contro i 'traditori' revisionisti socialdemocratici e i socialisti, rivoluzionari a parole ma rinunciatari nei fatti.

L'ipotesi che inizialmente orientava il comunismo occidentale era che la costituzione di autentici partiti rivoluzionari avrebbe reso possibile, grazie a una giusta guida 'soggettiva', quella rivoluzione che, ormai 'oggettivamente' del tutto matura nei paesi capitalistici sviluppati, non era ancora avvenuta per responsabilità dei falsi partiti proletari. I comunisti avrebbero finalmente assicurato la leadership ideologica al 'blocco' sociale rivoluzionario, avente il suo perno nel proletariato industriale-agricolo e la sua base espansiva nei contadini poveri, negli strati intermedi rovinati e negli intellettuali 'transfughi' della loro classe.

Questa ipotesi si mostrò completamente errata. Gli acuti conflitti sociali del primo dopoguerra non portarono i comunisti al potere in nessun paese, salvo che in Ungheria nel 1919 per pochi mesi. In Germania, verso cui si dirigevano anzitutto le speranze dei comunisti russi ed europei, data la combinazione in essa di un elevato grado di sviluppo economico e di una crisi sconvolgente, il Partito Comunista, che mise radici fra i disoccupati e gli emarginati, non riuscì a strappare la maggioranza del consenso operaio ai socialdemocratici; nel 1923 un ultimo tentativo rivoluzionario da esso compiuto risultò un aborto. In Italia il 'biennio rosso' (1919-1920) aprì le porte a un 'biennio nero', che si concluse con la costituzione nell'ottobre del 1922 di un governo presieduto dal fascista Benito Mussolini. Il Partito Comunista, sorto nel 1921, andò incontro a una disfatta strategica.

La fiducia in un rilancio rivoluzionario mondiale riemerse in conseguenza della grande crisi economica, scoppiata negli Stati Uniti nel 1929 e diffusasi in Europa. L'Internazionale comunista diede allora per moribondo il capitalismo mondiale. I comunisti occidentali intensificarono la lotta contro la socialdemocrazia, definita come l'ostacolo soggettivo maggiore alla liberazione della coscienza delle masse in una situazione ritornata a essere 'oggettivamente' rivoluzionaria. La socialdemocrazia venne definita come 'socialfascismo', in quanto rappresentava l'ala moderata di uno schieramento controrivoluzionario di cui il fascismo era l'ala estrema. Socialdemocratici e fascisti - recitava un documento dell'Internazionale nel 1932 - "sostengono la causa della conservazione e del rafforzamento del capitalismo e della dittatura borghese". Sennonché in Germania, dove la crisi aveva raggiunto il suo apice, si ebbe la totale vittoria della forza più duramente anticomunista, e cioè del nazismo, e in vari paesi europei la costituzione di regimi autoritari apertamente filofascisti.

A metà degli anni trenta l'idea che la rivoluzione proletario-comunista nei paesi capitalistici sviluppati fosse una realtà latente destinata a una realizzazione vicina subì una sorta di congelamento, anche se rimase una componente imprescindibile dell'ideologia comunista. In una situazione in cui il rafforzamento dell'URSS staliniana faceva da contrasto con il totale insuccesso dei partiti comunisti occidentali, quell'idea venne sostituita da un'altra, secondo cui le fortune della rivoluzione internazionale sarebbero state più che mai legate alla superiorità del sistema incarnato nell'Unione Sovietica, elevata a "patria dei lavoratori di tutto il mondo": superiorità divenuta essa stessa il motore del comunismo mondiale in luogo di quello costituito dalle contraddizioni interne ai rapporti di produzione capitalistici secondo l'originaria concezione marxiana. Il comunismo teorico si trovava a essere completamente scompaginato da due dati essenziali: 1) che nei paesi capitalistici democratico-liberali come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna i comunisti non mettevano radici; 2) che nei paesi dell'Europa continentale maggiormente segnati da aspri conflitti di classe le crisi portavano alla vittoria non delle forze guidate dai comunisti ma di quelle non comuniste, vuoi democratiche vuoi autoritarie. In questo quadro i comunisti occidentali sentirono quale loro massimo compito quello di operare a difesa dell'URSS, cittadella della rivoluzione mondiale.

Dopo il consolidamento al potere del nazismo, che l'Internazionale inizialmente non aveva ritenuto possibile, nella convinzione che Hitler avrebbe presto lasciato il posto ai comunisti, la leadership del comunismo mondiale si trovò dominata dal timore di un'ulteriore espansione dei regimi fascisti o autoritari in Europa; il che avrebbe gravemente peggiorato la posizione dell'URSS. Ne derivò che nel 1935 il VII Congresso dell'Internazionale attuò una spettacolare svolta strategica, avente come obiettivo primario la costituzione, dovunque possibile, di 'fronti popolari' impegnati nella lotta antifascista, nella salvaguardia della pace "di fronte al pericolo imminente dello scoppio di una guerra controrivoluzionaria", che in caso di vittoria avrebbe distrutto l'URSS, e nella difesa delle istituzioni 'democratiche' parlamentari - già combattute come terreno di coltura della controrivoluzione ed espressione di una democrazia completamente falsa -, il cui mantenimento garantiva la lotta delle organizzazioni del movimento operaio, laddove il fascismo la rendeva impossibile. I democratici borghesi e i socialdemocratici vennero ora considerati quali alleati e componenti del 'popolo'.La strategia dei fronti ottenne i suoi successi maggiori nel 1936 in Francia e in Spagna, dove si formarono governi che ne furono l'emanazione. Ma il Fronte in Spagna venne travolto in seguito a una guerra civile conclusasi nel 1939 con la vittoria del clerico-fascismo franchista, e in Francia perse il suo slancio nel giro di un anno. Le ipotesi peggiori andavano così realizzandosi.

Nel periodo fra le due guerre mondiali il comunismo occidentale aveva espresso importanti figure di teorici, specie in Germania e in Italia. La maggiore personalità del comunismo tedesco, Rosa Luxemburg (1870-1919) - che nel 1904 aveva avversato la teoria leniniana del partito e dopo la Rivoluzione di ottobre aveva duramente criticato la dittatura del Partito bolscevico, in quanto contraria ai principî della 'democrazia proletaria' e negatrice del ruolo delle masse, e aveva avuto un ruolo di primo piano nella fondazione del Partito Comunista in Germania -, era stata assassinata da controrivoluzionari a Berlino nel gennaio del 1919. Teorici come il tedesco Karl Korsch (1886-1961), l'olandese Anton Pannekoek (1873-1960) e l'italiano Antonio Gramsci (1891-1937), pur con accenti diversi, avevano tentato di dare al comunismo occidentale nei primi anni del dopoguerra, quando ancora non era consolidato il primato indiscusso del partito russo nel comunismo internazionale, un carattere ancorato anzitutto all'iniziativa rivoluzionaria delle masse operaie. Essi avevano elaborato strategie che facevano perno sui 'consigli dei produttori' quali organi di una lotta radicata nelle fabbriche e tesa alla creazione di uno Stato proletario in grado di affrontare i problemi posti dall'eredità del capitalismo sviluppato, nel quadro di una concezione che vedeva il partito come guida ideologica delle masse stesse e non incarnazione di un potere elitistico. Una simile prospettiva restò però sostanzialmente teorica e venne comunque svuotata dal fallimento della rivoluzione in Occidente: fallimento che creò le condizioni per la progressiva emarginazione del 'consiliarismo', la 'bolscevizzazione' di tutti i partiti comunisti e la loro subordinazione al modello sovietico.

Mentre Korsch e Pannekoek finirono per respingere come fonte di passività rivoluzionaria la bolscevizzazione dei partiti comunisti occidentali e il 'modello' russo, da essi considerato un contromodello, Gramsci ebbe una parabola diversa. Egli, uno dei fondatori del Partito Comunista Italiano, si convertì alla concezione 'giacobino-bolscevica', diventando nel 1924 il capo dei comunisti italiani. Sennonché nel 1926, pur appoggiando la linea staliniana, denunciò la degenerazione dei metodi con cui Stalin conduceva la lotta per il potere assoluto nell'URSS, in contrasto con la diversa posizione assunta da un altro dirigente di primo piano del partito italiano, Palmiro Togliatti (1893-1964). Arrestato dopo la svolta totalitaria del fascismo nel novembre di quello stesso anno, in carcere Gramsci respinse, come frutto di un rivoluzionarismo avventuristico, la linea del 'socialfascismo' sostenuta dall'Internazionale.

Durante la prigionia Gramsci prese a stendere una serie di note, poi pubblicate postume tra il 1948 e il 1951 sotto il titolo Quaderni del carcere. Il tema politicamente dominante era costituito dalla riflessione sulle cause che avevano determinato la sconfitta della rivoluzione comunista in Occidente. Mentre ribadiva la comune convinzione dei comunisti che la rivoluzione fosse fallita per l'insufficienza 'soggettiva' delle forze rivoluzionarie, egli criticava d'altra parte l'idea che fosse sufficiente applicare in Occidente il modello bolscevico. Ciò perché le condizioni sociali in Russia e in Occidente erano profondamente diverse: nella prima, la 'società civile' borghese si trovava in una condizione embrionale ed era assai debole, per cui, conquistato lo Stato, il partito rivoluzionario aveva potuto d'un colpo impadronirsi del potere con una rapida 'guerra di movimento'; nel secondo, la conquista del potere e la guida del nuovo ordine potevano essere assicurate unicamente dopo un lungo periodo di 'guerra di posizione', nel corso della quale il partito - da lui definito il "moderno Principe" - e il proletariato rivoluzionari dovevano costruire un vasto e articolato schieramento di forze sociali e ottenere il consenso politico e culturale necessario per prima conquistare e poi esercitare il potere in società complesse. Era questo il nucleo della teoria gramsciana dell''egemonia', ovvero della direzione esercitata dal proletariato e dal suo partito sulle forze alleate, e del 'dominio', ovvero della dittatura messa in atto contro le forze avverse: aventi l'una e l'altro quale prospettiva ultima la costruzione di una società totalitariamente comunistica. La peculiarità del pensiero gramsciano maturo era di voler rappresentare un arricchimento del leninismo in relazione alle condizioni sociali delle società capitalistiche sviluppate.

17. Il comunismo occidentale dalla seconda guerra mondiale al suo esaurimento

Lo scoppio della seconda guerra mondiale nel settembre 1939 trovò i partiti comunisti occidentali completamente allineati alla politica estera dell'Unione Sovietica, la quale in agosto aveva firmato quel patto di intesa con la Germania nazista che aveva lasciato quest'ultima libera di attaccare la Polonia e le potenze occidentali. L'Internazionale giunse al punto di denunciare l'imperialismo anglo-francese come responsabile dello scatenamento della guerra.Una simile politica era tale da conferire ai partiti comunisti europei una fisionomia accentuatamente antinazionale. L'attacco nazista all'URSS nel 1941 portò a un ribaltamento della loro linea e a un ritorno, in un certo senso, alla linea del fronte popolare antifascista. In tutti i paesi dominati dalle potenze fasciste i comunisti assunsero dopo di allora un ruolo di primo piano nella lotta a sostegno dell'URSS e per la liberazione nazionale. Nel corso di questa lotta il carattere rigidamente centralistico e gerarchico dell'organizzazione dei partiti comunisti, che costituiva un'anomalia rispetto ai partiti di tipo occidentale, diventò nelle circostanze della guerra un fattore di grande forza, rivelandosi straordinariamente idoneo all'azione clandestina e militare contro gli occupanti.

Nel maggio del 1943 Stalin sciolse l'Internazionale comunista, sia per fare cosa grata ai suoi alleati occidentali, sia per la convinzione che dopo la vittoria di Stalingrado l'URSS fosse pienamente in grado di salvaguardare se stessa e sia infine perché in questo modo veniva favorita l'immagine dell'autonomia dei singoli partiti nazionali, pur restando intatta la sostanziale subordinazione a Mosca di ciascun partito comunista.Alla fine del conflitto in Francia e in Italia i comunisti avevano conquistato un forte insediamento sociale e politico. I motivi erano molteplici: il prestigio immenso acquistato dall'URSS, che pareva con la vittoria sulla Germania aver dato la 'prova' definitiva del successo dell'edificazione socialista; l'espansione delle frontiere del socialismo prima nell'Europa orientale e poi in Cina; il ruolo fondamentale da essi avuto nella lotta antifascista e nella Resistenza; la convinzione, largamente diffusasi in ampi strati sociali, che i fascismi e i loro imperialismi costituissero la 'rivelazione' della definitiva degenerazione del capitalismo; la diffusa aspirazione a profonde e persino radicali riforme sociali. È indicativo che, nella valutazione dei comunisti intorno al destino del capitalismo, gli Stati Uniti occupassero ancora un posto secondario.Per circa un decennio dopo la fine della guerra, il comunismo occidentale visse nell'attesa del compimento di un duplice processo: da un lato la crisi strutturale del sistema capitalistico e dall'altro la definitiva affermazione della superiorità del sistema internazionale costituito dagli Stati retti dai comunisti. Nel caso che la 'guerra fredda' degenerasse in terza guerra mondiale i partiti comunisti erano pronti a sostenere come propria la causa sovietica e a scatenare l'insurrezione armata. Nelle condizioni di pace ma al contempo di frontale scontro politico e sociale fra i due 'campi', i due più forti partiti comunisti occidentali, l'italiano e il francese, agivano nel quadro delle istituzioni democratiche parlamentari col fine di allargare il loro consenso, mentre persisteva pur sempre nelle loro file l'attesa indefinita di un'azione rivoluzionaria che aprisse le porte alla dittatura del proletariato. In conseguenza del decisivo ruolo avuto durante la guerra, i due partiti erano persino entrati in governi di coalizione, da cui però vennero esclusi nel 1947 in seguito all'inasprirsi della guerra fredda.

Una posizione unica di forza e prestigio nel quadro del comunismo occidentale aveva assunto il Partito Comunista Italiano; il quale, se pure aveva visto deluse le proprie speranze di vincere le elezioni nel 1948, alle quali si era presentato unito al Partito Socialista in un Fronte popolare, non solo era diventato il partito più forte della sinistra italiana, ma poteva altresì contare sulla piena subordinazione dei socialisti: caso unico nell'Europa capitalistica. Il partito italiano era diretto da Palmiro Togliatti, già influentissimo segretario dell'Internazionale comunista e personalità di grande rilievo. Egli, fin dal suo ritorno in Italia dall'esilio moscovita nel 1944, aveva operato in due direzioni: la prima attinente al tipo di organizzazione del partito e la seconda riguardante la strategia diretta alla conquista del potere. Per quanto riguardava il partito, egli conferì a esso il carattere di un'organizzazione per un verso aperta a tutti coloro che aderissero al suo programma e per l'altro sottoposta al controllo dei 'quadri' formati dai 'rivoluzionari di professione'; combinando così in maniera funzionale la struttura di tipo bolscevico con quella dei partiti di massa di tipo socialista occidentale, nell'ambito però di un netto primato del nucleo 'stretto' sulla base 'larga'. Lo scopo era di dare all'élite rivoluzionaria uno strumento di vasta influenza nelle lotte elettorali nel contesto democratico-parlamentare che seguì la fine del fascismo. Circa la strategia, Togliatti diede un contributo fondamentale all'elaborazione della linea detta di 'democrazia progressiva'. Essa comportava: il pieno appoggio alla politica estera sovietica; la formazione di un vasto blocco sociale, costituito da operai, contadini, ceti medi progressisti, intellettuali rivoluzionari e 'democratici', e di un fronte politico costituito da comunisti, socialisti, democratici 'progressisti' cattolici e laici, e guidato dai primi. La democrazia progressiva stava a indicare una strategia di transizione verso il socialismo condotta in un quadro istituzionale ancora democratico-borghese e intesa ad assicurare l'egemonia sociale e politica alle forze di 'progresso'; una volta conseguito il successo, allora sarebbe iniziata la fase del passaggio a una forma di potere riconducibile da ultimo al modello di tipo sovietico, che i comunisti persistevano a esaltare ai fini di una necessaria e obbligatoria preparazione ideologica. Una simile strategia aveva quale fondamento la convinzione che il sistema capitalistico andasse e sempre più sarebbe andato incontro a un deterioramento strutturale.

Le aspettative del comunismo occidentale circa questo deterioramento cozzarono, ancora una volta, contro la realtà di una rapida e forte ripresa del capitalismo e della democrazia di matrice liberale nell'Europa occidentale con l'aiuto risolutivo degli Stati Uniti. Sicché i comunisti italiani e francesi si trovarono a operare in una situazione per essi di crescente perturbazione ideologica, oscillando fra il mantenimento del leninismo, ridotto però a cultura politica astratta, e la pratica di un'opposizione nutrita per un verso di una negazione antisistema e per l'altro di un rivendicazionismo sociale non molto diverso da quello dei partiti socialisti tradizionali. In conseguenza di queste difficoltà, i comunisti occidentali mantenevano vivo il mito dell'URSS, sia come strumento di compattamento interno 'sostitutivo' della perdita di prospettive all'interno dei loro paesi, sia per la convinzione che il campo socialista avrebbe immancabilmente dimostrato la propria superiorità sul campo capitalistico, così creando, per forza trainante, le condizioni per il finale successo del comunismo internazionale in un momento indefinito.

La destalinizzazione e la rivoluzione ungherese ebbero un forte impatto sul comunismo occidentale, determinando una crisi interna che però fu largamente riassorbita, salvo che in alcune frange di intellettuali. Il crollo del mito staliniano non colpì dunque sostanzialmente il mito sovietico; che venne rinverdito dai successi della tecnologia spaziale sovietica, dal trionfalismo economico di Chruščëv, dalle sue promesse di avviare un nuovo corso nelle relazioni fra i paesi socialisti 'fratelli', e dal trionfo, con l'aiuto sovietico, del comunismo a Cuba. Era significativo del persistente, organico filosovietismo il fatto che i partiti comunisti dell'Europa occidentale avversassero il processo di integrazione europea, da essi denunciato come orientato verso la formazione di un nuovo polo imperialistico diretto contro l'URSS. Gli anni sessanta e settanta segnarono un'alterazione irreversibile del quadro ideologico fondato sull'idea dell'unità del comunismo internazionale e della capacità del campo socialista di vincere la competizione internazionale con il capitalismo. All'inizio del primo decennio si consolidò la frattura fra la Cina e l'URSS e nel 1968 si ebbe l'invasione della Cecoslovacchia. Per quanto riguardava la situazione interna dei paesi socialisti diventava ormai inequivocabile che essa era lungi dalla stabilità e dalla 'democrazia socialista'. Nell'URSS Chruščëv era stato brutalmente destituito nel 1964; in Cina la 'rivoluzione culturale' aveva messo a nudo drammatici contrasti affrontati con grande violenza; la Polonia era in preda a una crisi in pieno sviluppo. E i promessi successi economici apparivano più che mai evanescenti e mera propaganda di regime.La critica rivolta dai comunisti italiani e francesi all'invasione della Cecoslovacchia, considerata come un 'errore', segnò l'inizio di un progressivo, anche se non lineare, distacco dalla solidarietà di principio con ogni aspetto della politica sovietica. In questa azione critica un ruolo preminente ebbe il partito italiano, che manifestò infine la sua insoddisfazione per la dottrina brezneviana del 'socialismo reale' e della 'sovranità limitata' e per gli aspetti autoritari dei regimi comunisti, di cui pure continuava ad auspicare il rinnovamento nel senso di una democrazia socialista dal volto però indeterminato.

A metà degli anni settanta il comunismo occidentale compì il tentativo di assumere in proprio l'iniziativa del rilancio degli ideali comunisti. Fra il 1975 e il 1977 i partiti italiano, francese e spagnolo diedero vita a un orientamento ideologico (non però a una comune organizzazione) i cui cardini erano da un lato l'ormai esplicita critica della realtà sovietica e dall'altro la dichiarazione di voler procedere nei paesi capitalistici sviluppati alla costruzione del socialismo respingendo la dittatura del proletariato e adottando in maniera definitiva i metodi e i valori della democrazia politica. Questa tendenza, detta 'eurocomunismo', trovò la sua più compiuta elaborazione ideologica nel libro del segretario comunista spagnolo Santiago Carrillo, L'eurocomunismo e lo Stato (1977). L'ambizione dell'eurocomunismo, coltivata con particolare forza dal leader comunista italiano Enrico Berlinguer, era quella di costruire una 'terza via' fra il socialismo di tipo sovietico senza democrazia e la socialdemocrazia che aveva rinunciato a voler costruire il socialismo superando il capitalismo.

L'eurocomunismo ebbe a rivelarsi una tendenza ideologica priva di prospettive politiche concrete. I partiti comunisti spagnolo e francese si sono infatti sempre più avvitati in una crisi profonda, che li ha ridotti a una presenza sempre più trascurabile all'interno dei loro sistemi politici nazionali. Il partito italiano è riuscito a mantenere più salde radici. Ma alla fine degli anni ottanta, in seguito al collasso dei regimi dell'Europa occidentale, alla crisi strutturale dello stesso regime sovietico, alla perdita di significato dell'eurocomunismo, il PCI, il più forte dei partiti comunisti d'Occidente, ha messo all'ordine del giorno la propria cessazione in quanto partito comunista e la propria trasformazione in partito della sinistra europea occidentale. Nel 1991 il PCI, nel corso del suo XX congresso, si è autosciolto e ha dato vita al Partito Democratico della Sinistra.